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Quid iuris del quid iuris? - Judicium

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Academic year: 2022

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Rosario Russo

QUID IURIS DEL QUID IURIS ?

1. Secondo le Sezioni Unite1 per l’ammissibilità della censura ex art. 360 n. 5 c.p.c. è necessario che la sua deduzione si concluda, in forza dell’art. 366 bis c.p.c. seconda parte c.p.c. (ove ratione temporis applicabile), con l’enunciazione di un «momento di sintesi» omologo del quesito di diritto. In realtà, una più condivisibile decisione della Suprema Corte sembra avere ridimensionato tale principio perché, per escludere l’eccepita incostituzionalità della citata interpretazione dell’art. 366 bis c.p.c., ha dovuto concludere che «nell'enunziare i suindicati principi questa Corte in proposito altro invero non richiede che, oltre all'esplicazione del motivo, venga individuato il "fatto controverso", al fine di evitarsi che la relativa individuazione - in punto di mera ammissibilità, del ricorso - venga rimessa alla disamina da parte di questa Corte dell'intero motivo, disamina invero riservata al logicamente successivo momento dell'accertamento in ordine alla relativa fondatezza»2. Ma tale decisione – a dire il vero assai ragionevole - è stata disattesa nella concretezza applicativa della disposizione, rendendo così necessario il presente tentativo di approfondimento.

2. Con riferimento alle quaestiones iuris 3, il legislatore del 2006 ha inteso dettare all’interlocutore (per non dire all’'utente') della giurisdizione di legittimità un canone (o, se si

1 Cassazione civile, sez. un., 18 giugno 2008, n. 16528, in motivazione: «Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che secondo l'art. 366 bis c.p.c. introdotto dalla riforma di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, l'illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione (Cass. 3441/2008, 2697/2008). Pertanto, la relativa censura (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) "deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), costituente una parte del motivo che si presenti, a ciò specificamente e riassuntivamente destinata, che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità"

(idem).»

2 Cass., ord. n. 8897/ 2008.

3 Nel linguaggio ordinario per 'quesito' (dal latino quaerere, chiedere) s’intende «Domanda o serie di domande pertinenti a uno stesso argomento, per cui si richieda una risposta precisa ed esauriente» (così Vocabolario Devoto – Oli) ovvero «...domanda o questione la cui soluzione implichi un certo impegno logico o morale» (così Vocabolario

Treccani). Il linguaggio settoriale giuridico si arricchisce di un’ulteriore accezione, quella (risalente ad un’ ulteriore specificazione semantica del latino quaerere: procacciare) cioè di 'acquisito', come avviene in particolare nel sintagma

«diritti quesiti» usato per indicare diritti che fanno parte ormai del patrimonio di un soggetto e per i quali non si applica una nuova legge. Ma nell’ambito giuridico (a volte inevitabilmente connesso a quello filosofico-giuridico, cioè di filosofia del diritto, o filosofico tout court) la quaestio iuris vanta una risalente e nobile tradizione, testimoniata tra l’altro da Kant: «I giuristi, quando trattano di facoltà e pretese, distinguono in una questione giuridica quel che è di diritto (quid iuris) da ciò che si attiene al fatto (quid facti); ed esigendo la dimostrazione dell'uno e dell'altro punto, chiamano la prima, quella che deve dimostrare il diritto, o anche la pretesa, deduzione» (Critica della ragion pura,

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vuole, un codice) di 'trasmissione', da utilizzare necessariamente nella confezione del ricorso, che non è privo di giustificazione sistematica. Siccome la Suprema Corte è impegnata ormai a dettare tendenzialmente sempre il principio di diritto (alla stregua del novellato art.

384, 1° c.p.c., che ne impone l’enunciazione non solo, come avveniva dianzi, allorché riscontri positivamente l’error in iudicando in iure, ma anche allorché, ravvisati altri vizi, tra cui certamente quelli elencati dall’art. 360 nn. 1 e 2, risolve una questione di diritto di particolare importanza, non importa se accogliendo o rigettando il ricorso), ne resta specularmente conformata anche la prospettazione e la formulazione dei motivi dedotti in seno al ricorso. In altri termini, se tendenzialmente la Suprema Corte deve 'produrre' principi di diritto, anche l’utente deve postularli, per incrociare ed intercettare utilmente (perciò ottimizzandola) l’offerta di legittimità di cui si fa carico la Suprema Corte e se, invece, la quaestio iuris non sia traducibile in quesito di diritto (né dunque dicibile, e decidibile, dalla Suprema Corte come principio di diritto) il ricorso non è ammissibile, funzionando allora il requisito previsto dall’art. 366 bis anche come test di verifica della (conformità al modello di) legittimità della domanda avanzata alla Suprema Corte. Questo modello di ricorso può, e deve, 'vestire' soltanto le quaestiones iuris giacché invece, quando sia in discussione una quaestio facti, trovano applicazione soltanto le diverse regole di 'trasmissione' formulate dalla seconda parte dell’art. 366 bis, oltre che dall’art. 366, n. 6 (la cui analogia con l’art. 606, 1°, lett. e c.p.p. è lampante), perché la violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. non comporta (almeno) di norma l’enunciazione di un principio di diritto, neppure ai sensi del novellato art. 384 c.p.c.

Dunque l’applicazione delle diverse regole di confezione del ricorso per cassazione dettate dall’art. 366 bis c.p.c. passa per il più classico e imprescindibile asse logico-giuridico, quello che separa la quaestio facti dalla quaestio iuris, ma questo è un crinale che attraversa tipicamente tutti i vizi elencati dall’art. 360 c.p.c., con esclusione, (ma - si badi - soltanto) di regola, per il vizio dedotto ex art. 360 n. 5 c.p.c. Pertanto, al fine di stabilire se sia applicabile la prima parte dell’art. 366 bis c.p.c., la distinzione anzidetta (addirittura sostanzialmente costitutiva della stessa ragion d’essere della Suprema Corte) va operata tendenzialmente all’interno di qualsiasi ricorso per cassazione, quale che sia il vizio dedotto. Ne consegue che nulla quaestio se il ricorso lamenta direttamente il vizio di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c.: si dovrà

Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 102). Con una chiara genesi storica nel diritto romano, sono poi proliferate le raccolte di esercitazioni pratiche; celebri in passato i Quid Iuris? di A. TRABUCCHI (Padova, 1975) e da ultimo A. PAGLIARO, Quid iuris? Casi di diritto penale, Torino, 1997.

Si comprende allora agevolmente che l’art. 366 bis c.p.c. non fa altro che imporre, a pena d’inammissibilità, la

formulazione in seno al ricorso per cassazione della quaestio iuris e che la corrispondente analisi critica si presta perciò ad essere sintetizzata in modo suggestivo: per l’appunto, quid iuris del quid iuris?

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ovviamente pretendere l’osservanza dell’art. 366 bis, prima parte, c.p.c.; se, invece, sia proposto un regolamento di giurisdizione o di competenza ovvero un ricorso per violazione di norma processuale occorrerà nettamente distinguere (come per altro ad ogni effetto è chiamata a fare, da sempre, la Corte italiana, al pari di ogni altra Corte Suprema straniera) le questioni che, essendo di diritto, sono idonee a provocare l’enunciazione di un principio di diritto, da quelle che sono intese a dimostrare soltanto una ricostruzione non razionalmente plausibile della situazione fattuale rilevante, perché soltanto per le prime è (ovviamente) legittimo esigere la formulazione del quesito di diritto. È appena il caso di sottolineare, infatti, che un conto è lamentare, in seno ad un regolamento di competenza, l’errata interpretazione o applicazione dell’art. 20 c.p.c. o dell’art. 295 c.p.c.; altro, e ben diverso conto è lamentare che, pur facendo piena e corretta applicazione delle norme, il Giudice di merito abbia irrazionalmente motivato su una determinata circostanza storica rilevante. Che il distinguo fondamentale cui è rimessa l’articolazione dell’art. 366 bis c.p.c. sia non solo generale, ma soprattutto trasversale rispetto ad ogni istanza rivolta alla Suprema Corte, rendendo così ragionevole, esigibile e non iugulatorio (perfino in raffronto agli artt. 3 e 111, pen.

comma, Cost.) il precetto contenuto nell’art. 366 bis c.p.c., è ampiamente comprovato:

2.1. dall’estensione (sopra non caso rimarcata) del canone del quesito di diritto ad ogni ipotesi di ricorso per cassazione, fatta eccezione del vizio previsto dall’art. 360 n. 5 c.p.c., operata espressamente dall’art. 366 bis prima parte c.p.c.;

2.2. limitatamente ai regolamenti di competenza e di giurisdizione, dall’impossibilità di distinguere ontologicamente le relative istanza dai ricorsi proposti ex art. 360 nn. 1 e 2 c.p.c., espressamente previsti dall’art. 366 bis, prima parte, c.p.c.; per altro, non può tacersi che una conferma estremamente significativa, se non decisiva, si rinviene nella possibilità di convertire, a certe condizioni (che nulla hanno in comune con l’art. 366 bis c.p.c.), in regolamento di competenza il regolamento proposto ex art. 360, n. 2 c.p.c.; d’altronde, nella medesima direzione:

2.2.A. non appare insuperabilmente ostativa l’ipotesi del regolamento d’ufficio, giacché, per un verso forse non sarebbe così disdicevole (e neppure giuridicamente assurdo) sottoporre Giudici di merito e Parti alla stessa regola 'grammaticale' dettata per qualsiasi quaestio iuris e, per altro verso, non sembra inutile più radicalmente rammentare che detto regolamento si propone (non con ricorso, ma) con ordinanza (art. 47, 4° c.p.c.), e perciò con un provvedimento giudiziario conformato (non dalla coppia normativa costituita dagli artt. 366 e 360 bis c.p.c., sibbene) esclusivamente dall’art. 134 c.p.c.;

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2.2.B. le più ampie possibilità cognitive della Suprema Corte in tema di accertamento dei fatti rilevanti per statuire sulla giurisdizione e sulla competenza attengono alla fase decisionale, ma non possono condizionare i presupposti d’ammissibilità del ricorso in sé e per sé considerato;

2.3. dal già segnalato contenuto innovativo dell’art. 384, 1° c.p.c. che riguardando dal punto di vista della decisione quel che l’art. 366 bis c.p.c. predica simmetricamente dal punto della vista della domanda giudiziale, impegna la Suprema Corte a statuire principi di diritto «in ogni altro caso» (ovviamente diverso da quello segnato dal vizio elencato dall’art. 360, n. 3 c.p.c., ma inclusivo dei regolamento di competenza e di giurisdizione), in cui, accogliendo o rigettando il ricorso, risolve questioni di diritto di particolare importanza.

3. Se dunque il quesito di diritto trova corrispondenza nel principio di diritto, deve escludersi che analoga corrispondenza sussista tra quaestio facti e art. 366 bis seconda parte, come invece assumono per altro apoditticamente le Sezioni Unite (v. retro sub nota n. 2); infatti:

3.1. essa non è rinvenibile all’interno della medesima disposizione, che pretende soltanto la chiara indicazione del fatto controverso (v. retro sub par. n. 1 e nota n. 2), in relazione al quale si denuncia l’omissione o la contraddittorietà del motivazione, vel le ragioni che rendono insufficiente la motivazione; si pretende da parte ricorrente, cioè, soltanto che siano dedotte nel dettaglio le ragioni per cui la motivazione non sia in grado di svolgere il proprio ruolo (art. 111, 6° Cost.): dettaglio che, di per sé comportando specificazione, analisi dimostrativa e capacità persuasiva, si pone in frontale contrasto (letterale e concettuale) con qualsiasi ‘sintesi’, specialmente se paragonata a quella tipica del quid iuris richiesto (soltanto) per le quaestiones iuris;

3.2. essa non trova aggancio, inoltre, nella decisione invocata dalla Suprema Corte, la quale infatti non emette alcun principio (di fatto) paragonabile al principio di diritto e, come quest’ultimo, utilizzabile in altre controversie;

3.3. è tecnicamente inesigibile perché non si può esprimere linguisticamente in un «momento di sintesi» («omologo del quesito di diritto», come espressamente pretendono le Sezioni Unite) la critica all’iter motivazionale della sentenza impugnata: qui non si tratta di sostituire o di affermare un principio di diritto (come avviene all’interno della logica dimostrativa o deduttiva), ma di dedurre perché e come la motivazione della sentenza impugnata non sia suadente (come avviene nell’ambito della logica induttiva e persuasiva, ovvero della retorica à la manière de Perelman); in realtà, non è possibile ipotizzare, ed esigere, alcuna

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'omologazione' tra prima parte e seconda parte dell’art. 366 bis c.p.c. perché risulta logicamente4 e giuridicamente impossibile 'omologare' quaestio iuris e quaestio facti;

3.4. in realtà non si fa fatica a concludere che, ferma restano la necessità di dettagliare, a pena di inammissibilità, il fatto controverso, in relazione al quale si denuncia l’omissione o la contraddittorietà del motivazione, vel le ragioni che rendono insufficiente la motivazione (come testualmente richiesto dall’art. 366 bis, seconda parte, c.p.c.), dal punto di vista strettamente logico il preteso (e fin troppo indeterminato) «motivo di sintesi» finirebbe per identificarsi con la stessa fattispecie che descrive il vizio motivazionale ex art. 360, n. 5 c.p.c. («omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio»).

4. Per queste ragioni, e soprattutto per l’ultima, esigere con riferimento alle quaestiones facti un tale momento di sintesi, per altro non meglio dicibile e praticabile, rappresenta una inspiegabile, forzata ed illogica pretesa che di fatto rende praticamente impossibile (probabilmente per nobilissime ragioni 'difensive' della Suprema Corte) la proposizione di un ricorso per cassazione ammissibile. Atteso che un numero consistente di ricorsi viene dichiarato inammissibile per carenza del «momento di sintesi»:

4.1. sarebbe opportuno che le Sezioni Unite riesaminassero la questione (art. 374, 3° c.p.c.);

4.2. in subordine, non sarebbe ardito investire la Corte Costituzionale della questione di legittimità dell’ancora applicabile art. 366 bis c.p.c. (nella parte in cui, secondo il «diritto vivente», pretende nella deduzione del vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. - in aggiunta alla

«chiara indicazione del fatto controverso» e alle «ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione» - un «momento di sintesi omologo del quesito di diritto»), in rapporto agli artt. 3 e 111, pen. comma, Cost.

4 Ovvio il rinvio (quanto meno) alla distinzione leibniziana tra verità di ragioni e verità di fatto.

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