SCUOLA SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Corso promosso dalla Formazione della Corte di Cassazione
10 marzo 2021
RIFORMEDELDIRITTOPENALETRIBUTARIO,
PROSPETTIVESISTEMATICHEEDESPERIENZEAPPLICATIVE
1. I modelli sanzionatori tra ragioni punitive ed effetti premiali: irrigidimento del trattamento sanzionatorio, introduzione della responsabilità nel sistema 231 e ampliamento degli effetti premiali connessi alla estinzione del debito tributario - 2. Le nuove griglie sanzionatorie - 3. La responsabilità amministrativa degli enti - 4. Le modifiche introdotte dalla attuazione della direttiva Pif e la competenza in materia tributaria del Procuratore Europeo - 5. Confisca diretta e per equivalente - 5.1.
Imposta evasa e profitto del reato - 5.2. La confisca allargata - 6. Gli effetti premiali e la tax compliance - 6.2. Una riedizione della pregiudiziale tributaria?
1. I modelli sanzionatori tra ragioni punitive ed effetti premiali: irrigidimento del trattamento sanzionatorio, introduzione della responsabilità nel sistema 231 e ampliamento degli effetti premiali connessi alla estinzione del debito tributario
Il diritto penale tributario ha conosciuto nell’ultimo anno modifiche che hanno prodotto effetti rilevanti.
La legge 19 dicembre 2019, n. 157, di conversione del decreto legge 26 ottobre 2019, n. 124, ha inciso sul sistema sanzionatorio, attraverso un significativo irrigidimento dei limiti di pensa previsti per molti dei delitti inseriti nel decreto 74/2000 e, per la prima volta, ha aperto le porte della responsabilità amministrativa degli enti rispetto ai reati tributari.
Ad essa ha fatto seguito il decreto legislativo 14 luglio 2020, n. 75, di attuazione della direttiva (UE) 2017/1371 (cd. direttiva Pif), relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale. Per effetto di tale riforma è stato ampliato il ventaglio dei reati presupposto ai fini della responsabilità amministrativa degli enti ed è stata introdotta la punibilità a titolo di tentativo per determinate fattispecie, commesse a livello transnazionale.
Il legislatore utilizza la leva penale in ambito tributario come un pendolo: nel corso degli anni talvolta ne ha ristretto, altre volte ne ha allargato la portata.
Le riforme dell’ultimo anno non fanno eccezione, partecipano infatti delle oscillazioni che hanno contraddistinto la storia del diritto penale tributario, questa volta in chiave di irrigidimento, per effetto dell’irrobustirsi del trattamento sanzionatorio. Anche se occorre segnalare, in senso contrario, la ricomprensione nel riformato articolo 13 d.lgs. 74/2000, al comma 2, delle disposizioni di cui agli articoli 2 e 3, accanto agli articoli 4 e 5, rispetto alla ipotesi di non punibilità del reato per estinzione del debito tributario, quando il pagamento preceda la formale conoscenza da parte del contribuente di attività di accertamento amministrativo o della pendenza del procedimento penale.
Allo stesso tempo – e questa potrebbe apparire la nota più rilevante – la nuova normativa sfata il mito che voleva relegare il diritto penale tributario fuori dall’ambito di applicazione del sistema 231, a quasi venti anni di distanza dalla entrata in vigore della disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti (pressoché coeva al decreto 74), con alle spalle una storia di progressivo allargamento del novero dei reati presupposto, da cui i reati tributari erano sempre rimasti estranei.
Il quadro normativo non si esaurisce qui, giocando un ruolo rilevante l’introduzione della cd. confisca allargata di cui all’art. 240 bis c.p., con una modulazione che sembra rafforzarne la natura spiccatamente sanzionatoria.
Rilevante, nella prospettiva della riforma di luglio 2020, la previsione della punibilità del tentativo, ai sensi dell’art. 6 d.lgs. 74/2000 per talune fattispecie a contenuto dichiarativo, in deroga al principio generale della non punibilità del tentativo, e l’allargamento ulteriore delle ipotesi di responsabilità
amministrativa degli enti, in quella che si andrà a profilare come la competenza del Procuratore Europeo per le violazioni che attentano agli interessi finanziari dell’Unione Europea.
2. Le nuove griglie sanzionatorie
L’irrigidimento del trattamento punitivo si muove su due piani. Quello delle pene, aumentate nei limiti minimo e massimo, e quello delle soglie di rilevanza quantitativa. Si tratta, rispetto ad entrambi i profili, di elementi normativi della fattispecie, che concorrono a definirne la tipicità e che pertanto, ove introducano modifiche di sfavore, partecipano del principio di successione di leggi penali nel tempo, applicandosi quindi solo per il futuro.
Appare utile riepilogare per le singole fattispecie incriminatrici i limiti edittali e, ove presenti, le nuove soglie:
- Art. 2 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti). La disposizione si compone di tre commi. Resta invariato il comma 2 che definisce la condotta di “avvalersi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, mentre subisce una modifica il comma 1 e viene inserito, dopo il comma 2, il comma 2 bis. Il comma 1 porta la previsione sanzionatoria da quattro a otto anni (la disposizione previgente prevedeva una pena da un anno e sei mesi a sei anni). Il comma 2 bis introduce come titolo autonomo di reato una previsione attenuata qualora gli elementi passivi fittizi siano inferiori ad € 100 mila: in questo caso la pena resta compresa tra un anno e sei mesi e sei anni di reclusione. Si discute se l’introduzione del comma 2 bis dia luogo ad una circostanza attenuante o ad un titolo autonomo di reato: si dovrebbe propendere per la prima soluzione ove si abbia riguardo alla vecchia formulazione del comma 3, abrogato dalla legge 148/2011, che prevedeva un trattamento sanzionatorio mitigato (da sei mesi a due anni) nel caso in cui l’ammontare degli elementi passivi fittizi fosse inferiore ad una determinata soglia (interpretazione prevalente nella vigenza del “vecchio” comma 3); si dovrebbe per contro propendere per un autonomo titolo di reato considerando il meccanismo di richiamo contenuto nell’art. 25 quinquiesdecies d.lgs. 231/2001, che prevede due distinte ipotesi sanzionatorie a seconda che il reato presupposto sia quello previsto dal comma 1 o dal comma 2 bis;
- Art. 3 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici). Anche in questo caso sono innalzati i limiti di pena, portati da tre ad otto anni, laddove nella versione previgente erano compresi da un anno e sei mesi a sei anni di reclusione.
- Art. 4 (dichiarazione infedele). I limiti di pena sono stati innalzati, con la previsione della reclusione da due anni a quattro anni e sei mesi (le sanzioni previgenti andavano da uno a tre anni). Non sono stati toccati in sede di conversione i limiti soglia legati alla imposta evasa e all’ammontare degli elementi sottratti a tassazione, sebbene la versione originaria del decreto legge avesse inciso anche su questi elementi. E’ stato invece inserito nel comma 1 ter l’avverbio “complessivamente”, in luogo di “singolarmente”, con riferimento alla determinazione della variazione percentuale, quando vi sia uno scostamento rispetto alla valutazione corretta di una posta rilevante ai fini della determinazione dell’imponibile.
- Art. 5 (omessa dichiarazione). Per entrambe le ipotesi delittuose – omessa dichiarazione a fini di imposte dirette ed IVA e omessa dichiarazione del sostituto di imposta – le soglie di pena sono portate da due a cinque anni, laddove la previsione previgente prevedeva una pena da un anno e sei mesi a quattro anni. Immutata è rimasta la soglia quantitativa dell’imposta evasa, determinata nella misura di € 50 mila.
- Art. 8 (emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti). Il profilo sanzionatorio è costruito in maniera simmetrica a quanto previsto dall’art. 2. La pena va da quattro ad otto anni, mentre è introdotto dopo il comma 2 il comma 2 bis, che riporta la pena ai valori previgenti (da un anno e sei mesi a sei anni) qualora l’importo indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo di imposta, sia inferiore ad € 100 mila.
- Art. 10 (occultamento o distruzione di documenti contabili). La pena è portata da tre a sette anni di reclusione.
Non vi sono state ulteriori variazioni sul piano sanzionatorio. Le soglie quantitative, che pure erano state abbassate per gli articoli 10 bis e 10 ter in sede di approvazione del decreto legge, con la legge di conversione sono state riportate ai livelli introdotti dalla riforma del 2015 (€ 150 mila per l’omesso versamento di ritenute certificate ed € 250 mila per l’omesso versamento dell’IVA).
Devono registrarsi alcuni effetti sul piano processuale e sostanziale.
L’innalzamento della pena a cinque anni per il delitto di cui all’art. 5 consente l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere (art. 280 comma 2 c.p.p., che richiede come presupposto una pena non inferiore nel massimo a cinque anni). Non anche le intercettazioni, possibili ai sensi dell’art. 266 c.p.p., al di fuori dei reati ivi specificamente indicati, solo per le violazioni punite con pena superiore nel massimo a cinque anni.
Si complica per i reati con pene più elevate il meccanismo del patteggiamento, la cui ammissibilità è peraltro già ora subordinata alla integrale estinzione del debito tributario, ai sensi dell’art. 13 bis comma 2: va da sé che un innalzamento della pena, soprattutto nei minimi, espone il reo ad un trattamento sanzionatorio più rigido anche di fronte alla volontà (e possibilità) di rimediare al danno erariale e di “chiudere” i conti con la giustizia penale.
Particolarmente rilevanti gli effetti, sul piano sostanziale, per quanto attiene alla prescrizione. A prescindere dalle vicende legate alla disciplina della cd. legge spazzacorrotti (dopo la sentenza di primo grado la prescrizione è sospesa sine die), l’innalzamento del massimo della pena per le violazioni di cui agli articoli 2, 3, 8 e 10 comporta una dilatazione dei termini di prescrizione dei reati.
Per essi infatti il termine di prescrizione deve essere calcolato avuto riguardo al combinato disposto degli articoli 157 c.p. e 17 comma 1 bis d.lgs. 74/2000. Se la regola generale impone di guardare al massimo della pena edittale stabilita dalla legge (con un termine non inferiore ai sei anni per i delitti), l’art. 17 comma 1 bis prevede per i reati di cui agli articoli compresi da 2 a 10 che i termini di prescrizione siano elevati di un terzo. Il calcolo è presto fatto: per i reati puniti fino a otto anni il termine di prescrizione sarà di 10 anni e 8 mesi, per i reati puniti sino a sette anni sarà di 9 anni e 4 mesi (fatto salvo, in entrambi i casi, l’aumento per l’interruzione). Nulla cambia, ovviamente, per le violazioni i cui limiti di pena, per quanto innalzati, restano comunque sotto la soglia dei sei anni di reclusione.
3. La responsabilità amministrativa degli enti
L’elemento di novità più rilevante è tuttavia rappresentato dall’ampliamento della disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti, che ha visto l’inclusione dei reati tributari, quali reati presupposto.
In passato la responsabilità degli enti per i reati tributari era “entrata” dalla finestra di altre violazioni collegate, almeno secondo alcuni arresti giurisprudenziali. E’ il caso della associazione per delinquere che abbia come reati fine quelli tributari o del riciclaggio che abbia come reato presupposto un delitto tributario. Proprio rispetto alla associazione per delinquere aggravata dalla transnazionalità, ai sensi dell’art. 3 legge 146/2006, è stato affermato che “Il profitto del reato di associazione per delinquere, sequestrabile ai fini della successiva confisca per equivalente (art. 11, legge 16 marzo 2006, n. 146), è costituito dal complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall'insieme dei reati fine, dai quali è del tutto autonomo e la cui esecuzione è agevolata dall'esistenza di una stabile struttura organizzata e dal comune progetto delinquenziale” (Cass., n. 5869 del 2011 e n. 11969 del 2011); con ciò enunciandosi un principio che afferma la compatibilità, ai fini della applicazione della confisca per equivalente nei confronti dell’ente, del reato associativo con i reati fine, indipendentemente dalla circostanza che questi ultimi siano o meno ricompresi nel novero delle violazioni per le quali questa misura sanzionatoria è prevista. Ma si tratta di principio che ha conosciuto nella giurisprudenza di legittimità anche radicali smentite (Cass., n. 3635 del 2014).
L’art. 25 quinquiesdecies d.lgs. 231/2001 ha inserito tra i reati presupposto gli articoli 2, 3, 8, 10 e 11, con sanzioni variabili tra le quattrocento e le cinquecento quote, una circostanza aggravante (con aumento della sanzione pecuniaria di un terzo) nel caso di conseguimento di un profitto di rilevante entità, la previsione delle sanzioni interdittive di cui all’art. 9 comma 2 lett. c), d) ed e) (rispettivamente, divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; divieto di pubblicizzare beni o servizi).
Il comma 1 bis dello stesso articolo - introdotto a seguito della attuazione della direttiva Pif - ha previsto casi ulteriori di responsabilità dell’ente, nella ipotesi in cui determinate violazioni tributarie vengano commesse “nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri e al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto per un importo complessivo non inferiore a dieci milioni di euro”: le disposizioni incluse sono in questo caso quelle di cui agli articoli 4, 5 e 10 quater d.lgs. 74/2000, che erano rimaste fuori dalla disciplina introdotta dalla legge 157/2019.
Appare persino ovvio mettere in risalto l’importanza e, per certi versi, la tardività di un intervento riformatore di fronte a reati che, se realizzati da chi riveste cariche di rappresentanza nell’ente, sono per loro natura commessi “nell’interesse e a vantaggio” dell’ente medesimo.
Hanno forse inciso, almeno nel recente passato, preoccupazioni legate ai limiti del doppio binario sanzionatorio e alle ricadute del ne bis in idem per come interpretato dalla giurisprudenza sovranazionale. Questioni di grande complessità che tuttavia, a partire almeno dalla sentenza A e B c. Norvegia della Corte EDU del 15.11.2016, sembrano consentire la coesistenza dei due sistemi.
Si pone la necessità di un raccordo tra la disciplina del sistema 231 e quella sostanziale rispetto al tema della confisca: l’art. 19 d.lgs. 231/2001 prevede la confisca, anche per equivalente, del prezzo o del profitto del reato, ciò in via del tutto speculare a quanto dispone l’art. 12 bis d.lgs. 74/2000.
Come si vedrà nel paragrafo dedicato a questo argomento l’esigenza del raccordo scaturisce dalla necessità di evitare una duplicazione di misure sanzionatorie a contenuto patrimoniale, a carico dell’ente come della persona fisica imputata del reato presupposto.
4. Le modifiche introdotte dalla attuazione della direttiva Pif e la competenza in materia tributaria del Procuratore Europeo
Il decreto legislativo 14 luglio 2020, n. 75, di attuazione della direttiva (UE) 2017/1371 (cd. direttiva Pif), relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale, ha ulteriormente inciso la cornice dei reati tributari.
Si tratta di una riforma che investe il diritto sostanziale, da accompagnare, per il suo completamento, con una riforma ordinamentale attraverso l’inserimento nel sistema processuale della figura del Procuratore Europeo e dei Procuratori Europei Delegati. Sarà demandata a questi ultimi la competenza ad investigare, sotto la direzione del Procuratore Europeo, sui reati che attentano agli interessi finanziari dell’Unione Europea (Regolamento (UE) 2017/1939 del Consiglio del 12 ottobre 2017).
Le disposizioni in questione presentano natura eterogenea, che non investono solo il ramo del diritto penale tributario, rafforzandone la portata applicativa, ma involgono anche delitti contro la pubblica amministrazione.
Per quel che qui interessa, rilievo determinante assume la tutela contro le frodi IVA, posto che questa è una imposta armonizzata che concorre alla formazione del bilancio eurounitario.
La riforma si muove su due piani.
In primo luogo fissa una importante eccezione al principio sancito dall’art. 6 d.lgs. 74/2000 che esclude la configurabilità del tentativo rispetto ai reati tributari: trova infatti riconoscimento la anticipazione della soglia di punibilità anche alla fase del tentativo rispetto alle violazioni di cui agli articoli 2, 3 e 4. Il testo del nuovo comma 1 bis prevede infatti che: «Salvo che il fatto integri il reato previsto dall’articolo 8, la disposizione di cui al comma 1 non si applica quando gli atti diretti a commettere i delitti di cui agli articoli 2, 3 e 4 sono compiuti anche nel territorio di altro Stato
membro dell’Unione europea, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto per un valore complessivo non inferiore a dieci milioni di euro». Rilevanti sono i problemi interpretativi che la disposizione reca con sé. Sembra rivivere la vecchia disposizione dell’art. 4 legge 516/82 che puniva come autonomo reato la contabilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, a prescindere dalla loro utilizzazione in dichiarazione. Più complesso stabilire, rispetto agli altri reati a contenuto dichiarativo, in quale momento scatti la punibilità. Va comunque tenuto presente che la disposizione in parola investe i soli casi di violazioni in materia di IVA, non quindi di imposte dirette.
Il secondo aspetto, dei quali si è fatto cenno sopra, è l’allargamento dell’ambito applicativo del sistema 231 ai reati di cui agli articoli 4, 5 e 10 quater, quando entrino in gioco debiti di imposta a fini IVA superiori ad € 10 milioni. Questa la disposizione di cui al comma 1 bis dell’art. 25 quinquiesdecies: «In relazione alla commissione dei delitti previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, se commessi anche in parte nel territorio di altro Stato membro dell’Unione europea al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto per un importo complessivo non inferiore a dieci milioni di euro, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie: a) per il delitto di dichiarazione infedele previsto dall’articolo 4, la sanzione pecuniaria fino a trecento quote; b) per il delitto di omessa dichiarazione previsto dall’articolo 5, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote; c) per il delitto di indebita compensazione previsto dall’articolo 10-quater, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote; 2) al comma 2, le parole «al comma 1» sono sostituite dalle seguenti: «ai commi 1 e 1-bis»; 3) al comma 3, le parole «commi 1 e 2» sono sostituite dalle seguenti: «ai commi 1, 1-bis e 2».
Centrale appare dunque il rilievo sull’IVA, in quanto imposta avente rilevanza eurounitaria.
L’intreccio di discipline emerge da un dato aggiuntivo: la soglia di 10 milioni di euro e la limitazione alle sole frodi IVA corrispondono alla competenza del Pubblico Ministero Europeo. Non è dunque un caso tale allineamento, proprio nella direttiva Pif sulla tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea, in tal modo facendosi rientrare in una cornice unitaria la disciplina sia sostanziale che processuale.
5. Confisca diretta e per equivalente
La possibilità di applicare la confisca per equivalente nei reati tributari risale alla legge 244/2007, che costituisce la risposta sul piano normativo alle difficoltà applicative riscontrate nella adozione di misure patrimoniali con gli strumenti preesistenti.
La legge 158/2015, attraverso l’inserimento dell’art. 12 bis, ha riportato la norma nel corpo del decreto 74/2000, sganciandola dal precedente collegamento con la disposizione di cui all’art. 322 ter c.p., cui faceva riferimento l’art. 1 comma 143 della legge 244/2007.
Questione preliminare è quella della definizione del concetto di “profitto” nei reati tributari.
Non è mai stata seriamente messa in dubbio in giurisprudenza la circostanza che nei reati tributari oggetto della confisca per equivalente possa essere il profitto che ne è derivato. Sin dai primi anni di applicazione si è infatti affermato il principio secondo cui il richiamo dell’art. 1 comma 143 legge 244/2007 all’art. 322 ter c.p. dovesse essere interpretato con riferimento alla intera disposizione, quindi non solo al comma 1 dell’art. 322 ter che consentiva la confisca per equivalente del “prezzo”
del reato (e dunque non del profitto), ma anche al comma 2 che legittimava la confisca del “profitto”
(Cass., Sez. III, 7.7.2010, Bellonzi e altri, Rv. 248618). Tale questione ha perso del tutto rilevanza a seguito della legge 6 novembre 2012 n. 190, che ha riformulato l’art. 322 ter c.p., con un esplicito inserimento al comma 1 della locuzione “profitto” del reato. L’art. 12 bis d.lgs. 74/2000 fa dal canto suo espresso riferimento alla confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo dei reati ricompresi nel decreto onde davvero, nel quadro attuale, la questione non ha ragion d’essere.
5.1. Imposta evasa e profitto del reato
Su un aspetto si è giunti nella giurisprudenza di legittimità ad un punto di equilibrio, che dovrebbe assicurare stabilità al sistema e ciò riguarda il tema della confisca. Il profitto del reato negli illeciti tributari corrisponde all’imposta evasa e dunque questa grandezza economica è la base su cui va necessariamente a convergere la confisca (anche per equivalente), come anche il danno da riparare per conseguire i benefici processuali e sostanziali previsti dalla legge. Ed è chiaro - sul punto la giurisprudenza è altrettanto consolidata - che non può darsi luogo a duplicazioni: una volta identificato il profitto del reato, corrispondente alla imposta evasa, la ablazione da parte dello Stato deve avvenire nella misura ad esso corrispondente, non certo tante volte quanti sono gli organi - amministrativi o giudiziari, in sede tributaria o in quella penale - deputati all’accertamento dell’illecito ed alla irrogazione del trattamento sanzionatorio. Così come della estinzione, anche solo parziale, del debito tributario deve tenersi conto nella determinazione del profitto confiscabile.
La questione si è posta in particolare per il caso in cui la persona fisica sia chiamata a rispondere di un reato tributario commesso nella veste di legale rappresentante di un ente: la confisca del profitto del reato riflette una grandezza economica unitaria e non può darsi luogo ad un effetto moltiplicativo.
Per il vero uno sforzo ricostruttivo da parte della giurisprudenza di legittimità per inquadrare la responsabilità patrimoniale dell’ente per i reati tributari, anche fuori della cornice del sistema di responsabilità amministrativa, era stato portato avanti nel recente passato. Il riferimento è alla sentenza Gubert (Sezioni Unite n. 10561 del 30 gennaio 2014 - dep. 5 marzo 2014), da cui si sono tratti principi di diritto andati sedimentandosi nella prassi applicativa. Essi fanno perno su quattro enunciati:
- Nei confronti della persona giuridica è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca del denaro, di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al reato tributario commesso dagli amministratori, quando tale profitto sia nella disponibilità della persona giuridica stessa.
- Nei confronti della persona giuridica non è consentito il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, qualora non sia stato reperito il profitto del reato tributario, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio.
- Non è consentito il sequestro per equivalente nei confronti degli organi (persone fisiche / amministratori) della persona giuridica per violazioni penali tributarie da costoro commesse, quando sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca del denaro, di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato.
- La impossibilità del sequestro preventivo del profitto del reato può essere anche transitoria, senza che sia necessaria (ai fini della applicazione del sequestro per equivalente) la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto del reato.
5.2. La confisca allargata
L’estensione delle misure di natura patrimoniale è stata ampliata dalla l. 157/2019. E’ stato infatti introdotto, all’interno del decreto 74/2000, l’art. 12 ter rubricato “Casi particolari di confisca”. Si tratta della estensione della disciplina sulla confisca “allargata”, prevista dall’art. 240 bis c.p., ad una serie di violazioni tributarie. La legge di conversione ha ristretto l’ambito applicativo della norma, riferibile nella versione originaria del decreto legge ad un numero più ampio di reati, alle violazioni di cui agli articoli 2, 3, 8 e 11, sempre che siano superate determinate soglie quantitative rispetto al volume dell’imposta evasa e dei suoi accessori (interessi e sanzioni). Va detto, sul piano dei presupposti della misura, che la confisca “allargata” sembra discostarsi da quella “diretta” e “per equivalente”. Mentre in questo secondo caso, come si è detto, il profitto del reato corrisponde alla imposta evasa (nella logica del “profitto - risparmio”), la confisca “allargata” include anche le sanzioni amministrative correlate alla violazione tributaria, che dell’illecito costituiscono propriamente il “costo” (Relazione del Massimario della Corte di Cassazione, n. 3/2020).
Il presupposto, come noto, è legato alla sproporzione del denaro, beni od altre utilità da parte di chi sia condannato per uno dei delitti ricompresi nel novero della norma, dei quali non sia in grado di giustificare la legittima provenienza.
L’inserimento di questa disciplina tra gli strumenti di contrasto ai reati tributari costituisce una leva dagli effetti certamente rilevanti. I reati tributari generano ricchezza illecita e il recupero di questa ricchezza rappresenta sempre più una delle finalità perseguite dal legislatore. Solo in questa prospettiva si leggono l’obbligo della confisca, anche per equivalente, del profitto del reato (prevista sin dal 2008), le limitazioni processuali al patteggiamento e al riconoscimento della sospensione condizionale della pena ove non sia estinto il debito tributario, ed ora con l’introduzione dell’art. 12 ter la possibilità di ricorrere alla confisca allargata.
E’ uno strumento che – per espressa previsione di legge – può avere ad oggetto “denaro, beni o altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”. E’ irrilevante, come è ovvio che sia, la formale intestazione del bene, dovendosi avere riguardo ad una riferibilità soggettiva sostanziale. La stessa legge prevede poi, ben prima della estensione avvenuta con questa riforma, che “il condannato non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell'evasione fiscale, salvo che l'obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge”. L’evasione fiscale è un disvalore in sé, non può costituire la base della giustificazione di disponibilità economiche sproporzionate rispetto al reddito apparente.
Appare utile, in questa sede, il richiamo ad una recente ed importante sentenza della Corte Costituzionale - la nr. 33 del 2018 - che, nel riaffermare la validità di questo tipo di sequestro anche alla luce della normativa e della giurisprudenza sovranazionale, ha fissato alcuni rilevanti vincoli interpretativi. Si tratta, in particolare, di circoscrivere la portata applicativa della legge. In sintesi, questi i principi direttivi cui, anche rispetto ai reati tributari, ci si dovrà attenere:
- Non è necessario un nesso di pertinenza o di provata derivazione causale tra il reato ed i beni oggetto di confisca (di sequestro, nella fase delle indagini), così come non è necessario ai fini di una valida ablazione che i beni siano stati acquisiti in epoca posteriore al commesso reato.
- La presunzione di origine illecita dei beni del condannato insorge non per effetto della mera condanna, ma unicamente ove si appuri – con onere probatorio a carico della pubblica accusa – la sproporzione tra detti beni e il reddito dichiarato o le attività economiche del condannato stesso: sproporzione che – secondo i correnti indirizzi giurisprudenziali – non consiste in una qualsiasi discrepanza tra guadagni e possidenze, ma in uno squilibrio incongruo e significativo, da verificare con riferimento al momento dell’acquisizione dei singoli beni.
- La presunzione è solo relativa, rimanendo confutabile dal condannato tramite la giustificazione della provenienza dei cespiti. Per giurisprudenza costante – almeno a partire dalla sentenza delle Sezioni unite n. 920 del 2004 – non si tratta neppure di una vera e propria inversione dell’onere della prova, ma di un semplice onere di allegazione di elementi che rendano credibile la provenienza lecita dei beni.
- La presunzione di illegittima acquisizione dei beni oggetto della misura resta circoscritta, comunque, in un ambito di cosiddetta “ragionevolezza temporale”. Il momento di acquisizione del bene non dovrebbe risultare, cioè, talmente lontano dall’epoca di realizzazione del “reato spia” da rendere ictu oculi irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da una attività illecita, sia pure diversa e complementare rispetto a quella per cui è intervenuta condanna.
Non rileva qui la questione sulla natura di questa misura ablatoria, dalla dottrina maggioritaria inquadrata tra le misure di sicurezza a contenuto patrimoniale. Certo è che il riferimento contenuto nel comma 1 bis della legge di conversione, in cui si specifica che “le disposizioni di cui alla lettera q (quelle sulla confisca allargata, ndr.) del comma 1 del presente articolo si applicano solo alle condotte poste in essere successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto” indica che questa misura può trovare applicazione solo rispetto ai fatti di reato commessi in epoca successiva alla entrata in vigore della norma. Se ne dovrebbe inferire un carattere spiccatamente sanzionatorio o quantomeno desumere una deroga espressa ad un consolidato principio in tema di misure di sicurezza, quello secondo cui esse si applicano sulla base di presupposti di
“pericolosità” secondo il canone del tempus regit actum.
Va detto, peraltro, che la confisca allargata si innesta in un sistema in cui – anche se fuori dalla cornice del decreto 74/2000 – è possibile anche rispetto ai reati tributari il ricorso alle misura di prevenzione patrimoniali, secondo la disciplina delineata dal d.lgs. 159/2011, con le limitazioni applicative derivanti dalla Corte Costituzionale e dalle Corti sovranazionali che, anche di recente sono intervenute in questa materia (in particolare, sentenza CEDU De Tommaso c. Italia e Corte Costituzionale nr. 24 del 24.1.2019).
Si va così delineando un sistema al centro del quale l’aggravamento del trattamento sanzionatorio, soprattutto sul piano patrimoniale, progredisce con un ventaglio di misure sempre più ramificato ed incisivo.
6. Gli effetti premiali e la tax compliance
Nel sistema penale tributario la estinzione del debito erariale costituisce uno snodo fondamentale:
accesso a riti alternativi, riconoscimento delle circostanze attenuanti, finanche la non punibilità per determinate fattispecie e a certe condizioni sono possibili solo se vi è stata la estinzione del debito tributario. E, come in una sorta di contrappasso, la pendenza del debito aggrava la posizione del contribuente, sia esso persona fisica che ente.
Dalla mancata estinzione del debito tributario discende anzitutto la impossibilità di accedere al patteggiamento, ai sensi dell’art. 13 bis comma 2 d.lgs. 74/2000, i cui effetti si estendono all’ente, giusto il richiamo, contenuto nell’art. 63 comma 1 d.lgs. 231/2001, che esclude la possibilità del patteggiamento per l’ente ove vi sia una preclusione per l’imputato.
Il pagamento del debito tributario consente alla persona fisica di beneficiare di una diminuzione della pena fino alla metà ed esclude l’applicazione delle pene accessorie (art. 13 bis comma 1 d.lgs.
74/2000).
L’ente che non estingue il debito tributario si espone alle sanzioni interdittive previste dall’art. 9 d.lgs.
231/2001, per effetto di quanto previsto dall’art. 17 d.lgs. 231/2001 (riparazione delle conseguenze del reato). Ovviamente devono sussistere i presupposti per l’applicazione delle sanzioni interdittive, ma i riferimenti contenuti nell’art. 13 d.lgs. 231/2001 appaiono sufficientemente lati da consentire un ampio margine di applicazione (si fa infatti riferimento, alternativamente, al conseguimento di un profitto di rilevante entità o alla pluralità di illeciti).
Esiste una causa di non punibilità, legata proprio alla estinzione del debito tributario, a seconda dei reati in contestazione e della fase entro cui si verifica il pagamento. Per le violazioni di cui agli articoli 10 bis, 10 ter e 10 quater comma 1 il pagamento costituisce causa di non punibilità se intervenuto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 13 comma 1 d.lgs. 74/2000). Per le violazioni di cui agli articoli 2, 3, 4 e 5 la causa di non punibilità si configura qualora “i debiti tributari, compresi sanzioni e interessi, siano stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali” (art. 13 comma 2 d.lgs. 74/2000). L’adempimento fiscale per i reati a contenuto dichiarativo rileva quindi quale causa di non punibilità a condizione che sia preceduto dalla regolarizzazione sul piano dichiarativo della posizione del contribuente e che il contribuente stesso non abbia avuto formale conoscenza dell’avvio di un procedimento, penale o amministrativo, legato alla violazione commessa.
Effetti di questa disciplina si sono avuti sul piano dell’accesso al rito del patteggiamento, che come noto è subordinato dall’art. 13 bis comma 2 alla estinzione integrale del debito tributario. E’ stata messa in rilievo la incongruenza di una disciplina che al contempo fa discendere da uno stesso fatto (l’estinzione del debito tributario) la non punibilità del reato e la condizione per accedere al patteggiamento. Proprio per ovviare a tale incongruenza si è aperto un filone interpretativo che consente il patteggiamento anche quando il debito tributario non sia stato estinto. Ciò appare ragionevole per le violazione di cui agli articoli 10 bis, 10 ter e 10 quater comma 1, per i quali la legge fa coincidere il momento in cui scatta la causa di non punibilità con quello in cui è possibile accedere al rito del patteggiamento (prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado). Meno comprensibili risultano quelle aperture giurisprudenziali rispetto ai reati dichiarativi:
per essi la causa di non punibilità per estinzione del debito tributario deve realizzarsi secondo stringenti cadenze fiscali e comunque prima della formale conoscenza di verifiche amministrative o dell’inizio del procedimento penale. In questo caso lo scollamento del momento in cui maturano i presupposti della causa di non punibilità rispetto al momento del patteggiamento fa sì che la disciplina conservi la sua coerenza interna (per una panoramica completa degli indirizzi giurisprudenziali cfr.
Relazione del Massimario della Cassazione n. 3 del 2020).
E’ infine importante chiarire, proprio rispetto ai limiti di applicazione della causa di non punibilità per i reati a contenuto dichiarativo, quali siano i presupposti tributari impeditivi per beneficiare di tale condizione.
La questione è collegata agli strumenti di cd. tax compliance. Si tratta di strumenti che mirano a valorizzare forme di cooperazione tra contribuenti e Agenzia delle Entrate. Obiettivo del legislatore è quello di incentivare il superamento delle violazioni tributarie attraverso uno spontaneo adempimento del contribuente, dietro segnalazione dell’Agenzia delle Entrate di possibili anomalie e al di fuori dell’avvio di un formale procedimento di controllo. Conosciuti da anni nella prassi amministrativa, tali strumenti sono stati da ultimo disciplinati dall’art. 139 del d.l. 19.5.2020 n. 34, convertito nella l. 17.7.2020 n. 77, cd. «Decreto rilancio», rubricato «Rafforzamento delle attività di promozione dell’adempimento spontaneo da parte dei contribuenti» (una disciplina preesistente era contenuta nella legge 190/2014).
Sul piano operativo l’attività della Agenzia delle Entrate si risolve essenzialmente nell’invio di
“lettere” (sul sito dell’Agenzia delle Entrate sono rinvenibili opuscoli online sotto la dicitura
“L’Agenzia informa” o “L’Agenzia ti scrive”, di cui su questo specifico tema un opuscolo nel marzo 2019): si tratta di comunicazioni che gli Uffici indirizzano ai contribuenti, con cui vengono segnalate possibili anomalie, accompagnate dall’invito a verificare la regolarità della dichiarazione fiscale e degli adempimenti conseguenti. Tali “lettere” non costituiscono avvio di accertamento, né sono ad esso assimilabili. Non possono pertanto essere poste sullo stesso piano di “accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo”, atti che ai sensi dell’art. 13 comma 2 d.lgs. 74/2000 precludono la operatività della causa di non punibilità per i reati a contenuto dichiarativo. L’invio della lettera, nel gergo tributario “avviso bonario”, è un atto di impulso rivolto al contribuente, assimilabile ad un atto pre-procedimentale, in quanto tale non idoneo a produrre effetti preclusivi rispetto al beneficio della causa di non punibilità, destinato ovviamente a maturare solo quando la posizione tributaria sia stata integralmente regolarizzata. L’invio della lettera, nella intenzione del legislatore, mira a incentivare l’adempimento spontaneo del contribuente, riconoscendogli benefici sul piano sanzionatorio (sia amministrativo che penale), oltre a promuovere una maggiore armonizzazione dei rapporti tra contribuenti e Agenzia delle Entrate.
6.2. Una riedizione della pregiudiziale tributaria?
Correlazioni tra procedimento tributario e procedimento penale sono innegabili. Il meccanismo della confisca obbligatoria del profitto del reato, che si identifica con l’imposta evasa, ha accentuato
l’esigenza di stabilire un coordinamento di fasi, per l’ovvia necessità di evitare duplicazioni nella pretesa erariale.
In alcuni casi tali correlazioni hanno generato soluzioni applicative discutibili.
Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 8226 del 28.10.2020, dep. 2.3.2021) ha confermato un provvedimento di annullamento di sequestro sull’assunto che la pretesa erariale era stata oggetto di “sgravio” da parte della Amministrazione finanziaria. Non è peraltro decisione del tutto nuova nel panorama giurisprudenziale: a partire dal 2015 si sono susseguite una serie pronunce che hanno affermato un collegamento tra la pronuncia di annullamento in sede di contenzioso tributario e la pendenza della misura reale in quello penale. Ricorrente è la massima secondo cui “in tema di reati tributari il profitto del reato oggetto del sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente va individuato nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase, con la conseguenza che lo stesso non è configurabile, e non è quindi possibile disporre o mantenere il sequestro funzionale all’ablazione, in caso di annullamento della cartella esattoriale da parte della Commissione tributaria, con sentenza anche non definitiva, e di correlato provvedimento di sgravio da parte dell’Amministrazione finanziaria”. E ciò perché con lo sgravio vi è la cancellazione della pretesa erariale, l’effetto è infatti l’estinzione del relativo debito. Ciò che rende privo di qualsiasi giustificazione l’adozione o il mantenimento di un provvedimento di sequestro.
La questione non è semplice.
Su un piano generale deve riconoscersi l’esigenza di coerenza dell’ordinamento, evitare di incorrere in pronunce tra loro contraddittorie.
Il rischio è tuttavia di far discendere da questa esigenza ricadute applicative incoerenti con un sistema che, in ipotesi, può addirittura fondarsi su percorsi di accertamento del tutto autonomi, in sede penale ed in sede tributaria. Il tema non è quello del venir meno della pretesa erariale per effetto della pronuncia del giudice tributario, ma la modalità di accertamento e la individuazione di una grandezza economica corrispondente al profitto del reato.
La legge disciplina i casi di decadenza dell’azione di accertamento o prescrizione del debito tributario, prevedendo in tali casi che l’imputato sia chiamato ad un’equa riparazione (art. 14).
Il focus dell’indagine, e di riflesso l’oggetto del giudizio, deve investire una grandezza economica che si assume costituire il profitto del reato. Essa, in quanto tale, è suscettibile di confisca. Il giudizio in sede tributaria rileva, al pari della rilevanza che può avere sul piano probatorio una sentenza, definitiva o non definitiva, emessa da un organo giurisdizionale diverso da quello penale. Così come il provvedimento di sgravio assume valenza nei limiti di una valutazione complessiva del quadro indiziario.
Il tema non è di forma, ma di contenuti. Occorre comprendere le ragioni, di fatto e di diritto, dell’annullamento o dello sgravio, e valutarle secondo la logica probatoria del processo penale.
Questo è lo spazio di autonomia che al processo penale, anche rispetto ai reati tributari, deve sempre essere riservato.
Gaetano Ruta - Procura della Repubblica di Milano