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Dottorato di ricerca in “Persona, sviluppo, apprendimento. Prospettive epistemologiche, teoriche ed applicative”

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Dottorato di ricerca in “Persona, sviluppo, apprendimento. Prospettive epistemologiche, teoriche ed applicative”

Ciclo XXVIII S.S.D.: M-FIL/03

LA PERSONA UMANA IN UNA SOCIETÀ PLURALE.

ANALISI CRITICA DEL PENSIERO DI H.T. ENGELHARDT JR.

Coordinatore: Ch.ma prof.ssa Antonella Marchetti

Tesi di Dottorato di: Chiara Gatti Matricola: 4110836

Anno Accademico 2014/2015

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INDICE

INTRODUZIONE...5

1. IL POSTMODERNO E H.T. ENGELHARDT JR. Introduzione………11

Genesi del concetto………....……….13

Il postmoderno in filosofia……….20

Il postmoderno e Engelhardt………..28

2. LA PROPOSTA FILOSOFICA DI ENGELHARDT Il problema dell’obiettività in etica………49

Morale minimale procedurale……….71

I principi della bioetica………...90

3. IL CONCETTO DI PERSONA E IL SUO UTILIZZO NELLE QUESTIONI DI INIZIO E FINE VITA Esseri umani e persone………...95

Questioni riguardanti la fine della vita………....……….124

Questioni riguardanti l’inizio della vita………139

4. CHRISTIAN BIOETHICS L’altro Engelhardt………159

Le premesse della bioetica cristiana engelhardtiana………172

Una questione esemplare: l’aborto……….……..188

Rapporto fede e ragione………193

CONCLUSIONI………...205

BIBLIOGRAFIA Bibliografia di Engelhardt H.T. jr………213

Libri………...213

Contributi in libri………...213

Articoli………..214

Bibliografia generale………215

Libri………..215

Contributi in libri……….…….222

Articoli………..224

Voci in Enciclopedie e Dizionari………..225

Documenti e dichiarazioni………226

Sentenze e leggi………227

Da “La Sacra Bibbia” (Traduzione CEI 2008)…….……227

RINGRAZIAMENTI...229

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro intende analizzare il pensiero di H.T. Engelhardt jr.1 in quanto le tesi da lui esposte permettono di affrontare alcuni dei temi centrali del dibattito contemporaneo bioetico fornendo così a noi la possibilità di apportare un contributo in questo ambito.

In particolare il titolo che abbiamo scelto, “La persona umana in una società plurale”, esplicita, delimitandoli, i contorni della nostra ricerca. Essa, infatti, partirà dalla constatazione dell’esistenza di fatto di una società estremamente plurale, ossia caratterizzata dal punto di vista morale da un intrinseco pluralismo, ricercando le ragioni di tale situazione in parallelo con l’analisi che ne fa Engelhardt. Risulterà centrale, in tale contesto, il concetto di persona il quale, come si vedrà, lungi dal trovare un ampio consenso circa il modo in cui esso debba essere inteso, necessiterà di un’ampia riflessione per giungere ad una sua corretta definizione. Parlare di persona umana significa necessariamente porre a tema anche quella capacità razionale che la caratterizza e che è fortemente messa in dubbio dal punto di vista teoretico proprio dal contesto cosiddetto

“postmoderno” della società plurale, nonché dallo stesso Engelhardt.

L’importanza di giungere ad una semantizzazione adeguata del concetto di persona risulterà poi evidente nel momento in cui sarà chiaro che esso rappresenta la chiave di volta con la quale Engelhardt affronta le problematiche che sorgono,

1 Hugo Tristram Engelhardt jr. (New Orleans 1941) è un filosofo, bioeticista e medico americano.

È professore emerito alla Rice University di Houston (Texas) nella quale insegna dal 1983. È stato uno dei pionieri della bioetica, prendendo parte anche allo storico Centro di Bioetica della Georgetown University dal 1977 al 1982. Autore di innumerevoli articoli e editore di svariate riviste, fra le quali il “Journal of Medicine and Philosophy”, le sue tesi più celebri, racchiuse nel suo The Foundations of Bioethics (1986), sono state sdoganate in Italia dai rappresentanti della Consulta di Bioetica che ne hanno apprezzato il carattere laico e liberale.

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dal punto di vista bioetico, all’inizio e sul finire della vita. Il proposito di analizzare il pensiero di questo Autore ci porterà infine ad approfondire il rapporto che intercorre fra la ragione e la fede essendo quest’ultima particolarmente determinante per comprendere a fondo la sua produzione.

Scopo principale della presente ricerca sarà, dunque, quello di comprendere, a partire dall’analisi del pensiero di Engelhardt - il quale fornisce molti spunti di riflessione in merito - se vi sia ancora spazio, all’interno del dibattito contemporaneo, per un utilizzo del concetto di persona in grado di garantirne la tutela in maniera fondata, ossia facendo leva sulle capacità della ragione di individuare, in maniera sostanziale, una gerarchia di beni non arbitraria.

Nel primo capitolo, che ha carattere introduttivo, forniremo una panoramica di quelli che sono i caratteri fondamentali del contesto contemporaneo caratterizzato, come si vedrà, da una crisi che investe ogni settore - culturale e non - andando a minare ogni possibilità di raggiungere una qualche certezza. Lo stesso Engelhardt parte da questa constatazione, ossia dalla crisi della ragione che finisce per rendere vano qualsiasi tentativo di fondare il sapere, in particolare quello morale. Il concetto di “postmoderno”, sulla cui definizione ci soffermeremo, racchiude in sé quei tratti che caratterizzano tale situazione. Il confronto con l’epoca moderna, con gli elementi che l’anno contrassegnata, quali il mito del progresso, la centralità della libertà e della coscienza, il dominio dell’uomo sulla natura e la fiducia nella ragione, sarà utile per comprendere quel percorso che ha portato ad esasperare tali tratti presentandoceli oggi in maniera distorta e svuotati di quegli elementi positivi che permettevano all’uomo di condurre un discorso sensato sulla realtà. Approfondiremo poi la questione dal punto di vista prettamente filosofico: il riferimento a Nietzsche e Heidegger risulterà particolarmente utile per comprendere le radici di quella “incredulità nei confronti delle metanarrazioni” che secondo Lyotard caratterizza il postmoderno e che deriva da un’estrema sfiducia nella ragione, nonché dalla presa d’atto della

“morte di Dio”, che trova Engelhardt concorde. Proporremo, dunque, un’analisi

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puntuale della lettura che Engelhardt stesso fa di tale percorso che ha portato, utilizzando il suo vocabolario, alla crisi del “progetto illuministico”, ossia di quel tentativo, venuta meno “la fede nella fede”, di riporre la propria fede nella ragione al fine di fornire una morale sostanziale. Per Engelhardt la perdita di una narrazione universale fa seguito alla progressiva perdita di terreno nelle coscienze della sintesi offerta dal Cristianesimo che forniva un orizzonte comune di senso. Il fallimento del tentativo, che ha in Kant l’ultimo sommo baluardo, di fondare una morale sostanziale basata sulla sola ragione, a prescindere dalla fede, spiana quindi la strada al postmoderno e a Engelhardt per proporre la sua morale minimale. Sarà interessante capire se tale esito risulti ineluttabile o se sia ancora possibile dare credito alla facoltà razionale dell’uomo per rintracciare una morale sostanziale.

Nel secondo capitolo ci addentreremo sempre più nel pensiero di Engelhardt fornendo, in particolare, un quadro di quelle che sono le sue tesi principali. L’Autore si sofferma su otto correnti filosofiche (l’intuizionismo, la casistica, il consequenzialismo, la scelta ipotetica, le teorie della scelta e del discorso razionale, la teoria dei giochi, le teorie giusnaturalistiche, i principi di medio livello) evidenziandone i punti deboli al fine di mostrare come, a suo parere, tutte risultino inconcludenti e non sia, quindi, più possibile condurre un discorso morale fondato. Il punto debole che le accomuna secondo Engelhardt, come si vedrà, è che ciascuna impostazione darebbe, in realtà, per scontato delle premesse che invece necessiterebbero di una dimostrazione. La disamina delle suddette teorie serve, quindi, all’Autore per proporre di contro la sua impostazione, ossia quella della morale minimale procedurale, dal momento che crede di aver dimostrato che qualsiasi altra via risulti impercorribile. La sua proposta è, così, caratterizzata da alcune parole chiave: l’accordo o permesso, amici/stranieri morali, comunità e società. L’accordo o il permesso, infatti, è il cardine della morale da lui proposta: come si vedrà tutto è lecito purché sia scelto da adulti consenzienti. Gli amici e gli stranieri morali, invece, sono gli attori di questa morale: uno stesso soggetto sarà quindi circondato da amici morali, ossia

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da persone con le quali condivide - in forza di una scelta - una morale contenutistica agli occhi di Engelhardt priva di fondamento; e da stranieri morali, ossia quei soggetti con cui pacificamente risolve le controversie grazie alla morale minimale suggerita dall’Autore. La comunità è, dunque, la scena nella quale si muovono gli amici morali e la società quella in cui, invece, gli stranieri morali

“prendono accordi”. La proposta di Engelhardt si concretizza quindi in due principi, quello del permesso e quello di beneficenza, che avremo modo di approfondire. Comprendere la sostenibilità del tipo di morale proposta da Engelhardt, unitamente all’immagine di uomo che ne deriva, sarà quindi l’obiettivo di questo capitolo.

Il terzo capitolo sarà dunque totalmente dedicato al concetto di persona per verificare come esso vada inteso, che cosa sia quindi la persona umana, ossia quale possa essere individuata come sua definizione adeguata, e chi, di conseguenza, possa a pieno titolo essere definito persona. Chiarite queste questioni, rimarrà quella di giustificare come debbano essere trattate le persone e perché. Affronteremo dunque brevemente la storia di tale concetto, per poi vedere come Engelhardt lo utilizzi: sarà fin da subito chiaro come egli lo riduca sostanzialmente ad un sinonimo di “adulto sano”. Engelhardt, infatti, fa propria la distinzione fra essere umano e persona umana ritenendo che i due termini non abbiano la stessa estensione semantica. Egli, dunque, si inserisce a pieno titolo fra quegli autori che, in ambito bioetico, riconoscono diritti solo a coloro che sono in grado, in maniera autonoma, di esercitare la propria autocoscienza, razionalità e libertà. Mostreremo come tale concezione non sia adeguata allo statuto ontologico della persona umana sottolineando innanzitutto l’importanza della continuità corporea nel definire chi è persona e comprenderemo dunque perché essa sia degna di rispetto in ogni fase della sua vita, anche quando non è ancora o non è più in grado di esercitare le sue facoltà superiori che lo qualificano come agente morale. Alla luce, dunque, della semantizzazione del concetto di persona che avremo raggiunto, affronteremo poi le questioni bioetiche specifiche di cui si occupa Engelhardt. Seguiremo così le sue argomentazioni che sviluppano prima le

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questioni riguardanti il fine vita e successivamente quelle che ruotano intorno all’inizio vita. Tratteremo quindi le problematiche che sorgono rispetto alla definizione della morte, del suicidio assistito e dell’eutanasia, per poi concentrarci sulle questioni dell’aborto, dell’infanticidio, del danno da procreazione, della sperimentazione su embrioni e feti e della fecondazione assistita. Come si vedrà tutti questi temi sono trattati da Engelhardt in forza di un unico denominatore: il

“permesso” che gli esseri coinvolti sono in grado di concedere o di rifiutare. Va da sé che chi non è in grado di esprimere un consenso si trova totalmente ad essere alla mercé di chi può invece esercitare tale “potere”. Emergerà, quindi, la centralità del concetto di persona per il dibattito bioetico e l’importanza di una sua corretta semantizzazione dal momento che da essa, come si vedrà, passa l’attribuzione o meno dei diritti e l’estensione della tutela.

Il quarto capitolo si discosterà, almeno apparentemente, dai tre precedenti dal momento che andrà ad occuparsi di un’altra parte della produzione di Engelhardt, ossia quella che scaturisce dalla sua fede religiosa che ha nella Chiesa Ortodossa il suo punto di riferimento. Tale capitolo intende offrire una panoramica delle tesi che egli confeziona a partire da tale premessa. Sembrerà così emergere un autore molto diverso da quello precedentemente incontrato: da un lato il campione della bioetica laica, dall’altro un pensatore che fa della propria fede il punto fondamentale per comprendere la realtà morale e bioetica. Come si vedrà, è come se ci fossero due autori che trattano gli stessi temi da due punti di vista differenti: lo sentiremo infatti sostenere tesi diametralmente opposte a quelle precedentemente sostenute per quanto riguarda i temi bioetici. Approfondiremo il rapporto che per l’Autore intercorre fra filosofia, bioetica e teologia e parleremo di “filosofia cristiana” per mostrare come sia possibile esercitare la filosofia senza dover forzatamente rinnegare o il potere della ragione di fondare una morale sostanziale o la propria fede. Scopo di tale capitolo sarà quindi quello di vedere se e come sia possibile rintracciare una coerenza fra le “due anime” di Engelhardt cercando di capire come questa parte della sua produzione si inserisca nell’intero del suo pensiero. La trattazione di anche questa parte del sua teorizzazione risulta

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sicuramente necessaria per avere un quadro completo della fisionomia di questo Autore.

Il presente lavoro, quindi, attraverso un’analisi critica del pensiero di Engelhardt, intende affrontare alcuni dei temi centrali del dibattito bioetico contemporaneo ritenendo che, prima di addentrarsi nei problemi particolari, sia necessario, in primo luogo, stabilire se sia ancora possibile un’apertura intenzionale della ragione umana sulla realtà in grado di coglierne il significato profondo e quindi di indicare una morale sostanziale e, in secondo luogo, stabilire quale tutela debba essere riservata alla persona umana.

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Capitolo I

IL POSTMODERNO E H.T. ENGELHARDT JR.

Introduzione

Andando a porre lo sguardo sull’epoca contemporanea un fattore che sicuramente emerge è il suo essere caratterizzata, in particolare, da un intrinseco pluralismo. Come, infatti, scrive H.T. Engelhardt jr., «le società di oggi sono pluralistiche e comprendono comunità caratterizzate da credenze e sentimenti morali diversificati»2. Le nostre società, dunque, sono costellate da differenti culture, etnie, religioni e conseguenti differenti modi di interpretare la realtà. La globalizzazione dei mercati, l’accresciuta pervasività e rapidità dei mezzi di comunicazione, unite alle maggiori possibilità di spostamento, hanno messo in contatto - perlomeno virtuale - modi di vivere e pensare che, talvolta, risultano agli antipodi. In realtà, il fenomeno rappresentato dalla pluralità delle forme culturali, intese come luoghi all’interno dei quali gli uomini condividono un orizzonte comune di significati, non rappresenta una novità. La ricchezza derivante dalle diverse espressioni culturali è, infatti, qualcosa che da sempre caratterizza la storia dell’umanità. La novità risiede, però, nel fatto che le distanze, fra questi “microcosmi” di significato, si siano radicalmente annullate e la mescolanza delle culture risulti così spesso problematica nel momento in cui lo spazio condiviso si presenta orfano di un codice di intesa comune. Lo scenario si fa particolarmente complesso nel momento in cui gli uomini devono far fronte a

2 Engelhardt jr. H.T., Manuale di Bioetica, trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1999, p. 38-39.

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situazioni che non sono solamente zonali, ma che investono ampie aree, incidendo su vasta scala. In una situazione di questo tipo, nel momento in cui diventa necessario trovare una soluzione a un problema sorto, tale soluzione non potrà che scontentare i molti, dal momento che - per definizione - si ritiene che la sintesi fra posizioni differenti non sia più raggiungibile.

Questa pluralità di approcci alla realtà ha delle ripercussioni in ambito filosofico, in particolare, per quanto riguarda la riflessione morale e quella politica. Emerge, infatti, in primo luogo, la questione del pluralismo etico, ossia della compresenza di più modelli etici di riferimento che spesso, a fatica, riescono ad entrare in dialogo avendo in molti casi smarrito un riferimento condiviso a cosa sia il bene per l’uomo. In secondo luogo, la compresenza di più culture, all’interno, per esempio, di uno stesso territorio nazionale, pone alla filosofia politica la domanda su come debba essere organizzata la società, di modo che le diverse comunità morali possano convivere pacificamente. In questo contesto, che la società sia “giusta”, oltre che “ben organizzata”, e che gli uomini, assieme, possano concorrere al “bene comune”, rappresentano obiettivi considerati ormai non più raggiungibili. Viene così a configurarsi, per certi versi, una situazione paradossale se si pensa al fatto che l’epoca caratterizzata dalla mondializzazione dell’esperienza umana dia poi luogo, per contraccolpo, alla moltiplicazione di particolarismi spesso difficilmente sintetizzabili. La frammentazione che ne deriva è, infatti, rintracciabile non solo al livello delle diverse culture e teorie, ma si insinua anche nella possibilità di reciproca comprensione fra uomo e uomo.

Questa sorta di spaesamento, questo Zeitgeist tipico della realtà contemporanea, è solitamente sintetizzato attraverso il concetto di “postmoderno”, un concetto densissimo sul quale occorre soffermarsi dal momento che riassume in sé il modo di intendere il sentire, il pensare e il vivere che risulta oggi largamente diffuso, sia dal punto di vista della prassi più immediata, sia a livello teoretico. Qualsiasi discorso che si muova nella prospettiva contemporanea non può, infatti, che fare i conti con il postmoderno e non può, quindi, eludere tale fenomeno, come scrive, appunto, Harvey, «il “postmodernismo” è divenuto un

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concetto con cui confrontarsi; esso si è trasformato in un tale campo di battaglia di opinioni e forze politiche contrastanti che non può essere ignorato»3.

Volendo analizzare il pensiero di un autore contemporaneo, quale è Engelhardt, una riflessione sul postmoderno risulta, quindi, imprescindibile, tanto più che la sua opera più importante, il Manuale di Bioetica4, come avremo modo di vedere, prende le mosse proprio dalle “macerie” lasciate dal postmoderno sul terreno della filosofia morale e, di conseguenza, su quello della bioetica.

Desideriamo, dunque, soffermarci sulla questione del postmoderno con lo scopo di identificarne i tratti essenziali e di evidenziare le problematiche che, dal punto di vista filosofico, fa emergere nello scenario contemporaneo.

Genesi del concetto

Parlare di “postmoderno” non rappresenta un’impresa semplice dal momento che tale termine si presenta come analogo e si applica di conseguenza agli ambiti più svariati della realtà. La sfida è, quindi, quella di riuscire a rintracciarne dei tratti comuni che rendano ragione di tale uso analogo.

Storicamente5 si comincia a parlare di postmoderno intorno agli anni Trenta e Quaranta del Novecento in ambito letterario e politico, dove il critico Federico de Onís6 e lo storico Arnold Tonybee7 usano per primi questo concetto per descrivere, rispettivamente, uno stile e un’epoca. Successivamente, tale termine si diffonde in maniera contagiosa ad altri settori culturali, in particolare a quello dell’arte e dell’architettura, della filosofia, della sociologia per arrivare

3 Harvey D., La crisi della modernità, trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1993, p. 57.

4 Engelhardt jr. H.T., Manuale di Bioetica, (op.cit.).

5 Per una ricostruzione di come il termine “postmoderno” si è imposto nel panorama culturale odierno si veda, per esempio, Bernstein R.J., La nuova costellazione. Gli orizzonti etico-politici del moderno/postmoderno, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1994; Ceserani R., Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino, 1997; Chiurazzi G., Il postmoderno. Il pensiero nella società della comunicazione, Paravia, Torino, 1999; Ganeri M., Postmodernismo, Editrice Bibliografica, Milano, 1998.

6 Cfr. De Onís F., Antología de la poesía española e hispanoamericana (1882-1932), Centro de Estudios Históricos (Spain), 1934.

7 Cfr. Tonybee A., A Study of History, Oxford Press Publication, 1947.

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anche a colonizzare gli ambiti della cinematografia e della musica. Con sottile ironia Eagleton ha evidenziato che «se il postmodernismo abbraccia tutto, dal punk rock alla morte della metanarrativa, dalle fanzine a Foucault, è difficile vedere come un singolo schema esplicativo possa rendere giustizia a un’entità così bizzarramente eterogenea. […] Se nel postmodernismo c’è una qualche unità, può trattarsi solo di quelle “somiglianze di famiglia” di cui parlava Wittgenstein»8.

Ad un primo sguardo fugace, sembrerebbe quasi che questo concetto, che funge da grande contenitore, rifugga la possibilità di essere definito in maniera sensata. Se così fosse tale concetto risulterebbe evanescente e, quindi, irrilevante come strumento per interpretare i fenomeni ai quali esso è accostato come etichetta. Tuttavia, se tale concetto si è di fatto imposto nel dibattito contemporaneo con la pretesa di indicare un cambiamento addirittura epocale, è forse necessaria un’analisi più approfondita. Le difficoltà sono sicuramente innegabili perché, come sottolinea Harvey, «il postmodernismo risulta essere una miniera di nozioni fra loro in conflitto»9, ciò nonostante ci sembra utile, preliminarmente, riflettere sul concetto di postmoderno a partire da ciò che il

“post” suggerisce: l’intenzione di prendere le distanze dalla modernità. I problemi forse si moltiplicano ulteriormente perché, come annota Chiurazzi, «la difficoltà di definire il postmoderno dipende comunque dalla difficoltà di definizione del suo termine relativo, il moderno, che pure presenta tratti ambivalenti»10. Sicuramente può risultare avventata la pretesa di riassumere in pochi tratti un periodo, quello della modernità, che, secondo le ricostruzioni cronologiche più accreditate, copre circa sei secoli, nel quale evidentemente, per esempio, il modus vivendi tipico del Quattrocento differiva fortemente da quello tipico di fine Ottocento. Nondimeno riteniamo che, alla luce di ciò che ci interessa individuare nella postmodernità, si possano comunque rintracciare le linee guida che hanno

8 Eagleton T., Le illusioni del postmodernismo, trad. it. Editori Riuniti, Roma, 1998, p. 34.

9 Harvey D., La crisi della modernità, (op.cit.), p. 10.

10 Chiurazzi G., Il postmoderno. Il pensiero nella società della comunicazione, Paravia, Torino, 1999, p. 10.

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caratterizzato il pensiero nella modernità e che hanno permesso di distinguerla, anche, dall’epoca medioevale.

Ragionando sul termine stesso di post-modernità possiamo, in primo luogo, quindi, soffermarci sul prefisso “post”. Esso va sicuramente ad indicare una posteriorità dal punto di vista temporale, ma anche una posteriorità nei contenuti, una posteriorità intesa, quindi, come un superamento. Tuttavia, questo

“andare oltre” non va interpretato, parafrasando Hegel, come il raggiungimento di un passo ulteriore verso l’esplicarsi del senso della storia, poiché, come scrive Fornero, «in tal caso si cadrebbe nella temporalità lineare, ossia in quella “logica del superamento e del progresso” da cui il postmoderno intende prendere le distanze»11. Come vedremo, infatti, il postmoderno intende smarcarsi dalla logica del progresso annunciando, addirittura, la fine della storia. In secondo luogo, la presenza della parola “modernità” nel suo stesso autodefinirsi da parte del postmoderno, indica un legame strettissimo con l’epoca che lo precede. Come scrive, infatti, Eagleton, «essere “postmodernisti” non significa aver lasciato definitivamente alle spalle il modernismo, ma averlo attraversato giungendo ad una posizione ancora profondamente segnata dal modernismo medesimo»12. L’analisi che, ad esempio, Taylor compie sul passaggio dalla modernità alla postmodernità si inserisce sicuramente in questa linea interpretativa in quanto egli parla di “disagio della modernità”13 per indicare quegli elementi che hanno poi spianato la strada alla nuova epoca. Anticipando e semplificando, potremmo dire che fra la modernità e la postmodernità vi è una continuità “decaduta”, nel senso che nella postmodernità si trovano i frutti degenerati di quelli che sono stati i pilastri portanti della modernità. Ma vediamo, quindi, quali possano essere i tratti tipici di essa.

11 Fornero G., “Il postmoderno”, in Fornero G., Protagonisti e testi della filosofia, Paravia, Torino, 2000, volume D, tomo 2, pag. 429.

12 Eagleton T., Le illusioni del postmodernismo, (op. cit.), p. 8-9.

13 Cfr. Taylor C., Il disagio della modernità, trad. it. Laterza, Bari, 1994.

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Seguendo varie ricostruzioni14, possiamo individuare dei caratteri distintivi dell’epoca moderna, caratteri che risultano fra di loro strettamene correlati e che rivelano un ottimismo diffuso nei confronti delle possibilità dell’uomo e del progredire della storia. Possiamo, sintetizzando, delineare i seguenti punti: (1) il mito del progresso; (2) la centralità della libertà e dell’autocoscienza che portano l’uomo all’emancipazione; (3) il dominio dell’uomo sulla natura; (4) la fiducia nella ragione che conferisce alla realtà un’aurea di oggettività e che permette di formulare e, quindi, abbracciare concezioni onnicomprensive della realtà.

Per quanto riguarda il primo punto, nella modernità, si ritiene, come sottolinea Chiurazzi, «che la storia tenda verso il meglio, in maniera necessaria o grazie alla capacità dell’uomo di indirizzarne il decorso»15: da qui deriva l’apertura nei confronti del novum che, in quanto tale, si ritiene sia in grado di portare l’umanità verso un progressivo miglioramento della propria condizione. In nome del progresso umano, infatti, come sottolinea Harvey, «venivano lodati la creatività umana, le scoperte scientifiche e il perseguimento dell’eccellenza individuale»16.

Per quanto riguarda il secondo punto, l’uomo scopre l’ampiezza della propria libertà e la centralità dell’autocoscienza: come scrive Guardini, «nasce l’uomo padrone di sé, che agisce ed osa e crea, portato dall’ingenium, guidato dalla fortuna, coronato dalla fama e dalla gloria»17. All’apice della modernità Kant, e a seguire, Mill, con la valorizzazione dell’autonomia e della libertà, rappresentano l’espressione paradigmatica in cui si riassume l’immagine di uomo che caratterizza l’epoca moderna.

Il terzo punto segue idealmente dai due precedenti perché, come sottolinea Chiurazzi, «condizione del progresso è il dominio della natura. “Sapere è potere”, diceva Bacone, assegnando così alla scienza, nella sua dimensione tecnica, il

14 Cfr. Chiurazzi G., Il postmoderno…, (op. cit.); Fornero G., “Il postmoderno” (op. cit.); Guardini R., La fine dell’epoca moderna. Il potere, trad. it. Morcelliana, Brescia, 1999; Harvey D., La crisi della modernità, (op. cit.); Taylor C., Il disagio della modernità, (op. cit.).

15 Chiurazzi G., Il postmoderno…, (op. cit.), p. 14.

16 Harvey D., La crisi della modernità, (op. cit.), p. 26.

17 Guardini R., La fine dell’epoca moderna…, (op.cit), p. 39.

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compito di realizzare questo dominio attraverso la conoscenza delle leggi naturali»18. L’uomo, attraverso il proprio ingegno e al potere della tecnica, diventa signore e misura della realtà naturale, occupando, in questo modo, il posto che precedentemente era riservato a Dio. La prospettiva della “salvezza” diventa immanente e non viene più ricercata per mezzo della grazia dal momento che, come rileva Harvey, «il controllo scientifico della natura prometteva la libertà rispetto alla povertà, ai bisogni e all’arbitrarietà delle calamità naturali»19.

Il quarto punto, infine, riassume in sé quelli precedenti. La fiducia nella ragione deriva, innanzitutto, dall’effettivo successo che ella ottiene rendendo di fatto possibile il progresso. Inoltre, la ragione, con il suo carattere universale, è valorizzata poiché rende uguali tutti gli uomini fornendo loro la possibilità di collaborare per la propria emancipazione. Infine, tale fiducia deriva dal potere che essa ha di cogliere i nessi di causa-effetto che guidano la natura e dalla capacità che essa ha di approdare a visioni onnicomprensive della realtà.

Riassumendo, dunque, questi quattro punti, possiamo dire, con le parole di Harvey, che nella modernità «si trattava di utilizzare l’accumulazione della conoscenza generata da molti individui che lavoravano liberamente e creativamente con l’obiettivo dell’emancipazione umana e dell’arricchimento della vita di ogni giorno»20.

Con l’avvento del postmoderno questo ottimismo viene meno e questi tratti individuati nella modernità diventano il bersaglio privilegiato dal momento che ne viene mostrato, svelato, il carattere ritenuto illusorio. In qualche modo essi, portati alle loro estreme conseguenze, si rivelano nella loro povertà dando luogo a quello che, con un’espressione divenuta ormai celebre, Weber ha definito il

“disincantamento del mondo”. Per una sorta di legge del contrappasso nel postmoderno ritroviamo gli stessi tratti individuati nella modernità, ma posti in maniera critica. Seguendo la lettura che ne fa Taylor21, come abbiamo già

18 Chiurazzi G., Il postmoderno…, (op. cit.), p. 15.

19 Harvey D., La crisi della modernità, (op. cit.), p. 25.

20 Ibidem.

21 Cfr. Taylor C., Il disagio della modernità, (op. cit.).

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precedentemente accennato, gli elementi che rappresentavano le colonne portanti della modernità vengono colti nella postmodernità come “disagi”.

Innanzitutto il mito del progresso viene messo in crisi e poi brutalmente smentito da alcuni fatti storici che sono tristemente noti a tutti: come mette in luce in maniera diretta Harvey, «il XX secolo – con i suoi campi di sterminio e le squadre della morte, il suo militarismo e due guerre mondiali, la minaccia di annientamento nucleare e l’esperienza di Hiroshima e Nagasaki – ha certamente dissolto questo ottimismo»22. Dunque, a partire da alcuni fatti storici l’uomo comincia a comprendere come il miglioramento delle sue condizioni storiche non sia un fenomeno ineluttabile, ma che il potere acquisito sulla realtà attraverso l’ingegno e la tecnica può anche sfuggirgli di mano. Come ha mostrato Heidegger, “l’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico” e, come, infatti, commenta Pessina, «in realtà alcuni problemi non sono tecnici: sono morali […] la logica interna alla tecnica […] non è l’unica con cui guardare e valutare la realtà»23, sono, quindi, necessari criteri che esulino dal dominio della tecnica. Il dramma, come avremo modo di vedere, è che nel postmoderno la possibilità di ricavare dei criteri che permettano di rintracciare un dover essere nell’essere è proprio ciò che viene fortemente messo in discussione.

Per quanto riguarda l’esaltazione della libertà e dell’autocoscienza, tali

“valori” sono ancora fortemente presenti nel postmoderno, ma in una forma esasperata e appiattita. “Esasperata” perché, come scrive Taylor, «l’affermazione che la possibilità di scegliere costituisce di per sé un bene da massimizzare è un prodotto pervertito dell’ideale»24: si è passati, infatti, dall’intuizione che la libertà e l’autocoscienza umane siano un utile strumento per giungere al bene, all’affermazione che qualsiasi cosa esse scelgano sia, dal punto di vista morale, bene. “L’appiattimento”, così, deriva dal fatto che in una tale situazione di

“relativismo morbido”, come l’ha definito Taylor, ogni scelta si equivale perdendo di conseguenza valore dal momento che, in realtà, «un ideale morale

22 Harvey D., La crisi della modernità, (op. cit.), p. 26.

23 Pessina A, Bioetica. L’uomo sperimentale, Mondadori, Milano, 1999, p. 55.

24 Taylor C., Il disagio della modernità, (op. cit.), p. 29.

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implica […] che talune forme di vita siano realmente superiori ad altre, mentre la cultura della tolleranza in materia di auto-realizzazione individuale rifugge da pretese siffatte»25. Accanto alla figura del “relativismo morbido” troviamo, sempre in Taylor, quella del “dispotismo morbido” dal momento che, in questa società «di individui “rinchiusi nei loro cuori” […] pochi vorranno partecipare all’autogoverno»26 e così divengono cittadini impotenti di fronte all’apparato burocratico il quale, sotto le mentite spoglie della neutralità, propugna il pensiero della maggioranza.

Anche il rapporto uomo-natura entra in crisi: «si attua - nota Chiurazzi - un ridimensionamento dell’ideale baconiano che finalizzava il sapere e la scienza al dominio della società e della natura per mezzo della tecnica»27. Sebbene i tentativi di dominio della natura siano continui, andando oggi ad intaccare anche sfere nelle quali non si pensava precedentemente di poter e di dover intervenire - come per esempio quella della generazione umana - ci si rende conto in maniera drammatica del potere ambivalente che tale dominio può avere. Da signore della natura, l’uomo, della cui natura ontologica non se ne coglie più la traccia, diventa, infatti, oggetto stesso della tecnica. Non è solamente, però, l’integrità della natura umana ad essere minacciata, ma lo è anche l’intero pianeta: è sorto, infatti, il movimento ecologista che, pur con le sue ambiguità, cerca di mettere in guardia l’uomo rispetto alle possibilità concrete che egli ha di distruggere quello stesso pianeta che, in maniera disarmata, gli mette a disposizione tutte le sue vitali risorse.

Infine, la fiducia nella ragione risulta fortemente incrinata. A lungo andare si è ridotta la ragione al suo utilizzo strumentale e, come rileva Taylor, «il timore è che cose che dovrebbero essere determinate da criteri diversi vengano decise in termini di efficienza o di analisi costi-benefici, che i fini indipendenti che dovrebbero guidare le nostre vite si trovino eclissati dall’esigenza di massimizzare

25 Ivi, p. 22.

26 Ivi, p. 12.

27 Chiurazzi G., Il postmoderno…, (op. cit.), p. 19.

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la produzione»28. A seguito dell’opera di smantellamento delle certezze del pensiero, operata dai cosiddetti “maestri del sospetto”, il postmoderno, come sottolinea Chiurazzi, «pone il problema dei limiti e delle distorsioni del razionalismo moderno»29 e la forza della ragione di comprendere la realtà nella sua essenza diviene sempre più debole. Le conseguenze, di questo indebolimento, sono molteplici e hanno i loro effetti, come vedremo, soprattutto nel campo della metafisica e della filosofia morale dal momento che la prima è ritenuta inaccessibile e la seconda, di conseguenza, diviene priva di fondamento. Diventa, quindi, anche difficile riconoscere all’uomo la tutela della sua dignità dal momento che tale dignità era legata strettamente al riconoscimento dei poteri della ragione che nobilitavano l’uomo e che permettevano, per l’appunto, di coglierne il valore. Possiamo, dunque, per sintetizzare, segnalare con Crespi che «quando si può dire a proposito di Wittgenstein, anche se forse con qualche forzatura, che egli credeva “appassionatamente che tutto ciò che conta nella vita umana è proprio ciò di cui, secondo il suo modo di vedere, dobbiamo tacere” […] è allora che l’esperienza del limite del pensiero e del dicibile si afferma con piena evidenza»30.

Il postmoderno in filosofia

Dopo questa panoramica, ci sembra interessante inoltrarci in maniera più specifica ed esplicita sul terreno della filosofia e vedere come tale concetto sia stato utilizzato.

Il termine “postmoderno” entra nella discussione filosofica tramite J.F.

Lyotard il quale, nel 1979, pubblica La condizione postmoderna31. In questo testo,

28 Taylor C., Il disagio della modernità, (op. cit.), p. 8.

29 Chiurazzi G., Il postmoderno…, (op. cit.), p. 19.

30 Crespi F., “Assenza di fondamento e progetto sociale”, in Vattimo G., Rovatti P.A. (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 1986, pp. 243-259, p. 246.

31 Lyotard J.F., La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1985.

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come vedremo, compare la prima definizione di questo fenomeno che, ci si rende conto, stava minando le basi del sapere tanto da rendere necessaria questa inchiesta32, questo “rapporto sul sapere”, come recita il sottotitolo. Tale fenomeno prende il largo, secondo Lyotard, con l’avvento delle società industriali avanzate e informatizzate. Scrive egli, infatti: «la nostra ipotesi è che il sapere cambi di statuto nel momento in cui le società entrano nell’età detta postindustriale […].

Questa evoluzione è iniziata almeno a partire dalla fine degli anni Cinquanta […]

L’incidenza di queste trasformazioni tecnologiche sul sapere sembra destinata ad essere considerevole»33. Qualcosa, evidentemente, è in atto già da tempo se si ritiene che il metodo che per secoli ha guidato la ricerca e la trasmissione del sapere sia ormai entrato in crisi. Come scrive nell’Introduzione, «l’oggetto di questo studio è la condizione del sapere nelle società più sviluppate. Abbiamo deciso di chiamarla “postmoderna”. […] Essa designa lo stato della cultura dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura e delle arti a partire dalla fine del XIX secolo. Tali trasformazioni saranno messe qui in relazione con la crisi delle narrazioni»34. Quest’ultimo termine ci permette di avvicinarci alla definizione divenuta ormai celebre che Lyotard dà della postmodernità. Lyotard, innanzitutto, con i termini “narrazioni” o “racconti” si riferisce a quelle sintesi filosofico-politiche che ritiene abbiano sostanzialmente caratterizzato il pensiero nella modernità. Tali “narrazioni” sono il corrispettivo di quelle visioni onnicomprensive della realtà di cui abbiamo parlato in precedenza a proposito della fiducia nella ragione di fornire un’interpretazione legittimata di tutto il reale. In particolare, le narrazioni a cui Lyotard si riferisce sono quella illuminista, quella idealista, quella marxista e quella cristiana ed egli ritiene che siano giunte, ormai, al loro tramonto. Il venir meno della fiducia in questi maxi sistemi interpretativi rappresenta, per Lyotard, la caratteristica tipica del

32 Come ci fa sapere lo stesso Lyotard, nella sua Introduzione ne La condizione postmoderna.

Rapporto sul sapere, «il testo che segue è uno scritto su commissione. Si tratta di un Rapporto sul sapere nelle società più sviluppate che è stato proposto al consiglio universitario che coadiuva il governo del Quebec, su richiesta del suo presidente», p. 8.

33 Ivi, p. 9-10.

34 Ivi, p. 5.

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postmoderno da cui egli trae, infatti, questa definizione: «semplificando al massimo, possiamo considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni»35.

Da cosa nasce questa incredulità? Innanzitutto, per Lyotard, «si tratta indubbiamente di un effetto del progresso scientifico»36, vale a dire un effetto di quel processo, a cui abbiamo già accennato, per cui da un lato la ragione è stata sempre più ridotta alla sua funzione strumentale-calcolante e, dall’altro lato, i meccanismi della società post-industriale hanno ridotto la realtà e il sapere a merce. Scrive, in proposito, Lyotard: «il sapere viene e verrà prodotto per essere venduto, e viene e verrà consumato per essere valorizzato in un nuovo tipo di produzione: in entrambi i casi per essere scambiato. Cessa di essere fine a se stesso»37. Ma questa prospettiva è ristretta, non tiene conto, infatti, di quella parte del sapere che permette di giustificare e dare un senso - inteso come significato e direzione - a ciò che, per esempio, il mercato, attraverso la tecnica, produce e, quindi, propone. Come nota Lyotard: «il sapere scientifico non è tutto il sapere, è sempre stato accanto, in competizione, in conflitto con un altro tipo di sapere, che noi definiamo per semplicità narrativo»38. La ragione strumentale-calcolante, infatti, come chiosa Lyotard, «non è pertinente per giudicare del vero e del giusto»39.

Il venir meno di questo tipo di sapere non è privo di conseguenze.

Mancando, infatti, la possibilità, come scrive Fornero, «di connettere, tramite un unico dispositivo legittimante, i vari settori della conoscenza e dell’azione, ormai frantumati in una molteplicità di giochi linguistici differenti»40, sorge, in maniera drammatica, la domanda: «dove può risiedere la legittimità, dopo la fine delle metanarrazioni?»41. Il metodo che Lyotard propone è quello della paralogia42, dal

35 Ivi, p. 6.

36 Ibidem.

37 Ivi, p. 12-13.

38 Ivi, p. 18.

39 Ivi, p. 7.

40 Fornero G., “Il postmoderno”, (op. cit.), p. 432.

41 Lyotard J.F., La condizione postmoderna…, (op. cit.), p. 7.

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momento che “l’eteromorfia dei giochi linguistici” impedisce il raggiungimento di un consenso pieno e ci si deve, così, accontentare, secondo Lyotard, di un consenso che «deve essere locale, ottenuto cioè dagli interlocutori momento per momento, e soggetto a eventuale reversione»43.

Bisogna a questo punto, però, compiere un passo indietro per vedere quali siano le origini di tale processo di cui Lyotard, in fin dei conti, si limita a prendere atto. Quando, infatti, emerge l’esigenza di trovare una definizione per un fenomeno è perché quel fenomeno è già apparso in tutta la sua forza. All’inizio del testo in oggetto, in realtà, Lyotard dà un’indicazione di dove si possa andare a rintracciare quella che può essere considerata la causa scatenante di questo processo che ha portato all’impossibilità di “legittimare” il sapere. Scrive egli, infatti, che «al disuso del dispositivo metanarrativo di legittimazione corrisponde in particolare la crisi della filosofia metafisica»44. È, dunque, alla cosiddetta “crisi della metafisica” che dobbiamo guardare, crisi che, come scrisse Heidegger, investe un sapere - la metafisica - che non è qualcosa che «si possa metter da parte come un’opinione. Né si può lasciarsela alle spalle come una dottrina in cui non si crede più»45 e che, quindi, ha delle ripercussioni non da poco.

I precursori del postmoderno, o meglio i pensatori che, con le loro teorie, hanno gettato i semi di quella rivoluzione del pensiero a cui è stata poi dato l’appellativo di “postmoderno”, sono sicuramente Nietzsche e Heidegger. Non essendo il pensiero di questi due autori l’oggetto primario del nostro interesse, per una ricostruzione del dibattito, ci affideremo principalmente alle riflessioni di G.

Vattimo46 e ai pensatori che insieme a lui, in Italia, hanno dato origine alla

42 Per paralogia Lyotard intende quel metodo che, in opposizione alla logica tradizionale, lascia spazio al libero emergere di nuove metaprescrizioni e nuovi giochi linguistici. Cfr. Lyotard J.F.,

“La legittimazione per paralogia” in Lyotard J.F., La condizione postmoderna…, (op. cit.), pp.

110-122.

43 Lyotard J.F., La condizione postmoderna…, (op. cit.), p. 120.

44 Ivi, p. 6.

45 Heidegger M., Saggi e discorsi, trad. it. Mursia, Milano, 1976, p. 46.

46 Cfr. Vattimo G., Rovatti P.A. (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 1986; Vattimo G., La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna, Garzanti, 1985.

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corrente del cosiddetto “pensiero debole”47 che raccoglie, in chiave propositiva, l’eredità nichilista dei due celebri autori tedeschi. Fare riferimento a tali autori risulta fondamentale nell’economia del discorso perché, come scrive Vattimo,

«solo dalla messa in rapporto con la problematica nietzscheana dell’eterno ritorno e con quella heideggeriana dell’oltrepassamento della metafisica, infatti, le sparse e non sempre coerenti teorizzazioni del post-moderno acquistano rigore e dignità filosofica»48.

La crisi della metafisica, già individuata da Lyotard come carattere peculiare della postmodernità, è stata inaugurata, seppur con le debite differenze, proprio da Nietzsche e Heidegger, i quali ne hanno annunciato la fine e hanno decretato l’avvento del nichilismo. Con la parola “nichilismo” intendiamo l’impossibilità di scorgere un fondamento nell’essere il quale, di conseguenza, diviene nulla e, infatti, come scrive Ceserani, il nichilismo sottopone «a una critica radicale l’intera tradizione metafisica occidentale, vittima del sogno vano di riuscire a identificare un fondamento della conoscenza, uno zoccolo duro di verità in grado di dare legittimità ai sistemi di conoscenza e di garantire al soggetto l’accesso non mediato alla realtà»49. Proprio il rifiuto del fondamento, nonostante le non lievi differenze riscontrabili nelle loro teorizzazioni, accomuna Nietzsche e Heidegger, i quali, commenta Vattimo, «si trovano così, da un lato, di dover prendere le distanze criticamente dal pensiero occidentale in quanto pensiero del fondamento; dall’altro lato, però, non possono criticare questo pensiero in nome di un’altra più vera fondazione. È in questo che, a buon diritto, possono considerarsi i filosofi della post-modernità»50.

47 Per “pensiero debole” si intende quel pensiero che, in opposizione al cosiddetto “pensiero forte”, attribuito alla tradizione metafisica dell’Occidente, riconosce la debolezza della razionalità che viene, però, assunta in maniera positiva e propositiva come unica chance rimasta all’uomo postmoderno. Scrivono in proposito Vattimo e Rovatti: «“Pensiero debole” […] è l’assunzione di un atteggiamento: il tentare di disporsi in un’etica della debolezza, non semplice, assai più costosa, meno rassicurante», in Vattimo G., Rovatti P.A., Premessa, in Vattimo G., Rovatti P.A. (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 1986, p. 10.

48 Vattimo G., La fine della modernità…, (op. cit.), p. 9.

49 Ceserani R., Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino, 1997, p. 57-58.

50 Vattimo G., La fine della modernità…, (op. cit.), p. 10.

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Torna ancora qui utile riprendere i quattro tratti che abbiamo individuato come caratteristici della modernità, e che abbiamo visto infrangersi nel postmoderno, proprio perché in Nietzsche e Heidegger troviamo l’origine di tale parabola discendente.

L’idea che la storia non proceda più secondo un ineluttabile progresso è efficacemente rappresentata dall’immagine dell’eterno ritorno dell’uguale suggerita da Nietzsche che, infatti, come commenta Vattimo, «significa […] la fine dell’epoca del superamento, cioè dell’epoca dell’essere pensato sotto il segno del novum»51. A ciò arriva Nietzsche poiché, avendo abolito egli l’idea del fondamento, non è più possibile poggiare su alcun terreno per poter costruire l’edificio del sapere. L’assenza del fondamento è raggiunta da Nietzsche non per via propriamente argomentativa ma attraverso un annuncio, quello della “morte di Dio” che, come mette in luce Vattimo, «non è [semplicemente] l’enunciazione metafisica della non esistenza di Dio; vuole essere la vera presa d’atto di un

“evento”, giacché la morte di Dio è proprio, prima di tutto, la fine della struttura stabile dell’essere, dunque anche di ogni possibilità di enunciare che Dio esiste o non esiste»52. La crisi del fondamento è rinvenibile anche in Heidegger quando egli parla dell’oblio dell’essere all’interno della stessa metafisica. Tali teorizzazioni pongono fine, così, al mito del progresso proprio perché, venuto meno il fondamento, risulta impossibile cogliere la verità della realtà e risulta, così, inane lo sforzo di progredire in qualsiasi campo del sapere.

Il venire meno, in un certo senso, delle capacità dell’uomo di cogliere il senso della realtà mette in crisi anche l’autocomprensione che l’uomo ha di sé, ridimensionando il ruolo che egli ricopre all’interno del reale. Questo avviene perché, come sottolinea Vattimo, «l’uomo mantiene la posizione di “centro” della realtà a cui allude la concezione corrente di umanismo, solo in forza di un riferimento a un Grund [fondamento] che lo accerta in questo ruolo»53. Ma,

51 Ivi, p. 176.

52 Vattimo G., “Dialettica, differenza, pensiero debole”, in Vattimo G., Rovatti P.A. (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 1986, pp. 12-28, p. 21.

53 Vattimo G., La fine della modernità…, (op. cit.), p. 40.

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venuto meno questo fondamento, «l’uomo scivola dal centro verso una x»54, come scrive Nietzsche riferendosi a quel percorso - per la verità iniziato con Copernico - nel quale l’uomo ha visto progressivamente diminuire la sua importanza e nel quale, per contraccolpo, si è aggrappato alla propria ragione e autonomia per affermare il proprio essere. Ma tale soluzione pare, nel postmoderno, essersi rivelata fallace, come, infatti, scrive Rovatti, «la situazione che Nietzsche vede è caratterizzata […] dalla possibilità di perdersi: l’uomo è giunto dinnanzi a un limite, un passo oltre e potrà sprofondare, perdersi completamente»55. Una situazione estrema alla quale Nietzsche risponde in maniera altrettanto estrema esaltando la volontà di potenza. Al centro c’è ancora, quindi, l’autonomia e la volontà, proposte però in una chiave esasperata, in linea con l’analisi precedentemente fatta a proposito dei disagi della modernità.

Il concetto di volontà di potenza lo si ritrova, anche, in relazione al rapporto dell’uomo con la natura, in particolare quando si parla del potere che, attraverso la tecnica, l’uomo ha su di essa. Qui, in realtà, i toni di Nietzsche e Heidegger differiscono. Il primo, infatti, spinge per una sottomissione di tutta la realtà alla volontà dell’uomo, al quale, in quanto Übermensch, spetta il compito di porre nuovi valori che dipendano soltanto dalla sua volontà. Il secondo, complice probabilmente anche il fatto che egli scriva in un momento successivo rispetto a Nietzsche, è già cosciente dei pericoli ai quali può portare un uso indiscriminato della tecnica. Per Heidegger, infatti, compito dell’uomo è la cura dell’essere e il modo in cui egli attraverso la tecnica usa della realtà tradisce questo compito. Ciò accade perché la tecnica, nell’oggettivare la realtà, si rivela coerentemente figlia di quella metafisica che non permette lo svelarsi dell’essere. Come, infatti, scrive Vattimo, «in Heidegger, […] la crisi dell’umanismo […] ha da fare in modo non accidentale con la tecnica moderna. […] La tecnica appare come la causa di un generale processo di disumanizzazione»56. In un certo senso, dunque, Nietzsche e

54 Nietzsche F., Frammento postumo 2 [127] 5, autunno 1886.

55 Rovatti P.A., “Trasformazioni nel corso dell’esperienza”, in Vattimo G., Rovatti P.A. (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 1986, pp. 29-51, p. 29-30.

56 Vattimo G., La fine della modernità…, (op. cit.), p. 41.

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Heidegger rappresentano le due anime del modo in cui oggi il postmoderno pensa al ruolo dell’uomo nei confronti della natura. Da una parte, appunto, rileviamo nella nostra contemporaneità una manipolazione continua e radicale della natura, dall’altra è presente una corrente che ne denuncia i pericoli e che è rinvenibile, per esempio, in Jonas il quale afferma che «il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che mediante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per l’uomo»57.

Infine la crisi della ragione: essa caratterizza primariamente gli esiti del pensiero di questi due autori. L’annuncio della “fine della storia”, intesa come l’abbandono di un certo modo lineare di interpretarla, l’impossibilità di riconoscere un fondamento della realtà, la necessità che l’uomo ponga nuovi valori sono indici inequivocabili di una ragione che si ritiene non possa più parlare in modo oggettivo della realtà. In fondo, l’annuncio della morte di Dio significa proprio l’impossibilità e l’inutilità di risalire ad un fondamento della realtà e quindi del sapere, come sottolinea, infatti, Vattimo, «in Nietzsche, come si sa, Dio muore proprio in quanto il sapere non ha più il bisogno di arrivare alle cause ultime […] Anche se Dio muore perché lo si deve negare in nome dello stesso imperativo di verità che ci è sempre stato presentato come una legge, con lui perde anche senso l’imperativo della verità»58. Da parte sua Heidegger decreta la fine non solo della metafisica ma anche della filosofia59 e apre le porte alla poesia e all’arte come forme privilegiate per avvicinarsi all’essere. Venendo meno dunque la possibilità di porre la questione della verità60 le porte del relativismo sono dichiaratamente spalancate.

57 Jonas H., Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it. Einaudi, Torino, 2009, p. XXVII.

58 Vattimo G., La fine della modernità…, (op. cit.), p. 32.

59 Cfr. Heidegger M., Lettera sull’“umanismo”, trad it. in Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, p.

314: «È tempo di disabituarsi a sopravvalutare la filosofia e quindi a chiederle troppo. Nell’attuale situazione di necessità del mondo è necessaria meno filosofia […] Il pensiero a venire non è più filosofia, perché esso pensa in modo più originario della metafisica, termine che indica la stessa identica cosa».

60 Interessante in merito il testo di Antonella Besussi la quale, come recita la quarta di copertina,

“prende partito per il ritorno in scena della verità” nel discorso pubblico. Cfr. Besussi A.,

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La domanda che, sul finire di queste riflessioni, sorge è se questo esito sia ineluttabile. Come scrive, infatti, MacIntyre, «la potenza della posizione di Nietzsche dipende dalla verità di una tesi fondamentale: che ogni giustificazione razionale della morale palesemente fallisce, e che quindi la fede nei dogmi della morale va spiegata riconducendola a un insieme di razionalizzazioni che nasconde il fenomeno essenzialmente non-razionale della volontà»61. Nell’affrontare il pensiero di Engelhardt, dunque, partiremo da questa domanda alla quale egli risponde in maniera affermativa, dal momento che, il suo Manuale, esordisce dichiarando che «questo libro riconosce l’impossibilità di scoprire un’etica laica canonica e concreta»62, e verificheremo se tale impostazione risulti fondata.

Il postmoderno e Engelhardt

Lo studio sistematico del pensiero di questo Autore risulta funzionale per l’approfondimento delle tematiche di cui desideriamo occuparci in quanto le tesi che sostiene hanno come premessa un’ampia e approfondita analisi delle cause storiche e teoretiche che hanno portato alla situazione di stallo in cui, a parere di molti, si trova la filosofia morale in particolare, e la filosofia in generale - filosofia intesa come quella scienza che si propone di comprendere il significato della realtà attraverso la ragione. Engelhardt, infatti, approda alla sua tesi più celebre, riassumibile nell’espressione morale minimale procedurale, proprio come risposta all’impasse di fronte alla quale si trova l’uomo nella società contemporanea, caratterizzata da un innegabile pluralismo di idee e di stili di vita.

Le soluzioni morali che egli propone, per quanto concerne il rispetto dovuto alle persone e ai problemi legati all’inizio e al fine vita, costituiscono, così, un utile

Disputandum est. La passione per la verità nel discorso pubblico, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.

61 MacIntyre A., Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, trad. it. Armando Editore, Roma, 2009, p.

156.

62 Engelhardt jr. H.T., Manuale di Bioetica, (op. cit.), p. 25.

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punto di confronto attraverso il quale affrontare tali questioni etiche63 che risultano centrali nel dibattito bioetico attuale. Dal momento che una tesi filosofica può essere discussa sia prendendo in considerazione le premesse da cui muove, vagliandone la consistenza, sia verificandone la coerenza interna, dal punto di vista metodologico ci preme dichiarare che la strategia argomentativa intreccerà entrambi questi approcci. Seguiremo, dunque, le argomentazioni dell’autore, per comprenderne la logica interna, e in alcuni casi sarà, però, anche inevitabile risalire, in maniera critica, alla fonte delle sue tesi.

Il punto da cui muove Engelhardt è molto simile, per esempio, a quello da cui parte Jonas, sebbene, quest’ultimo arrivi a proporre, con il suo principio responsabilità, una morale tutt’altro che minimale dal momento che, rintracciando un dover essere nell’essere64, riapre, di fatto, il discorso metafisico o, perlomeno, ontologico. Lo sforzo che intraprende Engelhardt per sondare le possibilità del discorso morale nasce, infatti, come in Jonas65, dalla presa di coscienza del fatto che, in quello stesso processo della postmodernità che ha portato ad indebolire, se

63 In questo lavoro userò i termini “morale” e “etica” come sinonimi sebbene nella tradizione filosofica abbiano assunto significati differenti. Entrambi i termini (mos-moris e ethos) fanno, in realtà, riferimento ai costumi e alle consuetudini in voga in una certa società, ma sono solitamente impiegati, il primo, per indicare la riflessione su cosa sia la “vita buona” per l’individuo, il secondo, invece, per indicare la riflessione sul bene nella sua dimensione pubblica.

Anche Engelhardt impiega nei suoi testi tali termini come sinonimi accostando, giustamente, ad essi anche quello di “bioetica” la quale, come disciplina, è, di fatto, filosofia morale, sebbene abbia un oggetto più ristretto rispetto al mare magnum delle azioni umane. Infatti, facendo nostra la definizione di bioetica introdotta da Pessina, per il quale essa rappresenta la coscienza critica della civiltà tecnologica, possiamo, sempre con Pessina, affermare che «la bioetica si configura come un’attività filosofica […] poiché le domande (l’oggetto formale) che investono le tecnoscienze (l’oggetto materiale) sono di natura filosofica e riguardano il significato della costruzione dell’identità umana all’interno della azione tecnologica» (in Pessina A., Bioetica…, op. cit., p. 41).

64 Jonas, infatti, rintraccia nella figura del neonato l’oggetto originario della responsabilità in quanto «qui l’essere di un ente, sul semplice piano ontico, postula in modo immanente ed evidente un dovere degli altri» di prendersi cura di lui. Cfr. Jonas H., Il principio responsabilità…, (op.

cit.), p. 163. Il pensiero di questo autore è qui, seppur brevemente, preso in considerazione per mostrare come, a partire dal riconoscimento di una crisi nella capacità della ragione di comprendere il senso della realtà, non sia però necessario uno sbocco relativistico.

65 Jonas riconosce il potere ambivalente della tecnica che, da strumento nelle mani dell’uomo, in assenza di criteri per guidare l’azione, rischia di trasformare l’uomo stesso in uno dei tanti oggetti da manipolare. Scrive così Jonas: «noi rabbrividiamo nella nudità di un nichilismo in cui la condizione di quasi-onnipotenza convive con quella di quasi-vacuità, la più grande abilità con un sapere minimo. […] Mai tanto potere è stato accompagnato da una così scarsa capacità di indicarne l’uso migliore», (Jonas H., Dalla fede antica all’uomo tecnologico, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1974, p. 62 e p. 266).

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non addirittura, a cancellare ogni certezza, è emersa, con prepotenza, l’esigenza di rintracciare dei criteri per guidare lo strapotere che la tecnologia pone nelle mani dell’uomo. Scrive, infatti, Engelhardt che «mentre l’umanità sperimentava un’espansione senza precedenti dei suoi poteri, venivano meno le sue certezze sul terreno dei doveri e dei limiti (eventuali) dell’azione umana. In modi diversi le diverse comunità hanno sperimentato la vertigine di una gamma di possibilità assolutamente inedita»66. Engelhardt, nel suo Manuale, tenta di fornire una soluzione a questa “vertigine” che sorge di fronte alle difficoltà che emergono nel momento in cui si cerca di rintracciare un linguaggio comune all’interno di una società frammentata. L’autore, infatti, cerca di dare risposta alla domanda: «come possiamo sostenere una morale pubblica alla fine dell’era cristiana, nel bel mezzo della postmodernità?»67. In questa domanda è possibile già intravvedere una delle tesi fondamentali di Engelhardt: la tesi che l’epoca cristiana sia finita e che, di conseguenza, perda terreno la convinzione che sia possibile sostenere un’unica morale sostanziale suscettibile di essere accolta come vera da tutti gli uomini. Ma andiamo con ordine e cerchiamo di capire come egli raffiguri la postmodernità e che peso abbia all’interno del suo pensiero il discutibile annuncio della fine dell’epoca cristiana.

Il termine “postmodernità”, per Engelhardt, sta dunque ad indicare «una condizione sia sociologica sia epistemologica: la perdita di una narrazione universale nei cui termini interpretare l’esperienza umana e, nello stesso tempo, la perdita della capacità di giustificare o di chiarire in termini laici generali il contenuto di tale narrazione»68. Esiste, di fatto, nell’epoca attuale una grande quantità di visioni etiche che sembrano riproporre, come attuale, il mito di Babele con le sue conseguenze disgregative per la famiglia umana. Tale condizione è per Engelhardt il risultato del fallimento del cosiddetto progetto illuministico, ossia di quel «tentativo di stabilire in termini secolari una morale canonica sostanziale

66 Engelhardt jr. H.T., Manuale di Bioetica, (op. cit.), p. 15.

67 Ivi, p. 16.

68 Ivi, p. 449.

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