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Capitolo 4 Aspetti del sistema di contrattazione collettiva nel mercato del lavoro italiano

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Academic year: 2021

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Capitolo 4

Aspetti del sistema di contrattazione collettiva nel

mercato del lavoro italiano

4.1 Introduzione

In ogni mercato del lavoro nazionale esiste uno specifico assetto istituzionale, che è costituito da un insieme di norme che regolano le assunzioni, i licenziamenti ma che è deputato anche a sanare i conflitti e ad assicurare protezione di tipo assistenziale agli individui, lavoratori o disoccupati. La contrattazione collettiva, che ne è parte importante, è notevolmente influenzata dalla presenza di organizzazioni sindacali in alcuni casi dotate di notevole influenza nella contrattazione e dall’esistenza di contratti collettivi di lavoro. Il diverso grado d’intensità con cui queste istituzioni possono essere presenti nel mercato del lavoro può contribuire a spiegare le differenze tra paesi nella performance di quel mercato e dell’economia in generale. Nei capitoli precedenti abbiamo tentato di illustrare le linee principali lungo le quali si è sviluppato il dibattito sulla relazione tra performance macroeconomica e le più importanti istituzioni del mercato del lavoro, soffermandoci in particolare sulla struttura contrattuale. Calmfors, autore insieme a Driffill dell’importante studio che ha individuato una relazione hump-shaped tra tasso di disoccupazione e centralizzazione della contrattazione, conclude la sua survey scrivendo che, “ per qua nto i risultati teorici (presentati nella survey) siano netti, le conclusioni pratiche sono più ambigue;…la conclusione principale (che si può trarre sulla loro base) è che i legami tra centralizzazione e performance macroeconomica sono così complessi che un consenso scientifico sul come organizzare al meglio la contrattazione salariale sembra improbabile da raggiungere” (Calmfors, 1993). “La grande difficoltà incontrata dai ricercatori che hanno tentato d’identificare una robusta relazione tra differenze nelle strutture contrattuali e differenze nelle performance macroeconomiche suggerisce che diverse forme di organizzazione possono assicurare performance simili58.”

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Nonostante non esista quindi un generale accordo sulla natura di questa relazione, l’analisi svolta nel Capitolo 3 ha comunque focalizzato gli elementi necessari per l’analisi della struttura della contrattazione collettiva.

In particolare, tra le critiche mosse alla relazione “a gobba” ci sono stati interessanti approfondimenti sull’importante ruolo che svolge il coordinamento, anche in contesti decentrati (Soskice, 1990): in sintesi, con un’appropriata riclassificazione dei paesi sulla base del coordinamento tra gli attori chiave della contrattazione si può riscontrare una relazione positiva tra performance macroeconomiche e questa caratteristica della struttura contrattuale.

In questo capitolo cercheremo di evidenziare alcune caratteristiche del mercato del lavoro italiano legate alla struttura della contrattazione, tracciando le linee dell’evoluzione storica della contrattazione collettiva ed individuando uno dei principali temi di discussione che coinvolgono in particolare questa istituzione del mercato del lavoro. Nel prossimo paragrafo delineeremo le caratteristiche storiche e normative dei sindacati italiani, le cui caratteristiche sono legate alla storia del paese e dei principali partiti politici.

4.2 Il sindacato in Italia: aspetti storici e normativi

In Italia, il regime fascista represse totalmente le organizzazioni e le libertà sindacali, riconoscendo solo le corporazioni, organizzazioni direttamente costituite dal regime e sottoposte al controllo statale.

Il sindacalismo democratico si ricostruì con la stipulazione del Patto di Roma (3 Giugno 1944) da parte dei tre maggiori partiti italiani antifascisti, la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista e il Partito Socialista, in cui si decise di dar vita a un’unica organizzazione sindacale, la Confederazione Generale del Lavoro (CGL), che avrebbe organizzato tutti i lavoratori, indipendentemente dal loro orientamento politico ed ideologico59.

Al momento della fondazione, la struttura organizzativa non era ancora ben definita, sebbene si decise un’unica confederazione nazionale, un’unica federazione nazionale e

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I principali rife rimenti bibliografici riguardo agli aspetti storici e normativi del sindacato italiano sono Turone, S., 1992, Graziani, G., 1998 e Giugni, G., 2006.

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provinciale per ogni ramo di attività produttiva, un’unica camera del lavoro per ogni provincia. La struttura era ancora incerta anche a causa di uno scontro tra le stesse forze politiche comunisti e socialisti da una parte e democristiani dall’altra. I primi desideravano attribuire centralità alle strutture orizzontali (confederazione e camere del lavoro) rispetto alle federazioni di categoria, mentre i secondi ritenevano, come scrive De Gasperi nel 1944, che la preminenza delle strutture verticali avrebbe rappresentato “una vittoria del decentramento democratico e federalista contro l’accentramento inorganico e dittatoriale”.

Si affermò la linea comunista, ma i motivi di tale scelta non vanno cercati principalmente né in una manovra politica, né in una predominanza comunista nel sindacato unitario. Più semplicemente, un sindacato accentrato si rivelò necessario per affrontare un contesto nazionale diviso in due, con esperienze sindacali operaie nelle fabbriche del Nord (con fini in parte economici e in gran parte legati alla Resistenza) e movimenti di contadini e disoccupati al Sud. D’altra parte, soprattutto in un meridione agitato dalle lotte di senza terra e senza lavoro, l’unica struttura sindacale possibile è quella orizzontale e quindi territoriale, coordinata a livello accentrato. Se poi si considera che nei primissimi anni di vita della CGL le federazioni di categoria sono lente a ricostruirsi e a radicarsi, appare chiaro come un’organizzazione accentrata sia l’unica scelta possibile per il sindacato. Occorre anche considerare che nel Centro-Nord occupato la guerra continua e che quindi, a prescindere dall’attività di Resistenza, l’azione sindacale necessita di un (difficile) controllo e coordinamento, che può essere assicurato solo attraverso una gestione centralizzata da parte degli unici soggetti veramente strutturati: i partiti antifascisti. Queste peculiari basi storiche e politiche sono state determinanti per la struttura accentrata che ha caratterizzato il sistema contrattuale italiano dal dopoguerra ad oggi.

La stretta connessione tra unità sindacale e unità delle forze politiche antifasciste fece sì che la prima non riuscisse a sopravvivere alla fine della seconda. Nel 1948 uscì dalla CGL unitaria la corrente democratica-cristiana e, nell’anno successivo, quella socialdemocratica: nel 1950 queste costituirono rispettivamente la Cisl e la Uil. Queste tre Confederazioni sono ancora oggi le principali organizzazioni sindacali italiane.

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L’organizzazione

La struttura organizzativa delle maggiori Confederazioni sindacali dei lavoratori italiane (Confederazione generale italiana del lavoro, Cgil; Confederazione italiana sindacati liberi, Cisl; Unione italiana del lavoro, Uil) può essere oggi così schematizzata:

Essa si articola secondo due linee organizzative: una orizzontale, secondo il criterio territoriale/intercategoriale, e l’altra verticale, secondo il criterio della categoria, e cioè secondo il tipo di attività produttiva svolta dall’impresa in cui operano i lavoratori iscritti. Questa seconda linea è quella prevalente nell’esperienza storica italiana.

L’unità di base di ciascuna organizzazione di categoria è costituita dagli iscritti e dai loro rappresentati nel luogo di lavoro; in mancanza di questa, il lavoratore può aderire direttamente alla struttura territoriale. L’organizzazione aziendale confluisce, in dimensione verticale, nelle strutture territoriali (solitamente provinciali) e, quindi, in quelle regionali e nazionali di categoria. Queste ultime, infine, confluiscono nella Confederazione. Le istanze verticali rappresentano le aree/settori che gli stessi sindacati hanno individuato come area specifica di contrattazione.

Le strutture territoriali di categoria confluiscono, in linea orizzontale, nella struttura intercategoriale chiamata Camera del Lavoro per la Cgil, Unione Sindacale territoriale per la Cisl e Camera sindacale per la Uil. Le organizzazioni orizzontali confluiscono a loro volta in strutture regionali. Infine, sia le strutture orizzontali regionali, sia le federazioni nazionali di categoria concorrono a formare la Confederazione.

CONFEDERAZIONE Struttura regionale intercategoriale (orizzontale) Struttura territoriale intercategoriale (orizzontale) Struttura nazionale di categoria Struttura regionale di categoria Struttura territoriale di categoria Struttura di luogo di lavoro

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Aspetti normativi

L’art. 39 della nostra Costituzione riconosce la libertà dell’organizzazione sindacale. Tale libertà si può esprimere anche in forme diverse dall’associazione, per esempio nei consigli di fabbrica o nelle Rappresentanze Sindacali Unitarie.

Le finalità delle associazioni sindacali di tutela economica e normativa delle condizioni di lavoro dei suoi iscritti vengono principalmente perseguite tramite la contrattazione con la controparte imprenditoriale. Nel tempo, la contrattazione collettiva ha acquisito nuovi contenuti e funzioni, una diversa articolazione rispetto ai livelli di contrattazione e l’estensione dei suoi effetti.

Un primo problema che si pone nella disciplina della contrattazione collettiva italiana deriva dall’efficacia dei contratti collettivi. Essi hanno infatti una natura privatistica che li rendono efficaci (dal punto di vista puramente giuridico) solo nei confronti di quei soggetti che abbiano conferito all’associazione il potere di rappresentanza per la loro stipulazione.

Il terzo e quarto comma dell’art. 39 della Costituzione prevedono che i sindacati registrati abbiano personalità giuridica e che possano, rappresentati in proporzione ai loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce (efficacia erga omnes). Questa parte dell’articolo non è stata però mai attuata, per motivi diversi, tra cui il timore dei sindacati che il procedimento di registrazione, con relativi controlli sul numero d’iscritti e sulla democraticità dell’organizzazione, diventi uno strumento d’intromissione dello Stato nella vita interna del sindacato.

La mancata attuazione non ha però delegittimato l’attività sindacale, né l’importanza del contratto collettivo, poiché laddove è mancato un provvedimento legislativo, per prassi il contratto collettivo (soprattutto nel settore privato) viene applicato a tutti i lavoratori di quella catego ria.

Vi sono comunque aspetti pacifici sul ruolo giuridico del contratto collettivo; per esempio l’art 36 Cost. indirettamente riconosce l’applicazione delle tariffe previste nei contratti collettivi perché considerate “proporzionate” e “sufficienti”; inoltre, da parte delle autorità sono stati presi spesso provvedimenti d’incentivo alla sua applicazione tramite sgravi e benefici.

Oltre che dalla Costituzione (e dal diritto civile), la realtà sindacale è regolata da una legge, fondamentale, la l.300 del 1970, conosciuta come Statuto dei Lavoratori, che regola con l’art.19, tra altrettanto importanti aspetti, le forme di rappresentanza degli

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interessi dei lavoratori nei luoghi di lavoro, tramite il riconoscimento delle Rappresentanze Sindacali Aziendali per le aziende con più di quindici dipendenti. Le RSA si dovrebbero costituire su iniziativa dei lavoratori, e godono di diritti che non verrebbero concessi ai singoli lavoratori (per esempio permessi e locali per le assemblee). Nell’art.19 non si prevede “come” costituire le RSA (altrimenti si violerebbe l’art.39 della Costituzione), ma “chi”, cioè il sindacato che ha stipulato il contratto collettivo che si applica a quell’impresa.

L’Accordo del Luglio 1993 ha poi introdotto una nuova forma di rappresentanza degli interessi nei luoghi di lavoro, le Rappresentanze Sindacali Unitarie, che possono essere costituite in luogo delle RSA, ma non in loro sostituzione. Il confronto tra queste due forme mette in risalto il problema ancora aperto delle rappresentanze sindacali.

4.3 L’evoluzione della contrattazione collettiva dal secondo

dopoguerra a oggi

L’analisi dell’evoluzione storica della struttura della contrattazione collettiva, che andremo a fare in sintesi, vuole evidenziare gli elementi che maggiormente hanno influenzato la sua configurazione. Tali elementi sono principalmente la struttura del sistema produttivo, delle organizzazioni di rappresentanza delle imprese e dei lavoratori, la situazione del mercato del lavoro e l’andamento del ciclo economico. La scelta della struttura con la quale condurre la contrattazione collettiva può quindi essere condizionata da molti elementi, e una scelta che non tenga conto della realtà del mercato può non essere implementata con successo. Procediamo quindi con un escursus storico sulla contrattazione collettiva in Italia dal secondo dopoguerra ad oggi.

Nel decennio immediatamente successivo alla caduta del regime fascista il sistema contrattuale era fortemente centralizzato, per le ragioni che abbiamo ricordato nel precedente paragrafo. Con la riconquista della libertà sindacale, le organizzazioni sindacali avevano potuto ricostituire innanzi tutto le proprie strutture di vertice, alle quali venne affidata l’attività contrattuale. Tra i primi e più importati accordi, frutto della nuova struttura contrattuale, fu l’introduzione dell’indennità di contingenza, la

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cosiddetta scala mobile60, per l’adeguamento automatico, anche se parziale, dei salari al costo della vita. Tale meccanismo si inseriva in un contesto di elevata inflazione e prevedeva scatti di valore diverso a seconda della categoria, qualifica, età, sesso e zona geografica.

Con il consolidamento della linea politica moderata, frutto della vittoria della Democrazia Cristiana nel 1948, l’azione sindacale venne confinata entro un ambito più ristretto. Dopo il 1951 l’Italia conobbe uno sviluppo sostenuto, caratterizzato da una rapida espansione dell’industria e una contrazione del settore agricolo. I settori più dinamici furono quelli orientati verso le esportazioni, in particolare autoveicoli, gomma, elettrodomestici, mobili per ufficio, alcuni comparti dell’abbigliamento. Lo sviluppo di tali settori venne favorito dall’installazione di impianti di grandi dimensioni e dall’utilizzo di tecnologie moderne. Si trattava però di settori in cui l’occupazione mostrava bassi tassi di crescita, dato che nei settori dinamici dell’economia gli investimenti erano finalizzati più alla crescita della produttività che non dell’occupazione. La forza lavoro disoccupata venne parzialmente assorbita in un primo tempo dall’agricoltura e poi, con l’inizio dell’esodo dalle campagne, nell’edilizia, nel commercio e nella pubblica amministrazione. Tuttavia, anche questi settori non erano in grado di assorbire tutta la forza lavoro disponibile, per cui si verificarono notevoli flussi migratori verso l’estero.

In questa situazione, la forza rivendicativa dei sindacati era necessariamente limitata, per cui la quota di reddito nazionale destinata ai salari è andata decrescendo per tutti gli anni Cinquanta. Ciò non significa una caduta dei salari, bensì una crescita dei salari inferiore a quella della produttività. La debolezza dei lavoratori si riscontrava soprattutto all’interno delle fabbriche: il controllo sui lavoratori avveniva non solo sul posto di lavoro, ma anche nella vita privata, per cui non fu infrequente il caso di licenziamenti per motivi politici.

La debolezza del sindacato negli anni Cinquanta dipendeva anche dalle posizioni talora contrastanti dei diversi sindacati, dovute in larga misura ai loro legami con i partiti. Nella Cisl, legata alla Democrazia Cristiana, era prevalente la linea della contrattazione aziendale. La Cgil, legata al Partito Comunista, seguiva una linea fortemente

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La scala mobile è un meccanismo di indicizzazione, cioè di adeguamento automatico delle retribuzioni al costo della vita; tale meccanismo avviene attraverso la corresponsione di una indennità di contingenza che varia al variare dell’inflazione.

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accentratrice, che venne abbandonata in favore del decentramento delle trattative solo all’inizio degli anni Sessanta.

Fino alla fine degli anni Cinquanta, dunque, non vi furono rilevanti rivendicazioni di natura economica. In quegli anni la contrattazione collettiva era dunque caratterizzata da una ridotta incisività e un basso tasso di istituzionalizzazione61. Solo a partire dagli anni ‘59-‘60, con i grandi scioperi nazionali dell’industria, si concretizzarono le prime consistenti azioni sindacali rivendicative.

Gli anni Sessanta mostrano caratteristiche decisamente diverse rispetto al periodo precedente. Nel 1960-61 si registrò un rapido aumento dell’occupazione nelle regioni del Nord, accompagnato da una cospicua crescita dei salari. I sindacati mostrarono una forza crescente e si aprì un periodo di aspra conflittualità, caratterizzato da numerosi scioperi nell’industria manifatturiera; alle richieste di aumenti salariali cominciarono ad associarsi anche obiettivi di carattere normativo. Il 1969 fu un anno di svolta nella strategia sindacale; le trattative per il rinnovo dei contratti avvennero in un clima decisamente conflittuale. Nel 1969 la disoccupazione era ancora elevata, anche perché i flussi migratori verso l’estero si stavano riducendo. Può stupire dunque il vigore delle lotte operaie62 nel cosiddetto “a utunno caldo” del 1969. Va osservato però che i cambiamenti organizzativi avevano peggiorato le condizioni di lavoro all’interno delle fabbriche; contemporaneamente con la nuova ondata di migrazioni dal Sud al Nord nella seconda metà degli anni Sessanta, peggiorava anche la qualità della vita dei lavoratori fuori dalla fabbrica, a causa dei problemi abitativi, delle carenze di trasporti, dell’insufficienza di scuole e della mancanza di posti negli ospedali; la situazione era particolarmente difficile nell’area del triangolo industriale (Genova, Torino, Milano), in cui era affluito un elevatissimo numero di immigrati dal meridione. Non a caso i lavoratori più accaniti in quel periodo furono proprio quelli provenienti dal Sud Italia, che si trovavano in condizioni estremamente disagiate. Anche gli obiettivi cambiarono rispetto al passato; le rivendicazioni non riguardavano solo l’aumento dei salari, ma anche aspetti normativi, quali la riduzione dei ritmi di lavoro, la limitazione della mobilità fra reparti (si tenga conto che la mobilità veniva spesso utilizzata in funzione antisindacale), restrizioni all’uso del cottimo e degli straordinari. Gli obiettivi di tipo normativo tendevano a partire “dal basso”, cioè direttamente dai lavoratori addetti a uno

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Con il termine “istituzionalizzazione” ci riferiamo all’insieme di norme che regolamentano la contrattazione collettiva e i conflitti.

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stesso impianto. A sostegno ulteriore della lotta operaia, i vertici sindacali avanzarono anche rivendicazioni di tipo sociale, gli “scioperi per le riforme”, cioè per la casa, per lo sviluppo del Mezzogiorno, per i trasporti urbani.

Gli esiti delle lotte dell’aut unno caldo sono stati diversi a seconda degli obiettivi. Molte rivendicazioni di tipo normativo ebbero successo: venne limitata la mobilità del lavoro, furono abolite le “gabbie salariali”63, vennero concesse ai lavoratori dell’industria 150 ore annuali per attività formative. Queste conquiste sfociarono nell’emanazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori (1970). Con lo Statuto dei lavoratori vennero sanciti i diritti all’opinione politica e sindacale, all’assemblea nei luoghi di lavoro, i diritti di partecipazione e di organizzazione sindacale in fabbrica e, col famoso articolo 18, il diritto al ripristino del rapporto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa nelle imprese con più di 15 dipendenti. Anche le rivendicazioni salariali ebbero un notevole successo. Le lotte per le riforme ebbero invece un esito più incerto e più diluito nel tempo.

Il modello contrattuale che scaturì da quel nuovo ciclo contrattuale può essere definito “bipolare” perché il livello interconfederale fu in gran parte messo da parte, la contrattazione aziendale crebbe ed ampliò le proprie competenza e il livello nazionale di categoria estese il suo campo di applicazione. La contrattazione collettiva degli anni Sessanta coinvolse ed ebbe il sostegno dello Stato, ma non si era ancora arrivati ad una formale istituzionalizzazione, sebbene la sua estensione e la sua incisività fossero molto alte; si assistette inoltre ad una forte crescita della sindacalizzazione e del potere negoziale dei sindacati (con effetti di miglioramento delle condizioni di lavoro).

Le relazioni industriali dopo il 1973

All’inizio degli anni Settanta l’economia mondiale venne scossa da eventi particolarmente gravi, la crisi del sistema monetario internazionale del 1971-73 e il primo shock petrolifero del 1973-74. In Italia nel Febbraio del 1973 si decise per la fluttuazione della Lira, che cominciò a svalutarsi; si creò così una spirale inflazione-svalutazione, aggravata dal notevole disavanzo commerciale causato dalla crisi petrolifera. Di fronte a questa situazione venne attuata, come in molti altri paesi, una drastica politica deflazionistica al fine di ridurre la domanda di importazioni: vennero

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Le gabbie salariali erano le differenze territoriali nei salari minimi contrattuali, che facevano sì che i lavoratori ne Sud Italia venissero retribuiti sistematicamente meno che quelli del Nord.

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infatti adottate politiche fiscali e monetarie fortemente restrittive, che causarono una grave depressione.

Nel 1974 il tasso di inflazione sfiorò il 20% e ciò provocò un’azione sindacale volta ad una revisione del meccanismo della scala mobile. Venne introdotto il punto unico di contingenza64, per cui l’indennità di contingenza venne pagata in uguale misura a tutti i lavoratori dell’industria; la maggior parte dei lavoratori si trovò perciò a godere di un completo adeguamento della retribuzione all’aumento dei prezzi, mentre al tempo stesso le differenze salariali si riducevano automaticamente, dato che la crescita relativa dei salari era tanto più alta quanto più bassa era la retribuzione65. Si è osservato da più parti che tale meccanismo può essere stato la causa di un rafforzamento dell’inflazione esistente e che poteva generare una spirale inflazionistica anche nel caso di aumento dei prezzi occasionale. Tuttavia gli imprenditori accettarono l’accordo, perché in una fase di cambi flessibili potevano aumentare i prezzi senza perdere quote di mercato all’estero; l’aumento del tasso di inflazione si traduceva infatti in un deprezzamento della Lira e ciò manteneva inalterata la competitività internazionale. Inoltre, l’accordo sul punto unico di contingenza riduceva la conflittualità inevitabilmente legata alla necessità di adeguare il salario al costo della vita in regime di inflazione elevata, soprattutto fra i lavoratori a basso reddito.

Sul piano politico, gli anni Settanta italiani furono caratterizzati dal notevole successo del Partito Comunista, con il quale i governi formati nel 1976 e 1979 furono detti “governi di solidarietà nazionale” e si ressero sull’appoggio esterno del PCI. L’allargamento del consenso politico favorì la cosiddetta “normalizzazione” delle relazioni sindacali; in pratica, l’atteggiamento sindacale divenne più conciliante e meno conflittuale. Non a caso nel 1977, in occasione dell’assemblea dei quadri dei sindacati

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Se ogni lavoratore deve ricevere per esempio lo 0.8% di aumento salariale per ogni 1% di aumento dei prezzi, il punto di contingenza , cioè quanto viene pagato effettivamente a seguito per ogni aumento dell'1% dei prezzi, varia a seconda della retribuzione: chi abbia uno stipendio di 100 riceverà 0.8, chi abbia uno stipendio di 200 riceverà 1.6. Se il punto è unico, tutti ricevono 1; il che significa, in questo esempio, che l'indicizzazione è completa per chi abbia uno stipendio di 100 (e più che completa per chi abbia una retribuzione inferiore), e cala via via al crescere della retribuzione: per chi abbia una retribuzione di 200, un aumento di 1 corrisponde a una crescita dello 0.5%, metà dell'aumento dei prezzi. 65

Consideriamo un salario di 100 e uno di 200, cui si applica un'indennità di contingenza di 50. Il primo diventa 150 e il secondo 250; senza indennità il primo è la metà del secondo, con l'indennità diventa il 60%.

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confederali Cgil-Cisl- Uil tenutasi all’Eur a Roma, prevalse una linea di moderazione: i sindacati si dichiararono disposti ad accettare la moderazione salariale e un aumento della mobilità operaia per far fronte alla grave crisi dell’economia italiana e favorire la crescita dell’occupazione. Pochi giorni dopo, Luciano Lama, leader della Cgil, in un’intervista al quotidiano “Repubblica”, affermò che la linea aggressiva che il sindacato aveva sostenuto in passato doveva considerarsi errata non solo nella pratica ma anche da un punto di vista teorico, che il salario non poteva considerarsi una “variabile indipendente”, in quanto variazioni del salario producono effetti sull’equilibrio economico generale. Lo schema interpretativo su cui si basava la “svolta dell’Eur” era basato sull’idea che la moderazione salariale avrebbe favorito l’aumento dei profitti, influenzando positivamente gli investimenti, che a loro volta avrebbero generato crescita e occupazione.

Nel 1979, con l’adesione dell’Italia al Sistema Monetario Europeo66, l’atteggiamento degli imprenditori rispetto al meccanismo della scala mobile cambiò, dato che in cambi fissi un aumento dei prezzi avrebbe comportato una diminuzione della competitività a livello internazionale. Nel 1982 il presidente della Confindustria Merloni diede disdetta dell’accordo sul punto unico di contingenza e, nel Gennaio del 1983, venne raggiunto un nuovo accordo sul costo del lavoro, che segnò un significativo cambiamento nelle relazioni industriali in Italia.

Il Protocollo del Gennaio 1983 è stato il primo accordo triangolare, cioè con una formale partecipazione del Governo alle trattative; tale accordo prevedeva l’attenuazione del grado di copertura del punto di contingenza e importanti disposizioni normative volte a favorire la flessibilità del lavoro, quali l’introduzione dei contratti a tempo parziale e a tempo determinato, dei contratti di solidarietà e dei contratti di formazione lavoro. L’obiettivo era il contenimento dell’inflazione, una politica dei redditi concertata e una collaborazione fra le parti sociali nella conduzione delle politiche macroeconomiche Il 14 febbraio 1984 il governo Craxi, in accordo con Cisl e Uil e con l’opposizione della Cgil promulgò il cosiddetto “decreto di San Valentino ”, con cui si introduceva la predeterminazione del tasso di inflazione, che comportò il mancato pagamento di 4 punti di contingenza. Quel decreto rappresentò un grave momento di rottura nei rapporti fra i maggiori sindacati, che si protrasse fino al 1988,

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Il Sistema Monetario Europeo è stato l’accordo di cambio fra i paesi della Comunità Economica Europea che aveva lo scopo di assicurare stabili rapporti di cambio fra la valute europee.

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dopo una fase in cui si era avviato un percorso di avvicinamento; nel 1972, infatti, era stato siglato un patto federativo fra Cgil, Cisl e Uil. La crisi del sistema di relazioni industriali fu un momento particolarmente grave per la storia del sindacato italiano, in primo luogo perché, dopo un lungo periodo di unità sindacale, Governo e Confindustria raggiungevano un accordo senza il consenso del maggiore sindacato, la Cgil, in secondo luogo perché le relazioni sindacali venivano disciplinate dall’alto, per decreto governativo. Il PCI e la Cgil promossero un referendum per abrogare tale decreto e persero, se pur di stretta misura.

Nel Dicembre del 1985 si giunse a un accordo secondo cui gli scatti sarebbero stati semestrali anziché trimestrali e sarebbe stato garantito un adeguamento al 100% all’inflazione solo per un salario base di 580.000 lire. La parte eccedente sarebbe stata indicizzata al 25% e non sarebbero state indicizzate eventuali indennità aggiuntive. Si evitava così l’appiattimento dei salari, ma si riduceva allo stesso tempo anche il grado di protezione dei salari dall’inflazione.

Nella seconda metà degli anni Ottanta, i processi di ristrutturazione dell’economia mondiale e la necessità di reggere la concorrenza internazionale indussero le imprese italiane a perseguire l’obiettivo di una forte flessibilità organizzativa, da realizzare anche attraverso la riduzione della rigidità nella regolazione dei rapporti di lavoro; ciò favorì lo spostamento del centro gravitazionale delle relazioni industriali nei luoghi di lavoro.

4.3.1 Il “Patto di Luglio 1993” e la riforma della struttura contrattuale

Dopo la sensibile riduzione del grado di copertura della scala mobile e una fase di rottura fra le confederazioni sindacali (1984 - 1988), si arrivò con intese successive nel Luglio 1992 e nel Luglio 1993 a un nuovo accordo sul costo del lavoro, che segnò l’inizio di una strategia di “concertazione”, che ha caratterizzato il sistema di relazioni industriali per quasi un decennio.

Era ormai necessario che il Governo avesse un ruolo attivo di promotore e garante di accordi tra lavoratori ed imprese e nel fornire alle parti sociali un quadro di riferimento chiaro per quanto riguarda gli obiettivi macroeconomici da perseguire: il paese doveva continuare a far parte del Sistema Monetario Europeo e migliorare i conti della finanza pubblica. L’accordo venne siglato con un patto fra Governo, organizzazioni di datori di

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lavoro e sindacati, il Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno produttivo.

Gli obiettivi principali dell’accordo riguardavano:

1. la riduzione del tasso d’inflazione al livello dei maggiori paesi industrializzati; 2. la riduzione del debito e del deficit dello Stato e la stabilità valutaria;

3. mantenere un’elevata e stabile crescita economica attraverso, soprattutto, politiche di sostegno all’occupazione, al sistema produttivo, alla ricerca e allo sviluppo67.

La fase di concertazione ha definitivamente sostituito il meccanismo di indicizzazione automatica dei salari che si era dimostrato incapace di contenere la spirale prezzi- salari ed aveva determinato una crescente compressione dei differenziali salariali, sottraendo lo spazio alla contrattazione collettiva sull’adeguamento dei salari. Con il Protocollo del 1993 si sostituì il vecchio meccanismo backward looking con un’impostazione forward looking, che dava ampio spazio alla contrattazione con una più chiara divisione dei compiti tra livello nazionale e aziendale.

Vennero confermati e rafforzati due livelli di contrattazione, quello nazionale di categoria e quello aziendale/territoriale, e ad essi assegnate competenze coordinate, non sovrapposte e tendenzialmente specializzate.

Si assistette inoltre ad una modifica della durata dei contratti collettivi, che è diventata quadriennale sia per il contratto di categoria, sia per quello di secondo livello, salvo che per la parte retributiva del contratto nazionale che ha, invece, durata biennale68.

Al livello nazionale è stato affidato il compito di gestire la dinamica delle retribuzioni minime contrattuali, con l’obiettivo di difenderne il valore reale assumendo come riferimento il “tasso d’inflazione programmato”.

Al livello aziendale (o territoriale, nel caso delle imprese più piccole) sono invece stati dati i compiti di accrescere il grado di flessibilità di retribuzioni ed occupazione rispetto all’andamento economico delle imprese, di ridurre la compressione salariale e ridistribuire parte degli incrementi di produttività ai lavoratori tramite i “premi per obiettivi”.

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Secondo molti economisti, quest’ultimo punto è stato in gran parte disatteso. 68

Il 30 Maggio 2007 è stato siglato un accordo per il rinnovo contrattuale dei dipendenti ministeriali, che prevede, in via sperimentale, l’allungamento di un anno della durata del contratto con contenuto retributivo, portandolo così da due a tre anni.

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Una volta ridefiniti i due livelli di contrattazione, sono state decise due disposizioni di raccordo. La prima è quella che ha affidato al contratto nazionale di categoria la regolamentazione delle competenze del contratto decentrato tramite “clausole di rinvio”. La seconda è quella che ha confermato la competenza del livello aziendale per la gestione degli affari connessi alle trasformazioni aziendali quali le innovazioni tecnologiche, organizzative ecc.

Infine, il Patto del ’93 ha introdotto ulteriori due clausole, legate alla rappresentanza dei lavoratori a livello aziendale. La prima ha riservato ai sindacati stipulanti il contratto nazionale di categoria un terzo dei componenti della Rappresentanza Sindacale Unitaria; la seconda ha riconosciuto la legittimazione a contrattare a livello aziendale alle RSU congiuntamente alle strutture periferiche dei sindacati che hanno stipulato il contratto nazionale.

In base alle disposizioni del Protocollo, quindi, il rapporto tra i diversi livelli si presenta ora sia di tipo gerarchico, in quanto i contratti collettivi determinano per rinvio le materie di competenza della contrattazione decentrata, sia di tipo funzionale, in quanto il livello decentrato ha una propria specializzazione. Ne è scaturito un modello di struttura di contrattazione che solo in apparenza è fortemente centralizzato ma che, in realtà, fonda un decentramento che dovrebbe essere controllato e coordinato.

In termini di risultati macroeconomici, con la soppressione della scala mobile il tasso di inflazione fu rapidamente ridotto. Anche gli obiettivi di stabilità valutaria, di riduzione del deficit e del debito pubblico furono raggiunti, e l’Italia poté, nel 1998, entrare a far parte della Unione Economica e Monetaria. Ma, sebbene la scelta di un sistema di relazioni industriali più concertato sia considerato tra i fattori di maggior successo per la lotta all’inflazione e il risanamento dei conti pubblici, va sottolineato che il suo effetto sulla riduzione della disoccupazione è stato minore di quanto probabilmente si sperasse, e che gli obiettivi di rilancio degli investimenti e della produttività non sono stati raggiunti, pur avendo posto le basi per l’introduzione di riforme per la maggiore flessibilità dei contratti di lavoro.

Se da un lato, infatti, il tasso d’occupazione degli ultimi quindici anni è aumentato, soprattutto grazie all’affermarsi di forme di lavoro “atipiche”, esso rimane comunque intorno al 58%, uno dei più bassi tra i paesi OECD (con tassi ancora minori tra le categorie “donne” e “giovani”). In termini di crescita economica, il tasso di crescita del PIL e la produttività del lavoro sono quasi sempre stati, dagli anni Novanta ad oggi, al di sotto di quello degli altri paesi europei, e assai minori di quello degli USA.

(15)

4.4 La riforma del sistema contrattuale e il dibattito sul

decentramento

Le conclusioni che sono state tratte dalle analisi presentate nel terzo capitolo indicano una notevole difficoltà nel fornire risposte univoche circa l’impatto della struttura contrattuale (del suo grado di centralizzazione o di altre dimensioni) sulle performance macroeconomiche. Le indicazioni che si possono trarre da essa dipendono fortemente da qua le dimensione si intende privilegiare.

Nel contesto dell’analisi della realtà italiana, sembra però possibile riconoscere un ruolo significativo e con risvolti positivi alla dimensione “coordinamento”, che ha caratterizzato il sistema contrattale in particolare negli anni della “concertazione ”, almeno fino all’entrata del nostro paese nello SME.

Le analisi corporativiste nella maggior parte dei casi hanno classificato il nostro paese tra quelli con un minore grado di corporativismo (e peggiori performance); nonostante le critiche mosse a questo filone della letteratura circa la debolezza dell’impianto teorico, occorre però concordare sul giudizio negativo fatto sul nostro paese: effettivamente, gli anni Settanta italiani sono stati scanditi da forti conflitti sociali, accentuati da un contesto economico non favorevole, caratterizzato da forte disoccupazione ed inflazione.

Negli anni Ottanta, il sistema contrattuale si mosse verso un maggiore grado di coordinamento e centralizzazione della contrattazione (si pensi ad esempio al primo accordo triangolare stipulato nel Gennaio 1983), all’interno del processo di ristrutturazione del sistema economico. Lo studio di Calmfors e Driffill (1988), riferito a quegli anni, ha riconosciuto all’Italia un grado di centralizzazione intermedio/basso, che secondo i due autori non garantiva nessuno dei vantaggi che erano invece associati ai due casi opposti, alta centralizzazione o decentramento. Alla luce della relazione “a gobba”, sarebbe stato necessario portare il sistema contrattuale verso uno dei due poli, per poter assicurare all’economia nazionale migliori performance.

La scelta di ristrutturare un sistema di contrattazione, e con essa riregolare le relazioni industriali, non poteva però essere legittimata e sostenuta “solo” da indagini teoriche ed empiriche a sostegno della superiorità di un sistema piuttosto di un altro (che abbiamo visto poi essere abbastanza fragili, almeno rispetto agli anni più recenti).

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La spinta alla riforma del sistema contrattuale, avvenuta negli anni della concertazione, è stata dunque data da un insieme complesso di determinanti, con carattere economico ma anche politico. Le performance macroeconomiche, in termini di inflazione e disoccupazione, erano al centro dell’attenzione non solo in prospettiva del benessere interno al paese, ma anche rispetto all’obiettivo di migliorare la posizione internazionale e di rimanere nel Sistema Monetario Europeo.

Effettivamente, dopo il Patto del 1993, il sistema di contrattazione italiano si è polarizzato verso i due estremi, ridefinendo i compiti dei due livelli di contrattazione, ma ha avuto un ruolo rilevante anche la dimensione “coordinamento” tra i livelli di contrattazione e tra gli attori che vi partecipano. I risultati macroeconomici di quel periodo sono stati un netto miglioramento delle performance macroeconomiche in termini di inflazione, contenimento del debito pubblico e maggiore efficienza del sistema complessivo.

Grafico 17: inflazione al consumo e retribuzioni procapite nel settore privato (variazioni percentuali)

Fonte: Casadio e al., 2005.

Una parte degli obiettivi sono stati però disattesi, in particolare quello riguardante la crescita economica stabile ed elevata. Una delle possibili cause interne al paese (cioè non considerando l’accresciuto livello di competizione sui mercati internazionali) viene riconosciuta nel mancato coordinamento del livello decentrato della contrattazione.

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Dal Protocollo del ’93 è scaturito un modello di struttura contrattuale che pone le basi per un “decentramento controllato e coordinato” della contrattazione collettiva, ma l’esperienza ormai più che decennale dell’applicazione del nuovo sistema contrattuale ha mostrato che la contrattazione di secondo livello, che aveva l’importante compito di accrescere la variabilità dei trattamenti e consentire la ridistribuzione dei guadagni di produttività, è stata insufficiente dal punto di vista qualitativo e quantitativo.

Delineiamo ora le linee del dibattito sulla riforma della struttura contrattuale, che oggi si concentra fondamentalmente sul suo decentramento.

4.4.1 Il dibattito sul decentramento

Nonostante le premesse delle disposizioni del Protocollo del ’93, la contrattazione decentrata non svolge ancora con efficacia il ruolo che allora le è stato assegnato, cioè quello di legare le erogazioni salariali al miglioramento dell’efficienza e della qualità delle prestazioni aziendali, o più in generale, all’andamento economico dell’impresa in una logica di ridistribuzione degli incrementi di produttività.

Il dibattito sulla riforma del sistema contrattuale ha preso piede già da alcuni anni, sollecitato in particolare dal costante mancato rinnovo dei contratti nazionali, dal loro numero ritenuto ormai eccessivo (il CNEL ne ha recensiti ben 378), dalla polarizzazione del mercato del lavoro (forte divergenza dei tassi di disoccupazione tra Nord e Sud Italia).

Attualmente, le posizioni degli attori principali di questo dibattito sono diverse. Quella di Confindustria, la maggiore associazione degli imprenditori di industria e servizi italiana, è nota: occorre revisionare il modello contrattuale, prevedendo il rafforzamento della contrattazione decentrata, poiché il contratto nazionale impone troppe rigidità, e “dare incrementi salariali uguali in tutto il territorio significa condannare una parte del Paese a rimanere indietro”69. Essa sostiene che un sistema contrattuale è tanto più efficiente quanto più la dinamica dei salari riflette l’andamento della produttività aziendale. In particolare, un maggiore decentramento contrattuale consentirebbe ai lavoratori delle imprese più produttive di ottenere incrementi salariali senza soffocare le imprese meno produttive, che invece hanno bisogno di moderazione salariale oggi per poter crescere domani.

69

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In una intervista di Gennaio, successiva alla chiusura della vertenza sul rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, il segretario della Cisl Bonanni ha dichiarato di essere d’accordo con il presidente di Confindustria Montezemolo nella necessità di concentrare l’attenzione sul livello decentrato, poiché “il contratto nazionale è sovraccarico di funzioni”. Nella stessa occasione, il segretario di Cgil Epifani ha difeso l’importanza del livello nazionale, ma si è anche dichiarato comunque favorevole ad un intervento sul sistema contrattuale.

Indipendentemente dalle posizioni su cui si trovano le diverse parti, ad oggi il decentramento non assicura che la retribuzione della produttività nelle imprese avvenga davvero. Nelle categorie d’imprese nelle quali si è scelto il decentramento aziendale, esso è rimasto comunque limitato alle aziende di medie e grandi dimensioni, appartenenti al settore industriale e concentrate nel Centro-Nord, lasciando quindi scoperte le realtà di più piccole dimensioni, che pure costituiscono gran parte della nostra struttura organizzativa. Una recente analisi del CNEL indica che la copertura dei contratti aziendali è scesa dal 40% di sette anni fa al 10%. Il fenomeno del declino della contrattazione aziendale era già stato messo in evidenza nei primi anni del 2000, ma oggi appare ancora più accentuato. L’andamento viene giustificato dalla caduta della produttività degli ultimi cinque anni, con la conseguenza del mancato rinnovo dei contratti integrativi aziendali.

Lo sviluppo della contrattazione decentrata dovrebbe rientrare tra gli interessi delle imprese, nella dimensione della gestione del fattore lavoro, ma i numeri dicono che la maggior parte di esse non provvedono ad una contrattazione integrativa. Prima di limitare le funzioni del livello nazionale di contrattazione, occorre quindi che il livello decentrato sia effettivamente funzionante, per non rischiare un vuoto che andrebbe a discapito principalmente dei lavoratori delle piccole imprese.

La proposta dell’ “assorbimento”

Nell’attesa che le parti si incontrino e trovino un accordo sulla riforma del sistema, Dell’Aringa ha indicato una via per il superamento dell’attuale fase di stallo, sulla base di due esperienze di contrattazione diverse. La prima fa riferimento ad una previsione del contratto nazionale dei dirigenti sul salario minimo: sono stati indicati salari minimi molto bassi, che servono solo da base, sotto la quale non vada nessuna retribuzione; la crescita retributiva è lasciata alla contrattazione individuale.

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La seconda esperienza contrattuale riguarda il contratto dei metalmeccanici , nel quale si è destinata una parte dell’aumento salariale a quei lavoratori che non hanno fatto contrattazione aziendale.

Partendo da questi due casi, Dell’Aringa ha suggerito una particolare modalità di gestione degli aumenti salariali a livello decentrato, definita “assorbimento”; esso consiste nel fissare con il contratto nazionale un aumento salariale, una parte del quale vada a tutti, l’altra a chi non fa contrattazione aziendale, dando così la possibilità di assorbire, al momento del rinnovo del contratto nazionale, una parte dell’incremento disposto in sede aziendale.

Con questa previsione, soprattutto se la parte dell’aumento salariale destinata ad essere assorbita fosse di un qualche rilievo, sarebbe possibile incentivare i contratti in azienda, perché le imprese comunque preferirebbero essere loro stesse a poter fare uno scambio tra produttività e retribuzioni. Il ruolo del contratto nazionale non sarebbe annullato, perché fisserebbe i minimi salariali e gli aumenti retributivi delle piccole aziende dove non avviene contrattazione decentrata.

Per quello che riguarda in generale la scelta del livello ottimale di contrattazione, devono essere valutati attentamente i costi e i benefici di un coordinamento centralizzato rispetto al maggiore decentramento. In mancanza di un adeguato coordinamento (si veda Soskice, 1990), un sistema decentrato può non garantire migliori performance, né dal lato della moderazione salariale né da quello della maggiore flessibilità. Un sistema a due stadi coordinato, con un livello centrale deputato a stabilire i minimi salariali ed uno decentrato che garantisca maggiore flessibilità, potrebbe essere compatibile con buone performance macroeconomiche.

4.5 Conclusioni

Tradizionalmente il dibattito sul decentramento delle istituzioni che regolamentano il mercato dl lavoro ha riguardato in particolare la contrattazione salariale collettiva. Per lungo tempo il modello europeo è stato caratterizzato da una contrattazione centralizzata, ma in questi ultimi anni tale modello è entrato in crisi, passando a sistemi più decentrati. La rivoluzione tecnologica degli anni Ottanta e Novanta ha cambiato rapidamente il modo di produzione, basato su nuove tecnologie che richiedono un’elevata qualificazione della forza lavoro. Di fronte a questa riorganizzazione

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produttiva, risulta utile da parte delle imprese gestire il mercato del lavoro interno in modo da migliorare lo stato delle relazioni interne, e quindi la contrattazione dovrebbe essere più decentrata.

In questo capitolo abbiamo delineato alcune delle caratteristiche principali del sistema contrattuale italiano, focalizzando l’attenzione sulla sua evoluzione storica. Alla luce delle indagini presentate nel terzo capitolo, e soprattutto delle critiche che ad esse vi sono state mosse, non si può trarre un sostegno indubbio alla scelta di una struttura contrattuale particolare, sebbene si può riconoscere che per alcuni anni (anni Ottanta) i sistemi maggiormente centralizzati abbiano in parte ottenuto migliori performance macroeconomiche. Nel suggerire ipotesi di ristrutturazione o riforma del sistema contrattuale, al fine di migliorare gli esiti economici, occorre valutare molteplici aspetti del sistema economico in esame, e conoscerne i processi storici e politici di determinazione.

Le proposte di miglioramento del sistema contrattuale possono essere molte, riguardare solo particolari aspetti della contrattazione collettiva (come la proposta di Dell’Aringa), ma anche riferirsi ad un’ottica più ampia.

Date le caratteristiche peculiari del mercato del lavoro italiano, con forti divergenze tra le condizioni economiche e occupazionali del Nord e del Sud, il dibattito si potrebbe indirizzare la riforma del sistema contrattuale verso, per esempio, un tipo di decentramento regionale. Attualmente, la contrattazione centralizzata, che determina uno stesso trattamento retributivo per tutto il paese, non sembra in grado di favorire la diffusione di incentivazione alla crescita dalle regioni più avanzate a quelle meno, poiché essa induce aumenti salariali non giustificati da risultati effettivi in quest’ultime. Aumenti legati maggiormente all’andamento dell’economia regionale potrebbero aver luogo grazie proprio con una contrattazione a livello regionale, nella quale si attuerebbe un metodo di contrattazione che da verticale diverrebbe orizzontale. In Italia questo tipo di contrattazione avrebbe più senso che in altri paesi, dato che nel nostro paese vi è una variabilità molto forte a livello territoriale, soprattutto rispetto alle condizioni di mercato del lavoro. Negli ultimi due decenni l’Italia ha sperimentato infatti una progressiva “polarizzazione” delle condizioni del mercato del lavoro locale principalmente tra Nord e Sud. La differenza tra il tasso di disoccupazione medio delle regioni settentrionali e quello delle regioni meridionali è progressivamente aumentato: verso la metà degli anni Novanta, il tasso di disoccupazione era vicino al 33% al Sud ed

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al 6% al Nord. Nello stesso periodo, si è invece verificata una riduzione dei differenziali salariali relativi, sia una diminuzione dei flussi migratori dal Sud al Nord.

Potrebbe essere quindi più adeguato al nostro paese occuparsi di come si possono ridurre i differenziali territoriali mediante un ragionevole grado di flessibilità dei salari, anziché occuparsi della relazione tra contrattazione e formazione del salario complessivo. Purtroppo il dibattito su questo tipo di contrattazione è carente (si veda Calmfors, 1993), e ciò porta ad avere poca chiarezza riguardo ai problemi d’affrontare nell’ambito della contrattazione regionale.

Questo non deve indurre, però, ad abbandonare la ricerca delle caratteristiche del sistema contrattuale che consentano di raggiungere gli obiettivi di crescita economica.

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