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2. Scopo della tesi

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Academic year: 2021

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1. Introduzione

1.1 Il tumore del colon retto

Il tumore del colon retto (colorectal cancer, CRC) è una delle maggiori cause di morte nei paesi occidentali (Fig 1) ed il tasso di mortalità dopo 5 anni dalla diagnosi è del 40%.

Fig 1: tasso di incidenza del tumore al colon-retto in individui maschi

Studi americani hanno mostrato che è il terzo tipo più comune di cancro tra gli uomini e le donne americane. Sia per le donne che per gli uomini l’incidenza di CRC inizia a crescere intorno all’età di 40 anni (Fig 2). Il 92% dei casi di CRC è diagnosticato in persone aventi una età superiore ai 50 anni (Jemal et al. 2007;

American cancer society 2006).

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Fig2: Età di diagnosi del CRC e relativo tasso di incidenza (scala logaritmica)

Il tumore al colon retto può svilupparsi anche in individui giovani. Uno studio effettuato da Ferley et al. del 2006 ha riportato che la patologia rientra tra i maggiori 10 tipi di cancro diagnosticati tra gli uomini e le donne con età compresa tra i 20 e i 49 anni. In questa fascia di età, gli individui Afro-americani sono maggiormente colpiti rispetto ai Caucasici, mentre gli individui Asiatici sono tra i meno colpiti. Tra gli individui con età compresa tra i 40 e i 49 anni il tasso di incidenza per gli Afro-Americani è del 40% in più rispetto ai Caucasici e quasi il 60% in più rispetto agli asiatici (Fairley et al. 2006). Studi americani mostrano che l’incidenza di CRC è diminuita nell’arco temporale dal 1998 al 2004 (Jemal et al. 2007). Sicuramente uno dei motivi è la rimozione chirurgica dei polipi a rischio grazie alla diagnosi precoce. Si stima che il 75% dei tumori al colon retto sono di tipo non ereditario o sporadico mentre il restante 25% è di

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tipo familiare. Per ciò che concerne il tipo familiare, le più comuni sono denominate Hereditary Nonpolyposis Colorectal Cancer (HNPCC) e Familial Adenomatous Polyposis (FAP). In tabella 1 è riportata una lista che descrive varie forme di tumore colorettale ereditario (Strate et al. 2005).

Patologia Gene o geni coinvolti CRC rischio/penetranza

HNPCC DNA mismatch repair genes: hMSH2, hMLH1, hPMS1, hPMS2, hMSH6

∼ 80%

Muir-Torre hMSH2, hMLH1

FAP Tumor soppressor gene : APC

∼ 100%

Gardner syndrome APC ∼ 100%

Turcot syndrome APC (70%); hMLH1, hPMS2 (30%)

∼ 100%

AAPC APC (proximal or distal ends) Very high but not 100%

Peutz-Jeghers Tumor soppressor : LKB1

∼ 40%

Juvenile polyposis Tumor soppressors : SMAD4 and BMPR1A; PTEN

10-40%

Cowden syndrome Protein tyrosine phosphatase gene : PTEN

No increased risk

Ruvalcaba- Myhre-Smith Protein tyrosine phosphatase gene : PTEN

Hereditary mixpolyposis ∼ 30%

Tabella 1: Tumori colorettali ereditari

Studi americani riportano che una percentuale che varia dal 70 % al 90 % dei tumore al colon retto si sviluppa come polipi adenomatosi. Il 30% di tutti i polipi sono iperplastici con potenziale non maligno. Altri sono adenomatosi e sono considerati premaligni. Polipi con un diametro superiore ai 2 cm hanno il 50 % di probabilità di divenire maligni. La rimozione dei polipi quindi può ridurre l’incidenza del tumore; inoltre persone con coliti ulcerative e malattia di Chron

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rischiano di sviluppare la patologia (Pretlow et al. 1991; Volgesten et al. 1988;

Kinzler et al. 1998). Per ciò che concerne il CRC di tipo sporadico, si ritiene che la dieta, lo stile di vita e la suscettibilità genetica individuale influenzino fortemente l’insorgenza della patologia.

1.2 Tumore al colon retto sporadico: dieta e stile di vita

Per ciò che concerne la dieta, si ritiene che alcuni alimenti possano aumentare il rischio, mentre altri proteggano dall’insorgenza del CRC. Per esempio, un elevato consumo di carne rossa è stato associato ad un aumento del rischio (Norat et al. 2005). La carne rossa potrebbe infatti portare ad un aumento della N-nitrosilazione endogena dovuta alla presenza di proteine ferro- eme (Bingha et al. 2002). I composti N-nitrosilati possono causare danni al DNA dato che vengono bio-trasformati in agenti alchilanti. In contrasto, una alimentazione ricca di fibre è stata associata a ridotto rischio di CRC (Freudenheim et al. 1990). Probabilmente le fibre aumentano il traffico intestinale e riducono l’esposizione dell’intestino agli agenti cancerogeni. Per ciò che concerne lo stile di vita, è stato riscontrato che una elevata massa corporea, ed in particolare l’obesità, sono associate ad un aumento del rischio, mentre l’attività fisica sembra essere associata ad una sua diminuzione (Giovannucci et al. 2006). Il motivo di tale associazione non è del tutto chiarito.

Si ipotizza che una elevata massa corporea sia legata a processi infiammatori.

Infatti, è stata riportata un’associazione tra l’elevata massa corporea e alti livelli di prostaglandina E2, un marker di risposta infiammatoria, a livello della mucosa del retto. L’attività fisica è stata invece associata a bassi livelli di prostaglandina

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E2 (Martinez et al. 1999). Inoltre l’assunzione di aspirina o di farmaci antiinfiammatori non steroidei (NSAIDs) sono stati solidamente associati alla riduzione del rischio di CRC. Questa osservazione è probabilmente dovuta all’inibizione dell’attività di ciclo-ossigenasi dell’ enzima endoperossido sintetasi, enzima chiave nella bio-sintesi delle prostaglandine a partire dall’acido arachidonico (Smalley et al. 1999; Collet et al. 1999; Marnet 1992).

1.3 Tumore al colon retto sporadico e flora batterica

Il ruolo della flora batterica nei processi cancerosi non è del tutto chiarito;

tuttavia è da tenere presente che a livello intestinale ci sono varie specie batteriche, alcune delle quali possono essere definite “protettive” mentre altre sono definite “pericolose”. Uno squilibrio a carico della flora intestinale potrebbe portare al prevalere delle specie pericolose e promuovere processi infiammatori, che a loro volta potrebbero essere collegati alla tumorigenesi.

Inoltre è da tenere presente che i batteri hanno un loro proprio metabolismo per cui possono convertire alcune sostanze ingerite tramite la dieta in sostanze pre- cancerose e quindi in sostanze che possono essere attivate da enzimi cellulari.

La flora batterica intestinale è anche in grado di effettuare la bio-trasformazione di sostanze presenti nella bile e renderle cancerose. Gli acidi biliari sono detergenti naturali anfipatici che emulsionano e permettono l’assorbimento di sostanze quali il colesterolo ed i lipidi. Il fegato umano produce gli acidi biliari primari quali l’acido colico e l’acido cheno-deossicolico dal colesterolo e li coniuga con glicina o taurina. Gli acidi biliari secondari (l’acido deossicolico e acido litocolico) sono prodotti dalla 7α-deidrossilazione ad opera delle reazioni di bio-trasformazione batterica (Vlahcevic et al.1996; Nagengast et al. 1995). In

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particolare l’acido litocolico se non è coniugato con la glicina e la taurina è in grado di inibire gli enzimi di riparazione del DNA ed è stato dimostrato avere attività mutagena clastogena (Hamada et al. 1994).

1.4 Tumore al colon retto e familiarità

Un rilevante fattore di rischio per il CRC sporadico è rappresentato dall’avere almeno un parente di primo grado affetto da tale patologia. In effetti in uno studio di meta-analisi effettuato da Butterworth e collaboratori è stato riscontrato che il rischio di CRC sporadico in individui con un parente di primo grado è 2.24 (95% CI 2.06- 2.43), mentre per gli individui con almeno due parenti di primo grado affetti da CRC si ha un OR di 3.97 (95% CI 2.60-6.06) (Butterworth et al.

2006).

1.5 Tumore al colon retto sporadico e suscettibilità genetica

Il rischio di sviluppare tumore al colon retto sporadico può dipendere anche da una suscettibilità genetica individuale. La suscettibilità genetica viene valutata tramite studi di associazione di tipo caso-controllo utilizzando polimorfismi genetici. I polimorfismi possono consistere in sostituzioni di una singola base nucleotidica (Single Nucleotide Polymorphism, SNPs), delezioni o inserzioni sia di singole basi nucleotidiche che di ampie parti di un gene, oppure di amplificazione di una sequenza di un gene. Gli SNPs sono molto diffusi in tutto il genoma umano: si stima che, in media, esista una variazione nucleotidica

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ogni mille paia di basi, per cui essi sono ampiamente studiati dal momento che è molto probabile che si localizzino in geni-chiave.

Lo studio degli SNPs può dirigersi verso un approccio classico, in cui vengono studiati i polimorfismi in geni candidati scelti all’interno di pathways di rilevanza nella patologia. Per esempio, per il CRC possono essere studiati i processi di detossificazione degli xenobiotici, o i geni coinvolti in processi infiammatori, quelli coinvolti nella riparazione dei danni al DNA oppure quelli implicati nella fisiologia dell’apparato digerente. La genotipizzazione di un ristretto numero di polimorfismi può essere effettuata attraverso varie tecniche quali le PCR allele- specifiche (ASO-PCR), oppure tramite l’utilizzo di enzimi di restrizione (RFLP) o tramite il “TaqMan assay”. I metodi più innovativi permettono l’analisi contemporanea di molti polimorfismi e si basano sull’utilizzo di substrati solidi, quali i micro-array. Proprio i micro-array e l’identificazione di SNPs che permettono di marcare blocchi di linkage disequilibrium presenti nel genoma umano (i cosidetti tag-SNPs), hanno reso possibile lo studio delle malattie complesse secondo un approccio cosiddetto “genome-wide”. Tramite i Genome Wide Association Studies non si definiscono geni candidati a priori su cui effettuare l’analisi dei polimorfismi, ma si utilizzano batterie di tag-SNPs che permettono di investigare oltre il 90% dei loci presenti nel genoma.

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1.6 Approccio gene candidato

La ricerca di geni candidati può essere effettuata secondo varie modalità. Il primo metodo si basa sulla scelta dei geni candidati in base alle funzioni conosciute. Un metodo alternativo può essere quello di utilizzare dei modelli animali. L’identificazione di un ampio numero di SNPs ha reso possibile il passaggio dall’analisi di uno specifico polimorfismo all’interno di un gene ad un’analisi più complessa in cui si cerca un’associazione tra cancro e le diverse varianti alleliche del gene candidato. Questo è reso possibile grazie al fenomeno del Linkage Disequilibrium (LD) che si ha tra SNPs che sono fisicamente vicini gli uni agli altri. Infatti particolari alleli situati in siti vicini possono trovarsi sullo stesso aplotipo più spesso di quanto ci si aspetterebbe per solo effetto del caso.

L’esistenza di LD tra SNPs ha reso possibile l’identificazione di alcuni tag-SNPs che possono essere utilizzati come marcatori per altri SNPs vicinali (Pharoah et al. 2004). Una metodica che permette la genotipizzazione di un numero di polimorfismi sufficientemente ampio da permettere l’analisi degli aplotipi entro determinati geni candidati è la tecnica APEX. Gli oligonucleotidi necessari per la reazione APEX sono ancorati in modo covalente su di un vetrino da microscopio utilizzando un gruppo amminico posto al termine di una coda di 12 carboni legata al 5’ dell’oligonucleotide stesso, tramite silanizzazione. L’oligonucleotide è disegnato in maniera tale da terminare esattamente una base precedente al polimorfismo in studio. Sullo stesso vetrino possono essere stampati molti oligonucleotidi; la distanza tra uno spot e l’altro solitamente è di 50 µm circa.

Gli oligonucleotidi del vetrino vengono quindi messi a contatto con una miscela di reazione contenente frammenti di DNA precedentemente amplificati tramite

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PCR, DNA polimerasi e 4 di-deossi nucleotidi trifosfati (terminatori) marcati con 4 differenti fluorocromi. Ogni frammento ibrida con l’oligonucleotide specifico per la sequenza e la DNA polimerasi estende la base complementare, che è quella polimorfica,inserendo un terminatore marcato. La lettura della fluorescenza emessa da ogni spot indica quali basi sono state incorporate e quindi il genotipo dell’individuo (Fig 3) (Syvänen et al. 1990; Sokolov 1990; Kurg et al. 2000).

A B

C D

Fig 3: A) L’oligonucleotide è immobilizzato tramite l’estremità 5’ al support solido,B) Il frammento complementare ottenuto tramite amplificazione con PCR si lega all’oligonucleotide, C) la DNA polimerasi estenderà la base complementare, che è quella polimorfica inserendo un terminatore marcato, D) Il frammento di DNA e i fluorocromi non utilizzati vengono eliminati

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1.7 Genome Wide Association

Lo scopo di questo approccio è quello di effettuare uno studio di associazione su larga scala ovvero su tutto il genoma tramite l’utilizzo di tag- SNPs. I progetti Genoma Umano e Hapmap hanno dato un ampio contributo a questo tipo di approccio. HapMap è un catalogo delle più comuni varianti genetiche umane e di come queste sono distribuite tra le principali popolazioni.

HapMap è molto utile per studi su larga scala in quanto è una buona fonte di ricerca di tag-SNPs (www.hapmap.org/whatishapmap.html). Sono stati effettuati degli studi di genome wide association nei riguardi del tumore al colon retto. In generale lo schema di questi studi prevede un primo studio di associazione su larga scala seguito da una serie di repliche effettuate su casi e controlli diversi, al fine di riconfermare l’associazione degli eventuali polimorfismi trovati associati. Per ciò che concerne la scelta dei casi, in alcune fasi possono essere utilizzati casi di CRC sporadico, mentre in altre fasi vengono studiati dei casi di CRC familiare. A questa segue una fase successiva in cui vengono effettuati studi di LD al fine di evidenziare i blocchi aplotipici associati alla malattia. Sono stati effettuati vari studi di associazione tramite l’approccio genome wide association: uno di questi ha identificato SMAD7 quale locus di suscettibilità associato al CRC. Tra i quattro set di studi di associazione effettuati, il polimorfismo rs4939827 è stato associato al tumore con un’alta significatività statistica (P trend= 1.0 x 10-12) ( Broderick et al. 2007). Un altro studio invece ha evidenziato una forte associazione per lo SNP rs6983267 in 8q24.21 (P= 1.72x 10-7 test allelico) (Tomlison et al.2007). Un’altra associazione è stata riscontrata per rs10505477 in 8q24 (P= 4.98x 10-5 ) (Zanke et al. 2007). Uno studio ha evidenziato associazione per rs3802842 in 11q23 (OR=1.1; P= 5.8x10-10);

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rs7014346 in 8q24 (OR=1.19; P=8.6x10-26). Studi indipendenti hanno replicato queste associazioni (Tenesa et al. 2008). Infine un recente studio ha identificato due polimorfismi associati al CRC: rs10795668, localizzato in 10p14 (P=2.5 x 10-13 overall; P=6.9 x 10-12 replicazioni) e rs16892766 in 8q23.3 (P= 3.3x 10-18 overall, P= 9.6x 10-17 ) che sono dei tags per il possibile gene causativo EIF3H (Tomlinson et al. 2008). Le tecniche di micro-array che possono essere utilizzate negli studi di genoma wide association possono essere varie, tuttavia volendo citare degli esempi è possibile ricordare i micro-arrays dell’Affymetrix®

e dell’Ilumina®. I micro-arrays dell’Affymetrix® contengono oligonucleotidi a singolo filamento attaccati ad una superficie di quarzo, utilizzando agenti fotolabili e tecnologie fotolitografiche. Il processo fotolitografico inizia ricoprendo un wafer di quarzo 5"x5" con un composto chimico sensibile alla luce che serve ad impedire l’accoppiamento del wafer e del primo nucleotide della sonda. Le maschere litografiche permettono il passaggio della luce in posizioni specifiche sulla superficie del wafer; successivamente la superficie viene ricoperta da una soluzione contenente uno dei 4 nucleotidi in modo tale da far avvenire un legame solo nelle regioni illuminate. Il nucleotide appena legato porta a sua volta un gruppo di protezione sensibile alla luce, in tal modo il ciclo si può ripete fino a che non sono state raggiunte le lunghezze desiderate che solitamente sono di 25 nucleotidi. Un esempio di array utilizzato può essere l’Affimetrix®

Genome-Wide Human SNP array 6.0. L’array può contenere più di 906600 SNPs e più di 946000 sonde. Il protocollo prevede la digestione del DNA genomico totale (500ng) con gli enzimi di restrizione NspI e StyI ed i frammenti ottenuti vengono legati ad adattatori che riconoscono le 4 pb coesive che protrudono. Tutti i frammenti ottenuti indipendentemente dalle dimensioni sono substrato per un ligando adattatore. Un primer generico che riconosce le

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sequenze dell’adattatore è utilizzato per amplificare i frammenti. Le condizioni della PCR sono ottimizzate al fine di amplificare preferenzialmente i frammenti di taglia compresa tra i 200 e i 1100 pb. I prodotti di PCR per ciascun frammento di restrizione vengono combinati e purificati tramite sferette di polistirene. Il DNA amplificato è in seguito frammentato, marcato e ibridato sull’array (Fig 4) (www.Affimetrix.com).

Digestione

Legame con l’adattatore

PCR

Frammentazione e marcatura

Ibridazione e lavaggio Complessazione Digestione

Legame con l’adattatore

PCR

Frammentazione e marcatura

Ibridazione e lavaggio Complessazione

Fig 4: protocollo per Affimetrix® genome-Wide Human SNP Array 6.0

La tecnologia dell’Illumina® bead-array prevede l’utilizzo di sferette di silicone di 3 micron che si auto-assemblano in microfori presenti in due substrati: un fascio di fibre ottiche oppure in vetrini planari di silicone. Una volta assemblate in modo casuale sui substrati queste sferette si trovano ad una distanza di circa 5.7 micron. Ciascuna sferetta è ricoperta da un centinaio di migliaia di

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oligonucleotidi il cui scopo è quello di legare la sequenza di interesse in uno degli assay dell’Illumina®. Il metodo Goldengate® consiste come primo passaggio nell’attivazione del DNA necessario al legame con le particelle paramagnetiche. Successivamente gli oligonucleotidi, il buffer di ibridazione e le particelle paramagnetiche sono combinate con il DNA attivato nel processo di ibridazione. Per ciascuno SNP sono disegnati 3 oligonucleotidi. Due oligonucleotidi sono specifici per ciascun allele del sito dello SNP (chiamati Oligo allele-specifico ASOs). Un terzo oligo si lega ad alcune basi dopo il sito dello SNP (chiamato Oligo locus-specifico LSO). Tutte e tre le sequenze degli oligonucleotidi contengono regioni di complementarietà genomica e siti universali di primer; l’ LSO contiene anche una sequenza unica di indirizzo che ha come target una particolare tipo di sferetta. Durante il processo di ibridazione dei primers, gli oligonucleotidi ibridano con il campione di DNA attivato legato alle particelle paramagnetiche. Poiché l’ibridazione avviene prima di ogni step di amplificazione, nessun errore di amplificazione viene introdotto. A seguito dell’ibridazione, seguono diversi step di lavaggio al fine di rimuovere l’eccesso di oligonucleotidi. L’estensione dell’appropriato ASO ed il legame del prodotto esteso con LSO unisce le informazioni riguardanti il genotipo presente al sito di SNP alla sequenza destinataria sull’ LSO. Questo prodotto è quindi utilizzato per la PCR tramite l’impiego di primers P1, P2 e P3 universali; i primi due primers sono marcati rispettivamente con i fluorocromi Cy3 e Cy5. Dopo la preparazione dei prodotti per l’ibridazione, il singolo filamento di DNA marcato con colorante viene ibridato alla sua complementare sferetta tramite le sequenze uniche di indirizzo. L’ibridazione dei prodotti del GoldenGate® Assay sulla matrice o su Beadchip permettono la separazione dei prodotti dell’assay in una matrice solida per l’individuazione dei genotipi. Dopo

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l’ibridazione il Beadarray reader è utilizzato per analizzare i segnali di fluorescenza dai quali poi è possibile risalire ai genotipi (Fig 5) (www.illumina.com).

Fig 5: Passaggi del Goldengate® array

Una difficoltà che viene maggiormente riscontrata in questo tipo di approccio è che spesso una associazione mostrata in un primo studio può non essere riscontrata in un altro a causa per esempio di differenze nei pattern di linkage disequilibrium o per la presenza di falsi positivi dovuti per esempio ad un esiguo numero di campioni o causati da una inadeguata correzione per i test multipli (Ioannidis 2005; Wacholder et al. 2004). I problemi sopra citati sono propri di tutti gli studi caso-controllo ma la cosa in questo caso viene esacerbata dal fatto che negli studi su larga scala i test statistici vengono applicati su un ampio quantitativo di SNPs .

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1.8 Falsi positivi e Falsi negativi

Uno dei problemi maggiormente discussi in letteratura in questi ultimi anni è il problema dei falsi positivi negli studi di associazione, specialmente quando gli studi vengono effettuati su di un numero elevato di polimorfismi. In effetti aumentando il numero di test effettuati, aumenta la probabilità di errore di I tipo:

se è testata un’ipotesi nulla che in effetti è vera, utilizzando α come valore critico, la probabilità di ottenere un risultato non significativo è (1-α); se vengono testate 2 ipotesi indipendenti la probabilità che nessuno dei due test sia significativo è data dal prodotto delle probabilità (1-α)X(1-α). Più generalmente, se vengono testate K ipotesi indipendenti, la probabilità che i test siano congiuntamente significativi è data da (1-α)k; ne consegue che la probabilità di avere almeno un test significativo sarà 1- (1-α)k. Esemplificando, se vengono testate 20 ipotesi indipendenti a livello di significatività α=0.005; la probabilità che nessuna sia significativa è 0.9520 = 0.36. La probabilità che almeno una sia significativa per errore sarà 1-(1-0.05)20 = 0,64 ben superiore al valore nominale prescelto del 5% (Klersy 2001).E’ stato stimato che la frazione di falsi positivi in studi di associazione tra una variante genetica e una patologia è approssimativamente dello 0.95 (Colhoun et al. 2003). Anche eliminando i vari bias che si possono introdurre, la probabilità data dal caso che non ci sia una reale associazione tra una variante genetica e la patologia con un valore P inferiore a 0,05 rimane alta (Sterne et al. 2001; Thomas et al. 2002; Wacholder et al. 2002; Colhoun et al. 2003). In assenza di bias, tra i fattori che determinano la presenza di falsi positivi ricordiamo la grandezza del valore P (Sterne et al. 2001; Colhoun et al. 2003; Goodman et al. 1999; Garcia- Closas

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et al. 2004) e la potenza statistica (Sterne et al. 2001; Colhoun et al. 2003;

Garcia- Closas et al. 2004; Browner et al.1987). Quest’ultima è spesso bassa poiché nella maggior parte dei casi gli odds ratio per le varianti genetiche sono debolmente associate alla patologia con un valore generalmente inferiore a 2.

Un metodo che può essere sfruttato per limitare il numero di falsi positivi può essere l’utilizzo di un valore di P maggiormente restrittivo. Questo si può ottenere applicando la correzione di Bonferroni, che prevede di stabilire il valore di P in base al numero di campioni analizzato dividendo il valore α di 0.05 per il numero di campioni in analisi. Si capisce che, per un numero di campioni elevato, il valore di P tenderà ad essere piccolo e quindi ciò ridurrà il numero di falsi positivi introducendo però il problema dei falsi negativi. Ovvero riducendo il valore P è probabile che alcuni polimorfismi realmente associati vengano scartati e quindi considerati non interessanti anche se realmente avevano un ruolo biologico.

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2. Scopo della tesi

Lo scopo della tesi è stato quello di verificare se i geni candidati prescelti per lo studio caso-controllo fossero realmente associati al rischio di CRC.

Inoltre, lo studio ha fornito un vasto set di dati su cui effettuare delle analisi statistiche che ci permettessero di delineare se interi pathways biologici fossero associati con il rischio di CRC.

L’analisi di pathways biologici è relativamente nuova e rappresenta un potente strumento per poter studiare le malattie complesse. Con la presente tesi abbiamo voluto iniziare un tipo di approccio dei dati sperimentali che trascendesse dalla singola osservazione, ma che fornisse un livello di informazione più approfondito, basato principalmente sulla funzione biologica dei vari geni. Tale tipologia di analisi è stata sperimentata anche al fine di superare, almeno in parte, i problemi legati alla correzione dei test statistici multipli.

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