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Alley Oop. Un impresa da donne VISIONE LEADERSHIP SOSTENIBILITÀ. in collaborazione con

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Academic year: 2022

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in collaborazione con

VISIONE

LEADERSHIP SOSTENIBILITÀ

Alley Oop

Un’impresa da donne

in collaborazione con

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Alley Oop

Un’impresa da donne

  

  

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DIRETTORE RESPONSABILE

Fabio Tamburini

COORDINAMENTO EDITORIALE

Monica D’Ascenzo

INTERVISTE DI

Micaela Cappellini Monica D’Ascenzo Elena Delfino Letizia Giangualano Enza Moscaritolo Greta Ubbiali

ART DIRECTOR

Francesco Narracci

FOTO DI COPERTINA

Adobe Photo Stock

IMPAGINAZIONE

Area pre-press Il Sole 24 Ore

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Alley Oop

L’ALTRA METÀ DEL SOLE

Un’impresa

da donne

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«Puntiamo alla

rigenerazione territoriale e per la cultura abbiamo la testa nel mondo»

Prefazione



Storie di cambiamento equo

Introduzione

   

La risposta a Greta

SOMMARIO

Catia Bastioli

Novamont

Eva Casagli

«Puntiamo a creare una bellezza

che sia sostenibile anche per l’ambiente»

Biofficina Toscana

«Sviluppare

tecnologia non fine a se stessa, ma per fare del bene al mondo»

Livia Cevolini

Energica Motor

«A second choice per i tessuti di qualità e anche per le persone con fragilità»

Anna Fiscale

Progetto Quid

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5

«L’innovazione

sta anche nell’incontro fra imprese di età e dimensioni diverse»

Alessia Guarnaccia

Pandora Group

«Innoviamo nella tradizione, d’altra parte

restiamo frantoiani»

Dina La Greca

Biospremi

«L’economia circolare non vale solo

per i materiali,

ma anche per le idee»

Susanna Martucci

Alisea

«I gioielli delle mamas di Maasai women art danno un’opportunità di futuro in Africa»

Marina Oliver

Maasai Women Art

«Il vino è lo specchio della vigna,

in cantina bisogna fare il minimo»

Valentina Passalacqua

Passalacqua Valentina

«L’obiettivo

di un imprenditore dovrebbe essere quello di creare lavoro»

Valentina Steinmann

Culla di Teby

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T

utto è cominciato nel settembre 2018. Quando Istituto Oikos - Ong milanese impegnata in Italia e nei Paesi del Sud del mondo nella tutela dell’ambiente e nella

promozione di forme di sviluppo sostenibile - e Alley Oop hanno deciso di intraprendere un viaggio alla scoperta di «storie di cambiamento». Insieme, abbiamo lavorato per dare voce a progetti imprenditoriali guidati da donne che abbiano fatto della sostenibilità ambientale e dell’innovazione sociale un elemento fondante della propria mission.

Un vero e proprio scouting di imprese al femminile. E così, ogni mese, sul blog di Alley Oop si è accesa una luce su realtà ed

esperienze innovative, alcune delle quali raccontate oggi in questo ebook che ho il piacere di introdurre.

La pubblicazione si inserisce in un’iniziativa educativa e di sensibilizzazione più ampia: «Costruttori di futuro. Pratiche di cittadinanza responsabile per attivare i giovani a favore di modelli di economia sostenibile e inclusiva» promossa da Istituto Oikos e finanziata dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo. Il progetto è rivolto ai giovani. A loro raccontiamo modelli, esperienze e

Storie di cambiamento per un futuro

più equo e sostenibile

di Rossella Rossi

PREFAZIONE

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7

pratiche di produzione e consumo rispettosi dell’ambiente.

Attraverso una narrazione positiva e ispirata intendiamo motivarli a impegnarsi in prima persona per costruire una società più equa e sostenibile.

Lo facciamo attraverso iniziative e strumenti diversi. A cominciare da percorsi didattici per 2mila studenti e 250 insegnanti in 11 città italiane, da Nord a Sud, e da corsi di formazione per operatori della comunicazione, seminari, eventi pubblici e numerosi prodotti editoriali.

Ma perché raccontare di imprenditoria e ambiente? Perché la sostenibilità dei processi economici è la questione senz’altro più urgente. In un periodo storico in cui le conseguenze dei cambiamenti climatici si fanno sentire con sempre maggior frequenza e intensità, in cui la pressione sulle risorse naturali aumenta incessantemente e senza una pianificazione adeguata, produrre e consumare a basso impatto non è più un modello di futuro a cui tendere ma un presente inevitabile da realizzare.

Non è solo la natura a richiedere un impegno concreto a favore della sostenibilità. È il mercato.

La sensibilità delle aziende nei confronti dei temi ambientali rispecchia infatti la maggiore attenzione del mercato nei confronti del consumo ecosostenibile: è il binomio composto dalle aziende e dai consumatori a creare la giusta sinergia per la sostenibilità ambientale. Le imprese più lungimiranti fanno scelte responsabili, aumentando gli investimenti in efficienza energetica, in riduzione degli sprechi, in qualità delle materie prime, in ricerche di materiali ecologici per gli imballi. Chi lo fa viene premiato dai consumatori, sempre più attenti e disposti a boicottare i marchi irresponsabili.

Occorre senz’altro anche un maggiore impegno da parte delle istituzioni. L’Italia deve fare di più, rispettando le norme e gli

standard ambientali comunitari per essere un Paese più sostenibile e competitivo su scala globale. Servono scelte chiare e ambiziose su fonti rinnovabili, efficienza e risparmio energetico per confermare la decarbonizzazione dell’economia, prevista per il 2025.

Anche la società civile gioca un ruolo fondamentale. Ed è per questo

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ALLEY OOP UN'IMPRESA DA DONNE

che Istituto Oikos da più di vent’anni è impegnato nella promozione della green economy e nello sviluppo di imprese sociali nei paesi del Sud del mondo. Diamo supporto a idee imprenditoriali innovative, capaci di offrire una risposta concreta alla povertà e alla

disuguaglianza, e di generare ricadute positive sull’ambiente. I fatti ci dimostrano che è possibile. Come Ong attiva soprattutto negli

ambienti rurali, in Tanzania, Mozambico e Myanmar abbiamo sostenuto piccole imprese che valorizzano i prodotti della terra o rendono accessibile energia da fonti rinnovabili nei contesti dove la rete elettrica nazionale non arriva. Non solo: abbiamo favorito numerose imprese femminili di ristorazione, che sono state in grado di offrire maggior valore sia alle produzioni agricole locali che alla cucina tradizionale. Concia vegetale e lavorazione della pelle con tecniche naturali, apicoltura, essiccazione di carne e di pesce sono altri settori sui quali stiamo intervenendo.

La nostra strategia nel settore è alimentata anche da una motivazione di fondo: le donne sono le principali alleate della

comunità globale nella lotta ai cambiamenti climatici. 400 milioni di donne producono buona parte del cibo di cui abbiamo bisogno.

Conoscono le esigenze della terra, le tradizioni e le pratiche locali, hanno grandi responsabilità all’interno della famiglia e delle comunità. E possono svolgere un ruolo importante nel rispondere alle minacce di un clima che cambia. Ma la loro voce deve essere più ascoltata, le loro capacità imprenditoriali valorizzate, la loro

autonomia economica promossa. Qualcosa deve cambiare. E in fretta. L’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura globale sotto la soglia di 1,5 gradi, definita dagli accordi di Parigi del 2015 e condivisa dal mondo scientifico, non può essere raggiunto senza riconoscere alle donne un ruolo di maggiore responsabilità e partecipazione.

Le realtà che questa pubblicazione intende valorizzare

rappresentano una grande risorsa, perché dimostrano come crescita ed ecologia possano convergere per rispondere con concretezza e innovazione alla crisi economica, ambientale e sociale che stiamo vivendo. Quando un clima di diffusa sfiducia convive con lo

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PREFAZIONE

9

smarrimento valoriale e una forte disuguaglianza è quanto mai necessario dare speranza, con soluzioni, pratiche ed esperienze positive. Ci auguriamo che questa pubblicazione possa dare un contribuito alla costruzione di quelle fondamenta di conoscenza, esperienza e sensibilità indispensabili per un futuro più equo e sostenibile. Per gli individui, le società e l’ambiente.

(10)

L

o scorso 15 di marzo una ragazzina svedese di 16 anni di nome Greta Thunberg è riuscita a trascinare migliaia di giovani per le strade di 1.700 città, in oltre 100 Paesi del mondo. Ciascuno di loro chiedeva ai grandi un mondo migliore. Ai grandi della Terra, certo. Ma soprattutto agli adulti in generale.

Difficile non deludere questi ragazzi. Eppure, chiunque di noi oggi abbia più di 30 anni ha il dovere di provarci. Ecco, se c’è una definizione di sostenibilità, se c’è un significato giusto per questa parola, è proprio

questo: tentare di dare una piccola, parziale risposta alla legittima richiesta di ogni ragazzo di avere in eredità un mondo migliore. Più pulito,

ma anche più giusto.

Ed è proprio questo, il filo rosso che lega le dieci storie di imprese raccolte in questo ebook: ciascuna donna che le guida ha lo sguardo non

concentrato su di sé, ma diretto verso il futuro. Una attenzione tutta

indirizzata verso chi verrà dopo di loro. Prendiamo Susanna Martucci, che si è inventata una matita prodotta con gli scarti di grafite che dura fino a venti volte di più di un lapis normale. Talmente bella, talmente innovativa, che viene venduta nel design store del Moma di New York ed è presente al Guggenheim di Bilbao. Martucci ha creato anche una polvere sostenibile e

La risposta a Greta

e ai ragazzi che vogliono un mondo migliore

di Micaela Cappellini

INTRODUZIONE

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atossica per il trattamento dei tessuti. Ne ha depositato il brevetto, ma ne ha concesso la licenza di utilizzo a una startup di Millennials: «Loro sono il futuro, è giunto il momento di condividere con gli altri quanto ho imparato»

racconta.

Anche Valentina Passalacqua, che ha lasciato una carriera da giurista d’impresa per produrre vino biodinamico nelle campagne del Gargano, ha lo sguardo tutto concentrato sulle generazioni future: è stato l’arrivo della figlia Giulia, che le ha dato la certezza di volerla crescere là dove era vissuta sua nonna. Tra gli stessi profumi, tra gli stessi valori. Pilastri di ieri che diventano anche i pilastri di domani.

Nel mondo globale di Greta Thunberg, i nostri figli diventano anche necessariamente i figli degli altri. I figli delle donne della Tanzania, per esempio: a 165 di loro Marina Oliver, ideatrice del progetto Maasai Women Art, ha dato un lavoro. E con esso sono arrivate anche migliori condizioni di vita, al villaggio. Perché la sostenibilità è una valigia che tiene dentro di tutto, anche il riscatto sociale. I gioielli prodotti da queste donne Masai vengono venduti dagli Stati Uniti al Canada, dall’Ungheria alla Thailandia, e così dimostrano un altro assioma importante. E cioè che sostenibilità e redditività possono andare a braccetto.

Il reinserimento lavorativo delle donne in difficoltà, per esempio, si può coniugare con le logiche di mercato. Progetto Quid ne è una

prova: centomila capi d’abbigliamento prodotti all’anno, 200mila accessori venduti, un fatturato di quasi tre milioni di euro, collaborazioni con

Calzedonia e Vivienne Westwood. E 115 persone con un passato di disagio sociale a cui un’impresa a tutti gli effetti ha saputo dare una seconda chance.

La sostenibilità è donna? Sì, è soprattutto donna. E non solo perché a rappresentarla per le strade del mondo è stato il volto di una ragazzina svedese. Secondo l’edizione 2019 dell’Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile sponsorizzato dalla Commissione europea e dal ministero italiano dell’Ambiente, su 34 milioni di italiani che hanno a cuore il tema della sostenibilità, la maggior parte sono donne: tra i 35 e i 54 anni, diplomate o laureate, tutte professionalmente attive. Donne agricoltrici e donne designer, donne ingegnere e donne stiliste. Donne come quelle le cui storie trovate in questo ebook.

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ALLEY OOP UN'IMPRESA DA DONNE

«L

o sappiamo ormai molto bene. Abbiamo sottovalu- tato le accelerazioni dello sviluppo a livello interna- zionale e ne stiamo pagando in maniera significati- va i problemi che ne derivano. Non abbiamo concen- trato sufficienti energie per porre rimedio a quanto stava accadendo. Occorre ora una responsabilità collettiva e individuale fortissima per contrastare la situazione superando il business as usual».

Catia Bastioli, amministratrice delegata di Novamont e presidente di Ter- na, non ha dubbi: si deve stare dalla parte dei giovani come Greta Thunberg,

«hanno ragione loro. Condivido i loro ideali e valori e apprezzo la loro vo- lontà di approfondire tematiche complesse come quelle del rapporto IPPC 2018 che dimostrano dati alla mano quanto la situazione non sia sostenibi-

Nome: Catia Bastioli Classe: 1957

Azienda: Novamont

Ruolo: amministratrice delegata

Settore: chimica - settore delle bioplastiche

«Rigenerazione territoriale e

per la cultura

testa nel mondo»

STUDIARE PRODOTTI CHE RISOLVANO PROBLEMI

di Monica D’Ascenzo

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Camminare. Catia Bastioli ama cammina- re e quando può si ritaglia tempo per farlo nel verde.

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ALLEY OOP UN'IMPRESA DA DONNE

le. Basti pensare al rapporto “Limits to Growth”, e ai dodici scenari ipotizza- ti quasi 50 anni fa (1972) con cui si dimostrava per la prima volta l'insosteni- bilità di uno sviluppo che prevedesse un utilizzo illimitato di risorse. E allo- ra, nel 1972 la popolazione era di 3,6 miliardi di persone, oggi siamo 7,5 miliardi al mondo». Numeri e prospettive da cui un imprenditore non può prescindere, secondo Bastioli: «È necessario riconnettere economia e so- cietà con la questione ambientale facendone un elemento di qualità per i territori. L’economia si è modificata nel tempo lasciando crescere business sempre più grandi che hanno generato onde gigantesche gestite con una visione a corto raggio, senza saggezza nella gestione delle risorse. Il movi- mento che ha avuto come catalizzatore Greta è un fatto positivo di stimolo e vanno date risposte serie questa volta, spingendo tutti a dare il proprio contribuire di costruzione, altrimenti il pericolo aumenterà».

Certo una presa di posizione così netta per un’imprenditrice del settore chimico non è scontato. Catia Bastioli è un chimico puro e ne è orgogliosa,

«mi sono occupata però di molti settori diversi partendo dalla scienza dei materiali e connettendola con la bio-chimica l’ingegneria, l’agro cimentan- domi in un intenso esercizio di interdisciplinarità»» sorride. E Novamont nasce da queste composite esperienze: «Novamont è una realtà che nasce in un momento particolare del gruppo Montedison. Gardini ebbe l’intuizione di far dialogare l’agroalimentare con la chimica. All’epoca io ero già respon- sabile di un progetto nel campo dei compositi in Montedison. Mi chiesero di mettere insieme le basi per un team che lavorasse sui materiali da fonti rin- novabili e la strategia per lo sviluppo di nuovi materiali» ricorda Bastioli, proseguendo poi: «Fu un’esperienza importantissima per me: si trattava della terza via di sviluppo del gruppo. Questo progetto da strategico diven- ne ramo secco per il gruppo con la crisi del ’92-93. Allora avremmo potuto demordere, invece, cercammo e trovammo investitori che comprarono il nostro centro di ricerca. Ci trasformammo così in imprenditori, senza soldi, provando a trasformare la ricerca in realtà industriale». Da manager a im- prenditrice, anche se in realtà Bastioli dice di sé di aver sempre interpretato il proprio ruolo con la responsabilità e l’impegno di un imprenditore. «Ho sempre avuto un approccio molto imprenditoriale. Devo costruire le cose e capire la strategia che sta alla base dei progetti. Non riesco a fare una cosa perché detta da qualcun altro. Devo credere in ciò che faccio» ci tiene a sot- tolineare l'ad di Novamont, che deve tutto alla sua «passione pazzesca per la ricerca e per la scienza», anche se poi trova gli spazi per rigenerarsi nelle lunghe passeggiate nel parco del Ticino o ascoltando musica classica e liri-

Credevo che si potesse creare un modello di sviluppo diverso vivendo i prodotti come occasioni per risolvere problemi ambientali e per ridare vita a siti

industriali.

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ca: dal “Mosé in Egitto” di Rossini a “L’elisir d’amore” di Mozart.

D’altra parte passione e determinazione sono state decisive per la costru- zione della sua carriera professionale. Tanto che oggi racconta: «Mio padre mi diceva sempre “sei figlia di nessuno e non è che perché studi troverai qualcuno che ti aprirà delle porte. In un mondo di raccomandazioni non c’è posto per una come te”. Tenendo in mente queste parole, l’idea ora di aver costruito qualcosa contando soprattutto sulle mie forze e su un team di col- leghi che sono cresciuti con me nel tempo , costituisce motivo di soddisfa- zione e di fiducia per il futuro del nostro Paese». E le sfide non sono mai finite per Bastioli, che ama mettersi continuamente alla prova per capire dove può arrivate nella costruzione di qualcosa. Qualcosa che nel caso del- l’impresa non è mai fine a se stesso. «Quando ero ricercatore in Montedison credevo che la scienza e la tecnologia potessero risolvere ogni problema.

Una volta usciti da Montedison mi resi conto che non aveva senso sviluppa- re uno dei tanti nuovi prodotti avrebbe invaso il mondo. Realizzai che si potesse creare un modello di sviluppo diverso vivendo i prodotti come oc- casioni per risolvere problemi ambientali specifici e allo stesso tempo per rivitalizzare siti deindustrializzati» spiega Bastioli, che avendo vissuto la crisi della chimica, con la deindustrializzazione di siti e la perdita di posti di

Ai vertici.

L’imprenditrice è anche presi- dente di Terna.

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Onorificenze.

Nel 2017 è stata nominata Cava- liere del Lavoro dal presidente Sergio Matta- rella.

lavoro, voleva dare «un contributo. Ma per non essere una goccia nell’ocea- no abbiamo bisogno di reti e di connessione. Noi in questi anni abbiamo contribuito a riportare in vita sei siti deindustrializzati, ad esempio ma pos- siamo essere una piattaforma per molti altri come noi. Non si tratta di un viaggio in solitaria». E i margini per crescere con filiere integrate in Italia nella chimica non mancano, considerato che la bilancia dei pagamenti del settore è negativa per 7,2 miliardi di euro all’anno. Magari con una chimica nuova a basso impatto ambientale e collegata al comparto agricolo. E la vi- sione in base alla quale si muove Bastioli integra due aspetti fondamentali di questo sviluppo: «Rigenerazione territoriale e testa nel mondo dal punto di vista culturale». Locale e globale, allo stesso tempo.

Ma qualità, ambiente, salute e sicurezza sono compatibili con la genera- zione di profitti per un’azienda? «I tre pilastri della mission Novamont non solo sono compatibili con la generazione di profitto, sono la sola via compa- tibile con la qualità del lavoro e l'eliminazione degli sprechi. Dobbiamo per forza guardare a prodotti di qualità, che non vadano a creare costi aggiunti- vi per la salute delle persone, che non creino problemi di sicurezza. Nella stessa direzione dovrebbero andare le scelte politiche, altrimenti le impre-

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CATIA BASTIOLI

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se restano isolate. Novamont dimostra che si può crescere e si può restare fedeli a certi principi» sottolinea l'imprenditrice, aggiungendo: «Nel nostro caso, poi reinvestiamo totalmente i profitti in ricerca, tecnologie e impianti, grazie anche ad azionisti pazienti. D'altra parte il profitto di oggi, potrebbe essere il non profitto di domani. L'obiettivo che ci siamo dati è quello di aumentare il valore dell'impresa e per farlo c'è bisogno di innovazione di prodotti, sistemi, nuovi impianti e competenze. Tutto questo richiede grandi fondi. Chi corre di più in questo settore avrà in futuro il ritorno più alto». E Novamont ad oggi può contare 1800 brevetti e domande di brevetti, un capitale non da poco.

In una vita scandita dal kantiano “Io devo”, Bastioli si divide fra riunioni («solo quando servono e mai infinite»), viaggi, problemi da risolvere e tanto da studiare. Perché il segreto è continuare a studiare, continuare ad essere curiosi, continuare a voler conoscere. Anche per dare l’esempio, soprattut- to quando si è in posizione di leadership. «Credo nell’autorevolezza, più che nell’autorità, nei progetti più che nelle funzioni. E credo nella condivisione del progetto più che nell’imposizione» commenta l’ad di Novamont, sotto- lineando inoltre: «Iil nostro ambito è in continua evoluzione e c’è bisogno di persone che abbiano coscienza di questo continuo cambiare vestito. Per questo è necessario un ambiente di conoscenza continua, di sviluppo e apertura al cambiamento di mindset. La sfida è di provare a vivere fuori dalla confort zone di ognuno di noi». E l’azienda non finisce al cancello con l’insegna. L’azienda si propaga sul territorio e nel mondo. Per questo Ba- stioli ci tiene che i 450 dipendenti del gruppo siano «persone che si sentano responsabili anche di ciò che è fuori dall’impresa, perché siamo parte della società e cittadini di questo pianeta e dobbiamo far coincidere questi due aspetti». Ma perché sia così è necessario che il lavoro non sia precario: «una società in cui la dignità della persona è rispettata, compra in modo diverso, consuma in modo diverso. E questo può essere un modello molto adatto all’Italia» precisa Bastioli, che ai giovani, che entrano nel mondo del lavoro, direbbe: «Provateci ma non per la carriera, provateci perché dobbiamo con- tribuire, rigenerare il mondo in cui viviamo. Diamoci da fare perché il pia- neta è anche nostro. Le imprese sono importanti ma la cosa davvero impor- tante è la qualità della vita. Nessuno deve essere escluso. Certo nulla ti viene dato per regalo e sarà necessario lottare per un futuro migliore ambientale e sociale, cercando di andare verso un modello fatto di meno solitudine e più progetti comuni».

Reinvestiamo totalmente i profitti in ricerca e tecnologie, grazie anche ad azionisti pazienti.

D’altra parte

il profitto

di oggi,

credo

potrebbe

rivelarsi

il non profitto

di domani.

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ALLEY OOP UN'IMPRESA DA DONNE

V

icino a Massa Rosa, in provincai di Lucca, Elena coltiva l’euca- lipto. Dai suoi campi, làggiù in fondo, si vede il mare. E dalla costa della Toscana del Nord parte del suo raccolto viaggia per gli Stati Uniti dove diventerà un bouquet di fiori. Irene, invece, coltiva olivello spinoso e melograno, più giù vicino a Bibbona in provincia di Livorno. L’olivello viene potato una volta all’anno invece che ogni 6 mesi, così, dice Irene, riposa di più. Nel campo accanto Rita ha una coltivazio- ne biodinamica di peperoncino. Da loro non si vede il mare, ma quando spira il vento dalla costa ne arriva il profumo.

Nascono qui, fra terra mare e colline, i principi attivi di Biofficina Toscana, che sanno di storia e scelte di vita. Come le scelte che hanno fatto Eva Casagli e Claudia Lami, le fondatrici dell’azienda di cosmetica conosciuta da chi preferi-

Nome: Eva Casagli e Claudia Lami Classe: 1975 e 1980

Azienda: Biofficina Toscana

Ruolo: amministratrici marketing /ricerca e sviluppo Settore: cosmesi

«Puntiamo a creare una bellezza

che sia sostenibile

anche per l’ambiente»

LA MAGIA DEI PRINCIPI ATTIVI A KM 0

di Letizia Giangualano

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In laboratorio.

Claudia Lami in un momento di ricerca per Biofficina.

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ALLEY OOP UN'IMPRESA DA DONNE

sce prodotti che rispondano a caratteristiche di sostenibilità ambientale. Era il 2009 quando Eva e Claudia si sono conosciute. Allora il settore in Italia era agli albori e «la vendita avveniva prevalentemente online, le certificazioni doveva- no ancora essere regolamentate, mentre all’estero, per esempio in Germania, il mercato era già piuttosto sviluppato», come ricorda Casagli. E il primo incon- tro tra le due donne è avvenuto proprio online, su forum specialistici. Lami sta- va compiendo ricerche per la sua tesi di laurea in scienze ambientali, mentre Casagli, anche lei ricercatrice ma in ambito umanistico, stava cambiando i pro- pri gesti quotidiani per rispettare l’ambiente e la natura. Una comunanza di interessi che ha portato a un’amicizia prima e a un progetto imprenditoriale poi, che prima di diventare un business plan è stato un’officina, un laboratorio.

Un luogo in cui immergere le mani negli ingredienti alla ricerca di qualcosa che va al di là della formula racchiusa nel cosiddetto inci, la carta di identità del co- smetico. Cosa cercavano? «Se fino ad oggi la cosmesi naturale si è distinta fa- cendo leva sui senza (senza parabeni, senza siliconi eccetera), è il momento di cominciare a mettere in risalto i con: quello che davvero compone i prodotti».

Lami si riferisce all’intero sistema di produzione, che deve rispettare parame- tri tutt’oggi non del tutto regolamentati dai sistemi di certificazione. Per esem- pio l’assenza di solventi chimici nel prodotto finale come nell’intero processo di sintesi, la realizzazione di un packaging di facile smaltimento, la scelta di materie prime di provenienza biologica/biodinamica.

Da qui nasce l’idea di creare Biofficina Toscana: la linea di prodotti che le due imprenditrici desideravano e rispondeva ai loro personali requisiti di coeren- za e sostenibilità, ma che non trovavano sul territorio. Una volta visualizzata l’idea, hanno intrapreso la strada della formazione imprenditoriale: corsi alla camera di commercio, analisi della fattibilità, potenzialità di sviluppo. Per un anno hanno studiato se e come realizzare il progetto, ricevendo una spinta de- finitiva da un finanziamento a tasso agevolato rivolto all’imprenditoria giova- nile, femminile e a progetti a basso impatto ambientale, voluto da Fidi Tosca- na, organizzazione regionale.

Oggi Biofficina è un’azienda piccola, ma è cresciuta: dalla prima assunzione nel 2014 il nucleo iniziale ha raggiunto dieci dipendenti; fa uso di un servizio di logistica esterno con 3 persone dedicate; creava le proprie formulazioni in un laboratorio esterno e da quest’anno ne ha uno interno; da un box di 10mq è passata a un magazzino di 600mq. Sono piccoli numeri se confrontati con quelli di realtà più affermate, accanto alle quali troviamo comunque il marchio di Biofficina Toscana in termini di credibilità. Non è tanto che le due imprendi- trici pensino in piccolo: hanno fatto del legame con il territorio un’ulteriore

Comprare

l’estratto di

calendula già

pronto è

diverso

dal parlare

con chi la

coltiva e

ti spiega

che dal

momento che

sta piovendo

bisogna

rinviare la

raccolta.

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istanza di coerenza rispetto al tema della sostenibilità ambientale. La valoriz- zazione del luogo e della biodiversità avviene attraverso l’uso di materie prime locali, a km zero, e la creazione di un rapporto diretto con i piccoli produttori selezionati che forniscono olio, miele, peperoncino, calendula, melograno, elicrisio. «Il rapporto con i coltivatori locali riavvicina ai ritmi della terra. Com- prare l’estratto di calendula già pronto è diverso dal parlare con chi la coltiva e spiega che siccome sta piovendo bisogna rinviare la raccolta. Così vengono po- sti dei limiti e si è costretti a rispettare l’ambiente, la fioritura, osservare ciò che accade. Se il raccolto è stato povero, produrremo un’edizione limitata. Non tut- to è riproducibile in serie. La cosmesi ha a che fare con la terra, dobbiamo entra- re in quest’ottica» spiega Lami. Per loro dunque il messaggio legato all’am- biente va di pari passo con il favorire le piccole attività locali e valorizzare il patrimonio naturalistico. Proprio perchè i piccoli produttori, non essendo schiavi delle quantità, pongono un’attenzione maggiore verso le loro coltiva- zioni, rispettando con passione quella medesima terra che lavorano.

Cura è una parola chiave in questo progetto imprenditoriale: Lami e Casagli non hanno selezionato solo le materie prime, ma anche il laboratorio in cui gli ingredienti vengono manipolati e trasformati. Recentemente è entrata nello staff una formulatrice dedicata, che viene da una multinazionale. Ma cosa vuol

Il territorio.

Conoscere i produttori locali è una priorità per Eva Casagli

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Ricerca.

Eva Casagli e Claudia Lami insieme in laboratorio

dire fare ricerca nella cosmesi ecobio? Per esempio, dai frutti rossi delle colline lucchesi, hanno ricavato un estratto esclusivo, il Rubiox, grazie alla collabora- zione con una startup che ha brevettato un processo di estrazione a freddo, che recupera scarti alimentari, come vinaccia e sansa, quest’ultima estremamente inquinante. «Un prodotto nuovo per noi è una creatura» racconta Casagli, che spiega: «è curato dall’ideazione, alla ricerca delle materie prime, ai test, alla profumazione. Ognuno ha la propria competenza ma tutto è concertato insie- me. Nelle grandi aziende i processi sono codificati, nel piccolo si ha la possibili- tà di conoscere profondamente il metodo, la passione e la storia che ogni pro- dotto racconta».

Biofficina Toscana, nata nel 2010 con 12 referenze, oggi ha puntellato il mer- cato non solo italiano e non solo europeo, ma ha raggiunto anche gli Stati Uniti, Hong Kong, Taiwan, il Sudafrica. Si rivolge a una fascia di mercato medio-alta e punta a mostrare coerenza anche nella scelta dei canali di vendita: resta fuori dalla gdo, per poter mantenere una qualità alta anche nel contatto con il consu- matore, formando i rivenditori a conoscere il prodotto. «Pensa globale, agisci locale»: questa frase del biologo Patrick Geddes è una delle citazioni scelte dal- le imprenditrici per rappresentare il loro lavoro. «Ogni piccolo gesto ha un im-

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EVA CASAGLI E CLAUDIA LAMI

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patto sul mondo. Si parte da un punto e da lì si sviluppa il lavoro con cura, impe- gno e coerenza, in base alle proprie possibilità» sottolinea Casagli. Se dunque da un lato cercano di monitorare tutto il processo, dall’altro si scontrano con l’effettività della realizzazione o con lo stato dell’arte della ricerca. Per ciò che riguarda il packaging, ad esempio, la discussione è aperta. La scelta è minimal:

niente scatole, depliant o astucci esterni. Le serigrafie adottate inizialmente per personalizzare i flaconi sono state sostituite da etichette riciclabili col fla- cone stesso, realizzato in pet biobased, una bioplastica ottenuta con gli scarti della lavorazione della barbabietola. Una scelta costosa, ma spiega Lami che su alcuni aspetti considerati prioritari sentono di dover forzare la mano. «Cer- chiamo di fare scelte consapevoli, ma sappiamo che sono in ogni momento perfettibili. Oggi è più che mai chiaro che c’è un’urgenza ambientale, ma non è chiara la direzione che dobbiamo prendere. Siamo tutti pionieri che navigano a vista cercando nuovi studi, dati, direzioni possibili. Dobbiamo essere vigili e disposti a metterci in gioco».

Ed è vero che non si possiedono ancora conoscenze adeguate dell’impatto ambientale dei cosmetici: secondo uno studio di Adnkronos del 2015, gli effetti degli ingredienti che li compongono restano un’incognita per il 90%. Non si tratta solo della plastica dei flaconi. Attraverso le acque di scarico urbane, ecci- pienti e principi attivi raggiungono l’ambiente. Si consideri poi che la cosmesi ecologica come segmento di mercato sta seguendo un trend di crescita. Il Be- auty Report 2018 curato da Cosmetica Italia con il contributo di Ermeneia, af- ferma che il fatturato del settore in Italia vale quasi un miliardo di euro, circa il 10% dei consumi totali. A livello globale, si parla di una cifra che si aggira attor- no ai 45,8 miliardi euro. Sul totale dei prodotti immessi sul mercato nel 2018, circa la metà erano prodotti naturali. La cosmesi naturale è un dato economico, non si può considerare una moda passeggera: sono 6 le tonnellate giornaliere di prodotti cosmetici immessi sul mercato, e una buona parte di questa massa finisce nelle acque. Ecco perchè Eva Casagli afferma: «La nostra logica impren- ditoriale si basa su un assunto: vogliamo che la bellezza sia sostenibile. Il co- smetico è frivolo, ma può assumere valore se diventa ecosostenibile».

Prendersi cura dell’ambiente non dovrebbe essere una virtù eccezionale, ma dovrebbe far parte della natura umana, un’urgenza che conduce il percorso di evoluzione della specie, secondo le due imprenditrici. E questo spiega la scelta della seconda citazione voluta da Biofficina Toscana per rappresentare i propri valori imprenditoriali. Una frase dello psicologo Daniel Goleman: «La cura dell’ambiente non è un movimento o un’ideologia. È il nostro prossimo gradi- no evolutivo».

Nelle grandi

aziende

i processi

sono

codificati,

nelle imprese

più piccole

si ha la

possibilità di

conoscere

il metodo di

sviluppo,

la passione e

la storia che

ogni prodotto

racconta.

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ALLEY OOP UN'IMPRESA DA DONNE

«P

roudly made in Modena». Questo claim campeggia su Livia Cevolini e una delle sue moto elettriche, in una fo- tografia. Entrambe fiere, forti, moderne. Una scelta di parole perfettamente azzeccata, perchè nella storia di Livia Cevolini imprenditrice c’è sì tanto orgoglio, ma anche un gran senso di appartenenza, territoriale e familiare, una consapevo- lezza dei legami che ha sicuramente contribuito con forza a portarla dove è oggi.

Un percorso in qualche modo già delineato, dato che Livia è figlia di due ge- nerazioni di imprenditori-innovatori, spesso definiti anche inventori, per la vocazione all’innovazione che hanno sempre dimostrato. Il nonno e il papà di Livia sono i fondatori del gruppo Crp: un punto di riferimento per la tecnologia legata al mondo del racing che, tra le altre cose, da più di vent’anni ha comincia-

Nome: Livia Cevolini Classe: 1972

Azienda: Energica Motor Company Ruolo: amministratore delegato Settore: moto elettriche

«Sviluppare

tecnologia non fine

a se stessa, ma per fare del bene al mondo»

INGEGNERIA DAL CUORE AMBIENTALISTA

di Letizia Giangualano

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All’estero. Livia Cevolini, CEO Energica Motor Company, on Energica Ego 45- Maggio 2014,

“Where is my EGO Tour”, Monaco di Baviera.

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ALLEY OOP UN'IMPRESA DA DONNE

to l’esplorazione della stampa 3D. Ma anche quando la strada sembra spianata, a certe scelte si arriva con un percorso fatto di dubbi e consapevolezza, alla ri- cerca del proprio modo di stare in un mondo già costruito. Con Energica Motor Livia Cevolini si è spinta a vele spiegate in un luogo da esplorare, per di più dalle connotazioni tradizionalmente più maschili che femminili. Servono coraggio e fiducia in se stessi per affrontare un progetto simile, e quindi una certa dose di consapevolezza dei propri limiti e attitudini.

«Inizialmente avevo altre idee, - racconta Livia - sono sempre stata appassio- nata di arte, ed era quello il campo in cui avrei voluto lavorare. È stata mia mam- ma a farmi riflettere sul fatto che io avevo sempre dimostrato una propensione alla leadership e al coordinamento. Mi fece venire voglia di provare a mettermi in gioco con l’azienda di famiglia, a prepararmi per sfruttare le mie doti al me- glio. Fu illuminante per me, perchè non ci avevo mai pensato in questi termi- ni». Grazie alle parole giuste dette al momento giusto, Livia Cevolini decide di iscriversi alla facoltà di ingegneria dei materiali, e vive gli anni dello studio uni- versitario come una sfida continua: le materie sono difficili, non è una facoltà in cui ci si diverte o si vive un clima di leggerezza, tutti sono focalizzati sul per- corso e sul raggiungimento di obiettivi che richiedono grande concentrazione.

Ma sarà per il suo bagaglio culturale, il momento decisivo in cui entra nel flusso e comincia ad amare davvero la materia, è l’incontro con il disegno industriale:

l’approccio tecnico, meno teorico, la possibilità di vedere applicazioni concre- te e utili, fanno crescere il suo entusiasmo.

Perchè Livia è una persona concreta e orientata al risultato. La sua personale visione del fare impresa è profondamente legata al mondo familiare e alla ne- cessità di risolvere problemi per migliorare la vita di tutti. «Ricordo che da bambina quando guardavamo le corse tutti insieme c’era una grande emozio- ne. E a me colpiva il fatto che tutte le persone che mi circondavano e le loro famiglie vivessero grazie al lavoro in azienda, e che tutti fossero coinvolti nei successi come un risultato raggiunto insieme».

Se dunque il giorno dopo la laurea è già in azienda ad affiancare il padre, in poco tempo dovrà affrontare una scelta che richiede grande coraggio. Dopo la crisi del 2008 l’azienda si trova a perdere circa l’80% del fatturato in pochi mesi.

Livia lo racconta così: «In quel momento si aprivano due strade davanti a noi:

potevamo sopravvivere al momento, oppure investire tanto in qualcosa di completamente nuovo e innovativo. Abbiamo scelto la seconda via, una scelta legata alla volontà e capacità di vedere dove gli altri non vedevano».

Questi sono i presupposti con cui è nata Energica Motors: Livia e suo padre colti- vavano da tempo una fantasia legata ai motori elettrici. Già affascinati dal primo

Dopo la crisi del 2008 potevamo sopravvivere al momento, oppure investire tanto in qualcosa di completamen te nuovo e innovativo.

Abbiamo

scelto la

seconda via.

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modello di Tesla, pensavano a come integrare quell’esperienza così innovativa e rivoluzionaria sotto molti punti vista, nel loro personale know-how. Pensavano a una macchina da corsa elettrica. Il progetto non andò avanti, ma nel tempo questa possibilità era rimasta nei loro pensieri. Ecco perchè con la crisi Livia sente che è arrivato il momento di giocare le sue carte con audacia: se il mercato sta cambian- do, lei vuole apportare la sua personale sfida per contribuire al cambiamento. Un cambiamento che lei intravede nei motori elettrici.

«Quello che ci interessava era scegliere qualcosa di nuovo che ci permettesse di fare un percorso dal punto di vista tecnico mettendoci del nostro. Nella mia personale vocazione all’innovazione non c’è solo la voglia di implementare dal punto di vista tecnologico, ma anche un filo di romanticismo: io sono sempre stata innamorata della natura, e per me quindi innovare è una sfida in cui coin- volgere altre persone nel fare tutti insieme qualcosa che nessuno ha mai fatto prima e che possibilmente faccia anche del bene. Perchè arriva il momento in cui capisci che se sviluppi qualcosa che non è tecnologia fine a se stessa ma fa anche del bene al mondo che ti circonda, allora hai fatto uno step in più».

Livia Cevolini sa però benissimo che non è con il romanticismo che si sedu- cono i mercati: per motivare i clienti e la sua stessa famiglia l’elemento vin- cente è quello tecnologico.

Modena style.

Livia Cevolini, ceo di Energica Motor Com- pany

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R&D. Livia Cevolini punta sull’innovazione tecnologica nel rispetto dell’ambiente.

La moto da corsa eCRP, prima versione di una moto elettrica da competizio- ne creata dal gruppo Crp, è stata vicecampione del mondo nel 2010 e nel 2011.

Dopo due anni di gare, viene concepita la versione da strada e nel 2014 nasce Energica Motor Company, di cui Livia Cevolini è co-fondatrice e amministra- tore delegato. I modelli in commercio sono la supersportiva Ego e la streetfi- ghter Eva. Nel 2016 la società viene quotata in Borsa.

Ma per Livia l’obiettivo è vicino ma non ancora raggiunto: «Non è soltanto raggiungere il break even point a garantire la sostenibilità di un’azienda. Nel nostro caso si dovrà creare un substrato funzionale, che agisca anche su pa- rametri culturali». A cosa si riferisce è facile comprenderlo: basta guardare cosa accade in quei Paesi in cui i motori elettrici sono una realtà consolidata.

La Norvegia, per esempio, negli ultimi 20 anni ha costruito una rete elettrica nazionale che oggi permette un approvvigionamento fino al 90% da fonti rinnovabili, tra idroelettrico, eolico e fotovoltaico. Quello che viene definito

«il miracolo norvegese», in una nazione che già nel 2015 ha inaugurato navi ad alimentazione elettrica, si spiega con una percentuale del 52% delle nuove immatricolazioni di vetture elettriche pure o ibride in senso stretto: la quota di full electric ammonta al 21%, quella delle full hybrid al 29%. In contempo-

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LIVIA CEVOLINI

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ranea, le vendite di automobili diesel sono vorticosamente scese, da un tasso del 31% nel 2016 al 23% nel 2017. L’Olanda invece ha avviato nel 2016 un iter legislativo con cui prevede entro il 2050 di raggiungere l’obiettivo di vendita esclusiva di auto a emissioni zero. Ma per come stanno andando le cose pare ci si arriverà molto prima. Ci sono anche altri Stati che possono vantare un modello virtuoso sul trasporto elettrico, per esempio la Cina. «È impensabile raggiungere i parametri di questi Paesi senza un intervento lungimirante.

Basta un clic, basta che i mercati si rendano conto di quanto può essere sem- plice acquisire questi veicoli nell’uso quotidiano, ma in Italia serve una regia che permetta di attivare delle condizioni di contorno: la diffusione delle strutture di ricarica, l’usabilità delle app per rintracciarle, un metodo unico di pagamento, la mappatura con Google Map delle strutture di ricarica, una diversificazione dei veicoli che soddisfi le esigenze di tutti. Quando tutte queste condizioni saranno si allineate, l’elettrico vincerà per forza, e sarà un bene per tutti».

Ciò che sorprende nella storia e nelle parole di Livia Cevolini, è il suo modo di guardare avanti con la consapevolezza del pioniere solitario. Parla della neces- sità di un cambiamento culturale per metabolizzare l’usabilità dei motori elet- trici, mentre nella sua quotidianità di imprenditrice si scontra con ben altri problemi culturali: il preconcetto, ad esempio, che la relega nella posizione della pr, o peggio dell’ombrellina, negli stand fieristici. Perchè Livia è anche una bella giovane donna, ed è endogeno l’atteggiamento di chi si avvicina a lei per chiederle adesivi del marchio mentre si guarda attorno cercando una figu- ra maschile a cui chiedere informazioni tecniche sulla moto. Ma questa non è una battaglia che è interessata a combattere. «Per me - dice - è importante an- dare avanti e dimostrare con i fatti la qualità e l’importanza del mio lavoro. Ci sono cose per cui non ha senso continuare a lottare: se qualcuno fatica a darmi un attestato di stima solo perchè sono una donna, non è un problema mio, è un problema suo». È così in fondo che avvengono i cambiamenti: con i gesti con- creti di chi ha una visione sul futuro, di chi ha una vocazione naturale all’inno- vazione, di chi crede così tanto in ciò che immagina da farlo diventare quotidia- nità, così semplice e fattibile da renderla accettabile per tutti. Come quando, durante il periodo dell’allattamento della sua bimba di poco più di un anno, Livia Cevolini organizzava le riunioni del suo staff a casa sua. Perchè si può essere sia mamma che imprenditrice, una cosa non esclude l’altra. «Ognuno - dice - deve trovare la propria forma di felicità, la dimensione in cui prova soddi- sfazione e che fa bene anche ai componenti della propria famiglia. Si tratta di una ricerca da fare con sensibilità e fiducia in se stessi».

In Italia si

dovrà creare

un substrato

funzionale,

che agisca

anche su

parametri

culturali,

perché

l’elettrico

vinca. E

quando

questo

succederà

sarà un bene

per tutti.

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ALLEY OOP UN'IMPRESA DA DONNE

E

mancipazione femminile. Valorizzazione del microcre- dito. Sostegno alle situazioni di fragilità. Sono questi i tre pilastri della visione imprenditoriale di Anna Fiscale, ideatrice e fondatrice di Progetto Quid, un’impresa so- ciale con sede a Verona che produce 100mila capi d’abbi- gliamento e 200mila accessori all’anno, dando lavoro ad oggi a 115 di- pendenti. In realtà, ai primi tre se ne deve aggiungere un quarto, non meno importante, rappresentato dalla sostenibilità ambientale. Pro- getto Quid è un’azienda di moda: il cuore del suo business è la trasfor- mazione dei tessuti e il reinserimento lavorativo di donne in difficoltà, coniugando bellezza e logiche di mercato. La chiamano “second choi- ce”, una seconda vita per stoffe di qualità, prodotte e stampate rigorosa-

Nome: Anna Fiscale Classe: 1988

Azienda: Progetto Quid

Ruolo: founder e amministratrice delegata Settore: tessile/moda

«A second choice

per tessuti di qualità e persone

con fragilità»

PROGETTO QUID, IL MARCHIO DELLA MODA ETICA

di Enza Moscaritolo

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In sartoria. Francesca Sartori, una collaboratrice di Progetto Quid

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ALLEY OOP UN'IMPRESA DA DONNE

mente Made in Italy che non sarebbero state più utilizzate o in ecceden- za – recuperate grazie ad una rete di brand partner selezionati - e per le persone, che tornano in pista, con una nuova occasione che le rimetta in pari con la vita, persone che alle spalle hanno un passato di disagio so- ciale, di fragilità, di incertezza.

Progetto Quid è oggi una realtà che procede a grandi passi: nell’ulti- mo anno ha quasi raddoppiato il numero dei dipendenti tra contratti a tempo determinato, indeterminato, tirocinio o apprendistato. Ha chiuso il 2018 con un fatturato di 2,8 milioni di euro e ha attualmente all’attivo diverse collaborazioni importanti come quelle con il Gruppo Calzedonia, il Gruppo Natura Sì, Vivienne Westwood, Kiko, Garda- land. Conta sei negozi diretti e un centinaio di negozi multimarca in tutta Italia.

Era il 2012 quando Anna Fiscale decise di condividere la sua idea con un gruppo di amici, giovanissimi come lei. Un’idea che matura dopo un percorso che ha avuto inizio ai tempi dell’università alla facoltà di Economia, quando aveva approfondito esperienze come il microcre- dito in India o l’aiuto umanitario ad Haiti e i suoi valori di riferimento provenivano direttamente dalle attività di volontariato praticate e dai tempi degli scout. Ma c’è dell’altro. È una sua vicenda personale a spin- gerla in questa direzione, a darle la motivazione per mettere in piedi quest’azienda. Una laurea a pieni voti, un curriculum inattaccabile, una carriera proiettata nelle relazioni internazionali eppure Anna Fi- scale non riesce a esprimere se stessa pienamente, con tutte le sua ca- pacità e potenzialità: «Un episodio della mia vita privata mi ha fatto riflettere sul fatto che avrei voluto fare qualcosa in particolare per le donne in condizioni di fragilità perché io stessa ho provato sulla mia pelle questa sensazione. Uscendo da una relazione che mi aveva molto ferito, quasi paralizzata nella mia capacità di scelta autonoma, ho cre- ato Progetto Quid perché fosse un’occasione di riscatto per donne con vissuti di fragilità».

All’inizio sono cinque le persone che Anna coinvolge per provare a tradurre in pratica quest’idea. L’entusiasmo è notevole di fronte ad un progetto che dimostra di coniugare ambiti così diversi come la moda, il sociale e la sostenibilità economica. Dapprima nasce l’associazione verso la fine del 2012. Nel 2013 viene costituita la cooperativa sociale di tipo B che si occupa dell’inserimento lavorativo di persone con fragilità.

Le fasi di startup e di progettazione hanno richiesto, però, diversi mesi

La società ha chiuso il 2018 con un

fatturato di

2,8 milioni e

conta diverse

collaborazioni

con il gruppo

Calzedonia, il

Gruppo

Natura Sì,

Vivienne

Westwood,

Kiko,

Gardaland.

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ANNA FISCALE

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e per questo, nel frattempo, alcuni hanno preferito prendere altre stra- de. Del team iniziale oggi sono rimasti in due, Anna Fiscale appunto, che ricopre il ruolo di amministratrice delegata e presidente, occupan- dosi anche di tutta la parte commerciale, di comunicazione e di relazio- ni istituzionali, e Ludovico Mantoan, anch’egli amministratore delega- to con le deleghe amministrative e finanziarie.

L’idea che Anna Fiscale ha di questo progetto e di quest’azienda non è massimizzare il profitto a tutti i costi, bensì l’impatto per creare sempre nuove occasioni di lavoro, far crescere l’azienda insieme ad una mag- giore sensibilizzazione dell'opinione pubblica. «Il nostro intento è rea- lizzare prodotti belli e soprattutto accessibili a tutti – spiega - dando vita a contenuti moda accattivanti che si differenziano dal prodotto che si associa di solito alle linee charity. Vogliamo un prodotto bello quanto quello for profit, ma che abbia alle spalle una bella storia da raccontare».

Il modello costruito ribalta quello che è lo schema tipico della produ- zione nella moda: a Progetto Quid vengono confezionati capi e acces- sori a partire dai tessuti reperiti, mentre nelle aziende di moda “tradi- zionali” normalmente accade il contrario, lavorando in anticipo sulle collezioni, programmando e scegliendo i tessuti da mettere in produ- zione. Una bella sfida, non c’è che dire. Ancor più avvincente, se si pensa che stiamo parlando di un settore altamente competitivo come quello della moda, e di un mercato dove spesso è difficile far percepire il valore aggiunto che è dato dalla sostenibilità ambientale e dall’inclusività so- ciale. Quel valore aggiunto Anna Fiscale l’ha chiamato “Fragility Factor” in uno speech al TedX sul Lago di Como a fine 2017, per spiegare la capacità di trasformare un elemento di fragilità in un punto di forza, di far prendere una nuova direzione ad un’esistenza incagliata nelle difficoltà della vita. In fondo, è lei stessa a definirsi «Un’imprenditrice di fragilità», che considera un fattore ancora inesplorato e indefinito, nella vita come nell’azienda. Dunque, un punto di vista capovolto. Ha sostituito la parola “debole” con la parola “fragile”. Ha tolto la parola

“contro” per far emergere i “pro”. Non solo ha rovesciato il paradigma della fragilità umana, ma anche quello della fragilità ambientale, consi- derata un’opportunità. «Valorizziamo quei tessuti che l’industria della moda non avrebbe più utilizzato e che sarebbero andati distrutti, così come consideriamo una risorsa le persone con invalidità, o che proven- gono da un passato di dipendenze o di carcere» precisa. Progetto Quid nasce da una fase temporanea di incertezza per concretizzarsi in un

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Team. A sini- stra una model- lista di Progetto Quid, Valeria Valbusa. Al centro Anna Fiscale.

progetto imprenditoriale che valorizza la fragilità umana e quella am- bientale, creando empatia e sviluppando impatto, proprio per usare le parole di Anna. È questo il motivo per cui ha deciso di avviare Progetto Quid: dare a donne con un passato di fragilità un’occasione di riscatto.

Qualche anno fa hanno aperto un laboratorio in carcere, per fare for- mazione nella sezione femminile del penitanziario di Verona. In quella sede hanno conosciuto una ragazza molto in gamba che, terminato il periodo di detenzione, è entrata a far parte del laboratorio. «È una per- sona molto intraprendente – aggiunge - e oggi è fra le responsabili della logistica. Veniva da una storia di fatica, a causa di uno sbaglio commes- so in passato: pensare che è passata dal carcere a essere una delle figure chiave della nostra realtà è motivo di orgoglio e soddisfazione per noi, e ciò può fare sicuramente la differenza». Anche un’altra storia ritorna nelle parole di Anna, quella di una ragazza segnalata dai servizi sociali perché vittima di tratta e scappata dalla strada. È approdata a Progetto Quid con un tirocinio e oggi ricopre un ruolo chiave nello smistamento del tessuto tagliato che arriva e che poi diventa confezionato per diven- tare un capo di abbigliamento. Una di queste due ragazze oggi è sposata

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ANNA FISCALE

35

ed è riuscita a ritagliarsi la sua quotidianità fatta di cose belle, di rappor- ti sani. Un volano positivo nato grazie all’inserimento in Quid: «È molto bello vedere nascere questi frutti sia a livello lavorativo che personale, dato che provengono da situazioni di profondo disagio» prosegue.

Non è stato sempre un percorso facile, e non lo è tuttora. Soprattutto perché quel valore aggiunto che Anna Fiscale porta avanti va compreso, conosciuto, quasi toccato con mano per essere apprezzato. È quel

“quid” in più che ha dato il nome a tutto il progetto. Proprio il nome

“Progetto Quid”, nato da un brainstorming dei primi tempi di speri- mentazione, esprime al meglio la filosofia aziendale, tiene insieme le diverse anime – dalla sostenibilità ambientale all’inclusività sociale, dall’etica alla moda - come fa la molletta del logo, simbolo di forza e fragilità allo stesso tempo. Ma qualcosa sta cambiando per fortuna. Più o meno come è accaduto nel settore food, dove è in aumento la platea di consumatori e di aziende che si rivolgono al biologico, così anche nella moda cresce la consapevolezza che è necessario avere un prodotto di qualità e che sia frutto di logiche diverse, con un nuovo bagaglio valo- riale che fa bene a se stessi e all’ambiente. «Lo verifichiamo tutti i giorni in prima persona – commenta Anna Fiscale - e con le aziende con cui collaboriamo: riscontriamo una maggiore sensibilità e disponibilità nella volontà di creare un prodotto condiviso. Nel caso di Vivienne We- stwood, ad esempio, con cui abbiamo realizzato “Progetto Quid for Vi- vienne Westwood”, c’è stata la volontà di valorizzare un progetto di co- branding che mettesse in luce come il mondo del profit e del no profit potessero collaborare insieme per fare la differenza nella nostra socie- tà. Ne è nata una capsule collection di fasce per capelli, partendo dalle loro rimanenze, tutte realizzate a mano in jacquard e stampati di seta».

Per il futuro Anna Fiscale punta ad arrivare a 500 dipendenti, a repli- care il modello imprenditoriale in diverse città italiane per essere di supporto al ramo centrale, sempre tenendo a mente il focus dell’inseri- mento lavorativo di persone con fragilità, e magari aprendo altri labo- ratori nelle carceri. «Ci piacerebbe riuscire ad affermare il marchio Pro- getto Quid come il principale marchio di moda etica in Italia e magari anche in Europa - conclude - e avere numerose collaborazioni di co- branding con realtà di moda italiane che investono e credono nel nostro progetto, in questa sinergia tra profit e no profit. L’obiettivo è che di- venti di massa e che esca dal concetto della moda etica di nicchia per raggiungere il grande pubblico ed essere più mainstream».

Valorizziamo i tessuti che l’industria della moda non avrebbe più utilizzato, così come consideriamo una risorsa le persone con invalidità, o che

provengono

da un passato

di dipendenze

o di carcere.

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ALLEY OOP UN'IMPRESA DA DONNE

«C

i sono momenti in cui si procede a lacrime e san- gue, pane e acqua. Ma valeva la pena provarci».

Parlano chiaro gli occhi di Alessia Guarnaccia, prima ancora del suo curriculum e della sua sto- ria di ricerca e di impresa. E dicono che in quel

“provarci” c’è una forza che contempla il fallimento, sì, ma come ultima opzione e solo per ricominciare più determinati di prima verso un obiet- tivo che rappresenta una visione del mondo.

Napoletana, laurea in architettura all’Università degli Studi di Napoli

“Federico II”, dottorato di ricerca in tecnologia dell’architettura con cor- relazione in ingegneria dei materiali, Alessia Guarnaccia nel 2010, tre mesi dopo aver conseguito il phd, fonda Pandora Group, società che si

Nome: Alessia Guarnaccia Classe: non vuole dirlo Azienda: Pandora Group Ruolo: founder

Settore: materiali da costruzione

«L’innovazione

sta anche nell’incontro fra imprese di età e

dimensioni diverse»

QUANDO IL CAPITALE È NEI BREVETTI

di Elena Delfino

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I brevetti. Alessia Guernaccia in un momento di

concentrazione prima di una presentazione.

(Foto di Cesare Mariani)

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ALLEY OOP UN'IMPRESA DA DONNE

dedica alla trasformazione di scarti e rifiuti in pannelli sandwich. Si tratta di strutture modulari che hanno diversi campi di applicazione, dalla rea- lizzazione di treni, aerei, barche, all’impiego nell’edilizia come pavimen- ti galleggianti, separatori, moduli abitativi. Il termine “sandwich” de- scrive due pelli esterne, che possono essere anche in scarti di vetroresina, alluminio e gres, e un cuore costituito da uno strato di materiale riciclato.

Il primo materiale su cui si è stata svolta la sperimentazione di recupero e riutilizzo è il plasmix, quel quaranta per cento circa dell’inorganico del- la campana di plastica che di solito finisce in discarica o viene incenerito.

«In pratica – spiega Guarnaccia - utilizziamo gli scarti in un’ottica di eco- nomia circolare e lo facciamo attraverso un processo a sua volta ecoso- stenibile».

Alessia Guarnaccia ha mosso i suoi primi passi, e ha poi proseguito il suo percorso, camminando sul crinale tra architettura e ingegneria dei materiali, ricerca e industria, estetica e funzionalità, in una prospettiva interdisciplinare che include la circolarità come approccio. Ed inseguen- do un’idea che si è “scolpita”, per usare le sue parole, un pezzo via l’altro, una scelta dopo l’altra.

Fare impresa è stato il gesto che le ha permesso di incidere sulla realtà nel modo più definitivo. Ma lo ha fatto senza una preparazione specifica.

«L’imprenditoria per me è stata la declinazione più naturale di opportu- nità e visione. Non sono figlia di imprenditori – racconta -. Pandora non era lo spin off di un’università e non disponevo di capitali da investire. La sfida più difficile, oltre alla burocrazia, è stata proprio quella di essere una pioniera nella mia famiglia, di capire, senza avere un background culturale o di vita a supporto, quali fossero gli interlocutori giusti».

Alessia Guarnaccia scoprirà invece di averlo, un capitale, anche se im- materiale: «Nel 2009 avevo conseguito due brevetti di prodotto e di pro- cesso. Il primo passo concreto per la costituzione della mia società è stato possibile quando un centro di ricerca mi ha chiesto la disponibilità di ri- spondere ad un bando europeo, co-finanziato al 50 per cento da una agenzia della Commissione Europea, utilizzando proprio uno di quei brevetti. Ho accettato e ho costruito il progetto con cui la mia società, nel 2011, ha partecipato e vinto a Bruxelles il bando europeo “CIP ECO-IN- NOVATION-first application and market replication projects” dell’Agen- zia della Commissione Europea EACI- Executive Agency for Competiti- veness and Innovation».

Il progetto era del valore di 1 milione e 800mila euro ed è stato realizza-

L’imprenditoria per me è stata la declinazione più naturale di opportunità e visione. Non sono figlia di imprenditori.

Pandora non

era lo spin off

dell’università

e non avevo

capitali da

investire.

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to insieme a un gruppo internazionale che includeva centri di ricerca e altre piccole e medie imprese. «Questo è stato il boost finanziario di Pan- dora, l’iniezione di capitale che ci ha permesso di avere una partenza, e di averla da subito in una prospettiva internazionale. Gli altri Paesi coinvol- ti, oltre all’Italia, erano Spagna e Albania».

Pandora Group, nata inizialmente come società di ricerca e sviluppo, nel 2015 vince il primo posto allo “Startup Award 2015”, allo Smau di Berlino. Nel 2016 viene selezionata dall’UNIDO (United Nations Indu- strial Development Organization), agenzia dell’ONU per lo sviluppo in- dustriale, tra gli EU-eco-providers, per essere inserita in un program- ma SwitchMed di trasferimento tecnologico in alcuni Stati MENA (Mid- dle East and North Africa). «In questo caso – precisa Guarnaccia - ho curato tutti gli aspetti necessari e partecipato personalmente alle mis- sioni di incontro con gli imprenditori e le istituzioni locali in Libano, Egitto e Tunisia».

Nel frattempo la società costruisce accordi bilaterali con una serie di imprenditori che vogliono convertire i propri impianti, cioè utilizzare gli scarti delle loro lavorazioni per realizzare nuovi prodotti o rivedere i pro- cessi produttivi in una chiave di risparmio e di progettualità; e mantiene

Materiali.

Materiali di riciclo per pan- nelli sandwich (Foto di

Cesare Mariani)

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Innovazione.

Pandora Group vanta brevetti con riconosci- menti europei (Foto di Cesare Mariani)

forti legami con le università e con gli istituti superiori, per la forte con- vinzione della imprenditrice che il primo cambiamento di paradigma debba avvenire nella formazione.

«Sto dedicando la mia vita professionale ad attività di progettazione, ingegnerizzazione di prodotto e di processo con particolare attenzione ai temi ambientali e all’aspetto del riutilizzo dei rifiuti in nuovi processi produttivi – spiega Alessia Guarnaccia -. E ho sperimentato in prima per- sona qual è il rischio di muoversi in una realtà a compartimenti stagni, che non coltiva un approccio interdisciplinare. Un esempio pratico? Le società innovative come Pandora hanno modelli di business non ancora testati, non è chiaro da dove arriveranno i soldi e dove saranno le uscite.

Ci vuole del tempo per capire. Dall’altra parte la cultura finanziaria in Italia obbedisce ad altre regole: i fondi di investimento, per esempio, hanno esigenze a breve termine, hanno bisogno di fare exit a tre o cinque anni. In questo senso credo che manchi una cultura finanziaria adatta a valutare gli asset immateriali».

Per questo, per Pandora Group è stata fondamentale la vittoria dei ban- di europei che ha reso anche possibile la cooperazione con partner inter-

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ALESSIA GUARNACCIA

41

nazionali già strutturati. «È l’approccio circolare stesso che richiede da subito di valutare la complessità, uscendo dalla logica dell'economia li- neare: ti prendo, ti uso, ti getto». E quando Alessia Guarnaccia parla di economia circolare fa riferimento a una visione davvero onnicomprensi- va, che va dal prodotto, al processo, all’organizzazione. «In coscienza, ho scelto di non dare in licenza i brevetti perché non volevo separarmi dal processo di industrializzazione. Perché, se si parla di vera innovazione, bisogna coinvolgere innanzitutto l’organizzazione».

Non a caso Pandora Group, che oggi conta circa trenta collaboratori, nasce come società di ricerca e sviluppo ma si vuole configurare come soggetto in grado di fornire una produzione industriale certificata. In che modo? «Attraverso un modello chiamato Sustainable Dynamic Vertical Enterprise Network, un verticale d’impresa organizzato in modo che sia dinamico e sostenibile e che coinvolga anche altri soggetti in una pro- spettiva di co-sviluppo e open innovation. Stiamo anche cercando di ap- plicare un’innovazione di processo dove sono i materiali stessi a essere concepiti come prodotti su misura».

Per Pandora Group Francesca Guarnaccia immagina un futuro di cre- scita, ma nella continuità. «Non sono propensa a vendere l’azienda, a ca- pitalizzare, ma a continuare a costruire, allargando sempre di più i part- ner del progetto. Credo fermamente nella collaborazione e nel concetto di filiera come forma di aggregazione per affrontare la necessità d’inno- vazione imposta dal mercato globale, e per la mia esperienza credo anche che la globalizzazione sia alla portata delle startup e delle piccole impre- se. Sono anche convinta dell’importanza dell’incontro tra imprese di età e dimensione diverse. Spesso, infatti, le piccole e medie imprese innova- tive e le startup trovano il vero potenziale di sviluppo dell’innovazione proprio all’interno di filiere con società già mature e consoliate». Tra le opzioni per un aumento dimensionale Guarnaccia non esclude la Borsa, anzi. «Sono aperta all’eventualità di una quotazione e sto cercando di approfondire. Sono molto interessata allo strumento dei green bond, per esempio». Nel 2017 Alessia Guarnaccia è stata eletta consigliere del diret- tivo del gruppo giovani imprenditori dell’Unione Industriali Napoli con delega a Ricerca, Sviluppo e Innovazione. Attualmente è anche membro del comitato tecnico “Ambiente ed Energia” e consigliere della sezione

“Ambiente, Energia ed Utilities” dell'Unione Industriali Napoli. «Econo- mia circolare è anche questo - conclude Guarnaccia -. Impegno in prima linea, a più livelli». Per continuare a scolpire la propria visione del mondo.

Le società

come

Pandora

hanno modelli

di business

non ancora

testati, non è

chiaro da

dove

verranno

i soldi e dove

saranno le

uscite. Ci

vuole del

tempo per

capire.

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ALLEY OOP UN'IMPRESA DA DONNE

«S

iamo frantoiani». Queste sono le prime due

parole che Dina La Greca, fondatrice insieme alla sorella Enza, della startup siciliana Bio- spremi, e responsabile marketing pronuncia per iniziare a descrivere l’azienda di famiglia, situata nell’entroterra tra Nicosia, in provincia di Enna, e Catania. È un’affermazione perentoria di identità, ma è anche al tempo stesso l’inizio imprescindibile di questa storia imprenditoriale. È qui il cuo- re della storia. È da qui che prende il via il senso di un percorso desti- nato a rivoluzionare per sempre il settore dell’estrazione olearia. La giovane società, infatti, è titolare di un brevetto unico in Europa, Bio- Spremi, un’attrezzatura agro-olearia ecologica in grado di estrarre

Nome: Dina La Greca Classe: 1979

Azienda: Biospremi

Ruolo: amministratore delegato Settore: estrazione olearia

«Innovare

nella tradizione, d’altra parte

restiamo frantoiani»

DALLA SICILIA A MELBOURNE

di Enza Moscaritolo

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Gli ulivi. L’imprenditrice Dina La Greca nelle terre di famiglia.

(Foto di D’Alessandro)

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