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Academic year: 2022

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Contro la povertà 80 euro non bastano Davide Ciferri*

Il bonus Irpef degli 80 euro, che a regime costa 9,5 miliardi, potrebbe avere effetti molto contenuti sui consumi. Con gli stessi soldi si sarebbe potuto introdurre uno strumento universale di contrasto alla povertà. E probabilmente, anche a livello aggregato, gli effetti sarebbero stati migliori.

Il bonus degli 80 euro

Con l’approvazione della Legge di stabilità 2015 il bonus Irpef degli “80 euro” è divenuto strutturale. Il costo della misura a regime è di 9,5 miliardi di euro (0,6 per cento del Pil). Risorse ingenti, dati i vincoli di finanza pubblica, che rendono questa misura molto importante.

L’obiettivo dichiarato è lo stimolo dei consumi attraverso un trasferimento diretto verso i lavoratori dipendenti a basso reddito.

La misura ha un impatto moltiplicativo inferiore rispetto a un aumento diretto di spesa, in quanto le famiglie che ricevono il trasferimento possono decidere se consumare o risparmiare l’extra reddito. La scelta dipende da due fattori: la percezione sulla stabilità dello strumento e le aspettative economiche future. E in un clima d’incertezza ancora elevato, le famiglie potrebbero aumentare il risparmio a scopo precauzionale.

Osservando le statistiche Istat si nota come nel quarto trimestre 2014, la propensione al risparmio è aumentata di 0,5 (attestandosi al 8,6 per cento) rispetto al secondo trimestre dello stesso anno quando il bonus è stato avviato. Nello stesso periodo, il reddito disponibile lordo delle famiglie è aumentato in termini assoluti di circa 2,2 miliardi di euro (+0,8 per cento), a fronte di un aumento contenuto dei consumi (+0,2 per cento). Nei due trimestri, la misura degli “80 euro” ha permesso un trasferimento diretto alle famiglie di circa 4,8 miliardi di euro che sono stati in buona parte “riassorbiti” dall’aumento del risparmio, con un effetto limitato sui consumi (per poter stabilire con maggiore precisione l’effetto del bonus sui consumi si dovrebbe, comunque, condurre un’analisi controfattuale con dati a livello micro).

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L’Istat ha stimato che il trasferimento dovrebbe avere un effetto molto contenuto in termini di riduzione sia della diseguaglianza economica (indice di Gini dal 30,3 al 30,2) e del numero di poveri.

Stessi soldi, stessi obiettivi, ma uno strumento diverso

Visti i risultati modesti in termini di consumi e maggiore equità, cosa si poteva fare avendo a disposizione 10 miliardi di euro all’anno? Ovviamente, molte cose. Ma volendo stimolare i

consumi, ridurre le disuguaglianze e rivolgersi ai soggetti più colpiti dalla crisi economica, si poteva pensare all’istituzione di uno strumento contro la povertà.

A settembre 2013 il gruppo di esperti istituito durante il governo Letta presso il ministero del Lavoro e delle politiche sociali presentò una proposta di “reddito minimo” (sostegno all’inclusione attiva – Sia). Si tratta di un trasferimento monetario per ridurre fino ad annullare la distanza tra il reddito del nucleo familiare e la soglia di povertà assoluta. È uno strumento rivolto alle famiglie piuttosto che agli individui, che prevede un “patto d’inserimento” tra beneficiari e comuni, il cui rispetto è condizione per la fruizione del beneficio. Vi rientrano azioni rivolte agli adulti

(riqualificazione professionale, esperienze formative) e ai minori (frequenza scolastica, prevenzione della salute).

Si stima che lo strumento abbia una certa efficacia nella riduzione delle disuguaglianze. È

presumibile, inoltre, che sia altrettanto efficace per stimolare la domanda, in quanto i poveri hanno mediamente una più elevata propensione al consumo.

Il costo complessivo del Sia, per azzerare la povertà assoluta, sarebbe di circa 7-8 miliardi, con un risparmio rispetto al bonus di circa 2 miliardi. Considerando un costo lordo per lavoratore pari a 40mila euro, con tali risorse si sarebbero potute assumere circa 50mila persone rafforzando le strutture per le politiche attive del mercato del lavoro e i servizi sociali, avvicinandoci agli standard tedeschi che nei soli servizi per l’impiego hanno circa 100mila occupati.

Complessità e scelte di policy

La scelta tra strumenti alternativi di policy con medesimi obiettivi dichiarati dovrebbe essere condotta in termini di benefici attesi. Dato che il Sia è più efficace nel ridurre le disuguaglianze di reddito rispetto al bonus Irpef e, forse, anche in termini di stimolo ai consumi, sarebbe lecito

attendersi che il primo fosse preferito al secondo. Ovviamente, mettere a regime un sistema come il Sia è più complesso e richiede più tempo che concedere gli “80 euro”. Ma anche se la preferenza del policy maker fosse tutta orientata verso la massimizzazione dell’effetto “annuncio”, non sarebbe comunque più efficace poter dichiarare pubblicamente: “abbiamo introdotto finalmente uno

strumento che cancella la povertà?”.

Ciononostante, poiché il bonus degli “80 euro” è ormai a regime, potrebbe comunque valer la pena pensare a uno strumento complementare di contrasto alla povertà da applicare gradualmente. Si stima, ad esempio, che per portare tutte le famiglie povere al 50 per cento della corrispondente linea di povertà il costo complessivo sarebbe di circa 1,5 miliardi di euro, esattamente la cifra del

“tesoretto” che il Governo intende impiegare a favore dei meno abbienti. Si potrebbe iniziare con poco, nella speranza, in prospettiva, di dotare l’Italia di uno strumento universale contro la povertà e per l’inclusione sociale.

* Davide Ciferri ha prestato servizio nello staff del ministro Enrico Giovannini presso il ministero del Lavoro e delle politiche sociali (governo Letta). Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non rispecchiano necessariamente quelle dell’istituzione di appartenenza.

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