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D Un paese ci vuole

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Academic year: 2022

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Numero 4/2016

37

L’altra informazione

Pensieri critici diCaterina Pennesi

D

iceva Socrate che l’unica cosa che sapeva era di non sapere nulla.

In effetti, tanto più si è colti, tanto più si è consapevoli di non poter mai sapere tutto, ma è proprio nell’ammissione dei propri limiti che sta l’intelligenza di un uomo.

Troppe volte e troppo a lungo abbiamo assistito alla cupidigia di alcuni giorna- listi, che senza remore hanno rese pub- bliche storie private di uomini. E anche ora, nella tragedia del terremoto, rimane la bramosia del reporter che assale i visi disorientati delle persone che in pochi minuti hanno perso tutto, affetti, una casa, un’azienda, i propri animali.

Non c’è rispetto per il dolore, c’è solo la voce petulante di chi non si è nem- meno documentato a dovere e pronun- cia nomi sbagliati di paesi come Pievetorrina o Muggia, profanati anche nei cimiteri con i loculi denudati a mo- strare bare polverose.

E c’è pure chi chiama testoni coloro i quali non vogliono lasciare la propria frazione per andare in zone sicure nel li- toraneo adriatico.

Ma qui non si tratta di fare una vacanza al mare, qui non ci si sforza di capire che questa gente tiene alle proprie radici, in cui è vissuta con greggi e mandrie, che hanno dato sostentamento alla loro vita.

Non si riesce a percepire quale ruolo abbiano gli animali in queste civiltà ru- rali e montane, dove, tra le asperità dei monti, si riesce comunque a lavorare e vivere.

E dopo una vita passata a combattere la ruvidità di tali climi in un binomio inscindibile uomo animale, non si può chiedere a questo popolo di lasciare il bestiame per andare senza meta alcuna in un anonimo albergo con vista mare.

Basta andare in un campo di acco- glienza per gli sfollati per capire quanta umanità si celi dietro alle espressioni smarrite e fiere dei visi. Mangiano l’uno

vicino all’altro i pasti offerti dagli angeli del volontariato e della Protezione ci- vile, parlano poco, non piangono e non si perdono in litanie, ma ti vedono e ti salutano amichevolmente.

Tutto il loro pensare, i loro sentimenti sono espressi dalla dignitosa commo- zione di un pastore, che si emoziona alla notizia del salvataggio della statua della Madonna della Cona di Castelluc- cio, emblema dei transumanti.

Avevo anche io una casa di famiglia a Villa Sant’Antonio, una piccola fra- zione di Visso. Ora non c’è più. La chiesetta di San Bartolomeo ha perso gli archi che davano ombra al sagrato e, tra i fedeli che si fermavano a par- lare sopra il ponte, davanti allo storico alimentari di Cappa, c’era anche chi avrebbe acquistato la “Magica Roma”

per diventarne il Presidente.

Ricordo il ferragosto del ‘93 in cui ci ho suonato l’organo e prima che uscisse una nota stavo a pedalare come un ci- clista in salita per riempire d’aria le canne e tutti i ragazzi del luogo canta- vano gli inni sacri raccolti intorno al vecchio strumento.

Un pezzo di vita, della nostra storia, i profumi, i rumori, il sentire di quei luo- ghi è rimasto sepolto sotto le macerie, ma non si tratta solo del valore econo- mico e artistico perduto, si tratta del nostro vissuto cristallizzato nelle menti e turbato da quelle costruzioni in pietra ridotte a un cumulo di macerie con qualche pezzo barcollante ancora in piedi, quasi a dire “io resisto nei vostri cuori e nelle vostre memorie”.

Ed è vero perché «Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti» (C. Pavese).

Chi non capisce queste cose, deve solo stare zitto e inchinarsi alla dignità di questa gente.

Un paese ci vuole

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