I senza nome
«incatenati»
nella fornace
L’IMPEGNO
Sono 2,3 milioni gli schiavi del debito in Pakistan: una
discriminazione che colpisce i più poveri e le minoranze religiose che nel Paese, spesso, si
sovrappongono drammaticamente. Il meccanismo – che li condanna inesorabilmente ad abusi, vessazioni, maltrattamenti, a un’intera esistenza alla mercé di padroni spesso senza scrupoli – è inesorabile e purtroppo
sperimentato da decenni e decenni.
Si inizia con un prestito o un anticipo da parte dei datori di lavoro.
Restituirlo richiede in media due anni, durante i quali si è ridotti in una condizione servile. Senza diritti, senza certezze, senza paga, costretti a turni di lavoro
massacranti, in abitazioni spesso fatiscenti. «Nessuno sia più schiavo»
è la campagna che Avvenire lancia, con Focsiv e Iscos, per combattere il fenomeno degli schiavi da debito.
LUCAGERONICO
uochista di fornace nel Khyber Pakhtunkhwa, remota provincia del Pakistan nord-occidentale. Il fumo nero che sale dei pneumatici e del- le ciabatte di risulta o dei cumuli di im- mondizia, è una maledizione quotidia- na da ingoiare, 12 ore al giorno, arram- picandosi su e giù fino allo sfiatatoio del- la caldaia, attenti a non cadervi dentro con gesto maldestro. Nella casupola a fianco dello stabilimento, nemmeno una presa di corrente o una bombola di gas per riscaldare cibo e dare luce. Per que- sto Nazar, con i suoi cinque figli, anche loro al lavoro da mattina a sera nella for- nace, ha rischiato di ammalarsi per quel fumo nero che entra fin nella stanzetta di mattoni grezzi, oltre che nei polmoni.
Tenere sempre acceso il forno, alla giu- sta temperatura, perché se i mattoni in- vece di essiccare si bruciano, è un’altra condanna da scontare: 12 ore al giorno, sei giorni alla settimana, mentre il sor- vegliante annota sulla scheda con spie- tata precisione quanti mattoni sono u- sciti rovinati. Mille pezzi al giorno valgo- no 300/350 rupie, pari a due o tre euro di compenso per tutta la famiglia, ma quel- li che si devono scartare per vizio di fab- brica, non vengono conteggiati nella dia- ria di Nazar e famiglia.
La sua casupola di nudi mattoni, sembra una prigione, ma è sempre meglio di u- na galera per chi è un senza nome: Na- zar per due volte è stato arrestato perché privo di documenti. Così la fornace di- venta un porto franco per sopravvivere appena: spesso schiavi di un debito da restituire, o schiavi semplicemente per tradizione. Analfabeta e senza cono- scenze, Nazar non sa che potrebbe usci- re dall’anonimato, avere un nome e gra- zie alla Computerized national identity card, avere i diritti che la legge riconosce a tutti i cittadini, anche a quelli senza no- me o figli di minoranze da sempre sfrut- tate. Senza nome per lo Stato, senza un
F
documento di riconoscimento: per que-sto, pur non avendo nessun debito da sa- nare, Nazar è uno schiavo senza identità.
Secondo la National Coalition Against Bonded Labor (La Coalizione naziona- le che lotta contro il lavoro in condizio- ni di costrizione) il 57% dei lavoratori nelle fornaci del Pakistan non ha un re- golare documento di identità, l’80% vi- ve in casupole senza acqua corrente e
disgrazia, o il matrimonio di una figlia, per indebitarsi: il «peshgi», l’«anticipo»
è una somma richiesta al padrone con l’impegno di restituirlo in piccole rate mensili volutamente basse per allunga- re il tempo di dipendenza. E sempre, grazie alla tabella del sorvegliante e ai costi dell’affitto, il debito invece di di- minuire immancabilmente cresce. Così famiglie intere diventano proprietà del padrone della fornace, che arriva a ven- derle ad altri imprenditori o a costruire delle prigioni private per chi ha tentato la fuga. Sono gli schiavi del debito, sono i forzati delle fornaci.
Difficile, in società arcaiche e contesti co- sì remoti, far applicare la legislazione che pure vieta queste forme di sfruttamento.
«La cosa più difficile è identificare quali sono le fornaci in cui è possibile svolge- re la nostra attività e questo è possibile solo lavorando molto con le comunità, il consiglio degli anziani e gli stessi pro- prietari delle fornaci», spiega Maddalena Collo, fino al 2016 capo progetto in Paki- stan. Per questo Iscos (Istituto sindacale per la cooperazione allo sviluppo), che dal 1999 opera in Pakistan, organizza o- gni anno numerosi corsi, alcuni pure per autorità e imprenditori locali: così si rie- sce a far breccia in consuetudini secola- ri. E poi decine di corsi di formazione sin- dacale e para sindacale, fra personale ac- curatamente selezionato.
Non mancano risultati tangibili: nel Punjab 60 casi di sfruttamento sono sta- ti discussi in tribunale lo scorso anno; in un centinaio di fornaci sono stati firma- ti dei contratti di lavoro; più di trecento i figli di lavoratori delle fornaci hanno i- niziato ad andare a scuola grazie a Iscos che ha pagato le rette e un kit di mate- riale scolastico. «Anche Nazar potrebbe sognare di mandare i suoi 5 figli a scuo- la, ma prima di tutto gli serve una carta d’identità. Nazar, il fuochista schiavo senza nome: nostra responsabilità dar- gli un cognome».
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l’87% non è allacciato a una rete fogna- ria. Una situazione di indigenza e di as- soluta precarietà: il 25% dei lavoratori delle fornaci presta il suo lavoro in base ad accordi verbali, mentre oltre ai mat- toni scartati, il proprietario della forna- ce toglie l’affitto della casupola e, quan- do c’è, il costo dell’acqua e della luce.
Tre euro al giorno, a cui si devono sot- trarre le spese. Basta una malattia, una
Iscos: dare «identità» sconfigge discriminazioni secolari
La piaga del Pakistan
Il 57% dei lavoratori delle fabbriche di mattoni non ha un regolare
documento, l’80% vive in casupole senza acqua e l’87% di questi tuguri non è allacciato a una rete fognaria
La storia. Veero, l’ex schiava che combatte
«perché altri scoprano cos’è la libertà»
STEFANOVECCHIA
ue letti di corda, cin- que materassi, pen- tole da cucina e ri- sparmi per 2.800 rupie (25 eu- ro)». Con un simile elenco di be- ni, Veero Kohli assurse a cele- brità nazionale quando pre- sentò la sua candidatura alle e- lezioni provinciali del Sindh nel 2013. Eccezione in Pakistan, do- ve la politica è ancora appan- naggio dei benestanti e potenti, ma tutt’altro che distante dal suo personaggio, l’energica at- tivista non ha vinto alcun seg- gio, ma ha mostrato la fedeltà ai propri ideali.
Di fede induista, Veero Kolhi è una ex schiava del debito, libe- ratasi dal lavoro coatto nei cam- pi nel 1998. «Avevo spine pian- tate nei piedi che sanguinavano
e che mi furono tolte da mia co- gnata», ricorda della lunga fuga che la portò a casa del fratello.
Una volta libera, lontana dal ri- pudiare la realtà devastante da cui si era affrancata, decise di lottare per permettere a altri
sfortunati, al maggior numero possibile, di diventare cittadini con pari diritti se non pari red- dito e opportunità. Quasi anal- fabeta, da un ventennio percor- re le strade polverose o fangose
delle aree più arretrate del suo Paese riuscendo a liberare mi- gliaia di individui, sovente inte- ri nuclei familiari da una sorte loro estorta con l’inganno o ac- cettata per necessità.
Per questa sua attività è stata più
volte premiata, in patria e all’e- stero, senza mai cedere alle lu- singhe della notorietà e ancor meno alle minacce. Come ha ri- conosciuto apertamente, la cita- zione della Walk Free Foundation
nel suo Indice globale della schiavitù le ha portato più soste- gno e orgoglio della partecipa- zione alle elezioni, primo ex schiavo a correre per una carica politica in Pakistan.
«I latifondisti ci succhiano il san- gue – dichiarava tempo fa in una delle tante interviste concesse ai media occidentali –. I loro colla- boratori agiscono come sfrutta- tori: prendono le nostre figlie e le cedono ai loro padroni». Quel- le figlie che tanto assomigliano alla ventina di nipoti di Kohli che, oggi sessantenne, prosegue la sua campagna di pressione su politici, magistrati e poliziotti af- finché cessi una pratica impos- sibile senza complicità e che de- vasta la sua comunità di appar- tenenza, quella indù, ma anche le altre minoranze del Paese.
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Veero Kohli tra gli operai
Nel 1998 la fuga: quasi analfabeta, lotta per strappare agli aguzzini
centinaia di operai
L’intervista. «Credito a chi è indebitato contro i profittatori»
essuno sia più schiavo». Un motto lapidario per la campagna di Focsic e Iscos-Cisl con Avvenire contro il lavora forzato.
Attilio Ascani, direttore della Focsiv, quali le mo- tivazioni di questa cam- pagna?
Quello della dignità del la- voro è un tema in crescita anche nel mondo Focsiv perché il lavoro della coo- perazione sta cambiando e sempre più ci si soffer- ma sul tema dei diritti u- mani, anche nell’impresa e nell’ambiente. Nella campagna abbiamo unito l’interesse che Avvenire ha registrato sul tema del la-
voro forzato in Pakistan con l’intento di passare dalla denuncia a una pro- posta all’impegno che da anni di Iscos, socio Focsiv espressione della Cisl, por- ta avanti in Pakistan. Ter- za motivazione è l’atten- zione che stiamo dando in Asia alle Chiese locali, in particolare dove sono mi- noranze. Così è nata que- sta campagna, focalizzata sul tema delle fornaci in Pakistan.
Un fenomeno, quello del lavoro forzato da debito impressionante per di- mensioni. Esiste al mon- do una vera nazione di
“nuovi schiavi” – circa 20 milioni, più della metà
nell’Asia meridionale – i- gnorata dall’informazio- ne e dalle agende politi- che internazionali. Un campo d’intervento non molto battuto nemmeno dalla cooperazione inter- nazionale. Perché questa disattenzione?
Spesso, da parte nostra, c’è uno strabismo verso il continente africano sia per vicinanza geografica che per i flussi migratori.
La tratta di esseri umani, legata pure all’Africa, è no- ta, ma molto meno il lavo- ro forzato, servile, minori- le. Questo è un tema mol- to più esteso nel conti- nente asiatico, sia per i grandi numeri della popo-
lazione, sia perché è spes- so all’Asia si guarda solo come un partner econo- mico ignorandone la si- tuazione sociale. Nelle so- cietà asiatiche, ma non so- lo, ci sono minoranze che per motivi etnico-cultura- li o anche solo economici, sono emarginate e – dove lavoro e produzione di ric- chezza sono assolutamen- te centrali – finiscono in condizioni di semi-schia- vitù.
Quali, in questa situazio- ne così complessa, le mo- dalità di intervento spe- cifico della cooperazione?
Il focus della cooperazione sta gradualmente evol- vendo dalla risposta ai bi-
sogni primari all’attenzio- ne a gruppi particolari, e a specifiche situazioni a ri- schio sociale. Sempre più nel Sud del mondo ci sono risorse umane in grado di rispondere ai bisogni del- lo sviluppo e spesso ci so- no pure le risorse econo- miche, ma lo sviluppo e- conomico crea margina- lizzazione. Gli effetti di quella che papa Francesco chiama la «cultura dello scarto» sono molto evi- denti nelle tigri economi- che, a rapida crescita ma dove l’esclusione sociale diventa rilevante. Il lavoro della cooperazione diven- ta sempre più spesso un accompagnare dei sogget-
ti esclusi creando le con- dizioni per il reinserimen- to e la rimozione delle cau- se dell’esclusione. Questi fenomeni molto spesso avvengono nell’assoluta il- legalità perché ci sono leg- gi, secondo standard in- ternazionali, che tutelano i diritti del lavoratore non applicate. Ci sono poi altri fattori come il debito e la mancanza di documenti d’identità che creano la fa- cilità dello sfruttamento da parte di profittatori senza scrupoli.
Come, grazie alla campa- gna, può evolvere il vostro intervento in Pakistan?
Con Iscos il lavoro va a- vanti da anni in collabora-
zione con il sindacato lo- cale e altre realtà. Resta centrale la formazione per una risposta duratura nel tempo, ma ora si vogliono anche ideare azioni più coraggiose come la crea- zione di opportunità di credito per chi è indebita- to (vi è in questo campo u- na forte tradizione di isti- tuzioni cristiane in Euro- pa), la creazione di reti di produzione, ma anche al- leanze con altri soggetti che già operano nel Paese asiatico per difendere i di- ritti umani in modo da u- scire dal «cerchio di mino- ranza».
Luca Geronico
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