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Esigenze e prospettive di riqualificazione del complesso di Ingegneria di via Marzolo

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Academic year: 2022

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Esigenze e prospettive di riqualificazione del complesso di Ingegneria di via Marzolo

Giorgio Garau1

L’iniziativa di questo convegno è di grande interesse per la Facoltà; un contributo alla conoscenza di una parte rilevante del suo patrimonio storico e culturale, ed un mezzo per diffondere la consapevolezza della sua esistenza. L’edificio del Donghi destinato ad accogliere (a partire dal 1929) la nuova sede del Regio Istituto Superiore di Ingegneria in Padova è un episodio che per lunghi anni è stato dimenticato nei fatti. L’Università di Padova è così ricca di patrimonio illustre (architettonico, archivistico, museale) da considerare l’opera lasciata dal Donghi come evento marginale rispetto all’eccezionale accumulazione storica di cui dispone. Si deve ai colleghi del Dipartimento di Architettura Urbanistica e Rilevamento, ed in particolare alla prof.ssa G.Mazzi e all’arch. V.Dal Piaz se l’opera del Donghi è riemersa all’attenzione degli studiosi e della stessa Università.

Cercherò di evidenziare, dal mio punto di vista di progettista, come questo edificio, bistrattato dalla storia, abbia ancora insegnamenti da dare e potenzialità da esprimere, purché la si smetta di considerarlo un contenitore immobiliare e lo si tratti come un’architettura. Basterebbe in proposito rispettare le intenzioni dell’autore.

Donghi concepisce l’edificio universitario come monumento urbano. E’ un concetto diffuso nei primi decenni del ‘900, che caratterizza molte delle opere realizzate dalle istituzioni, perché le istituzioni vogliono rappresentarsi con l’architettura. Scrive Donghi nel suo Manuale dell’architetto: «Non fa mestieri di dimostrazione, ed è ormai generalmente riconosciuto, che gli edifizi per le Facoltà universitarie possono, per la loro importanza, aspirare ad una costruzione veramente monumentale. Questo non deve intendersi solo riguardo alla scelta dei materiali e della decorazione architettonica, ma sotto l’aspetto dell’impianto generale dell’edifizio, il quale, oltre a soddisfare unicamente agli usi a cui è destinato, deve presentare quella grandiosità di locali, di comunicazioni e di linee decorative, che rivelino a primo aspetto l’alta destinazione del palazzo». 2

Ma al tempo stesso l’opera deve essere edificio funzionale, ossia efficace nel suo funzionamento e rispondente alle esigenze degli utenti. Anche questo è scritto nei suggerimenti che Donghi dà ai suoi allievi nelle dispense al corso di Architettura tecnica. “…dovrete fissare anzitutto

1 Dipartimento di Architettura, Urbanistica e Rilevamento.

2 Daniele Donghi, Manuale dell’architetto, ii, La composizione architettonica, Parte i, Distribuzione, Sezione i, Roma-Torino-Napoli, Unione Tipografica-Editrice Torinese, 1925, p. 554. 3 Daniele Donghi, Nozioni di Architettura Tecnica, Parte seconda, cat. 2 a , Università – Politecnici – Istituti scientifici Padova, CEDAM, 1929, p. 44. 4 Vedi in proposito: Daniele Donghi, La nuova sede della Scuola di Ingegneria e di Architettura a Padova, in “L’Architettura italiana”, n.11, .Torino 1919

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un particolareggiato programma, valendovi di tutte le informazioni che potrete raccogliere dai professori dei vari insegnamenti, passando in seguito alla consultazione dei disegni di edifici consimili……”. 3

E’ difficile ricostruire dai pochi documenti disponibili l’esatta attribuzione delle funzioni agli spazi dell’edificio, il quale nasce, come lamenta lo stesso Donghi, da un progetto compiuto (la prima corte) cui si è dovuto successivamente aggiungere un ampliamento (la seconda corte).4

Dalla pianta del piano terra pubblicata dallo stesso Donghi su “L’architettura italiana”5 (vedi fig. B1 (in Appendice B)), si possono localizzare approssimati-vamente le sedi degli Istituti secondo una organizzazione in cui ricerca e didattica non avevano ancora subito quella separazione che sarebbe intervenuta molto più in là nel tempo.

Si noti come all’epoca ci sia un sostanziale equilibrio di spazi fra l’area civile-architettura e l’area industriale con un certo privilegio, direi, per quelli attribuiti ad Architettura ed Idraulica, ossia a Istituti probabilmente ritenuti allora particolarmente prestigiosi per la Facoltà.

Se si osserva la figura B2 (in Appendice B) ci si renderà conto delle massicce modificazioni intervenute nel giro di settant’anni. In quest’arco di tempo, studi, aule e laboratori di ingegneria industriale emigrano in nuove sedi, salvo Chimica applicata6 che rimane espandendosi a scapito di Architettura; l’edificio è fortemente manipolato al suo interno mano a mano che le nuove esigenze si manifestano, e, cosa più grave, si aggiungono nuovi corpi edilizi con deliberata irriverenza per l’architettura originale. Un opificio industriale non sarebbe stato trattato peggio.

Dai tempi del Regio Istituto la prestigiosa sede di Ingegneria, esempio di efficienza, modernità e dignità in grado di competere con i Politecnici europei, decade in uno stato, l’attuale, di inesorabile declino. Purtroppo va detto che questo stato non è frutto di abbandono, ma di accanimento trasformativo, operato con una miriade di piccoli interventi “migliorativi” (nelle intenzioni) o adattativi, ma privi di un disegno strategico complessivo e comunque estranei ad una minima coerenza architettonica.

Anche l’adeguamento alle normative interviene settorialmente senza riferimenti a possibili riconfigurazioni distributive. Qualche volta l’intervento è nella direzione giusta, ad esempio nel caso della realizzazione di un lungo vallo sul perimetro esterno della seconda corte per consentire

5 Daniele Donghi, La nuova sede della Scuola di Ingegneria e di Architettura a Padova, in “L’Architettura italiana”, n.11, .Torino 1919

6 la dizione è del Donghi

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la via di fuga da laboratori seminterrati altrimenti inagibili. Ma altre volte lo stesso intervento manutentivo introduce ambiguità, come quando uno stesso intonaco colorato in giallo ricopre indiscriminatamente parti originali e parti aggiunte nel tempo.

Esiste nel complesso uno stato di obsolescenza spaziale, funzionale e tecnologica, più volte segnalata dagli stessi responsabili delle strutture, che crea stati di disagio operativo, di inefficienza funzionale, condizioni ambientali di scarso benessere, di precaria igiene e forse anche di rischio.

Recentemente la Commissione edilizia di Facoltà (presieduta dal prof. R.Vitaliani) ha accolto favorevolmente una proposta che mira a promuovere una prima risposta sistematica a una congerie di problemi rimasti troppo tempo insoluti. La proposta raccoglie le istanze, ancora parziali, di quattro dipartimenti: Architettura Urbanistica e Rilevamento (DAUR), Costruzioni e Trasporti (DCT), Principi e Impianti di Ingegneria Chimica (DIPIC), Processi chimici dell’Ingegneria (DPCI) concordi nel cercare, attraverso un’azione coordinata, soluzione ai loro problemi. A volte nel passato i dipartimenti si sono affrontati in “liti territoriali”, mentre in questo caso si è potuto dimostrare che un approccio progettuale sistematico è in grado di superare le carenze quantitative attraverso l’uso più razionale dello spazio e soprattutto chiamando la qualità a supplire alle carenze di quantità.

In quest’ambito ho avuto modo di curare per conto del DAUR un pre-progetto basato su alcune strategie che potrebbero essere di riferimento per una necessaria e indilazionabile azione di riqualificazione dell’intero complesso monumentale (Figure 3, 4, 5 in Appendice B).

Si tratta in sintesi di introdurre i seguenti criteri di intervento:

1. ricognizione sistematica dello stato di fatto sia in termini di situazioni fisiche (condizioni spaziali, ambientali, tecnologiche) che di esigenze espresse dagli utenti;

2. adozione di un approccio progettuale unitario sull’intero complesso anche allo scopo di ricondurre ad unità e coerenza gli eventuali interventi parziali o anche di piccola manutenzione;

3. adozione di un programma di riqualificazione sistematica del complesso ancorché scaglionato nel tempo;

4. introduzione di una separatezza funzionale fra dipartimenti e spazi per la didattica, optando per la concentrazione di questi ultimi nel corpo che separa le due corti storiche;

5. soppressione di talune superfetazioni che più vistosamente deturpano lo stato originale dell’edificio e ne impediscono la corretta lettura;

6. recupero funzionale di spazi residuali posti nel seminterrato o al limite nel sottotetto;

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7. rifunzionalizzazione dei corpi semplici (aule + corridoio) ricavando corpi doppi composti da: studi (o laboratori) + corridoio + spazi di servizio;

8. introduzione di condizioni adeguate di benessere ambientale (ventilazione, condizionamento), igiene (nuovi servizi igienici) e accessibilità (ascensori in grado di collegare tutti i livelli dell’edificio) ;

9. ripristino di standard di qualità tecnologica coerenti con la dignità e le funzioni dell’edificio;

10. valorizzazione per quanto possibile dei caratteri architettonici originali e dell’opera del Donghi nel suo complesso.

11. dell’edificio.

12. valorizzazione per quanto possibile dei caratteri architettonici complesso.

Preso come guida, questa specie di decalogo ha consentito al Dipartimento di Architettura di sviluppare una serie di elaborati tecnici nei quali si individua da un lato lo stato di utilizzo degli spazi da parte dei dipartimenti e dall’altro una prima ipotesi di nuova allocazione delle funzioni e di razionalizzazione degli spazi con sostanziale ricorso a lavori di riqualificazione ambientale e tecnologica. Si tratta di elaborati supportati sull’unica base rappresentativa disponibile, quella sommaria dell’archivio tecnico, che si pongono semplicemente come ipotesi-guida per un futuro progetto. Gli interventi più consistenti riguardano: l’incremento degli spazi didattici per ulteriore recupero di ambiti seminterrati non ancora utilizzati (corpo intermedio fra le due corti);

trasferimento delle aule dal DAUR al piano rialzato del corpo intermedio con trasferimento dei laboratori DPCI nell’ala, della seconda corte, prospiciente via Marzolo; riutilizzo degli spazi già adibiti ad aule e laboratori (corpo semplice) con adozione di una nuova distribuzione a doppio corpo con corridoio centrale. Quest’ultima soluzione è realizzabile ricorrendo a componenti ricollocabili che non incidono sull’asseto murario; i nuovi divisori impiegano pareti attrezzate (con armadi e scaffalature) nella parte inferiore e superfici vetrate in quella superiore. In tal modo la dimensione spaziale originale rimane leggibile.

La valorizzazione dei caratteri architettonici originali viene in parte perseguita eliminando le superfetazioni poste a carico del porticato della seconda corte nel punto in cui questo s’innesta sul corpo lungo via Marzolo. L’occasione della demolizione è dato anche dalla necessità di realizzare una nuova scala di sicurezza. Interessante è anche l’ipotesi di restituire alla torre posta sull’ingresso alla prima corte l’antica funzione (rivisitata) di stazione topografica.

Ovviamente occorrerà prevedere una serie di adeguamenti normativi e tecnologici su cui è superfluo insistere in questa sede.

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In ogni caso il vero obiettivo della proposta era e rimane quello di sollecitare finalmente un’azione di intervento sistematico e coordinato sull’intero edificio e di convincere le autorità accademiche dell’assoluta necessità di promuoverla.

Da un lato, come si è visto, c’è lo stato di grave inadeguatezza dell’immobile, ma dall’altro c’è il problema di un edificio caduto in uno stato “indegno” della sua storia e del suo ruolo.

Su questo secondo punto vorrei attirare l’attenzione del Convegno, ma soprattutto delle autorità accademiche.

Nato espressamente come monumento, il complesso di ingegneria del Donghi è la testimonianza di un momento di grande interesse per la storia dell’architettura e per la storia della tecnologia.

E’ un momento di transizione, di confronto fra scuole, anche di conflitto fra idee e fra linguaggi.

Donghi ritiene che l’architettura, come egli stesso scrive nelle sue dispense di Architettura Tecnica, sia una “sintesi, per così dire, di tutte le scienze e di tutte le arti”.7 Come progettista è un eclettico, secondo la tradizione ottocentesca; ritiene che gli “stili” possano essere adottati a seconda delle circostanze e le convenienze. Nell’affrontare i tre aspetti più significativi dell’edificio: la morfologia, la tipologia e la tecnologia, Donghi assume atteggiamenti tipici di un’epoca di passaggio e di travaglio, La “veste decorativa”8 è di ispirazione rinascimentale perché è quella ritenuta, anche per gli esempi che cita nel Manuale, la più rappresentativa della dignità universitaria. La tipologia invece è quanto di più funzionale e moderno si potesse concepire all’epoca. Gli spazi sono dimensionati e organizzati per dare risposte precise a esigenze funzionali che scaturiscono da un’ attenta analisi dei fabbisogni. Questo da un lato “specializza” le varie componenti tipologiche e, per così dire, le cristallizza sui modelli d’uso aggiornati all’epoca.

Tuttavia questo non pregiudica un certo grado di flessibilità che l’edificio si porta dalla concezione e che ha garantito comunque oltre settant’anni di servizio. Esiste addirittura una flessibilità residua come dimostrano le proposte del pre-progetto che possono consentire ad un corpo edilizio ormai

“esausto” di riprendere, se adeguatamente trattato, una vita ulteriore e più rispondente ai bisogni dei propri utenti.

Ma è nella tecnologia che si nasconde una sorta di curiosa sintesi fra tradizione e avanguardia sia nella concezione che nella costruzione.

Cominciamo dall’avanguardia. Il “béton armé système Hennebique” è uno dei brevetti con il quale esordisce alla fine dell’800 la rivoluzionaria tecnologia del calcestruzzo armato. Diventa in

7 Daniele Donghi, Nozioni di Architettura Tecnica, Parte prima, cap. 1 , Introduzione – L’achitettura, l’architetto e l’architettura tecnica, Padova, CEDAM, 1929, p. 10.

8 la dizione è usata dal Donghi nelle Nozioni di Architettura Tecnica

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breve il sistema più diffuso in Europa; lo adotta fra i primi Auguste Perret (nel ruolo sia di progettista che di costruttore) nella casa di rue de Franklin a Parigi nel 1903, che è una pietra miliare nella storia dell’architettura moderna.

Anche Donghi è un pioniere della nuova tecnica; dal 1900 al 1904 è addirittura coinvolto (come direttore della filiale milanese) nella Società Porcheddu Ing. G.A. di Torino che è la concessionaria esclusiva per l’Italia della Hennebique.

Fig. 6. Pubblicità della Società Porcheddu di Torino concessionaria per l’Italia della Hennebique

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Fig. 7. Parigi, casa al n.25 bis di rue Franklin (A.

Perret, 1903)

Riccardo Nelva del Politecnico di Torino, studiando l’archivio Porcheddu9, ha portato alla luce questa vicenda affascinante in cui Donghi figura, con Pietro Fenoglio e Giacomo Matté Trucco (il progettista del Lingotto), come professionista di punta nella sperimentazione della nuova tecnica a partire dal Padiglione Ansaldi a Milano (1903) (Fig. 8 in Appendice B) e dalla casa Marangoni a Torino (1904). Si tratta di progetti che prevedono non solo l’adozione del telaio in calcestruzzo armato per l’intero apparato strutturale, ma anche la sua esibizione in facciata. Si tratta di un’innovazione audace per quei tempi anche sul piano formale.

Si potrebbe pensare che nel progetto del complesso di via Marzolo, concepito e costruito in due parti fra il 1910 ed il 1915, il nostro “pioniere” abbia fatto un passo indietro. In realtà la questione è più complessa e fa parte di un travaglio tipico dell’epoca. Come si evince dalle sue stesse parole, Donghi assume come suo compito professionale e civile quello di dare all’Università e alla città un monumento. A tal fine deve necessariamente ricorrere alla storia dell’architettura e da essa estrarre il linguaggio adatto a rappresentare l’autorità e la dignità dell’istituzione.

Chi, come Matté Trucco, progetta edifici industriali non ha nessuna preoccupazione rappresentativa che debba confrontarsi con il passato. Nei suoi stabilimenti per la Fiat a Torino, che Donghi certamente conosce, Matté Trucco impiega il nuovo materiale strutturale con tutta la forza espressiva della sua funzione; nel 1915 progetta il Lingotto e realizza un’altra pietra miliare

9 vedi: Riccardo Nelva - Bruno Signorelli, Avvento ed evoluzione del calcestruzzo armato in Italia: il sistema Hennebique, Milano, 1990

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dell’architettura contemporanea. I due edifici sono sostanzialmente coevi ancorché opposti come concezione architettonica (monumentale il primo, rigorosamente funzionalista il secondo). Tuttavia c’è un legame fra i due: la tecnologia Hennebique.

Fig. 9. Il complesso di Ingegneria (D.Donghi) e il Lingotto (G.Maté Trucco) sono stati progettati negli stessi anni

Donghi la usa in via Marzolo per tutte le strutture orizzontali come appare particolarmente evidente nei solai a travi incrociate (tipiche del sistema) adottati ad esempio nel grande spazio dell’Aula magna. E’ un impianto già sperimentato nel 1906 nel salone, ora perduto, della Cassa di Risparmio di Venezia.

Fig. 10. Strutture a travi incrociate nella Cassa di Risparmio di Venezia (D.Donghi, 1906) e nell’Aula magna di via Marzolo

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Un altro impiego interessante, anch’esso perduto, lo si osserva nell’edificio di via Marzolo appena eseguito, come appare nelle foto d’epoca che riprendono il secondo cortile. Vi si nota una sorta di “licenza” rispetto al severo aspetto monumentale: il laboratorio di elettrotecnica è coperto a sheds come un edificio industriale.

Fig. 11. Copertura a sheds sul laboratorio di elettrotecnica e disegno strutturale della copertura del lanificio Conte a Schio (1906)

La successiva manipolazione ha cancellato quella che presumibilmente era una struttura molto simile alla copertura del lanificio Conte a Schio realizzato nel 1906 dall’impresa Porcheddu.

I primi decenni del 900 sono in realtà un periodo di grandi “passaggi” storici per la cultura architettonica (e non solo per essa) con i relativi conflitti. Possiamo citare qualche altro esempio per evidenziare una problematica che, in particolare in quegli anni, investe il rapporto fra forma e tecnologia. E’ noto in proposito il fenomeno che è detto “dell’inerzia della forma”, che si verifica quando l’innovazione tecnologica s’introduce nel manufatto senza osare di apparire, in modo che la forma sia quella della tradizione, ossia della tecnologia che in realtà viene soppiantata.

Nell’esempio torinese del Restaurant du Parc (1908), l’edificio appare in tutta la sua retorica classicistica pur essendo costruito con una pionieristica struttura interamente in calcestruzzo armato.

Fig.12. Torino. Restaurant du Parc (1908), uno dei primi edifici a struttura intelaiata in c.a.

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Esempio analogo è quello della nuova Borsa di Genova (1907-10). In questi casi citati, come in molteplici altri tipici dell’epoca, si tratta di edifici a cui è demandato un ruolo simbolico o rappresentativo. Dove questa istanza venga meno, ossia negli edifici con pure funzioni operative o manifatturiere, come ad esempio negli edifici industriali, l’utilizzo di una “veste decorativa” lascia il posto all’evidenza della tecnologia innovativa.

Verosimilmente non si tratta di una questione di semplice convenienza pratica ed economica.

Anche la fabbrica ha spesso un’immagine da comunicare e questa è necessariamente di “progresso”, di “futuro”. Come dire: l’istituzione si affida all’immagine del passato e l’attività produttiva all’immagine del futuro.

Per tornare a via Marzolo, occorre precisare che Donghi non fa alcuna forzatura fra forma e tecnologia. Nelle strutture in elevazione la nuova tecnologia è unicamente usata in orizzontale, nei solai, mentre le murature portanti sono in laterizio e la copertura in legno. Una complessità tecnologica cui si aggiunge una ulteriore innovazione , se così può essere definito il litocemento, un materiale che ha goduto di un breve successo fra la fine dell’ 800 e i primi due o tre decenni del 900.

Fig.13. .Il litocemento è usato diffusamente dal Donghi per realizzare basamenti, colonne, archi ecc. e da molti altri progettisti fra cui Plecnik.( (Cimitero di Zale, Lubiana, 1937)

Donghi lo usa diffusamente per sostituire la pietra in tutte quelle parti (colonne, archi, bancali, timpani, fregi, stipiti ecc.) in cui la “veste decorativa” avrebbe richiesto la pietra. Infatti si tratta di un surrogato (nei capitolati dell’epoca viene chiamata “pietra artificiale”) più che di un’innovazione, che tuttavia sfrutta la stessa composizione (con opportuni adattamenti) del

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calcestruzzo armato. Prodotto con casseri in grado di sfornare pezzi prefabbricati di qualunque forma il materiale grezzo subiva la stessa lavorazione di finitura che abili scalpellini avrebbero potuto riservare alla ben più nobile pietra.

L’uso che se ne fa in quegli anni è dovuto a ragioni economiche: gli ingredienti e la manodopera costano poco. Ciononostante il materiale ha notevoli qualità tecniche e può esser usato anche in forme altamente liriche come dimostra l’opera di Joze Plecnik.

Il complesso di via Marzolo è dunque portatore di una complessa memoria storica, che merita un intervento di sostanziale recupero, che può diventare non solo occasione di conservazione ma anche di divulgazione culturale.

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