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LA CAUSALITÀ OMISSIVA NELLA RESPONSABILITÀ MEDICA DOPO LA SENTENZA DELLE SEZIONI UNITE DELL’11 SETTEMBRE 2002

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LA CAUSALITÀ OMISSIVA NELLA RESPONSABILITÀ MEDICA DOPO LA SENTENZA DELLE SEZIONI UNITE

DELL’11 SETTEMBRE 2002

Dr. Gianfranco Iadecola

1. I principi recentemente affermati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in tema di cd.

causalità omissiva (Sez. Un. 10 luglio 2002, Franzese), iniziano a trovare applicazione nella stessa giurisprudenza della Cassazione.

L a prima decisione nota in tal senso, è quella in rassegna, adottata il 3 ottobre 2002 dalla Sez. IV^

(n.1102/2002, ric. Abissini, dep. il 15.11.2002) in una vicenda che vedeva un medico imputato di omicidio colposo, in quanto, dopo aver eseguito (il 9 settembre 1987) alcuni esami radiografici su di un paziente, non aveva individuato, e comunque aveva omesso di descrivere nel referto radiologico relativo alla proiezione postero-anteriore del torace, la presenza di una opacità ovalare di media densità, in regione apico-sottoclaveare sinistra (del diametro di circa 1 cm./1,5 cm.), modicamente ispessita e dai margini irregolari (successivamente svelatasi quale formazione neoplastica polmonare); e non aveva neppure ritenuto di suggerire utili e tempestive indagini anche di tipo stratigrafico e topografico. In tal modo aveva impedito –secondo l’accusa- una più precoce diagnosi della malattia e l’attuazione di interventi terapeutici medici e chirurgici, cagionando la morte dell’assistito, avvenuta il 16 ottobre 1990.

Una più precisa cognizione delle cadenze fattuali, consentita dalla puntuale articolazione riepilogativa della sentenza della Cassazione, certo favorisce l’apprezzamento delle proposizioni relative al profilo del nesso causale, che qui soprattutto interessa.

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2. Dopo la condanna del Pretore, la Corte d’Appello, dichiarando la estinzione del reato per la prescrizione nel frattempo maturata, confermava, sia pure ai soli effetti del risarcimento del danno a favore delle costituite parti civili, le valutazioni e le conclusioni della sentenza di primo grado.

Investita con doglianze che riguardavano sia la sussistenza della colpa, sia il configurarsi del nesso di causalità tra la condotta osservata e la morte del paziente, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

I giudici della legittimità sottolineano “in primis” la peculiare difficoltà della fattispecie, specialmente perché l’individuazione della “causa mortis” è stata resa problematica, non solo dalla mancanza di un esame autoptico e dalla presenza nella vittima di altre patologie diverse da quella neoplastica (ed ugualmente idonee a determinare il decesso), ma anche dalle divergenti conclusioni di due collegi peritali nominati dal primo giudice. Ma,essi rilevano, il Pretore prima e la Corte d’Appello poi, nelle loro conformi pronunce, hanno ritenuto di privilegiare, in quanto giudicato maggiormente attendibile sul piano tecnico-scientifico, il responso diagnostico dei periti del secondo collegio, i quali, concordemente, hanno ricollegato, con elevato grado di probabilità vicino alla certezza, l’evento letale ad un processo di metastatizzazione che dalla sede polmonare si era sviluppato dapprima nella regione encefalica e successivamente diffuso a livello epatico; dando decisivo rilievo, nella produzione delle infauste conseguenze, alla evoluzione progressiva della neoplasia polmonare, la quale aveva finito, con il trascorrere del tempo, per interessare organi di essenziale vitalità provocando infine l’ “exitus” per arresto cardio-circolatorio.

Correttamente – aggiunge la sentenza - da quelle conclusioni erano stati tratti, nelle due decisioni, validi argomenti per affermare che il ritardo della diagnosi della formazione neoplastica polmonare era derivato da colpa, e specificamente da una superficiale o errata lettura delle lastre del torace, dalle quali risultava distintamente evidenziata la presenza di una opacità ovalare, dai contorni irregolari, con strie fibrotiche, all’apice polmonare di sinistra ed in sede sottoclaveare, delle dimensioni di circa cm.1- 1,5. La sede e le caratteristiche di tale opacità, infatti, costituivano valido

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motivo per sospettare che la stessa potesse avere origine tumorale, sicché essa avrebbe dovuto essere indicata dal medico nella relazione in modo da consentire alla parte offesa di sottoporsi, con tempestività, ad ulteriori accertamenti clinici sulla natura del nodulo. A causa della omissione del sanitario (il quale o non vide l’opacità, ovvero la interpretò in modo errato, confondendola con una calcificazione, così trascurandone la sede ed i contorni irregolari), tali accertamenti erano stati invece eseguiti a distanza di tempo e solo in conseguenza di nuovi esami radiografici effettuati nel febbraio 1989, ai quali era emersa, pur in assenza di conclamate manifestazioni dell’affezione tumorale, l’espansione verso più consistenti e sintomatiche dimensioni (circa 4 cm.) di quella opacità polmonare già esistente nel settembre 1987.

Affrontando la questione del nesso causale, la Cassazione anzitutto ricorda i principi posti in tema dalla recente decisione delle Sezioni Unite citata in esordio: nella omissione il nesso deve essere accertato non sulla base di criteri di probabilità statistica, bensì secondo i criteri probatori ordinariamente applicati dal giudice penale, e può ritenersi ricorrente quando, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, possano escludersi processi causali alternativi e si possa affermare in termini di certezza processuale, ossia in termini di elevata credibilità razionale o probabilità logica, che sia stata proprio la condotta omissiva del medico a determinare l’evento lesivo.

Del tutto propriamente la sentenza chiarisce come tali proposizioni non possano però, se non incorrendo in grave equivoco, essere intese nel senso della necessità della individuazione del rapporto di causalità in termini di certezza oggettiva (ossia di certezza storica e scientifica),”risultante da elementi probatori di per sé altrettanto inconfutabili sul piano della oggettività”. Ed in effetti, se così fosse, dovrebbe derivarne che, nel caso di mancanza di autopsia, non sarebbe mai possibile pervenire alla affermazione di responsabilità per condotta omissiva del medico, atteso che solo l’esame autoptico può consentire di accertare con oggettiva e scientifica certezza la causa del decesso di un soggetto. Ma una tale conclusione, soggiunge la Corte, sarebbe

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evidentemente inaccettabile, perché contraria ai basilari principi che regolano la materia della prova nel processo penale, quali il libero convincimento del giudice, la non legalità della prova, la stessa possibilità di affermare la colpevolezza all’esito di un processo solo indiziario.Specificando lucidamente che “quella certezza che le Sezioni Unite hanno individuato come indispensabile per poter affermare la sussistenza del nesso causale, quale “condicio sine qua non” di cui agli artt. 40 e 41 del codice penale, è dunque una certezza tra virgolette, vale a dire la “certezza processuale”, che, in quanto tale, non può essere individuata se non con l’utilizzo degli strumenti di cui il giudice dispone per le sue valutazioni probatorie; “certezza” che deve essere pertanto desunta dal giudice valorizzando tutte le circostanze del caso concreto sottoposto al suo esame, secondo un procedimento logico -analogo a quello seguito allorquando si tratta di valutare la prova indiziaria, la cui disciplina è dettata dal secondo comma dell’art. 192 del codice di procedura penale- che consenta di poter ricollegare un evento ad una condotta omissiva “al di là di ogni ragionevole dubbio” (vale a dire, con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”)”.

E la Suprema Corte, dopo aver richiamato il proprio istituzionale compito –quale giudice di legittimità- di controllare retrospettivamente, non già la decisione, ma il contesto giustificativo di essa (la cd. giustificazione esterna : ossia la razionalità delle argomentazioni impiegate ed inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono la decisione), riscontra e verifica che di tali corretti principi è stata fatta applicazione in entrambe le sentenze di merito.

Esse,infatti, hanno motivatamente sostenuto, in conformità alle indicazioni tecniche e scientifiche fornite dai periti del secondo collegio, che fu proprio la omessa indicazione da parte del sanitario della opacità evidenziata nella lastra relativa alla radiografia cui era stato sottoposta la parte offesa a determinare la espansione e la invasività, e la conseguente metastatizzione, della neoplasia polmonare ritenuta quale causa della morte. I primi giudici hanno specificato che la diagnosi della

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patologia polmonare, se ed in quanto effettuata nel settembre 1987, vale a dire in epoca in cui la lesione era di ridotte dimensioni (appena cm. 1,5) e non era accompagnata da manifestazioni di invasività, (la lesione divenne di 4 cm., nel marzo 1989, come accertato, allorché fu diagnosticata) avrebbe consentito assai probabilmente (pur in costanza di una prognosi comunque infausta) –con il ricorso a tempestivi rimedi chirurgici e terapeutici come la resezione polmonare - una sopravvivenza a cinque anni, maggiore quindi rispetto a quella di anni tre intervenuta in concreto, comunque un decorso clinico favorevole.

Sottolinea la Corte che l’espressione “assai probabilmente” usata dai giudici di secondo grado appare concettualmente del tutto simile alle locuzioni adottate dalle Sezioni Unite (“alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”) e soddisfa pienamente anche l’esigenza dell’esito del giudizio controfattuale. Costituisce infatti regola di esperienza, nonché scientifica, che l’efficacia di una diagnosi tumorale, ai fini di una più lunga sopravvivenza e comunque di un decorso della malattia sicuramente migliore (cioè con minore intensità lesiva), è direttamente ricollegabile alla sua tempestività e precocità: ben diverse sarebbero state le conseguenze di una diagnosi di un tumore polmonare di dimensioni di cm. 1,5 nel settembre del 1987, in assenza di sintomi di allarme e di segni clinici rilevatori di metastasi, rispetto alla diagnosi del tumore polmonare di 4 cm., e già con la presenza di una metastasi cerebrale, effettuata nel marzo 1989. Le due sentenze di merito avevano richiamato espressamente le conclusioni del secondo collegio peritale, secondo cui, con una più rapida diagnosi, si sarebbe avuta una assai probabile più lunga sopravvivenza della vittima (sopravvivenza statisticamente indicata nella percentuale del 48 % dei casi, con un riferimento ad un arco temporale addirittura di cinque anni), e certamente la resezione polmonare, eseguita nel momento di una diagnosi locale, avrebbe benevolmente potuto influenzare il decorso clinico.

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Né manca poi la Cassazione, in stretta aderenza ai parametri di giudizio stabiliti dalle Sezioni Unite, di riscontrare l’avvenuta verifica dell’eventuale interferenza di altri eventuali fattori causali nella produzione dell’evento lesivo. Essa accerta che anche tale profilo era stato oggetto di indagine da parte dei primi giudici i quali avevano potuto escludere –anche sulla base delle risultanze della perizia condivisa- che il decesso potesse essere stato causato da patologie diverse da quelle della neoplasia polmonare, di cui pure la parte offesa, per come già cennato,era affetta.

Avevano spiegato le sentenze di merito che tutti gli elementi acquisiti (radiografico, istologico, clinico) convergevano sull’incidenza causale primaria del carcinoma polmonare e dell’imponente processo di metastasi a carico di organi di essenziale vitalità e,quindi, sulla certezza della risalenza della morte agli squilibri metabolico, immunitario, ventilatorio, emorragico, indotti dalla malattia tumorale e ad essa soltanto connessi. D’altra parte, a fronte di tale quadro univoco, era stato anche accertato come mancassero riscontri concreti alla tesi secondo cui le altre, pur serie, patologie, avessero causato o concausato la morte del paziente, come pure in linea meramente teorica sarebbe potuto accadere.

3. La sentenza in rassegna consente di ritornare sui temi della causalità omissiva e del suo accertamento, con qualche rapida considerazione adesiva alla soluzione delle Sezioni Unite, condivisa, per quanto si è visto, dai giudici della quarta Sezione penale.

Non senza però avere sottolineato, a riguardo, come si tratti di una condivisione che appare totale, nel senso che non ci si limita a prestare ossequio ai principi di diritto affermati, ma si aderisce all’essenza stessa ed allo spirito della sentenza “Franzese” : cogliendone l’univoco richiamo alla esigenza di dover recuperare, il giudice penale, il ruolo centrale che gli compete in sede di accertamento della derivazione causale nella omissione. Il senso del “messaggio” delle Sezioni Unite è, in effetti, nel segno del ripristino del primato della giurisdizione penale in un settore in cui,

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viceversa, sono non di rado prevalsi atteggiamenti giudiziali, all’apparenza distaccati, ma nella sostanza remissivi e rinunciatari, indulgenti alla acritica recezione specialmente dei contributi ricostruttivi e valutativi delle “persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina” ( da cui in ultima analisi la stessa decisione, su un punto determinante e pregiudiziale della causa, come quello del nesso, veniva mutuata). Postula, viceversa, il disegno delle Sezioni Unite la fisionomia di un giudice che, reale “dominus” del processo acquisitivo e decisionale, si faccia ricercatore solerte ed attento del “vero” attraverso la conoscenza ed il vaglio critico di ogni utile emergenza fattuale: in un impegno strenuo di indagine che incontra il proprio fisiologico limite nella insuperabilità del dubbio, che però non sia, quasi arrendevolmente, constatata, ma

“faticosamente” conquistata.

La sentenza della Cassazione raccoglie con piena adesione l’autorevole richiamo, e ciò, non solo nell’apprezzamento del processo costruttivo del nesso causale (cui davvero non era sfuggita, in sede di merito, la valorizzazione di ogni elemento del fatto appena significativo e dell’evidenza disponibile), ma anche nel controllo dell’accertamento del dato (pregiudiziale ai fini degli altri aspetti, della colpa e del nesso) della causa della morte della vittima.

Questa viene ritenuta correttamente accertata pur in assenza del conforto del riscontro autoptico ed attraverso l’esaltazione di ogni circostanza concreta fornita dalla meticolosa indagine svolta in punto di fatto. E si giunge ad avallare lo stesso esercizio, alla luce della compiuta conoscenza storica acquisita, della opzione –qualificata coerente e consapevole- tra le opposte conclusioni peritali operata dalle prime sentenze, nella prospettiva –si direbbe- di una sorta di riconquista del ruolo, autenticamente inteso, del giudice quale “peritus peritorum”.

L’esito finale appare equilibrato e convincente, poiché la Cassazione scrutina positivamente una articolazione motivazionale ed un risultato valutativo che non si discostano dalla evidenza disponibile e dalle circostanze concrete e non risultano mai indulgenti a ricostruzioni meramente

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ipotetiche ed arbitrarie e ad intuizioni personali, o comunque a convincimenti meramente soggettivi;

derive, queste, che in effetti costituiscono il rischio incombente di una indagine giudiziale di stampo induttivo, la quale può portare all’impiego di paradigmi ricostruttivi non rassicuranti perché alimentati unicamente dalle opinabili certezze dell’interprete: cui impropriamente viene affidata una funzione suppletiva e di copertura a fronte della insuperabile insufficienza del riscontro probatorio.

3.1 Venendo allora a svolgere qualche –sintetica- riflessione in tema di causalità nella omissione, alla luce della sentenza delle Sezioni Unite, può anzitutto convenirsi che non possa essere condivisa l’interpretazione giurisprudenziale,peraltro tradizionale e prevalente, che, nel settore della responsabilità medica, riconosce appagante valenza persuasiva, ai fini del riconoscimento del collegamento causale tra la omissione della prestazione doverosa da parte del sanitario e l’evento lesivo, a criteri valutativi a struttura probabilistica inducenti giudizi conclusivi anche non vicini alla certezza, ovvero non di alta probabilità logica e credibilità razionale (fondati su “notevoli”,

“rilevanti”, “apprezzabili” o “serie ed apprezzabili” probabilità di salvezza),e anzi da esse talora assai distanti (bastano “poche probabilità di successo”, o anche “limitate”, dell’intervento medico mancato).

Tali soluzioni davvero non si sottraggono alla censura di determinare una sostanziale

“volatilizzazione” del nesso causale, in ispecie quando finiscono –siccome si può non infrequentemente riscontrare – per affidare l’individuazione della connessione tra condotta ed evento lesivo essenzialmente alla violazione della posizione di garanzia assunta dal medico.

Viene, in siffatta prospettiva, di fatto abbandonato lo schema causale condizionalistico, optandosi per criteri (di matrice germanica, per come è noto) di cd. aumento del rischio (o di “non diminuzione” di esso), in base ai quali nei reati omissivi impropri l’imputazione oggettiva dell’evento sarebbe già giustificata dal fatto che l’azione dovuta sia in grado di aumentare le

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probabilità di salvezza del bene giuridico minacciato: criteri,come si sa, a ragione assai contrastati in dottrina, in quanto elusivi nella sostanza, della verifica della causalità. Essi invero sostituiscono a questa l’accertamento dell’aumento del rischio, secondo una operazione logico-giuridica che, trascurando l’evento (ridimensionato a condizione oggettiva di punibilità), surrettiziamente trasforma i reati omissivi impropri in reati di mera condotta, la cui punizione avviene, in effetti, sul presupposto della semplice idoneità del comportamento a porre in pericolo l’interesse sottoposto a protezione. Né si è mancato di porre in evidenza come tale particolare paradigma di accertamento della correlazione omissione-evento finisca per eludere la funzione propria del riscontro del nesso di perimetrazione delimitativa dell’area del penalmente rilevante, svolgendo invece un imprevisto ruolo estensivo nell’imputazione causale dell’evento.

Neppure,l’orientamento giurisprudenziale in questione, potrebbe trovare valido fondamento giustificante nella prioritarietà delle esigenze di tutela dei beni di assoluto rilievo che nel settore dell’attività medica vengono a rischio, come quelli della vita, della salute e della integrità personale.

Risulta infatti chiaro il valore solo “ideologico”, ma non logico-giuridico, di una tale proposizione, poiché la causalità è nozione normativamente delineata e definita (artt. 40 e 41 c.p.), di stampo oggettivo e predeterminato, e perciò non manipolabile dall’interprete a ragione della fattispecie e degli interessi che vengono in gioco, i quali non potrebbero mai autorizzare un concetto di causalità giuridica che non fosse legalmente uniforme e generale.

A nessuno sfugge, d’altra parte, come una lettura giurisprudenziale come quella in esame si ponga anche come ingiustificatamente discriminatoria, poiché, pur in un ambito vasto di situazioni in cui è in gioco la salvaguardia dei beni della vita e della integrità fisica (si pensi,ad esempio, alle materie della sicurezza del lavoro e della sicurezza stradale), essa introduce, circoscrivendolo al settore della responsabilità medica, un criterio di imputazione causale speciale, che non postula sicurezza o alta probabilità della evitabilità dell’evento, ma si accontenta di un nesso probabilistico attenuato;

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secondo una operazione ermeneutica che, discostata dai parametri stabiliti dalla norma, finisce per configurare una sorta di vero e proprio “sottosistema” della responsabilità penale del medico (e cui, significativamente, è stato addebitato di rappresentare, in effetti, una vera e propria scelta di politica criminale, arbitraria perché preclusa al giudice).

3.2 Per come è noto, sono sopravvenute in tempi recenti diverse decisioni della Corte di Cassazione (Cass. IV^, 28.9.2000, Baltrocchi; Cass. IV^, 29.11.2000, Musco; Cass. IV^, 29.11.2000, Di Cintio) che appaiono indicative di una decisa evoluzione dell’atteggiamento interpretativo in materia di causalità omissiva medica.. Esse, reclamando un nesso di condizionamento effettivo e giuridicamente soddisfacente, lo identificano nell’accertamento di una efficacia impeditiva dell’azione doverosa omessa sostenuto da una legge statistica di copertura in grado di esprimere un elevatissimo coefficiente probabilistico, riferibile a percentuali di “quasi certezza”, cioè a dire

“prossime a cento”.

Ne risulta un approccio innovativo, preoccupato della più fedele adesione ai principi costituzionali ed aggiornato con i criteri causali prefigurati nel progetto della “Commissione Grosso” approvato il 12.9.2000 (e sostanzialmente ribaditi nella successiva e definitiva stesura del 26.5.2001),che, com’era auspicabile, volge a superare in modo netto ed inequivoco il concetto –già censurato- di causalità minore ed affievolita, per come s’è visto affermato in precedenza, in ambito medico, nella stessa sede di legittimità.

E peraltro –anche a riguardo sostanzialmente condividendo le osservazioni delle Sezioni Unite - il

“nuovo” paradigma di accertamento della causalità omissiva medica che viene proposto non sembra ,per almeno due ordini di ragioni tra loro strettamente connesse, accettabile.

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Dovendosi precisare che ciò che appare in esso contestabile non è il risultato finale del giudizio probabilistico che viene prefigurato, e che viene correttamente identificato in esiti dotati di probabilità confinanti con la certezza (la cd. alta credibilità razionale), bensì la indicazione di una sorta di pregiudiziale di indefettibile ricorrenza ai fini di una verifica positiva del nesso, consistente nella possibilità di impiego, nel vaglio del nesso medesimo, di una legge statistica dotata di un coefficiente probabilistico prossimo a cento: con l’implicazione, implicita o tacita, della valenza preclusiva della mancanza di una siffatta, pienamente rassicurante, copertura.

3.2.1 Il primo motivo di dissenso sta nel fatto che venga proposto un criterio accertativo generalmente sorretto da regole statistiche espressive di pressoché totale certezza, nel settore della responsabilità medica, ossia in un contesto al quale non appartengono, per definizione, parametri statistici di correlazione causale dotati di tale valore.

Non si tiene in particolare in conto come la medicina si muova, quasi sempre, nel campo del possibile e del probabile, secondo schemi che finiscono per avere una valenza solo di ordine statistico e che sono contrassegnati da immanente incertezza circa i risultati perseguibili. Essendo per questo che, proverbialmente ormai, si qualifica la prestazione del medico come tipica obbligazione di mezzi e non di risultato, non essendo il sanitario in grado di garantire la guarigione del paziente,poiché egli non possiede il dominio della conoscenza di tutti i processi determinativi delle patologie e quindi dei correlativi rimedi, attuabili efficacemente; o che, più elegantemente, si è potuto parlare di un “naturale ribellismo” della biologia contro ogni disciplina matematizzante.

Del resto, la dottrina medico-legale più autorevole ha da tempo posto in rilievo i limiti fisiologici della medicina biologica (che offre le basi della conoscenza impiegate dalla medicina legale),connessi alla ricorrente ignoranza in ordine alla eziologia ed alla patogenesi di molti

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fenomeni morbosi, e ciò nonostante i grandi progressi della ricerca in campo medico: sicché, si afferma, risulta confinato ad un numero contenuto di casi il traguardo di diagnosi eziologiche che possano avvalersi di tranquillizzanti criteri di sostanziale certezza. Sicché non può essere altro che la valutazione probabilistica a regolare la diagnosi, il decorso delle malattie ed il giudizio prognostico, e la loro stessa attribuzione causale, poiché in medicina, come è stato detto, nessun giudizio e nessuna decisione sono certi e si ha sempre a che fare con l’incertezza (l’arte medica è costitutivamente legata all’incertezza ed al rischio, ed il ragionamento clinico è sempre un ragionamento incerto).

Se così è, l’ordinaria e normale assenza, tra le prerogative dell’arte sanitaria, della garanzia anche solo “quasi certa” del risultato, non dovrebbe neppure consentire di postulare l’impiego, in via generale, sul piano della spiegazione della causalità medica, di criteri valutativi fondati su leggi statistiche di valore elevatissimo. Risultando anche palese che, alla luce del recente orientamento, se leggi di copertura di tanto spessore mancano, siccome ordinariamente mancano, deve accettarsi il rischio di vuoti di tutela rispetto a condotte colpose del medico pur in concreto causalmente significative e rilevanti, anche se non riconducibili, sul piano astratto, a parametri percentualistici di eccellenza come quelli sostenuti; con il conseguente sacrificio di esigenze della repressione penale peraltro generalmente riconosciute.

3.2.2 Le osservazioni appena svolte sembrano condurre, per implicito ma chiaramente, alla necessità di valorizzare, ai fini del riscontro del nesso causale nell’attività sanitaria, le leggi di copertura che il settore è in grado di esprimere, anche se la garanzia di sicurezza assicurata non attinga, come quasi mai ivi attinge, i livelli ottimali postulati dal nuovo indirizzo giurisprudenziale:

secondo un risultato conclusivo che parrebbe prestarsi al rilievo di consentire il recupero, in

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sostanza e sia pure in nome delle ineludibili esigenze di protezione di beni primari, proprio di quei criteri di causalità “dimidiata” da cui pur più sopra si erano prese le distanze, in quanto in effetti elusivi dell’accertamento del nesso.

In realtà non è così, nel senso che ,se effettivamente, a giudizio di chi scrive, vanno impiegate le leggi statistiche offerte dal settore anche se non a copertura eccellente, tale conclusione non comporta però un “ritorno al passato” quanto ai criteri valutativi della causalità omissiva: come si intende chiarire mediante l’esposizione del secondo fondamentale ordine di censure (che perciò risulta connesso al primo) all’orientamento in rassegna.

Il fatto è che non può essere condivisa, come del resto già anticipato, la collocazione all’interno del criterio giuridico di verifica del nesso, postulata dalle recenti sentenze, di quella sorta di pregiudiziale obbligatoria costituita dall’esistenza di una legge statistica portatrice di un coefficiente probabilistico vicino a cento, alla quale riconoscere ad un tempo valenza condizionante (per l’affermarsi della causalità) e preclusiva (per la sua esclusione).

Insomma: si può e si deve convenire che il risultato finale del giudizio probabilistico debba essere connotato di un grado di sicurezza assai elevato e prossimo alla certezza; non sembra trovare fondamento, viceversa, la proposizione secondo cui un siffatto risultato possa e debba unicamente essere affidato al sostegno di una legge statistica di valore altissimo.

Un tale assunto, invero, enfatizza oltre misura il dato statistico e gli assegna una qualificazione, quella di elemento-presupposto dello statuto giuridico della causalità, che una corretta lettura della regola giuridica di selezione della causalità omissiva (il principio condizionalistico integrato dalla legge di copertura) e delle stesse cadenze tipiche della spiegazione causale che tale regola comporta, non pare, in realtà, confermare o avallare.

In effetti, la spiegazione causale della omissione è di tipo induttivo ed impiega una legge di copertura di valore statistico fondata su basi empiriche, attestanti una regolarità, nella successione

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eziologica, che presenta un certo valore percentuale: quest’ultimo, peraltro, va, via via, per così dire,testato in concreto mediante la verifica circa l’eventuale incidenza di possibili processi causali alternativi; risultando attendibile o “scientifica” la spiegazione stessa, quando essa riesca ad esprimere, conclusivamente, un alto grado di credibilità razionale, ossia logica.

Ora, ben si vede che detta spiegazione, per i suoi stessi passaggi, non postuli affatto che il valore percentuale proprio della legge statistica di copertura debba imprescindibilmente essere di assoluto rilievo, sì da assorbire in sé tutta la giustificazione causale: poiché ciò che in realtà conta, nella prospettiva dell’accertamento del nesso, è essenzialmente la consistenza della credibilità razionale e logica del giudizio finale, che, essa si, deve essere elevata.

E’ stata, a riguardo, lucidamente sottolineata in dottrina (M. Donini, La causalità omissiva e l’imputazione per “aumento del rischio”, in RIDPP, 1999, p.32 e segg.), e ribadita in assai recente e perspicua decisione della Suprema Corte (Sez. IV^,23.1.2002, dep. 10.6.2002, Orlando), la necessaria distinzione tra la probabilità statistica e la probabilità logica: mentre la prima contiene una verifica empirica percentuale sulla successione degli eventi, la seconda contiene la verifica aggiuntiva della credibilità dell’impiego della legge statistica nel caso concreto. Ponendosi proprio in luce come una percentuale statistica pur alta possa non avere nessun valore eziologico effettivo quando consti che, in realtà, un certo evento è stato cagionato da una diversa condizione; e come, viceversa, una percentuale statistica medio-bassa potrebbe risultare positivamente suffragata in concreto dalla verifica della insussistenza di altre possibili (e conosciute) cause esclusive dell’evento, di cui si sia potuto escludere l’interferenza in sede di accertamento.

La conclusione è allora che l’elemento statistico non possiede, di per sé solo, valenza risolutiva, e ciò essenzialmente perché le probabilità decisivamente significative ai fini dell’accertamento del nesso non sono quelle statistiche, bensì quelle logiche, le quali richiedono la valorizzazione, oltre che del dato statistico, di ogni altra circostanza del fatto preso in esame al fine di ricercare risultati

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di alta credibilità razionale; dal che sembrando anche scaturire l’inadeguatezza dell’espressione del risultato della stima probabilistica attraverso percentuali o coefficienti numerici.

Dovendosi certo anche aggiungere che quando la legge statistica risulti troppo “incerta” alla luce delle conoscenze scientifiche del tempo, ne può risultare pregiudicata la stessa credibilità razionale della spiegazione causale: anche, infatti, ove si pervenisse ad escludere l’incidenza di fattori causali alternativi, non se ne avvantaggerebbe l’accertamento positivo della operatività di un singolo fattore eziologico, quando tale accertamento fosse fondato su di una legge di copertura di dubbio valore probabilistico.

3.3 Possono a questo punto svilupparsi, alla luce di quanto sin qui esposto, le seguenti sintetiche proposizioni conclusive, evidentemente estensibili anche oltre il settore della responsabilità medica per omissione:

a)- il criterio giuridico corretto per l’accertamento della causalità omissiva prevede l’integrazione del principio codicistico della “condicio sine qua non” con il richiamo al modello della sussunzione del fatto sotto leggi scientifiche di copertura;

b)- il nesso può ritenersi accertato quando si attinga il risultato dell’elevato grado di probabilità logica o di credibilità razionale – che equivale alla probabilità confinante con la certezza – che l’azione doverosa omessa avrebbe impedito l’evento;

c)- l’applicazione del criterio giuridico suddetto non implica l’impiego di leggi statistiche di copertura obbligatoriamente dotate di un elevatissimo coefficiente probabilistico, né l’impiego unicamente di leggi statistiche;

d)- ed infatti la (quasi) certezza del nesso che è oggetto della verifica attiene non alla probabilità statistica, ma piuttosto alla probabilità logica (“alias” credibilità razionale),e questa reclama indagini processuali rigorose che volgano ad accertare la pertinenza della

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legge statistica al caso concreto e la reale riconducibilità di questo a quella, nel contempo necessariamente verificando la non interferenza nella causazione del fatto lesivo di eventuali processi causali alternativi;

e)- risultando evidente che si tratta di un accertamento di tipo probatorio che, giovandosi del sostegno della legge statistica e da essa prendendo le mosse, deve necessariamente utilizzare ogni emergenza processuale acquisita, significativa e rilevante ed impiegare criteri di ordine logico;

f)- potendosi a corollario aggiungere:

1)- che il giudice dovrà fare uso ancora più accorto e rigoroso del regime della prova quando la legge di copertura non esprima percentuali statistiche elevate; 2)- che peraltro anche una legge di tale caratura non preclude l’attingimento di un risultato persuasivo dell’accertamento del nesso, quando in concreto l’indagine porti ad escludere altri fattori causali interagenti che avrebbero potuto determinare, per esclusiva forza propria, l’evento di danno; 3)- che la oggettiva difficoltà dell’accertamento, che non consenta di oltrepassare il limite del ragionevole dubbio, debba comportare gli esiti di cui all’art.

530 c.p.p., secondo il canone dell’ “in dubio pro reo” ( e non la forzatura ed il sostanziale mutamento del concetto giuridico di causa).

Per come si può cogliere anche attraverso queste rapide enunciazioni, il discorso argomentativo è decisamente transitato, dallo statuto penale della causalità omissiva, al piano della prova e del processo, poiché nella sostanza si è venuto assumendo che l’alta credibilità razionale postulata dal concetto di “condicio sine qua non” di cui agli artt. 40 e 41 c.p., equivalga a certezza processuale della sussistenza di una tale condizione rilevante.

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Del resto un tale passaggio (dal diritto penale al processo),che è snodo essenziale del ragionamento delle Sezioni Unite e che chiaramente evoca la disciplina della prova e della sua valutazione da parte del giudice secondo i principi di non legalità della prova, del libero convincimento e dell’accertamento della verità materiale, già appartiene a precedente giurisprudenza della Sezione quarta della Corte di Cassazione in tema di causalità medica omissiva (si veda in particolare Sez.

IV^, 1.10.1998, Stanzione), che espressamente pone l’accento sull’esigenza che l’affermazione del nesso causale omissivo sia fondata, non sul solo dato meramente statistico assunto come elemento decisivo, bensì sulla certezza processuale attinta dal giudice valorizzando tutte le circostanze del caso concreto e secondo un procedimento logico non dissimile da quello normalmente seguito in tema di prova indiziaria disciplinata dall’art. 192, 2° c., c.p.p. .

Ma sul necessario rilievo da conferire, in materia, agli ordinari criteri di valutazione della prova, bandendosi una mera utilizzazione acritica delle leggi di copertura da parte del giudice (le quali si configurano, in realtà, come criteri strumentali e punto di partenza della sua indagine), si articola soprattutto l’ampia e documentata motivazione della decisione delle medesima Sezione quarta (la già citata Sez. IV^, Orlando, depositata il 10.6.2002 e cioè proprio nell’imminenza dell’udienza innanzi alle Sezioni Unite “Franzese”), che si raccomanda anche per la assai puntuale enunciazione (condivisibile) dei vari criteri di verifica cui deve attenersi il giudice del merito per ritenere accertato il nesso di condizionamento in tema di responsabilità professionale del medico: risultando felicemente profetica e foriera della soluzione interpretativa poi fatta propria dalle Sezioni Unite.

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