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Due gialli a Roma tra via Merulana e Piazza Vittorio: Gadda e Lakhous a confronto. Mahmoud Jaran

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Academic year: 2022

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Vittorio: Gadda e Lakhous a confronto Mahmoud Jaran

Riassunto: Quer Pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda (1957) e Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio di Amara Lakhous (2006) raccontano entrambi un omicidio che sconvolge la quotidianità di due quartieri romani: il primo, ambientato in epoca fascista, rimane un mistero grazie all’incompiutezza voluta dell’opera; il secondo, ambientato invece in una Roma multiculturale contemporanea, si risolve nonostante la “doppia verità” a cui giungono le indagini. Oltre a prendere in esame i vari livelli di intertestualità che vanno dall’uso dialettale all’ironia, dal continuo spostamento tra il particolare e l’universale alle sperimentazioni narrative che danno luogo al “romanzo enciclopedico”, il saggio vorrebbe dimostrare, tramite analisi comparativa, come i due romanzi si incontrino soprattutto nell’intento di evidenziare il disagio esistenzialista della società che oltrepassa sia il “giallo”, sia la “verità” che si trova sempre altrove.

Lakhous rinarra Gadda

Quando, nel 2006, lo scrittore d’origine algerina Amara Lakhous pubblica il suo secondo romanzo in lingua italiana Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, la cosiddetta “letteratura della migrazione” è ormai abbastanza matura per ancorarsi saldamente al tessuto letterario italiano ed affermarsi come fenomeno narrativo atto a capovolgere la prospettiva socio-culturale del Bel Paese. L’Italia, le città italiane e gli italiani vengono ri-narrati e riesplorati da scrittori migranti, da “nuovi cittadini” che hanno scelto - o che per loro è stata scelta, nel caso degli appartenenti alla seconda generazione, — l’Italia come meta del loro viaggio, spesso per infrangere quel “mito” del paese europeo del lavoro sicuro e della vita facile.1

1 Per la concezione del mito dell’Italia infranto dagli scrittori migranti, si veda lo studio di (Moll 2002: 204).

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Affiancare uno scrittore affermato2 in questo specifico ambito quale Lakhous a uno dei romanzieri italiani più autorevoli del Novecento, Carlo Emilio Gadda, non solo rientra nel campo comparatistico tradizionale che vede spesso lo scrittore milanese coinvolto con altri autori italiani dell’Ottocento (Manzoni) o contemporanei (Pasolini),3 ma offre altresì, grazie alla diversificazione caratterizzante lo sfondo culturale di entrambi gli scrittori, reinterpretazioni originali dei testi, dando luogo a nuovi significanti o, per dirla con il critico indiano Homi Bhabha, ad un “terzo spazio di enunciazioni”4 (Bhabha 2001: 225) che interessa da vicino l’ambientazione scelta da Lakhous e Gadda come palcoscenico narrativo dei loro capolavori: Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, due romanzi di Roma, direbbe Italo Calvino, scritti da non romani (Calvino 2011: 228).

Se ogni testo risulta, per la critica bulgara Julia Kristeva, come un mosaico di elementi in quanto “assorbimento e trasformazione di un altro testo” (Kristeva 1978: 121), l’opera di Lakhous si presenta indubbiamente come un esercizio in- tertestuale sublimante di tale affermazione. Nel suo articolo A Conversation with Amara Lakhous, Suzanne Ruta nota che il successo del romanzo di Lakhous è dovuto proprio al richiamo mimetico del Pasticciaccio gaddiano: “What Italians admired in Scontro di civiltà is its witty pastiche of Carlo Emilio’s Gadda […] That Awful Mess of Via Merulana” (Ruta 2008: 14). Le similitudini infatti sono nume- rose; già nel titolo di ambedue i romanzi si possono individuare le prime affinità che finiscono per lasciare nel lettore impressioni pressoché simmetriche: un’azione drammatica (un delitto in entrambi i casi, seguito curiosamente dal rapimento di un cagnolino, appartenente a Liliana nel Pasticciaccio, e a Elisabetta in Scontro) che si svolge in due precisi quartieri romani. Via Merulana e Piazza Vittorio nei

2 Dopo Le cimici e il pirata (1999) e Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio (2006), due romanzi che gli hanno dato notorietà in Italia e in Europa (Scontro di civiltà è stato tradotto in francese, inglese, olandese e tedesco), Lakhous ha pubblicato Divorzio all’islamica a viale Marconi (2010) e Un pirata piccolo piccolo (2011)

3 Per il confronto tra Gadda e Manzoni, si veda il saggio di Francesco Mattesini (Mattesini 1996); il paragone tra Gadda e Pasolini è fornito da vari studiosi, si veda, ad esempio, Gianfranco Contini (1968: 1026), in cui il critico italiano pone l’attenzione sulla differenza tra l’operazione linguistica di Gadda e di Pasolini.

4 Ne I luoghi della cultura, Bhabha studia a fondo quello spazio simbolico in cui si annullano i contrasti tra colonizzatori e colonizzati (nel nostro caso, tra indigeni e immigrati) nel concetto di “ibridità culturale”.

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due romanzi vorrebbero alludere ad un punto di partenza basato sulla quotidianità degli avvenimenti. I titoli, dunque, rivelano un’intenzione simbolica che coesiste con una condizione narrativa attenta alla vita sociale, dando vita ad uno spazio rappresentato dal “quartiere-mondo” che permette al tessuto urbano di lanciarsi nei valori universali.5 Oltre alla sua valenza tematica, la parola “pasticciaccio” sem- bra riferirsi infatti al paradigma stilistico gaddiano che tenta invano di dare ordine al costante affastellamento etico-sociale che caratterizza il ventennio fascista. Un pasticciaccio “brutto” che si trasforma, nell’opera di Lakhous, in uno “scontro di civiltà”, ossia in quella nota formula huntigtoniana nata all’indomani della caduta del blocco sovietico, trovando terreno fertile nell’era post-11 settembre 2001 e del flusso migratorio dai Paesi islamici verso la penisola italiana. Se il “pasticciaccio”

gaddiano non raggiunge il fine desiderato dal lettore (il delitto, alla fine, rimane irrisolto), anche lo “scontro di civiltà” risulta niente più di uno scherzo “brutto”, superato dall’umorismo e dalla comicità all’italiana, tanto cara allo scrittore al- gerino. Si tratta, insomma, di due titoli ironici che introducono quel materiale narrativo costruito sul gioco continuo tra il particolare e l’universale, il comico e il tragico.

Prendendo in esame la dimensione contenutistica, Lakhous non lascia alcun dubbio sugli elementi intertestuali che avvicinano il suo romanzo al Pasticciaccio.

Le vicende dei due romanzi cominciano nel mese di marzo ed entrambe sono ambientate in un palazzo romano, dove avviene un tragico ed inspiegabile omi- cidio. I due autori propongono un contesto micro-spaziale che mette in rilievo la dimensione sociale. In una conversazione con Daniela Brogi, Lakhous afferma:

In Scontro di civiltà ho scelto l’ascensore perché volevo riflettere sulla domanda: come convivere insieme? L’ascensore è il luogo in cui si deve stare a stretto contatto e si sente l’odore, il profumo degli altri: guardandosi negli occhi qualcosa bisogna dire. Ecco: proprio quell’imbarazzo a me interessava molto. (Brogi 2011: 2)

5 Riguardo alla scelta del titolo, Lakhous, in un’intervista, sottolinea che il suo modo di gestire gli spazi lo deve al “maestro” Nagib Mahfuz, il romanziere egiziano e Premio Nobel per la letteratura (1988): “Da Mahfuz ho imparato tantissimo: ad esempio, la nozione dello spazio come protagonista del romanzo, e l’idea che i personaggi sono impensabili al di fuori di uno spazio, perché è lì che avviene tutto: l’incontro, lo scontro, la comunicazione, l’amore. Quindi non è casuale la mia scelta di mettere i luoghi (piazza Vittorio e viale Marconi) nei titoli dei miei romanzi” (Brogi 2011: 3).

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L’aspetto spaziale offre ancora interessanti analogie; sin dall’inizio, i palazzi vengono presentati con termini encomiabili: secondo la portinaia, nel romanzo di Lakhous, il palazzo è il “più pulito di tutta piazza Vittorio” (Lakhous 2006: 31);

nel Pasticciaccio, invece, il palazzo in via Merulana viene chiamato “er palazzo dell’oro”, dato che “tutto er casamento insino ar tetto era come imbottito de quer metallo” (Gadda 1999: 19). Persino l’interno dei palazzi offre, in ambedue i casi, una realtà che si biforca categoricamente in due tipologie di ingressi, separando gli inquilini per ceti sociali, provenienze, ecc. La scala e l’ascensore in Scontro rap- presentano qualcosa che oltrepassa le consuetudini quotidiane. Secondo Antonio Marini, un personaggio milanese che si rifiuta nettamente di usare le scale come gli altri abitanti del palazzo, l’ascensore è una “questione di civiltà”, simbolo di modernità e di illuminismo (76). Nel palazzo in via Merulana, invece, vi sono due scale “A e B, co sei piani e co dodici inquilini cadauna” (19). Ma tra la scala A e la scala B esiste una differenza abissale:

Il duecentodiciannove, cinque piani a strada più l’attico e le due scale A e B, con alcuni uffici sulla B, al mezzanino, era un porto di mare. Le scale, agiate tutte e due, l’una più buia dell’altra. La A più tranquilla della consorella: tutti signori autentici da quella parte, du côté de chez madame. (34)

Le portinerie di entrambi i palazzi sono gestite da due bizzarre portinaie, una romana (in Gadda), l’altra napoletana (in Lakhous). Esse creano, con i loro atteggiamenti estroversi ma poco confidenziali con gli inquilini, una sorta di lega- me tra l’interno del palazzo ed il mondo esterno: Roma.

La città eterna si presenta come una vera protagonista dei due romanzi.

L’opera gaddiana, tuttavia, prende distanza da quella di Lakhous nella rappresen- tazione di Roma sotto una prospettiva fondamentale: mentre nella seconda, la città è raffigurata soltanto nella sua recente veste multietnica, la Roma di Gadda si manifesta nella sua valenza simbolica storico-patriottica che parte dalla latinità antica,6 attraversa l’epoca del Risorgimento fino al ventennio fascista. Come ha notato Manuela Bertone:

6 Per la tensione tra la latinità e la lingua bassa e popolare nella rappresentazione di Roma nell’opera gaddiana, si veda (Di Ruzza 2012: 83–101).

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Il sacro amor patriae gaddiano si distingue per essere costantemente irrorato, come da una linfa vitale, da una particolare percezione della romanità e della latinità, che consiste nell’escludere di concepirle come semplici retaggi di un passato concluso e archiviato di cui, nell’oggi, ci si può accontentare di cogliere e recuperare le valenze simboliche. (Bertone 2004)

Ciononostante, il centro e la periferia, così come vengono raccontate e visi- tate dai due protagonisti non romani, Ingravallo e Amedeo, segnano, in entrambe le opere, un autentico caso di contaminazione che coinvolge aspetti sociali, cul- turali e soprattutto linguistici. Se nel romanzo gaddiano le indagini sul crimine sono svolte in strade, sotterranei, nel mercato di piazza Vittorio fino al Torraccio, conferendo al contesto, come ha notato Franco Farinelli, una specie di “pastic- ciaccio territoriale” (Farinelli 2007) che lascia il lettore di fronte ad un realismo atto a “sfidare” un disastroso sviluppo degli eventi; quello di Lakhous illustra le zone romane limitandosi di tanto in tanto a specificarne una funzione essenziale concernente quel teso rapporto ontologico tra lo spazio e l’identità culturale di Amedeo (personaggio che si scopre verso la fine del romanzo essere un uomo di origini algerine dal nome Ahmad). Il fatto di conoscere bene Roma crea nel personaggio una condizione socioculturale che evidenzia gli ibridi elementi della propria identità; per gli altri personaggi, invece, delimita quel diritto sacrosanto che permette ad Amedeo di accedere direttamente alla “cittadinanza italiana”:

“«Ammazza’ Amede’ come conosci Roma! Ma che t’ha allattato la lupa?» Non dite che Amedeo è un immigrato” (94).

La questione linguistica

Se la “romanità” di Amedeo s’incentra sull’evidente modello di integrazione con le coordinate spazio-temporali che costituiscono il palcoscenico del romanzo, in Pasticciaccio si potrebbe constatare, similmente, un certa traccia d’integrazione dovuta alla contaminazione, seppur in ambito linguistico, tra italiano e romanesco.

È vero che l’uso dialettale è ampiamente presente anche in Scontro, ma la differenza tra Gadda e Lakhous rimane, sotto questo aspetto, piuttosto notevole. Il coacervo linguistico del Pasticciaccio vacilla tra dialettismi, arcaismi, lessico tecnico- scientifico, codici stranieri (francesismi), ed altre parole coniate dallo stesso Gadda: un “calderone” linguistico, o pastiche, per dirla con il primo critico che usa

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il termine riferendosi alla scrittura gaddiana, Gianfranco Contini (Contini 1934:

88). Una mescolanza altamente articolata che si può incontrare in una pagina o addirittura in una frase. Sin dalle prime pagine del romanzo, il narratore ci avverte che il protagonista, Ingravallo, parla contaminando “napolitano, molisano e italiano” (17). L’interferenza tra codici e registri linguistici avviene, inoltre, anche sul piano cronologico: dal linguaggio letterario di memoria manzoniana si passa al dialetto dei ceti più bassi senza trascurare uno stadio linguistico “intermedio”

conforme alla cultura della borghesia prima fascista.

Occorre sostanzialmente prendere atto del fatto che un’analisi linguistica della prosa gaddiana potrebbe condurci verso il rischio di raggiungere poche conclusioni, nonostante la massiccia quantità dei dati all’interno della gemma- zione plurilinguistica che caratterizza l’impasto stilistico dello scrittore milanese.

Roscioni, infatti, ci avverte che:

Chi voglia isolare nell’opera di Gadda, gli elementi linguistici o tematici che servano di base a un’interpretazione troppo rigidamente orientata, se ha proceduto a un inventario un po’ sistematico del proprio materiale di studio, si troverà, a lavoro ultimato, il tavolo ingombro di schede che infirmano le sue conclusioni, che confutano la sua tesi (Roscioni 1995: 144).

Ci si potrebbe limitare, dunque, a menzionare le funzioni del mistilinguismo gaddiano. Tra queste, due basilari vengono ribadite dagli studiosi dell’Ingegnere:

da una parte lo spostamento dall’arcaico al dialettismo può essere un indizio del continuo movimento della prospettiva del narratore onnisciente verso il punto di vista interno dei personaggi (Di Ruzza, 2012: 97); dall’altra, l’impiego gaddiano del lessico tecnico-scientifico viene spesso visto come un metodo narrativo che rinforza sia la funzione metaforica7, sia la componente umoristica delle vicende narrate. (Zublena, 2003).

Le caratteristiche del linguaggio polifonico di Scontro, invece, s’imperniano attorno all’alternarsi tra italiano e dialetto con poche tracce di arabismi e france- sismi, dovute alla formazione culturale dell’autore algerino. Bisogna ricordare qui

7 Si pensi ad esempio al seguente passo del Pasticciaccio: “Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti” (16).

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che tutte le opere di Lakhous sono uscite sia in lingua araba, sia in lingua italiana.

Il progetto di Lakhous, dichiarato più volte, di “arabizzare l’italiano e italianizzare l’arabo”, rientra pienamente nei paradigmi dell’ambito dell’imagologia, ovvero nel campo che si occupa dello “studio delle immagini, dei pregiudizi, dei clichés, degli stereotipi e in generale delle opinioni su altri popoli e culture che la letteratura trasmette” (Moll, 2002: 186). Lo stesso autore sostiene che l’intento di “arabizzare l’italiano e viceversa significa anche portare l’immaginario da una riva all’altra del Mediterraneo” e citando Fellini, “ogni lingua guarda il mondo in un modo diver- so”. (Brogi 2011: 3). Non a caso l’uso dialettale in Scontro viene spesso assegnato a personaggi, per lo più italiani, per marcare sia la loro provenienza, sia il ceto sociale a cui appartengono. Naturalmente questa scelta ha come obiettivo quello di mantener i personaggi saldi ai loro habitat; ecco perché stereotipi, di cui è zeppo il romanzo, e ironia vanno di pari passo lungo i capitoli di Scontro. Uno degli elementi stilistici che più garantisce il connubio tra stereotipi e ironia è proprio il gioco linguistico tra italiano e dialetto.8

Detto in altri termini, se il mosaico linguistico in Gadda offre un’immagine raffinata di un ambiente labirintico, incapace di restituire al pasticciaccio un ordi- ne o un senso, la polifonia in Lakhous non oltrepassa, attraverso le scene dialogate o nei pensieri dei narratori-protagonisti, il tentativo di fossilizzare alcune caratteri- stiche stereotipate per ottenere l’impatto comico, romanizzando ulteriormente un personaggio romano, o napoletanizzando maggiormente un personaggio napole- tano. Si tratta, insomma, di una differenza stilistica che situa i due romanzi su due estremità opposte: se “lo straordinario arabesco lessicale e stilistico della scrittura gaddiana è […] propriamente illeggibile”9 (Rinaldi 2003), la polifonia in Lakhous alleggerisce il testo, stimolando una lettura più scorrevole.

Ciononostante, una certa visione ironica del mondo, evidente in Gadda e in Lakhous, sembra approssimare la struttura narrativa dei due testi ad alcuni ele- menti linguistici comuni. Si pensi, ad esempio, all’uso dell’onomatopea “pa-plàf, pa-plàf” (Gadda 1999: 80), “brrr, brrr, frrr” (185); e nelle riflessioni di Amedeo:

“Auuuuuuu …” (Lakhous 2006: 28) come forma imitativa del linguaggio della

8 Si pensi all’equivoco emergente dall’uso della parola “guaglio’” da parte della portinaia napoletana, fraintesa da Parviz Samadi, l’immigrato iraniano.

9 Bisogna precisare che l’illeggibilità di Gadda in questo senso non impedisce, come ricorda Cristina Savettieri, la “possibilità del lettore di connettere e riconnettere i sensi e gli strati del testo”. Il Pasticciaccio, per la Savettieri, benché il più complicato, rimane, in questa prospettiva,

“il più leggibile dei romanzi di Gadda” (Savettieri 2004).

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realtà. Nel caso di Scontro, inoltre, emerge palesemente il tentativo di Amedeo di incarnare, attraverso il verso del lupo pronunciato insistentemente lungo il ro- manzo, il simbolo romano più celebre, quello della lupa. Non a caso il personag- gio algerino-romano rivela esplicitamente la questione dell’identità ricollegandola a ciò che Homi Bhabha chiama “mimicry”10 (Bhabha 2001: 156–157). Ecco le parole di Amedeo:

Ormai conosco Roma come vi fossi nato e non l’avessi mai lasciata.

Ho il diritto di chiedermi: sono bastardo come i gemelli Romolo e Remo oppure un figlio adottivo? La domanda fondamentale è: come farmi allattare dalla lupa senza che mi morda? Adesso almeno devo perfezionare l’ululato come un vero lupo: Auuuuuuuuuuuu … (100) Ironia e imitazione della realtà nelle due opere giustificano, dunque, una serie di elementi linguistici relativi all’uso del registro popolare e volgare nei dialoghi, ma anche nelle lunghe digressioni dei narratori, ove compaiono altresì detti, proverbi e aforismi: “Chi dice ma, cuore contento non ha” (Gadda 1999:

21); “l’ebbrezza di gioventù è intensa come quella del vino” (Lakhous 2006: 17).

Tuttavia, e come si è detto sopra, in Pasticciaccio e in Scontro, il registro popolare e il tono colloquiale sono abbinati, e non scontrati, ad un lessico ricercato e colto, che richiama in antitesi il continuo spostamento dal quotidiano ai valori nobili.

L’uso del citazionismo rappresenta una chiara dimostrazione di tale spostamento:

si parte, nel Pasticciaccio, dalla “socraticità” di Ingravallo (Ceccherelli 2003) e dal modello romanzesco ottocentesco fino a giungere ad espliciti riferimenti a Proust, Montesquieu, Tolstoj, per citarne alcuni; nel romanzo di Lakhous i rimandi pas- sano, invece, da autori contemporanei occidentali ed altri orientali, dal libanese Amin Maalouf al filosofo rumeno Emil Cioran, e dallo scrittore algerino Tahar Djaout all’italiano Carlo Levi, per non parlare di opere canoniche tradizionali come Le mille e una notte ed opere cinematografiche come Divorzio all’italiana di Pietro Germi, il regista che sembra spianare la strada a Lakhous verso il mondo gaddiano.

10 Andrea Groppaldi vede nell’ululato di Amedeo, più di mimicry, una specie di antilingua che contraddistingue la peculiarità linguistica di Amara Lakhous (Groppaldi, 2013).

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Verità taciuta e verità stereotipica

A latere dell’intreccio dei due romanzi, giunge, dunque, la proliferazione digressiva con dettagli conditi da un alternarsi tra il particolare e l’universale, tra il dialetto e il linguaggio raffinato, atti a dimostrare non solo l’enciclopedismo degli autori,11 ma a riflettere soprattutto una precisa visione del mondo, partendo da un microspazio, il palazzo romano con i suoi inquilini, i loro dialetti, ecc. fino a toccare concetti universali quali “giustizia” e “verità”. Non a caso entrambi gli autori scelgono per i loro romanzi quel genere che meglio ruota intorno a questi concetti: il genere poliziesco.

Tutti i capitoli di Scontro cominciano infatti con un titolo che richiama la

“verità” di uno dei personaggi. Ciascun personaggio, in veste di narratore, fornisce la propria verità sulle condizioni decadenti del palazzo e della società romana con- temporanea, sempre più multietnica e meno “sicura”, proponendo, poi, notizie e testimonianze sugli altri personaggi e specificando principalmente il proprio atteggiamento nei confronti di Amedeo, il presunto assassino di “Gladiatore”.

Nonostante le numerose prove che portano le indagini verso la condanna di Amedeo (la sua improvvisa scomparsa dopo l’omicidio; la sua esplicita ostilità nei confronti del Gladiatore), tutti gli inquilini del palazzo, italiani e stranieri, sono certi della sua innocenza. La “doppia-sentenza” pronunciata infine dal com- missario Mauro Bettarini, che vede in Amedeo innocente e colpevole allo stesso momento, svela la natura ambivalente del concetto di “verità”: “Ho imparato dal mio lavoro di commissario di polizia che la verità è come una moneta, ha due facce. La prima completa la seconda” (123).

Per Ingravallo, il commissario del Pasticciaccio, la “verità” invece oltrepassa i confini dell’ambivalenza per abbracciare il mondo delle favole: “Il mondo delle cosiddette verità […] non è che un contesto di favole: di brutti sogni. Talché soltanto la fumea dei sogni e delle favole può aver nome verità. Ed è, su delle povere foglie, la carezza di luce” (119). La verità come valore irraggiungibile non dipende semplicemente dal “delitto perfetto”, bensì dalla concatenazione degli

11 Per l’enciclopedismo del Pasticciaccio, si veda (Calvino, 1988: 101–106). Essere un autore enciclopedico, nel senso in cui lo intende Calvini, ossia avere “l’ansia di contenere tutto il possibile”, potrebbe, secondo Cristina Savettieri, lasciare impressioni d’insoddisfazione, dato che “L’enciclopedia è una forma chiusa, che si presume autosufficiente e gerarchicamente strutturata, e soprattutto tesa dal disumano sforzo di esaurire il possibile, di non lasciare nulla al di fuori di sé, dunque ambiziosa e vana allo stesso tempo” (Savettieri 2004).

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episodi e da quell’intreccio voluto dagli autori per rendere ancora più complicate le indagini. Trattando la scrittura di Gadda, sarebbe comunque poco preciso par- lare di “verità irraggiungibile”, poiché è lo stesso autore a sostenere che “L’opera d’arte […] può essere e perciò deve essere l’indefettibile strumento per la scoperta e la enunciazione della verità” (Gadda 1991: 541). D’altronde, come ha notato Raffaele Donnarumma, riferendosi alla verità gaddiana, “il compito della lettera- tura” è quello di “dichiararla, [Gadda] ne asserisce l’esistenza (in quanto principio morale, se non addirittura ontologico, o in quanto dato positivistico), salvo porla in dubbio nel corso della scrittura”. (Donnarumma 2003).

Una similitudine tra gli schemi giallistici del Pasticciaccio e Scontro è data dal- la struttura d’indagini che si muovono intorno ad un intreccio sospeso sul legame tra crimini accaduti quasi nello stesso tempo (in Pasticciaccio, il furto dei gioielli ai danni di Teresa Menegazzi seguito pochi giorni dopo dall’omicidio della signora Liliana Balducci; in Scontro, l’uccisione del Gladiatore seguito dalla rapina del cagnolino Valentino). Ma se nel romanzo di Lakhous viene sciolto ogni dubbio, giacché si scopre nell’ultimo capitolo il collegamento tra i due reati12; al contrario, nel romanzo di Gadda l’incertezza sul legame tra i due delitti resta irrisolta.

Si è soliti ricordare che il fatto che le indagini di Ingravallo non portino infine a rivelare il nome dell’assassino sia un segno dell’incompiutezza dell’opera, un indizio dell’impossibilità di restituire un ordine ad un mondo immerso nel pasticcio e, di conseguenza, dell’impossibilità di ottenere la “verità”. La scelta di lasciare il romanzo incompiuto, come ha notato Gianfranco Contini, trova la sua giustificazione nelle tendenze letterarie di Gadda e nei suoi orientamenti estetici dell’epoca: così, il Pasticciaccio, risulta “incompiuto”, scrive il critico italiano, “quasi a rendere evidente, attraverso simile natura di magnanimi frammenti narrativi, la continuità di Gadda rispetto e al frammentismo e al lirismo della sua generazione letteraria e del suo ambiente di provenienza, «Solaria» in particolare” (Contini 1992: 426). Eppure va ricordato che l’incompiutezza dell’opera, e il “troncarla a metà” non impedisce allo scrittore milanese di dichiararla (in un’intervista con Dacia Maraini) “letterariamente chiusa” (Gadda 1993: 172). Altrove, riferendosi all’enigmatica battuta finale del romanzo, Gadda afferma che tale chiusura, priva di verdetto definitivo, non è altro che una “verità” postuma al materiale narrativo

12 Ecco le conclusioni a cui sono giunte le indagini in Scontro: “Dopo lunghe ricerche Elisabetta Fabiani era riuscita a scoprire l’autore del rapimento del suo Valentino, e dunque ha deciso di vendicarsi duramente una volta avuto la certezza delle orribili torture inflitte al cagnolino prima di morire” (127).

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offerto al lettore: “Il nodo si scioglie a un tratto, chiude bruscamente il racconto.

Dilungarmi nei come e nei perché ritenni vano borbottio, strascinamento pedan- tesco, e comunque postumo alla fine della narrazione” (Gadda 1991: 1215). Del resto, l’interruzione del romanzo proprio nel punto cruciale delle indagini indica che queste non hanno fatto che allargare l’orizzonte dell’ignoranza della verità (Guglielmi 1986: 211–243).

Per Gadda, dunque, la soluzione del pasticcio non conta; conta di più la molteplicità di causali che conducono ad una catastrofe umana, ovvero che le in- dagini poliziesco-filosofiche rappresentano per Ingravallo una convinzione solida, quasi una dottrina professionale. Conta molto di più anche la dimostrazione che nessuna inchiesta potrà mai risalire ad una verità in un mondo dove prevale la meschinità dell’uomo e la sua debolezza di fronte ai mali insondabili della società.

Come ha notato Guglielmi, “la vittima, Liliana, rappresenta il mondo offeso, e non può essere certo l’indagine di un commissario di polizia a scioglierne il garbu- glio” (Guglielmi 2002).

Un’altra “malattia” dell’epoca è rappresentata dall’oscuramento dei delitti, esercitato dal regime fascista, al fine di diffondere una parvenza di ordine nell’o- pinione pubblica:

L’Urbe incarnava omai senza er minimo dubbio la città de li sette candelabri de le sette virtù: quella che avevano auspicata lungo folti millenni tutti i suoi poeti e tutti gli inquisitori, i moralisti e gli utopici, Cola appeso. (73)

Il caos e gli episodi violenti che scuotevano la capitale italiana erano mi- nimizzati dai giornali del regime, poiché compromettevano la “moralizzazione dell’Urbe e de tutt’Italia insieme” (72). La critica gaddiana all’ipocrisia del regime fascista13 riguardo la censura non differisce più di tanto dalla polemica elaborata di Lakhous, seppur in modo assai satirico, nei confronti della disinformazione nei nostri tempi. È vero che Roma ha cambiato volto nel corso dei decenni divenendo oggi una metropoli multietnica, ma il suo recente multiculturalismo resta, agli oc- chi dell’autore algerino, vittima di una fortissima propaganda mediatica anti-im- migrazione. Vengono citati vari programmi televisivi popolari (il telegiornale di

13 Per un approfondimento sul rapporto tra Gadda e il fascismo ed in particolare sull’attribuzione da parte dei critici dell’etichetta “fascista” o “antifascista” allo scrittore, si rimanda allo studio di Poelmans 2012: (51–59).

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Emilio Fede e il talk-show di Bruno Vespa) che concentrano i riflettori sul pericolo derivante dallo sbarco dei clandestini nelle isole italiane: “Quelli portano malattie contagiose come la peste e la malaria” (37); oppure dagli africani che “mangiano con le mani, si spostano con i ciucci e i cammelli e trattano le donne come schiave […] lo dice pure Bruno Vespa” (37).

È un tipo di divulgazione che istituisce la “struttura imagotipica” (Leerssen 1992) mediatica che passa attraverso clichés culturali e stereotipi sociali ai dan- ni degli immigrati, suscitando una vera confusione di idee nella mentalità della massa. Benché il “sapere attraverso idée reçue” sull’alterità, nel campo mediati- co, come osserva Edward Said, sia tanto vasto quanto ingestibile (Said 1997), Lakhous raccoglie quanto può di materiale diffuso nei mezzi di comunicazione, ne estrapola gli stereotipi più celebri in materia immigrazione, conferendo loro un osceno turgore vitale per illustrare quanti equivoci e banalità possano creare.

Esempi come “Arabi rapinatori” o “albanesi assassini” (35), oppure più general- mente “stranieri veri responsabili del degrado sociale, culturale ed economico della città eterna” rappresentano sì una visione massmediatica verosimilmente in voga, ma anche un ulteriore ostacolo alle problematiche relative all’integrazione, in cui stranieri e indigeni si trovano inevitabilmente coinvolti. L’unica soluzione che re- sta per Lakhous è quella di stemperare queste verità stereotipiche in toni comici raffigurati in un alto senso di auto-ironia. “La commedia”, d’altronde, a detta dello stesso autore,

si basa soprattutto sull’auto-ironia, sul mettersi in gioco sempre.

Guardare la mia cultura di origine con occhio critico e con una dose di ironia è un segno di maturità. Il pregiudizio per sua natura è irrazionale, ad esempio, quando sento qualcuno dire: “tutti i rom rubano” trovo assurdo ogni tentativo di convincerlo del contrario.

Cosa mi resta? Scherzare e non prenderlo sul serio. (Brogi, 2012: 7).

Un ulteriore elemento destinato a completare il quadro imagologico del ro- manzo è rappresentato da una visione più sensibile alla questione dell’immigrazio- ne. Una proiezione che copre l’altra faccia della città multietnica, rappresentata da persone, per lo più istruite, che difendono gli immigrati e li vedono come un “og- getto” prezioso del loro progetto culturale. Van Marten è un personaggio olandese appassionato dell’Italia e del cinema neorealista che, per realizzare un lungome- traggio, avrebbe bisogno di attori non professionisti, come l’iraniano Parviz, che

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gli ricordino i sottoproletari delle borgate romane degli anni Cinquanta. Stefania Massaro, la compagna di Amedeo, invece, non è solo innamorata del misterioso personaggio romano-algerino, ma di tutto ciò che è esotico. L’apertura all’alterità da parte della società ospitante rappresenta, per Stefania, una nuova possibilità etica atta a sfidare l’omogeneità socioculturale nazionale, ed ecco perché non esita ad assistere gli immigrati ad integrarsi nella realtà sociale romana (Lakhous 2006, 50). Ciononostante, pare evidente che la sua tolleranza sia dovuta, più che al dovere sociale, alla sua ammirazione nei confronti del diverso e del misterioso.

La “verità” narrata da lei pullula di note di carattere orientalistico evidenziando il fascino di Shahrazad (105), del Sahara e dei segreti dei Tuareg (104).

Non manca in Scontro, infine, il processo imagologico che capovolge, agli occhi dei personaggi-stranieri, la verità stereotipica in auto-image. “Accade”, scrive Nora Moll,

facilmente agli emigrati di “scoprire” la propria identità culturale soltanto nel momento in cui la nuova comunità dove vivono mette loro davanti uno “specchio” nel quale scorgono un’immagine magari distorta di sé che però molte volte viene introiettata e dalla quale a ogni modo essi non possono più prescindere. (Moll 2002: 191).

Di fronte a questo quadro di “rispecchiamento”, emergono tre principali re- azioni che illustrano altrettante categorie di personaggi stranieri: i primi dimostra- no interesse ad integrarsi con la società italiana come il bengalese Iqbal Amir Allah (disposto a chiamare suo figlio Roberto) e la peruviana Maria Cristina Gonzalez, che, sebbene priva di documenti necessari per il soggiorno regolare, mostra verso la società un “atteggiamento aperto”, dovuto naturalmente alle sue radici latino-a- mericane, più affini al contesto territoriale di arrivo in termini culturali, linguisti- ci, religiosi; i secondi, al contrario, adottano posizioni più conservatrici riguardo lo spazio interculturale come l’algerino Abdallah Ben Kadour, il quale non solo rigetta categoricamente ogni contagio con la realtà socioculturale italiana, ma vede tale contagio come causa principale della fine drammatica del compaesano Amedeo: “Certo, Ahmad ha sbagliato a nuotare fuori dal suo bacino naturale”

(116). A questa categoria si associano, inoltre, certi operai, ambulanti e piccoli commercianti, per lo più asiatici, che emigrano con l’obiettivo di raccogliere soldi e prediligono così “ghettizzarsi”, restando lontani dalla vita culturale che la città offre: “Tanti bengalesi tornano nel loro paese d’origine una volta ogni cinque anni

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o anche più raramente […] Gli uomini sono terribilmente chiusi, vivono come fossero a Daka, mangiano riso e indossano vestiti bengalesi e vedono film in video.

Spesso mi chiedo: vivono veramente a Roma?” (106).

Il rapporto conflittuale tra questi due modelli di immigrati da una parte e le due tipologie di “indigeni” dall’altra non è altro che un aspetto cruciale che rispec- chia, nella narrativa di Lakhous, un’immagine quotidiana dello scontro di civiltà, concetto che ha acceso, negli ultimi due decenni, il dibattito politico e culturale sul contrasto storico tra est e ovest, Islam e occidente (Huntington 2000). In que- sto “pasticcio” caotico, ridotto in una dimensione micro-spaziale quale l’ascensore di un palazzo in piazza Vittorio, diviene necessario far emergere un prototipo, una terza categoria, in grado di mantenere un certo equilibrio tra le deliranti, comiche e stereotipate “verità” degli inquilini. Tale necessità viene incarnata nella figura di Amedeo, la quale funzione, somigliante per altro a quella di Ingravallo in Pasticciaccio, è quella di creare un’armonia all’interno del caos: non a caso il suo

“ululato” giunge puntualmente tra i capitoli narrati dai personaggi.

Avendo tutte le carte in regola per interpretare questo ruolo, Amedeo si rive- la sin dall’inizio del romanzo un uomo democratico, tollerante, rispettoso, colto, integrato nella società in cui vive ed è, perciò, apprezzato da tutti. Le testimonian- ze di tali attributi provengono dai vari personaggi, che, nonostante l’eterogeneità delle loro origini e dei loro orientamenti politico-culturali, sembrano accordarsi solo quando s’esprimono riguardo ai meriti di Amedeo nel quartiere romano.14 A differenza dei personaggi stranieri presenti nel romanzo, Amedeo affronta una condizione che supera le tipiche problematiche dell’immigrazione (come nel caso di Parviz e di Maria Cristina Gonzalez, vittime entrambi della Legge Bossi-Fini):

egli, con la sua elevata cultura, con la sua integrazione linguistica più perfetta, deve fare i conti con il concetto dell’esilio, inteso come perdita dell’identità e soprattutto della memoria. Amedeo espone a più riprese il dilemma della memo- ria collegandolo ai problemi dello stomaco: “Il problema è che lo stomaco della mia memoria non ha digerito bene tutto quello che ho ingoiato prima di venire a Roma. La memoria è proprio come lo stomaco. Ogni tanto mi costringe al

14 Parviz osserva che Amedeo è l’unico che gli “vuole bene in questa città” (22); Elisabetta Fabiani, molto scettica verso gli immigrati, ammette che “il signore Amedeo è l’unica persona tollerante nel palazzo” (55); e Stefania Massaro si mantiene sulla stessa linea, offrendo però un giudizio oggettivo sul suo fidanzato: “Chiedete di Amedeo alla gente di Piazza Vittorio, vedrete quanto era amato da tutti. Non ha esitato ad aiutare chi ne aveva bisogno senza aspettarsi nessuna ricompensa” (106).

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vomito. Io vomito i ricordi del sangue ininterrottamente. Soffro di un’ulcera alla memoria” (107). In un’altra occasione, il protagonista solleva la questione della memoria facendo allusione, ancora una volta, ai disturbi del proprio stomaco:

mi sono ricordato di quella volta in cui, assalito dalla nostalgia del cuscus, sono andato in un ristorante arabo e dopo qualche cucchiaio ho vomitato tutto. Solo dopo mi è venuto in mente che il cuscus è come il latte della madre, e ha un odore particolare che si può sentire solo accompagnato da baci e abbracci. (117)

La perdita dell’identità Amedeo/Ahmad, nata come frutto di fraintendimen- ti emersi nel contatto tra sistemi culturali diversi, ricorda da vicino Moammed Sceab, l’amico arabo di Giuseppe Ungaretti, sul quale il poeta italiano scrisse una celebre poesia mettendo in risalto il motivo dell’esilio: “non sapeva più / vivere / nella tenda dei suoi / dove si ascolta la cantilena / del Corano / gustando un caffè”.

Contrariamente a Sceab, la quale identità perduta lo condusse al suicidio, Amedeo sceglie la sopravvivenza attraverso il racconto. Se l’amico di Ungaretti soffriva dell’inesprimibilità circa la decisione del gesto estremo: “non sapeva / sciogliere / il canto / del suo abbandono”, il protagonista di Lakhous chiede un’ispirazione a Shahrazad, l’archetipo della salvezza tramite la narrazione, perché gli insegni come sottrarsi alle insidie provocate dalla memoria, dalla rabbia, dalle “verità stereotipi- che” e da altre follie di quel mondo contemporaneo lacerato da un assurdo nonché inutile “scontro di civiltà”.

La profonda crisi d’identità di Amedeo, sempre in bilico in quanto migrante che ha scelto di vivere sempre nell’altrove, non si risolve con il nome italianizzato, né con l’integrazione nella società che lo vede sospetto per un omicidio che non ha commesso. L’unica via d’uscita che gli resta per scavalcare la precarietà dell’i- dentità è la lingua italiana. La lingua, come dice lo scrittore franco-libanese, Amin Maalouf “ha la meravigliosa particolarità di essere insieme fattore d’identità e stru- mento di comunicazione. La lingua tende a restare il perno dell’identità culturale, e la diversità linguistica il perno di ogni diversità” (Maalouf 2005: 122). Giacché il romanzo di Lakhous, come si è visto sopra, potrebbe essere considerato come un esercizio “linguistico e metalinguistico” (Biorci 2013: 70), non sorprende che Amedeo trovi la propria “liberazione identitaria” proprio nella lingua straniera:

“Oggi ho iniziato a leggere gli aforismi di Emile Cioran. Sono rimasto colpito da

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questo: ‘Non abitiamo un paese ma una lingua’. La lingua italiana è la mia nuova dimora?” (157).15

Gadda, Lakhous e il poliziesco kafkiano

Quel che rimane per Amedeo, dunque, è il letale tentativo di medicare le ferite della propria esistenza. Come nel Pasticciaccio, non importa chi è l’assassino, giacché Gadda e Lakhous danno alla condanna, al “giallo” in generale, un’importanza secondaria. In tale ottica, diversamente dai gialli tradizionali, il genere poliziesco a cui appartengono i due romanzi è più vicino a Il Processo di Franz Kafka, dove in ogni singola parola si riflette espressamente l’assurdità dell’essere. Non è l’accusa di avere ucciso il Gladiatore a tormentare l’anima di Amedeo, così come non è il processo ad intimorire Joseph K.; bensì quel disagio esistenzialista tramesso dai due personaggi nei confronti del potere politico che esercita un’egemonia sull’ordine sociale.

Nel viaggio kafkiano nei meandri della Legge c’è tutto: l’imputato, il giu- dice, il tribunale, la pena; manca, però, l’elemento essenziale: il reato. Rispetto al Processo, il Pasticciaccio, così, “si presenta simmetrico e rovesciato”, giacché per lo scrittore milanese “non ci sono cause semplici” (Guglielmi 2002), a questo propo- sito, il narratore del romanzo di Gadda propone, infatti, una chiave di lettura del pensiero “ingravallesco” già nell’apertura del romanzo, prima ancora che le notizie del furto dei gioielli e dell’omicidio della signora Balducci giungano alle orecchie del dottor Ingravallo:

Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. (16)

Riassumendo la differenza tra il giallo kafkiano e quello gaddiano secondo l’ottica che delinea la relazione tra colpevole e colpa, Guido Guglielmi scrive:

15 Nel suo saggio intitolato proprio «Non abitiamo un paese, ma una lingua», Grazia Biorci spiega che “Abitare una lingua, allora, suggerisce l’averla respirata, assimilata e introiettata in tutte le cellule. L’individuo diventa contemporaneamente la casa metaforica della lingua, il suo abitante;

il suo soggetto e il suo oggetto”. (Biorci 2003: 70).

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Il personaggio kafkiano difatti non sa qual è l’oggetto della colpa, ma sa di essere colpevole. In Gadda c’è la prova della colpa — e la prova è irrefutabile —, ma è problematica l’assegnazione della colpa.

In sintesi: liberare la città dalla peste era richiesto dall’ordine del mondo nella tragedia greca; diventa un sogno d’evasione nelle storie poliziesche; e si problematizza nel grande romanzo che ci dà una parodia del giallo. (Guglielmi 2002)

In Scontro, d’altro canto, si può notare un dettaglio curioso, ma significa- tivo che accosta la visione di Lakhous al mondo kafkiano: la vicenda di Amedeo raggiunge l’apice quando egli incontra Luqmàne, personaggio noto per la sua saggezza e citato nel Corano, per domandargli aiuto. Il Saggio gli risponde:

Ascolta i miei consigli, imparali a memoria. Figliolo, se camminando ti fermeranno degli uomini armati e ti costringeranno a fare il giudice chiedendoti: ‘Chi ha ragione e chi ha torto, Caino o Abele?’, guai a te se risponderai: ‘Caino ha ragione e Abele ha torto’. Gli uomini armati potrebbero essere abeliani e sarà la tua fine. Oh figliolo, guai a te due volte se dirai che Caino ha torto e Abele ha ragione, perché gli uomini armati potrebbero essere cainiani e sarà la tua fine. Oh figliolo, guai a te tre volte se dirai che né Caino né Abele hanno torto: sarà la tua fine, perché il nostro tempo è molto stretto, non c’è spazio per la neutralità. Figliolo, tagliati la lingua e ingoiala. Oh figliolo, scappa!

Scappa! Scappa! Guai alla discordia. (121)

Questa scena illuminante ricorda la parabola Davanti alla legge contenuta ne Il Processo di Kafka, che vede come protagonisti un uomo di campagna desideroso di accedere alla Legge e il guardiano del portone che gli risponde che per il momento non può passarvi, sicché il campagnolo preferisce aspettare lì davanti per il resto della sua vita. Dopo lunghi anni, il guardiano confida al campagnolo che “nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo” (Kafka 1988: 178). Le due scene, collocate entrambe nel penultimo capitolo e, quindi, poco prima del verdetto finale, offrono un limpido esempio del motivo dell’assurdo nella narrativa di Kafka e di Lakhous, facendo risaltare il trauma esistenzialista scaturito dalla condizione umana, incapace di intraprendere un percorso individuale e soprattutto di modificare gli eventi. Per

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Gadda, il motivo dell’assurdo, invece, si traduce nello stile e nel linguaggio, dove il lessico ricercato e la forma digressiva, da cui nascono una miriade di frammenti a sé stanti, finiscono per dare spesso una dimensione assurda delle cose (si pensi al passo dedicato alla gallina guercia), atta ad inquadrare un’immagine tragicomica della realtà sociale piccolo borghese.

Conclusioni

Scontro di civiltà per un ascensore in piazza Vittorio tratta nella sua sostanza il tema dell’immigrazione, fenomeno complesso e di importanza fondamentale su scala mondiale che ha interessato negli ultimi decenni anche la penisola italiana.

Uno dei “prodotti” culturali più significativi è indubbiamente la cosiddetta

“letteratura della migrazione”, definizione derivante dall’inglese migrant literature, e ribattezzata dal comparatista Armando Gnisci, in Italia, come “nuova letteratura del mondo” (Gnisci 2003: 26). Il tema più comune che caratterizza questo nuovo panorama narrativo è la ri-narrazione dell’esperienza del viaggio con tutto ciò che il termine comporta e provoca: crisi d’identità, stereotipi, pregiudizi, la lingua, dalla prospettiva dell’immigrato. Il romanzo di Lakhous non solo tratta i suddetti temi, ma va oltre proponendosi come una “ri-scrittura” di un autore canonico della letteratura italiana quale il Gadda del Pasticciaccio. I parallelismi tra le due opere vanno dall’ambientazione nei palazzi romani, in cui si compiono due omicidi, all’uso dialettale, dallo spostamento dal particolare all’universale, alla ricerca impossibile della verità, all’ironia, al comico come rovesciamento del tragico.

Il Pasticciaccio rimane, tuttavia, una fonte da cui Lakhous attinge solo una parte del suo materiale narrativo. Il raffinato pastiche linguistico gaddiano si di- stanzia, infatti, dalla polifonia stereotipica lakhousiana, il cui scopo non oltrepassa la finalità di ottenere un impatto comico. L’ironia in Scontro, inoltre, non è di carattere gaddiano: è più vicina alla commedia all’italiana (come lo testimoniano anche gli altri titoli dei suoi romanzi: Divorzio all’islamica e Un pirata piccolo picco- lo che rievocano rispettivamente i titoli cinematografici di Pietro Germi Divorzio all’italiana e di Mario Monicelli Un borghese piccolo piccolo). Le due opere, infine, si differenziano soprattutto nel modo in cui esse si avvicinano al genere poliziesco, ma anche nella loro rappresentazione della società romana: la patriottica Roma scissa, in epoca fascista, tra la borghesia commerciale e il sottoproletariato delle borgate si trasforma, in Lakhous, in un luogo dell’empatia e dell’incontro/scontro tra il sé e l’altro, tra l’indigeno e l’immigrato: una città odierna cosmopolita con

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più colori e più odori, dove ogni traccia interculturale può partorire una speranza per un mondo post-huntingtoniano.

University of Jordan, Amman

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