Intimités
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Spigolature di tarda primavera sulla vocazione dei nostri tempi per la certezza del diritto processuale
Roma, giugno, primi caldi, presagi di sauna sotto la toga.
Ultimo numero di una mattinata di udienza di fronte alla Suprema Corte, mi rassegno a restar seduto e ad osservare il marmoreo cerimoniale. Causa per causa la chiusura è scandita da un energico rappresentante della Procura Generale. Del racconto del relatore arriva solo l’eco (aule sorde e grigie); ancor meno si capisce quel che dicono gli avvocati (c’è chi ignora che deve premere il pulsante del microfono, ma non fa niente: nessuno se ne accorge).
Risuona invece forte e chiara la voce del PM. Affascinato lo ascolto e ... ne vale la pena. Provo a trascrivere, parola più parola meno: “Il primo motivo è inammissibile perché cumula la censura della violazione di legge del n. 3 dell’art. 360 alla censura della motivazione di cui al n. 5 dello stesso articolo, e questo in spregio alla regola di chiarezza ribadita da Cassazione etc.” (c’è poco da dire, il rigore è il rigore! mi dico pensando a questi tapini di avvocati che non sanno fare un ricorso). Ma non c’è tempo per riflettere, la voce continua a risuonare: “Il secondo motivo, che si appoggia sul vizio di violazione di legge ex art. 360 n. 3 ed il terzo motivo, che invoca il vizio di motivazione ex art. 360 n. 5, vanno trattati congiuntamente perché ambedue esaminano sotto complementari angolature la stessa questione e sottopongono la soluzione adottata in sentenza sostanzialmente alla medesima critica”.
Quando si dice la coerenza! Il tapino che si risolve ad articolare (o meglio: si risolveva, perché i tempi sono cambiati e il povero n. 5 è stato nel frattempo massacrato) in un solo motivo il profilo della falsa applicazione della fattispecie astratta al caso concreto e dei vizi giustificativi della scelta, rischia di incappare nell’inammissibilità (vero che il PM non partecipa alla camera di consiglio, ma i precedenti minacciati esistono, eccome!). E questo sol perché, spargendo nel corpo del motivo le critiche al ragionamento del giudice, ha avuto lo zelo di richiamare nell’intestazione tanto la violazione di norma di diritto quanto l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione. Se però poi, trattando di
Intimités
2 un altro capo (magari per comodità espositiva) ha provato a distribuire in due
distinti motivi le linee convergenti dell’attacco, ha il diritto ed il piacere di una trattazione unitaria per una risposta giustamente unitaria.
Naturalmente la “regola di chiarezza” invocata per l’inammissibilità (inammissibilità inventata di sana pianta, ma ormai all’inammissibilità “per previsione di legge” occorre affiancare la categoria dell’inammissibilità “per capriccio del giudice”) discende – se ne può dubitare? – dal sacro “principio costituzionale della ragionevole durata del processo” (regola di chiarezza = ragionevole durata dello sforzo di concentrazione nella lettura del motivo). Ma la sacralità di un tale assioma torna subito però a convivere con l’antiquato principio di economia processuale, evidentemente sottinteso nella scelta di riunire i motivi convergenti.
È davvero bello vedere il valzer dei principi: quello che serve a fregare l’avvocato (cioè il cittadino che magari aveva ragione, e si è solo rivolto ad un professionista che ha seguito Virgilio Andrioli nella migliore tecnica di attacco alla sentenza d’appello), non vale per chi legge che si concede la prerogativa di farsi accarezzare dal buon senso.
Beninteso se così aggrada, ça va de soi.