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Capitolo 3 Eroismo femminile nella Gerusalemme Liberata 3.1 Eroismo femminile cristiano

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Capitolo 3

Eroismo femminile nella Gerusalemme Liberata

3.1 Eroismo femminile cristiano

Terreno d’analisi privilegiato è sempre stato il rapporto tra donne e fede, considerato il ruolo fondamentale svolto in età moderna dalla religione: accanto alle sante, alle mistiche e alle religiose, le donne diventano veicolo di diffusione del messaggio religioso. Molti autori laici ed ecclesiastici, uomini e donne si impegnarono a fornire alle donne modelli di moralità, castità e modestia cui aspirare, veri e propri manuali di comportamento per salvaguardare la virtù e non cadere nella trappola del peccato. Sostanzialmente sono due i modelli intorno a cui si concentra la dialettica sulla questione femminile: Eva e Maria, la prima debole, instabile, trascinata da bassi desideri di gola e lascivia, e da altri difetti come la superbia, la seconda invece è la figura di donna opposta ad Eva, nella sua purezza e forza. Il saluto dell’angelo a Maria, <<Ave>>, è stato interpretato come un richiamo, un riferimento ad una contro Eva, perché la parola coincide con la lettura al contrario di Eva. Maria è però una figura simbolica piuttosto che un modello in cui il genere femminile possa identificarsi del tutto perché concepisce senza coito. Sta a rappresentare la capacità della donna di autosuperamento, di dominio della propria femminilità.

Sul modello di Maria, che concepisce mantenendo la sua castità, il cristianesimo valorizzerà la verginità come grado massimo di autosuperamento della donna.

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Attorno a Maria si collezionano esempi di donne che hanno dominato la propria femminilità. Tasso stesso nella Liberata elabora figure di donne, quali Sofronia e Gildippe, ascrivibili a questo paradigma femminile.

Sofronia

Come sottolineato da recenti contributi sulla Gerusalemme Liberata, Sofronia risponde al prototipo dell’eroina cristiana disposta a sacrificare se stessa per il bene del proprio popolo. L’episodio del secondo canto che la vede protagonista ha in tal senso una struttura lineare: (I) i pagani sottraggono ai cristiani un’immagine sacra, ma l’immagine scompare per intervento divino; (2) il re Aladino, convinto che la scomparsa dell’idolo sia opera dei cristiani, intende punire il colpevole; (3) Sofronia, per evitare le rappresaglie e andando in contro a un destino di morte, si presenta al re come responsabile del furto.

Come notato da Ferretti, il personaggio di Sofronia evoca, fin dalla sua prima apparizione, quello di Giuditta: come l’eroina biblica, la fanciulla è bella, ma non si cura della propria bellezza, proprio come Giuditta essa vive una vita di autoisolamento tra le mura di casa1, una vita devota, lontano dagli sguardi dei pretendenti:

1

Sofronia, in quanto vergine schiva, sarebbe perfetto modello di quella «virtù feminile» destinata a rimanere incognita, confinata tra le mura domestiche. Infatti, secondo quanto Tasso afferma nel Discorso

della virtù feminile e donnesca, la pudicizia tanto è maggiore, quanto più è oscura.

Per affermare ciò ricorre alle sentenze di Tucidide: <<la fama della pudicizia, ch'è più convenevole a la donna che alcun'altra, non può molto divulgarsi, se la virtù della pudicizia, ch'è quella da la quale principalmente deriva, ama la ritiratezza e i luoghi privati o solitari, e fugge i teatri e le feste e i publici spettacoli;>> Cfr. Discorso della virtù femminile e donnesca.

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Vergine era fra lor di già matura vergintà, d’alti pensieri e regi, d’alta beltà; ma sua beltà non cura, o tanto sol quant’onestà se’n fregi. È il suo pregio maggior che tra le mura d’angusta casa asconde i suoi gran pregi, e de vagheggiatori ella s’invola

a le lodi, a gli sgurdi, inculta e sola. (II, 4)

L’iniziale insistenza sulla castità di Sofronia rende l’eroina tassiana simile alle vergini esaltate dalla tradizione cristiana.

Sebbene la verginità venisse raccomandata ad entrambi i sessi, assumeva nelle donne un valore particolare. A tal proposito, è opportuno ricordare il contribuito degli apologisti Tertulliano e Cipriano, in relazione al tema della castità/verginità. Il primo nel De cultu feminarum rivolge un’accusa durissima alle donne, investite della colpa di Eva, la causa del peccato dell’uomo. Le donne sono per lui colpevoli di leggerezza e vanagloria con l’attenzione alla cura del corpo. L’apologista Cipriano nel De habitu virginum sottolinea l’importanza della verginità per la Chiesa e i valori della castità e del pudore.

Per quest’ultimo l’attenzione alla bellezza esteriore è scusabile solo nelle donne maritate, se diretta ad attrarre il marito, mentre non è giustificabile nelle nubili.

La vergine non deve provocare l’attenzione dei maschi, atto che costituirebbe già una violazione virtuale della castità. Inutile dire che nella cultura cristiana si radica il tabù della carne e del sesso e che la virtù dello spirito si esprime e corrobora nella loro negazione.

Dunque la verginità offre una maniera per rimediare alla caduta nel peccato. A tal proposito Marina Warner nel suo contributo Alon of All Her Sex. The Myth and the Cult

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of the Virgin Mary riassume il pensiero dei suddetti apologisti: teologi come Tertulliano, Cipriano e Geremia invitano le donne ad adottare la vita verginale perché allora non dovranno subire le conseguenze della caduta nel peccato; loro costantemente insistono sulla gioia della vita da nubili, senza un marito da obbedire o gravidanze da sopportare. Geremia sottolinea che la donna è differente dall’uomo come il corpo lo è dall’anima. Ma quando lei desidera servire Cristo più del mondo, allora lei cessa di essere una donna e sarà chiamata uomo.

È proprio a questa tradizione di verginità eroica che sembra appartenere Sofronia2. Smettere di essere donna ed essere chiamata uomo, sintetizza Geremia, significa appropriarsi di prerogative maschili, ma soprattutto possedere presunte qualità virili, come coraggio e disprezzo per la morte, esemplificate nelle cronache del martirio di sante vergini quali Perpetua e Felicita. Superati i limiti del suo sesso, Sofronia è pronta ad affrontare il martirio per salvezza del suo popolo.

Al centro dell’episodio, che vede protagonista Sofronia, troviamo l’icona della Vergine che Ismeno convince Aladino a togliere dalla chiesa cristiana e a trasportare nella moschea per sottoporla a strane pratiche magiche (II, 5-6).

A tal proposito Longo evidenzia come nella fase di revisione dell’opera, Tasso, in una lettera allo Scalambrino, si sia preoccupato della presenza di questo riferimento all’immagina della Madonna, vagante da una chiesa ad una moschea e poi scomparsa, tanto da dichiararsi disposto3 a << rimover l’episodio di Sofronia […] perch’io non

2

Laura BENEDETTI, Op.cit., p. 105.

3

A ciò era ben disposto il poeta che due mesi dopo nella lettera all’Antoniano così scrive: << alcune stanze lascive>> e altre parti del poema che il destinatario << o condanna come inquisitore o non approva come poeta>> viene esteso pure a << l’episodio di Sofronia, o almen quel suo fine che più le dispiace>>. Cfr. Larivaille, Poesia e ideologia, Letture della Gerusalemme Liberata, Liguori, Napoli, 1987, p. 177.

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vorrei dare occasione ai frati con quell’immagine [della Madonna, appunto], o con altre cosette che sono in quell’episodio, di proibire il libro>>.4

“La sacra imago”, oggetto di adorazione da parte dei fedeli, scompare quindi misteriosamente dalla moschea, ma ritorna nel personaggio di Sofronia, anch’essa vergine, di mente e di corpo, pure lei lo è non di sua volontà, oggetto dello sguardo altrui, immagine vagheggiata dai suoi fedeli. A dispetto di tutti i suoi tentativi di occultarsi nello spazio domestico e di evitare i corteggiatori, Sofronia, “vergine di già matura verginità”, è stata mostrata da Amore a Olindo, che la ama senza farsi avanti. La pietà cristiana supera però il giusto pudore5 e Sofronia si sottopone volontariamente allo sguardo di tutta Gerusalemme per andare da Aladino a offrirsi quale esecutrice unica del furto del quadro dalla moschea.

Come il simulacro mariano “è in un velo avvolto” (II, 5), così Sofronia passa “nel vel ristretta” (II, 18) sotto gli occhi degli spettatori6

della rappresentazione sacra. Sofronia, una vergine, prende il posto della Vergine quale protettrice della parte cristiana della città, addossandosi la responsabilità di un atto non commesso per salvare tutto il resto della popolazione: la formula “io l’imagine tolsi” (II, 21) adoperata nella sua confessione indica come Sofronia abbia (nella sua “magnanima menzogna”) sottratto l’immagine della Vergine solo per prenderla su di sé.

Con gesto iconoclasta, l’eroina racconta al re pagano di avere bruciato l’immagine per non lasciarla cadere ancora in mani sacrileghe, e riceve quindi come punizione di essere arsa sul rogo, il tradizionale supplizio riservato agli eretici.

4 F. Tomasi, Nicola Longo in Lettura della Gerusalemme liberata, p.28

5In linea con quanto Tasso afferma nel Discorso, questo momento segna il trapasso di Sofronia dal culto

individuale del pudore alla vocazione eroica al martirio, al quale corrisponde il trapasso dalla «virtù feminile» alla «virtù donnesca».

6A tal proposito, Longo accosta la figura di Sofronia a quella di Armida, evidenziandone il modo

naturalmente diverso di camminare nel momento in cui esse si sottopongono allo sguardo dei cavalieri cristiani. Letture della Gerusalemme liberata, p. 31

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Emerge nella caratterizzazione del personaggio femminile di Sofronia una mancata corrispondenza tra la natura delle donne e la vocazione alle armi. Privata del velo casto in cui era avvolta come in un mantello di modestia, legata con le corde che premono contro le sue braccia morbide, Sofronia condannata al rogo non si perde d'animo nonostante sia visibilmente commossa, e il colore nella sua guance non è pallore, ci viene detto, ma innocenza 7. Olindo, che è innamorato della ragazza, spera di salvarla pronunciando il seguente discorso:

Non pensò, non ardì, né far potea donna sola e inesperta opra cotanta. Come ingannò i custodi? e de la Dea con qual arti involò l'imagin santa? 8

Dunque una donna non può aver commesso quella che è “un'azione al di là delle capacità fisiche e intellettuali femminili”.

Davanti a re Aladino, Olindo accoglie nozioni aristoteliche gradevoli alla scolastica in passato: secondo queste, virtù intellettuali, quali il coraggio e la forza fisica sono virtù maschili che contravvengono alla donna di debole natura .

Considerando, in ogni caso, il valore positivo che tiene Sofronia nel pensiero tassiano, quando si tratta di dimostrazione delle capacità della donna nel campo maschile, Tasso si presenta come ambiguo nella migliore delle ipotesi.

7

Gerusalemme liberata II, XVI

8

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Per scagionare se stessa dall'accusa di debolezza femminile e di mancanza di abilità, Sofronia chiama in ballo la mentalità virile e la forza morale su cui dimostra la sua capacità di sopportare il dolore fisico, da sola, senza aiuto, e di sostenere l'ira maschile:

Non son io dunque senza te possente a sostener cio che d'un uom può l'ira? Ho petto anch'io, ch'ad una morte crede di bastar solo, e compagnia non chiede.

"Il mio amico," così lei lo chiama, "altri pensieri, un altro pianto, / per una causa diversa, questo momento richiede “. Lei rimprovera Olindo che in questo particolare momento è distolto da pensieri sbagliati: invece di disperare a causa dell’amore non corrisposto e di morte prematura, dovrebbe essere intrattenuto da “pensieri penitenziali” e immaginare la grazia a lungo promessa da Dio.

"Soffri in suo nome, e fian i tormenti, e lieto aspira a la suprema sede. Mira ‘l ciel com’è bello, e mira il sole Ch’a sé par che n’inviti e ne console”.

Di tutti i presenti intorno al rogo Sofronia è l’unica a mostrare forza morale per non versare una lacrima, così Tasso commenta retoricamente:

Tu sola il duol comun non accompagni, Sofronia; e pianta da ciascun, non piagni

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Giunta al rogo, la guerriera Clorinda nota come dei due prigionieri, la fanciulla tace, mentre il giovane si addolora:

Mira che l’un tace e l’altro geme, e più vigor mostra il men forte sesso. Pianger lui vede in guisa d’uom cui preme Pietà, non doglia, o duol non di se stesso; e tacer lei con gli occhi al ciel sì fisa ch’anzi al morir par di qua giù divisa.

Virginia Cox sottolinea che Tasso, contrariamente a quanto scritto nel Discorso, in questi passi osserva che non è più conveniente parlare di castità nel caso di donne di rango inferiore, ma di forza e prudenza.

A prescindere dalla classe sociale, la forza morale rimane una virtù maschile, e con la sua associazione positiva a personaggi femminili, Tasso rimane in linea con la moda culturale del suo tempo.

Olindo, d’altro canto, sembra appartenere ad una tradizione ben diversa, quella dell’amante petrarchesco che senza speranza ama una donna irraggiungibile. I suoi <<cupidi desiri>>contrastano il riserbo della donna, nella contrapposizione risolta peraltro alquanto artificiosamente dal poeta in un paragone che Momigliano trova <<logicamente debole9>>:

Ei che modesto è si com’essa è bella, brama assai, poco spera, e nulla chiede; né sa scoprirsi, o non ardisce; ed ella

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o lo sprezza, o no’l vede, o non s’avede. Così fin ora il misero ha servito

o non visto, o mal noto, o mal gradito. (II,16)

La vicenda si sviluppa intorno alla discordanza iniziale. Quando i due catturati, vengono legati al palo in modo che << […] volto / è il tergo al tergo, e’l volto ascoso al volto>> ( II, 32, 7-8), Olindo piangendo, prorompe nella sua appassionata dichiarazione:

Quest’è dunque quel laccio ond’io sperai teco accoppiarmi in compagnia di vita? questo è quel foco ch’io credea ch’i cori ne dovesse infiammar d’eguali ardori? (II,34)

Altre fiamme, altri nodi Amor promise, altri ce n’apparecchia iniqua sorte. (35)

La risposta di Sofronia, che seppur <<soavemente>>, <<il ripiglia>>, contrapponendo alle <<altre fiamme>> e agli <<altri nodi>> menzionati da Olindo gli <<altri pensieri>> e <<altri lamenti>> richiesti dalla situazione, mette il sigillo della distanza spirituale tra i due10, che si fa tanto più acuta e dolorosa in quanto si sovrappone ad una perturbante vicinanza fisica.

10

Longo fa notare come Olindo, in questa condizione estrema, scambia facilmente le fiamme vere, pronte per il sacrificio, con le fiamme d’amore d’una antichissima metafora, ossia il riferimento alle parole di Dante che traducono quelle sofferenti di Didone (<<agnosco veteris vestigia flammae>> Aen,

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Il vocativo <<amico>> col quale si rivolge nuovamente a Olindo, nonché il plurale (<<ch’a sé par che n’inviti e ne console>>) con il quale termina un discorso dettato più dalla conoscenza della tragicità del momento e dalla affettuosa preoccupazione di salvare l’amico che non da una volontà di restar ferma nella propria vocazione al martirio, stanno a testimoniare un’ulteriore commossa comunione spirituale con il compagno, che prepara e anticipa l’epilogo: il quale, perciò, è lungi dall’essere così fulmineo come potrebbe far pensare la estrema concisione espressiva dell’ottava 53. Ma soprattutto l’ottava conclusiva della vicenda, in cui, come ha notato Momigliano, non è da vedere propriamente <<il ragguaglio della conclusione della storia, […] ma il compimento sentimentale di questa conclusione>>11, dà la chiave di lettura che retrospettivamente spiega il poco spazio dedicato allo scavo psicologico dei personaggi, indicando nella generosità il motore della <<conversione>> di Sofronia da donna amata non amante: è stata la peripezia rappresentata dall’atto generoso di Olindo e iniziata con esso ad avviare nel <<generoso petto>> di Sofronia, ben prima della conclusione effettiva, la vicenda verso il suo lieto fine, per cui inatteso in fondo è l’amore di Sofronia, ma solo l’arrivo improvviso di Clorinda e la liberazione dei due amanti. A tal proposito interessante è il contributo della studiosa Yavneh che nel saggio intitolato Dal rogo alle nozze definisce Sofronia una martire Manqué, inserendola nel contesto di martirologi femminili e individuando in lei il desiderio di servire e imitare Cristo al punto di sacrificare la propria vita per salvare i cristiani a Gerusalemme. Anche se Sofronia respinge il tentativo di Olindo di unirsi al suo martirio per salvarla, l’arrivo di Clorinda la trasforma da vergine martire in pericolo in sposa di Olindo.

IV, 23) con <<conosco i segni dell’antica fiamma>> ( Purg. XXX, 48). La metafora appartiene al linguaggio della poesia d’amore di sempre. Cfr. Op. cit. Longo, p. 33.

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L’episodio si conclude con l’adesione di Sofronia all’amore per Olindo, a tal proposito Benedetti mette in luce come l’epilogo risulti forzato e meccanico:

Così furono disciolti. Aventuroso ben veramente fu Olindo

ch’atto poté mostrar ch’n generoso petto al fine ha d’amor destato. Va dal rogo alle nozze; ed è già sposo fatto reo, non pur d’amante amato. Volse con lei morire: ella non schiva, poi che seco non muor, che seco viva. (53)

La decisione di Sofronia di accogliere l’amore di Olindo si esprime attraverso una litote: <<ella non schiva>> che il giovane le rimanga vicino, il giovane ha dimostrato con la sua opera l’amore nei confronti dell’amata e così ha saputo suscitare in lei lo stesso amore sicché ella accetta di sposarlo. Nonostante ciò in Sofronia sono ancora presenti tracce della verginità cara agli apocrifi, per cui l’amore terreno è privo di valore.

Agli occhi della critica moderna il matrimonio per Sofronia può essere letto come una punizione, mentre per l’autore un modo per esorcizzare il fantasma, cristianizzato, della vergine potente e indipendente di Diana. Quindi, al pari delle altre donne che vengono convertite, anche Sofronia deve seguire un percorso di educazione teso ad eliminare qualsiasi sospetto di utilizzazione strumentale della fede al fine di una liberazione individuale.

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Inoltre, la relazione tra Olindo e Sofronia fornisce all’autore l’occasione per affrontare una delle novità dell’epica cristiana da lui stesso proposta: l’importanza assunta dal matrimonio.

Il matrimonio non è certo un topos ricorrente nella letteratura italiana rinascimentale poiché nella tradizione cortese precedente l’elaborazione stilnovista e petrarchesca aveva rintracciato l’incompatibilità con l’amore e quindi inconciliabile con legami istituzionali. Ma Tasso riesce a conferire dignità letteraria al tema con un tentativo coraggioso e originale. Creando le due coppie cristiane, l’autore cerca di ricomporre il binomio amore / matrimonio, bandito dalla scena letteraria.

L’autorità della Chiesa si batteva per scongiurare il pericolo che un’unione stabilita ai fini della procreazione sconfinasse nella concupiscenza12, e Tasso stesso nel Padre di famiglia ricorda che << non viene agli abbracciamenti il marito in quel modo stesso che viene l’amante>>13. L’unione degli sposi purché risulti sacra, la sessualità deve essere dominata: solo allora la coppia potrà raggiungere una perfetta << medesima comunanza […] in tutti gli affetti e in tutti gli offici e in tutte le operazioni>>. A tal proposito Paul Larivalle suggerisce:

[…] l’episodio di Olindo e Sofronia mette in evidenza a modo suo un inno all’amore e al matrimonio cristiano; la visione caso mai drammatizzata ed eroicizzata secondo le esigenze del contesto epico, di uno stadio anteriore a quello rappresentato da Gildippe e Odoardo: lo stadio prematrimoniale, della nascita di un amore propedeutico al matrimonio cristiano14.

12

Secondo i Padri della Chiesa, quali Geremia eTommaso D’ Aquino, le coppie di sposi erano tenute ad unirsi solo in maniere considerate lecite, astenendosi dai rapporti sessuali per buona parte dell’anno, secondo un vero e proprio calendario.

13

Torquato Tasso, Op. cit., vol. II, Tomo I, p. 360.

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Gildippe

Praticamente trascurata dalla critica, Gildippe forma col marito Odoardo una coppia inseparabile, il cui destino appare suggellato fin dalla prima apparizione. <<Amanti e sposi>> sono chiamati fin dall’inizio ( I, 56) e gli stessi qualificativi, nello stesso ordine, ritornano puntualmente nelle due successive brevi evocazioni della coppia (III, 40; VII,67), come un leitmotiv un po’ monotono del perfetto amore ricambiato, a sottolineare la loro poco suggestiva eccezionale serenità sentimentale.

Nella creazione della sua coppia di sposi, Tasso appare in perfetta sintonia con la rivalutazione del matrimonio promossa dal Concilio di Trento15. Il matrimonio è il sacramento attraverso cui due individui diventano uno ( <<duo in carne una>>, <<non […] duo, sed una caro>>: la comunanza di Gildippe e Odoardo ben esemplifica il precetto.

È questa l’unica coppia in cui la combinazione matrimonio e attività guerriera trova una realizzazione esplicita e riconosciuta. La presenza degli sposi combattenti sembra anzi ricevere significato più dalle contrapposizioni e simmetrie che si vengono a creare con gli altri personaggi che dalla loro funzione autonoma.

Ponendo l’attenzione al personaggio femminile di Gildippe ci si accorge del poco spazio a lei riservato nel poema, infatti l’eroina è nominata solo cinque volte.

Nelle prime tre circostanze è presentata appunto insieme con il marito, tra gruppi di guerrieri, al risuono di <<amanti e sposi>> ( I,56; III40; VII, 67).

15

Il concilio di Trento garantì al matrimonio uno status positivo. Superate le incertezze e la ripugnanza a santificare dei contatti sessuali, la chiesa si arrogava dunque completo potere sull’istituzione. Cfr. André Duval, Les sacraments au Concile de Trente in Benedetti, p. 111.

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Nel primo canto Gildippe e Odoardo, i due sposi guerrieri vivono in simbiosi, realmente diventati, con il matrimonio, una cosa sola (Genesi 2, 24), condividono desideri, emozioni, dolori fisici e morali:

Colpo che ad un sol noccia unqua non scende, ma indiviso è il dolor d’ogni ferita;

e spesso è l’un ferito, e l’altro langue, e versa l’alma quel, se questa il sangue. ( I, 57)

Nella coppia cristiana la volontà di unificazione ha portato la moglie ad identificarsi col marito al punto di trasformarsi, nel corpo e nella mente, in lui, nella sua copia guerriera. La reversibilità di Gildippe in Odoardo e di Odoardo in Gildippe è una questione spirituale, ascetica, non di mero cambiamento di abiti.

Agli occhi degli altri, degli spettatori, Gildippe non assume un nome e un sesso diverso, è riconosciuta come donna e come donna accettata all’interno dell’esercito.

D’altro canto questa eventualità non presentava problemi ideologici a Tasso, fondata com’era sull’autorità degli storici delle crociate:

È scritto parimenti, c’Odoardo, barone inglese, accompagnato da la moglie che tenerissimamente l’amava, passò a questa impresa, ed insieme vi morirono; né sol la moglie di costui, ma molte altre nobili donne, in questo e ne gli altri passaggi, si trovarono ne gli eserciti cristiani16.

Se dunque tra le fila dei crociati, si viene a formare la coppia indissolubile di «amanti e sposi […] ne la guerra anco consorti» (I 56), [41] ciò è possibile perché una donna di

16

Lettera a Silvio Antoniano del 30 marzo 1576, in Lettere, cit., pp. 140-141, e in Opere, V, cit, pp. 749-50.

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virtù eccezionale, «donnesca», ha compiuto una scelta motivata dall'eros coniugale:

Ne le scole d'Amor che non s'apprende? Ivi si fe' costei guerriera ardita:

va sempre affissa al caro fianco, e pende da un fato solo l'una e l'altra vita.

Colpo che ad un sol noccia unqua non scende, ma indiviso è il dolor d'ogni ferita;

e spesso è l'un ferito, e l'altro langue, e versa l'alma quel, se questa il sangue (I 57).

Tuttavia la passione che induce Gildippe ad arruolarsi tra i crociati insieme al marito esprime un eros legittimo; e non a caso gli ultimi due versi alludono, sotto forma d'iperbole, al sacramento cristiano che vuole i due sposi come una caro, secondo l'insegnamento evangelico (Mt 19, 5, sulla base di Gen. 2, 24) propugnato da Paolo (Ef. 5, 32) e ribadito dalla teologia post-tridentina.

La scelta di seguire il marito in Terrasanta da parte della moglie si riferisce anche, di conseguenza, alla possibilità di un eros santo e pudico, alternativo a quello che distrae i crociati dall'impresa.

Sempre di eros si tratta, ma è un eros che, per una sorta di utopia della riconciliazione dei conflitti, non elude la castità e l'etica del sacrificio di sé imposte dalla crociata. La scelta di Gildippe, infatti, le consente, da una parte, di sacrificarsi in quanto martire per la causa collettiva, come Sofronia; dall'altra di combattere in armi come un uomo, come Clorinda, non però contro i cristiani, bensì a loro difesa.

D'altro canto Gildippe evoca per contrasto le mogli tutte dei crociati e dei pagani che sono rimaste in patria e, per quanto pudiche e degne di amore, non sono riuscite a

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trattenere a sé i loro mariti, come l'afflitta e castissima moglie di Altamoro (XVII 26), che è il rovescio patetico della guerriera cristiana.

In IX, 71, l’autore traccia un parallelo17

tra la guerriera cristiana e Clorinda, è questo l’unico caso in cui Gildippe compare senza il marito.

Dunque la centralità della donna all’interno della coppia e il ruolo di appendice del marito si può verificare meglio dalla circostanza secondo cui, mentre Odoardo non appare mai da solo, Gildippe viene menzionata autonomamente, non a caso in paragone di Clorinda; invece di essere il perno del binomio familiare, Odoardo funziona come il raddoppiamento di Gildippe.

L’incontro tra le due guerriere non si verifica se non nell’accostamento da parte del narratore della loro azione guerresca, svolta però in due punti diversi del campo di battaglia.

Dopo essere stata equiparata a Clorinda dalle parole di Erminia e del narratore, Gildippe dimostra sul campo di meritare il paragone con il suo modello.

Mentre così l’indomita guerriera le squadre d’Occidente apre e flagella, non fa d’incontra a lei Gildippe altera de’ saracini suoi strage men fella. Era il sesso il medesmo, e simil era

l’ardimento e ’l valore in questa e in quella. Ma far prova di lor non è lor dato,

ch’a nemico maggior le serba il fato. (IX, 71)

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Larivaille, in merito alla funzionalità del personaggio di Gildippe, scrive: <<Più che una donna dotata di una vita propria Gildippe può sembrare una donna nata dalla propensione tassiana per i parallelismi e le polarizzazioni: cioè, più che altro, per fare da contrappunto virtuoso al personaggio di Armida e, come sottolinea l’insistito parallelo con Clorinda del canto IX, soprattutto per introdurre nel campo cristiano una donna per ardimento e valore uguale e simmetrica dell’ <<indomita guerriera>> pagana>>. Cit. p. 174, Op. cit.

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Nel canto XX, la guerriera dimostra ancora una volta di raccogliere l’eredità di Clorinda, replicando la sua prodezza con la medesima determinazione e crudezza18; ogni sua mossa riprende un’analoga azione compiuta da Clorinda prima che il loro destino venisse fatto incrociare dal narratore.

Come Clorinda è la prima a scendere in campo contro gli avversari nella primissima battaglia (III, 13), così Gildippe è la prima a ferire un nemico nella battaglia finale e a ricevere per questo la meravigliata lode del narratore (“tanto di gloria a la feminea mano / concesse il Cielo”, XX, 32). La lista di ferimenti e uccisioni si sussegue pressoché nello stesso ordine e con i medesimi obiettivi corporei nei due canti di battaglia: all’inizio della vicenda bellica Gildippe taglia in due il petto del sultano di Ormús (“feristi… e ’l petto a lui partisti”, XX, 32), facendolo cadere “trafitto”, così come Clorinda aveva esordito trafiggendo Berlinghieri “nel seno”, nel punto cioè dove ella stessa avrebbe poi ricevuto la ferita fatale (IX, 68); dal petto si passa alla cintura, con Gildippe che “coglie Zopiro là dove uom si cinge / e fa che quasi bipartito ei cada” (XX, 33), in corrispondenza all’ombelico colpito da Clorinda (“fère Albin là ’ve primier s’apprende / nostro alimento”, IX, 68) e poi si risale su al collo e al viso. Gildippe “poi fèr la gola e tronca al crudo Alarco / de la voce e del cibo il doppio varco” (XX, 33) allo stesso modo in cui Clorinda aveva affrontato Achille “e tra ’l collo e la nuca il colpo assesta; / e tronchi i nervi e ’l gorgozzuol reciso” lo aveva decapitato (IX, 70). Il ferimento e l’uccisione di Artaserse e Argeo da parte di Gildippe (“D’un mandritto Artaserse, Argeo di punta, / l’uno atterra stordito e l’altro uccide”, XX, 34) si svolgono nel giro di due endecasillabi, come gli scontri di Clorinda con Albino e Gallo. Entrambe le guerriere passano quindi a “recidere” una mano all’avversario, la sinistra Gildippe

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A tal proposito Virginia Cox In heroic women in Tasso’s Discorso sopra la virtù feminile e donnesca and

la Gerusalemme liberata evidenzia la ferocia di Gildippe nei combattimenti prima della presa di

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(“Poscia i pieghevol nodi, ond’è congiunta / la manca al braccio, ad Ismael recide”, XX, 34), la destra Clorinda (“La destra di Gerniero, onde ferita / ella fu già, manda recisa al piano”, IX, 69); il cavallo di Ismaele, non più trattenuto per le briglie, fugge, così come il cavallo di Achille si era liberato a scossoni del cadavere del padrone.

La prima fase del combattimento si conclude quindi nei due casi con un colpo alla fronte dell’avversario: Gildippe “fra ciglio e ciglio ad Arimonte… partì la fronte” (XX, 37), Clorinda “ ’l viso a Gallo fende” (IX, 68). Dopo aver sconfitto questa serie di avversari di secondo piano, le due guerriere concludono le loro vicende belliche affrontando uno dei capi dell’esercito straniero, che feriscono e da cui sono ferite: Clorinda Guelfo, lo zio di Rinaldo nominato da Goffredo comandante del contingente che, nella battaglia notturna, deve fermare l’assalto delle truppe di Aladino (IX, 72-73); Gildippe Altamoro, il prode re di Samarcanda il quale si arrenderà infine a Goffredo ultimo tra tutti i pagani (XX, 41-43). Nella sua progressione, Gildippe, coadiuvata ad un certo punto da Odoardo che uccide Artabano e Alvante, si è scontrata e ha messo fuori combattimento (tranne Altamoro) un considerevole numero di pagani che erano stati presentati quali alleati del califfo d’Egitto durante il catalogo del canto XVII (ottave 25-31), svolgendo un compito di non poco aiuto per la causa cristiana; eppure i termini per definire il suo operato restano quelli di una guerriera classica e quindi pagana, sia per ulteriore rimando alla leggenda di Clorinda, sia che Tasso si trovasse a corto di riferimenti per una donna guerriera cristiana della prima crociata che risultassero cronologicamente attendibili, nell’impossibilità dunque di citare Giovanna d’Arco, Maria di Pozzuoli e le altre celebri combattenti cristiane, oppure per esplicito rifiuto di menzionare la creature letteraria del rivale (Bradamante).

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Non soltanto l’azione di Gildippe, nel momento in cui ferisce Altamoro “ove splendea d’oro e di smalto / barbarico diadema in su l’elmetto” (XX, 42) entra in connessione implicita con quella di Camilla che nell’Eneide brama l’elmo di Cloreo, ma a lei, cristiana e sposata, viene anche applicato esplicitamente il paragone che Virgilio aveva riservato alla sua guerriera e che nella Liberata non tocca mai la pagana e vergine Clorinda: quello con un’amazzone.

Nulla Amazone mai su ’l Termodonte imbracciò scudo o maneggiò bipenne audace sì, com’ella audace inverso al furor va del formidabil perso. (XX, 41)

Nei suoi scritti teorici, Tasso scrive che al posto dell’Amazzone Pentesilea il lettore troverà nella sua opera una guerriera equivalente, lasciando implicitamente intendere che si tratta di Clorinda:

“S’alcuno desiderò mai nell’Iliade Pentesilea, non può desiderar nella mia Gerusalemme la persona finta d’una guerriera, ad imitazione delle Amazoni; né so conoscere la cagione per la quale Pentesilea si rimanesse tra le cose da Omero tralasciate; perché dovendo il poeta cercar la maraviglia, niuna cosa ci par più maravigliosa dell’ardire o della fortezza feminile.”19

Eppure all’interno del testo Clorinda non riceve mai la qualifica di Amazzone; Gildippe viene invece rivestita di una connotazione maschile semmai più forte di quella di Clorinda: non soltanto ella possiede un evidente doppio maschile in Odoardo, ma viene

19

Torquato Tasso, Giudizio sovra la Gerusalemme Conquistata, in Prose diverse, a cura di Cesare Guasti, Firenze, Le Monnier 1875, tomo I, p. 521.

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anche caratterizzata dall’aggettivo “virile” (“Con la destra viril la donna stringe”, XX, 33.1) che non è mai applicato all’altra guerriera, e, quando viene colpita a morte da Solimano, “sembiante fa d’uom che languisca e pèra” (XX, 96), mentre Clorinda morente è definita “la bella donna” che “passa” “in questa forma” (XII, 69), trasfigurata dalla rivelazione divina ricevuta negli ultimi istanti.20

L’azione omicida di Solimano, è invece una profanazione dell’identità sessuale di Gildippe e Odoardo: dopo averli insultati, il soldano muove contro la donna e osa “rompendo ogn’arme, entrar nel seno / che de’ colpi d’Amor segno sol era” (XX, 96), sostituendo in tal modo il suo adultero gesto penetrativo a quello legittimo del marito; quindi sancisce la propria opera di castrazione tranciando il braccio sinistro di Odoardo, intenzionato a dissolvere il legame fisico e sessuale tra i due sposi.

Nel momento della morte, piuttosto che invitare il compagno alla visione del cielo e del sole come aveva fatto Sofronia, Gildippe e Odoardo si guardano reciprocamente (“e l’un mira l’altro”), trovando riflesso nello sguardo dell’altro e il sole (“e l’un pur come sole si stringe a l’altro”) e quel cielo che ha soprinteso sulla loro unione (“… che ’l Cielo eterna sua compagna fece”, XX, 100)50.

Come profetizzato sin dal loro ingresso in scena, la dipartita della coppia di amanti e sposi si svolge all’insegna del congiungimento e dell’inglobamento del tutto nell’uno, racchiuso dentro lo sguardo narcisistico che mira l’altro uguale a lui.

La perfetta unità della coppia persino nei momenti estremi ( <<e si cela in un punto ad ambi il die, / e congiunte se’n van l’anime pie>> [100]) non fa che corrispondere alla profezia che aveva segnato il loro primo apparire in I,56 ( <<o ne la guerra anco consorti, / non sarete disgiunti ancor che morti>>).

20

Significativamente, dopo la prima generica definizione di “guerriero” (II, 38) Clorinda sembra un “uomo” solo quando il demonio prende le sue sembianze e “forma d'uom compose” (VII, 99

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Larivaille puntualizza che la scarsa attenzione da parte della critica alla coppia di Gildippe e Odoardo è principalmente dovuta all’iniziale profezia (da un inciso retorico-profetico del poeta sappiamo che i due uniti nella guerra sono destinati a non essere <<disgiunti ancor che morti>>), che esclude ogni suspense, e soprattutto esclude una possibile evoluzione della coppia inglese e per così dire anticipatamente la condanna all’immobilità fino al momento patetica della morte eroica. Così come la felicità “senza nubi” e perciò “senza storia” fino al canto conclusivo degli sposi inglesi, unita a una perfezione esemplare un po’ meccanicamente e sistematicamente adoperata a fini prevalentemente contrappuntistici, spiega probabilmente sia la scarsa presenza e funzionalità di Gildippe e Odoardo nel poema tassiano che il poco favore incontrato dalla coppia presso i critici.

La Benedetti sottolinea che tanto la coppia Odoardo-Gildippe quanto la coppia Olindo-Sofronia rappresentano un tentativo coraggioso, dall’esito problematico, di ricostituire il binomio amore-matrimonio disprezzato dalla lirica amorosa, trascurato dalla tradizione cavalleresca e guardato con sospetto soprattutto dalla chiesa.

Gildippe e Sofronia sono intimamente legate a questa celebrazione del matrimonio, e sono chiamate a rappresentare insieme ai rispettivi compagni, la relazione ideale dove i personaggi sono privi di individualità e uniformati al ruolo che sono chiamati a rappresentare ossia di <<amanti e sposi>>.

Il poema prospetta dunque una soluzione pacifica al conflitto tra i sessi, nella forma del matrimonio cristiano.

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3.2 Eroismo femminile pagano

Clorinda

Un interessante discussione di Margaret King incentrata sui tre volti della donna del Rinascimento ( Maria, Eva, amazzone ) riassume così la straordinaria modernità del personaggio della donna guerriero:

Le prime due figure, che sono colte in un’opposizione senza speranza di risoluzione, rappresentano i poli ormai cristallizzati dalle possibilità della donna: il futuro si annida nella terza figura. Dall’amazzone, questa rigida figura che compare ovunque nella civiltà del Rinascimento, è nata la donna moderna, che porta il fardello della solitudine della amazzone e non ha ancora conquistato pienamente tutta la sua libertà. Quella libertà che forse potrà attingere un giorno, in un Rinascimento delle donne secoli dopo il Rinascimento degli uomini21.

Queste asserzioni vengono estese in particolare ad uno dei personaggi femminili più interessanti dell’opera tassiana, ossia Clorinda, la donna-guerriero in generale, che nel suo ideale e nelle sue contraddizioni, risulta un personaggio carico di significati e anche di presagi e speranze per il futuro.

Nel caratterizzare Clorinda, Tasso ricorse alla tipologia della figura della virgo militans, precedentemente stabilita da un’ampia e antica tradizione, nel cui filone figuravano esempi diversificati come una Camilla virgiliana o una Marfisa ariostea.

Come segnalato da De Sanctis, e ripreso sa Larivaille, a rendere più complicata la personalità della guerriera intervengono altri elementi, che nella sua morte in particolare vedeva una <<ispirazione petrarchesca con qualche reminiscenza di Dante>> e la riteneva << una Camilla battezzata: tradizione virgiliana, che al momento della morte si

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Margaret King, La donna del Rinascimento, in L’uomo del Rinascimento, a cura di Eugemio Garin, Bari, Laterza, 1988, p. 327, academia.edu

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rivela dantesca e petrarchesca>>. Altri critici ancora hanno evidenziato i numerosi stilemi che più che ad ogni altra avvicinano, in vita e morte, la Clorinda tassiana alla Laura del Petrarca22: echi petrarcheschi nella reazione di Tancredi alla prima apparizione23 di Clorinda (I, 49), nel secondo incontro dei due (III, 21-24), come pure nel terzo (VI, 26), nella evocazione della morte di Clorinda (XII, 69) e poi del suo cadavere (XII, 81) e in seguito nella disperazione di Tancredi (XII, 89-90) e soprattutto nella successiva apparizione in sogno di Clorinda (XII, 91-93) che il Croce considerava tutta una fredda reminiscenza petrarchesca24.

A complicare ulteriormente la biografia della guerriera Clorinda, contribuisce l’innesto di una trama romanzesca tratta dalle Storie etiopiche di Eliodoro, dalle quali Tasso riprese lo stratagemma narrativo della nascita di una bambina bianca da genitori di colore, con i relativi corollari di gelosia maritale, fughe, scoperta della verità.

La descrizione di un’infanzia e adolescenza insofferenti e avventurose, il desiderio di una grande impresa che riuscirà fatale, si rintracciano nella Liberata.

Nonostante ciò, la guerriera tassesca risulta una creazione nuova, che risente delle complicazioni e rielaborazioni che il personaggio della donna guerriero era andato subendo attraverso i secoli. Ciascuna variante elaborata dai poeti epici pre-tassiani nel tipo della donna che adotta un’intemerata maschilità non comporta alcun sospetto di mutazione interiore, alcuna promessa di sviluppare dall’involucro metallico dell’armatura un essere che l’abbandoni e trascenda; se il carattere della donna guerriera comprende un elemento amoroso come in Bradamante, esso è conciliato nel programma militare, senza reciproca esclusione.

22 B. Maier, Lirici del Settecento, Rizzoli 23

A tal proposito Di Benedetto ha messo in evidenza la subitaneità e brevità della epifania di Clorinda a Tancredi ( <<Quivi a lui d’improviso una donzella/ tutta, fuor che la fronte, armata apparse>>) p. 299

24

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Nel composto realizzato dal Tasso nel creare Clorinda, coraggio e virtù guerreschi convogliano fin da principio.

Con l’intento di sottolineare l’eccezionalità della donna eroica, Tasso costruisce per Clorinda una biografia intessuta di anomalie: nata bianca da genitori di colore, viene scambiata alla nascita con un bambino nero, allevata da una infermiera che in realtà è un eunuco, allattata da una tigre, nata una cristiana ancora sollevata una pagana, Clorinda guadagna lo status eroico mentre reprime eccezionalmente il suo genere e la sua natura attraverso l’abilità e il coraggio:

Costei gl’ingegni feminili e gli usi tutti sprezzo sin da l’età più acerba: a i lavori d’Aracne, a l’ago, a i fusi inchinar non degnò la man superba. Fuggì gli abiti molli e i lochi chiusi […]

Clorinda, scopriamo, abbandona le abitudini femminili in tenera età, dedicandosi alle attività fuori casa: lei non adopera le mani per <<i lavori d’Aracne>> ; lei rifiuta << gli abiti molli>> e <<i lochi chiusi>> (le pareti della casa discussi da Tasso, nel Discorso), piuttosto ha fame di onore sul campo di battaglia. Clorinda rifiuta dunque le occupazioni femminili e i luoghi prescritti per il suo sesso, per costruire la propria identità in quanto cavaliere.

Le piace coltivare un aspetto fiero su quale preferisce far emergere la durezza, che sarà una caratteristica, ma che tuttavia, non toglie nulla alla sua bellezza.

Anche il suo volto tende a cancellare i tratti più femminili, pur senza poterli del tutto eliminare. Tali caratteristiche appaiono però più indotte che naturalmente presenti in lei: <<la storia esterna di Clorinda è preistoria, germinale embrionale dell’interno: ancor

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giovanissima, il poeta la disegna in una scelta verso l’eroico in cui grava più decisione che vocazione: “armò d’orgoglio il volto e si compiacque / rigido farlo”. Un tratteggio addizionale insinua che l’irrigidimento di superficie, la “maschera” ferrea, non basta ad annullare la grazia spontanea: “ e pur rigido piacque”. Così i particolari di sviluppo divergono dal modello amazzonico, le sue membra si foggiano volutamente ( “in palestra/ indurò i membri” ); una testarda costrizione, non un nativo regalo di Pallade, la rende gagliarda ( “allenogli al corso” ). Il testo mette in rilievo che il risultato ha inevitabilmente il segno dell’innaturale e del contraddittorio: “ fera agli uomini parve, uomo alle belve”25

; e ciò fornisce un elemento per individuare il contrasto, in lei presente, fra <<forma assunta>> e <<forma autentica>>, secondo la definizione di Chiappelli.

E 'difficile, tuttavia, vedere in Clorinda un genere ibridato tra il maschio e la femmina, nonostante la giustificazione del Tasso di conferire eccezionalità eroica femminile tramite la conversione di lei in età giovanile al maschile.

Il contrasto fra femminilità e mascolinità emerge sin dal suo arrivo a Gerusalemme, quando Clorinda alla vista dell’<<apparato di morte>> è desiderosa <<di saper qual fallo condanni i rei>>, e prova pietà26 per i due condannati: << Clorinda intenerissi, e si

25 F. CHIAPPELLI, Il conoscitore del caos, cit., p. 59

26 Ferretti rileva che tale pietà deriva da un'affinità spirituale che congiunge tra loro due diverse

espressioni di eroismo femminile. Tuttavia, mentre Sofronia ha dovuto sacrificare la propria pudicizia agli ideali di martire cristiana, Clorinda, invece, ha aggirato la contraddizione, dando luogo a un'altra, più profonda e radicale: quella della guerriera pudica in armi, una condizione che le permette di rifiutare le attività femminili ordinarie, senza però rinunciare alla pudicizia. Clorinda disprezza, sì, «gl'ingegni feminili e gli usi» e, contrariamente a Sofronia, ha scelto di fuggire «gli abiti molli e i lochi chiusi» (espressione che sembra riferirsi alle «mura» dalle quali è appena uscita la martire cristiana): ma ha fatto questo combinando forzosamente la «virtù feminile» della pudicizia con quella «donnesca» dell'eroismo bellico: «Fuggì gli abiti molli e i lochi chiusi | ché ne' campi onestate anco si serba» (II 39); ed è una sentenza, quest'ultima, che sembra quasi il motto dell'«impresa» morale idealmente abbracciata da Clorinda. Cfr. Ferretti in Virtù maschile, «virtù feminile», «virtù donnesca».

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condolse/ d’ambeduo loro e lagrimonne alquanto>>; <<gli aspetti che il testo sottolinea al suo arrivo in Gerusalemme assediata sono l’eleganza delle armi ( “la tigre che su l’elmo ha per cimiero / tutti gli occhi a sé trae” ), il suo immediato cedere alla curiosità […], e la compassione per i due condannati. Sono tutti tratti muliebri>>.

La sua simpatia va in particolar modo a Sofronia ( <<pur maggior sente il duol per chi non duolse,/ più la muove il silenzio e meno il pianto>>27).

Tasso introduce il motivo del rapporto della donna con il silenzio e la parola (il primo

tratto altamente desiderato in una donna nella cultura occidentale pre-moderna, il secondo riconosciuto come un vizio dell’alta società) per evidenziare il distaccamento di Clorinda dai modi femminili ma non con lo scopo di lodarla per la sua fedele osservanza di codici morali.

Mentre Sofronia è un'icona della donna pura della città, che basata sulla sua bassa estrazione sociale deve essere limitata nel suo pubblico gesto con il ricorso alla virtù del silenzio così convenevole al suo status e alla castità, Clorinda è un donna pubblica che usa l’eloquenza a fini diplomatici. Nonostante questo fatto, lei appare più vicina al modello virtuoso di Sofronia; la scarsità del suo atto verbale richiama l'eloquenza muta richiesta a tutte le donne dai moralisti medievali e pre-moderni (cf. Francesco Barbaro nel suo De re uxoria), ma le ragioni del Tasso sono con la presente modificati.

Clorinda è la donna guerriero, che si scontra con personaggi maschili, e se parla meno di quanto il suo status nobile di donna le permetterebbe, non è perché Clorinda può essere virtuosa alla maniera della donna che vuole conformarsi al dogma morale cristiano o per sfuggire all'accusa di mancanza di moderazione, piuttosto i suoi silenzi

27

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hanno lo scopo di sfuggire l'accusa di femminile e femminilità, questi silenzi corrispondono alla negazione di una femminilità associata dalla tradizione misogina scolastica alla verbosità28.

Clorinda incarna quindi una femminilità mascolina fortemente dipendente dalle percezioni accademiche anti-femminili.

[…]ecco un guerriero

(che tal parea) d’alta sembianza e degna: e mostra, d’arme e d’abito straniero, che di lontan peregrinando vegna.

L’inciso che corregge la presentazione del <<guerriero>> (<<che tal parea>>) fa emergere la natura problematica del personaggio, peraltro risolta, nel verso finale, dalla completa coincidenza fra l’apparenza e la sostanza: << la credon lei, né ’l creder erra>>. L’ <<alta sembianza e degna>>, ribadita, poche ottave più in là, dall’accenno alla <<grande sua real sembianza>>, incute rispetto, e costituirà uno dei tratti distintivi di Clorinda. L’impossibilità di un lieto fine (almeno) dell’amore di Tancredi è legata alla caratterizzazione di Clorinda, in cui viene oggettivizzata la paura della donna29, l’oscura minaccia rappresentata dall’incontrollabile sesso femminile.

L’<<alta sembianza e degna>> è la prima cosa che si percepisce di Clorinda, <<quella grande sua regal sembianza>> ( II,45) che costringe tutti all’obbendienza; agli occhi di Tancredi che muove ad incontrare l’assalto di Argante si offre l’ <<alta guerriera>>, che <<sovra un’erta, / tutta, quanto ella è grande, era scoperta>> ( VI, 26); nella difesa di

28

HEROIC WOMEN IN TASSO’S DISCORSO SOPRA LA VIRTÙ FEMINILE E DONNESCA AND LA

GERUSALEMME LIBERATA Laura BLAJ, PhD, B.A. West University of Timişoara, PhD University of

Oradea, PDP Simon Fraser University Virginia Cox

29 A tal proposito la Benedetti allude al titolo (The Fera of Women) di un libro di Wolfang Lederer (Ney

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Gerusalemme, la preminenza assoluta viene conferita col porre Clorinda alla coincidenza del termine metrico (la fine del verso) con quello semantico (l’altezza più elevata), come punto finale di una quadripartita gradazione verso l’alto (il piano, il Soldano, Argante, Clorinda)30:

E di macchine e d’arme han pieno inante Tutto quel muro a cui soggiace il piano, e quinci in forma d’orrido gigante da la cintola in su sorge il Soldano, quindi tra merli il minaccioso Argante torreggia, discoperto è di lontano, e in su la torre altissima Angolare sovra tutti Clorinda eccelsa appare. ( XI, 27)

L’offerta di servire Aladino “pur tra ’l chiuso delle mura” era dettata da una completa sottomissione feudale al proprio re, ma il seguito del testo rende chiaro come Clorinda non abbia mai servito, dopo la sua nascita, in un luogo chiuso. Costretta ad evadere dalla torre della madre, ella continua a portare sempre con sé il marchio della torre ma in maniera inconscia: all’esterno, la guerriera nella sua candida armatura appare, soprattutto nella prospettiva di Tancredi, alta, irraggiungibile e inespugnabile come una torre. Tuttavia, è soltanto quando la guerriera si ritrova effettivamente di nuovo all’interno di una torre che scatta un meccanismo psicologico di recupero del passato rimosso. Prima, ella poteva sembrare una torre perché non ci stava dentro, rendeva se

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stessa una torre, portando all’esterno e quindi rendendo maschile ciò che non voleva vivere dall’interno, da una posizione femminile31

.

Oltre a ciò, la guerriera si distingue per una maniera particolarmente violenta di colpire, e soprattutto, di mutilare. Oltre alla forza morale e al coraggio, l’autore attribuisce alla donna anche la crudeltà: questo un tratto psicologico e comportamentale attribuito tradizionalmente agli uomini nella letteratura cavalleresca.

Clorinda è selvaggia come il più crudele dei cavalieri: quando si presenta sul campo di battaglia, in attesa dell’arrivo del nemico, è desiderosa di infliggere ferite. Ancora più rilevante è il modo in cui il Tasso descrive le imprese di Clorinda.

Le sue imprese vengono descritte in uno dei passi più crudeli del poema: nelle ottave 68-70 del IX canto Clorinda ferisce Albino all’ombelico ( <<là ve primier s’apprende / nostro alimento>>) e Gallo in viso. A queste seguono altre due mutilazioni:

La destra di Gerniero, onde ferita Ella fu già, manda recisa al piano: tratta anco il ferro, e con tremanti dita semiviva nel suo guizza la mano. Coda di serpe è tal, ch’indi partita Cerca d’unirsi al suo principio invano. Così mal concio la guerriera il lassa, poi si volge ad Achille e ‘l ferro abbassa, e tra ’l collo e la nuca il colpo assesta; e tronchi io nervi e’l gorgozzuol reciso, già rotando a cader prima la testa, prima bruttò di polve immonda il viso,

31

Sulla doppia valenza, maschile e femminile, della torre, emblema al contempo di valore guerresco maschile e di chiusura femminile, vedi J. C. McLucas, “Clorinda and Her Echoes in the Women’s World”, cit., p. 89.

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che giù cadesse il tronco; il tronco resta (miserabile mostro) in sella assiso […] ( IX, 69-70)

In queste ottave Clorinda si manifesta come un essere del tutto mostruoso, e usurpando prerogative maschili e si trasforma in un’implacabile castratrice.

La guerriera è abilissima nell’uso dell’arco: dall’alto delle mura di Gerusalemme la sua immagine maestosa e splendente appare distruggere tutto ciò che la circonda, sempre che si tratti di personaggi abbastanza degni “ non di sangue plebeo ma del più degno”. Clorinda è altera e orgogliosa in tutto, specialmente nella scelta dei nemici da sfidare tanto che una sete costante di gloria la spinge a mirare proprio al più grande dei crociati: il comandante supremo Goffredo e la sua freccia va immediatamente a segno recidendo il nervo della gamba dell’eroe in maniera piuttosto grave:

Così, mutato scudo, a pena disse. quando a lui venne una saetta a volo, e ne la gamba il colse e la trafisse nel più nervoso, ove è più acuto il duolo. Che di tua man, Clorinda, il colpo uscisse, la fama il canta, e tuo l’onor n’è solo; se questo dì servaggio e morte schiva la tua gente pagana, a te s’ascriva. ( XI, 54).

Questo episodio presenta delle analogie con il ferimento di Enea in Eneide XII, 398-400.

Il ferimento non di un semplice fante ma, addirittura, del supremo eroe della battaglia Goffredo, deve essere intrepretato come attacco alla massima autorità maschile del

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poema, ossia all’autorità del capo dei cristiani, il che rende ancora più inquietante il potere della guerriera.

Benedetti rintraccia in Clorinda le caratteristiche di una ninfa: in quanto tale essa è cacciatrice, adopera arco e frecce, ed è vergine. L’interdetto di Diana impedisce alle ninfe di intrattenere relazioni con gli uomini, in quanto il rapporto sessuale è visto come una lotta in cui la donna rimane soggiogata, perdendo per sempre la propria indipendenza32. È probabilmente a questo aspetto che si deve l’insistenza sulla verginità delle guerriere, da Camilla, <<virgo militans>> per antonomasia, alla <<vergine Marfisa>> incontrata da Astolfo e Sansonetto in Furioso XVIII, 99, a Bradamante, <<casta e nobilissima donzella>> nelle parole di Merlino (Furioso III, 16). La verginità è un simbolo di indipendenza, autonomia, potenza.

La presenza di una guerriera all’interno di un opera offre la possibilità ad un autore di introdurre un elemento trasgressivo, ma non sempre il trattamento riservato al personaggio corrisponde alla volontà dell’autore, poiché quest’ultima è tesa a sminuire la trasgressione e ad incanalarla in percorsi normali e prevedibili. Per esempio nel I canto del Furioso, la sconfitta su Sacripante per opera di Bradamante mette in crisi la gerarchia sessuale che viene ristabilita poi con la vittoria di Ruggero e con il lieto fine matrimoniale con Bradamante. John Mclucas fa notare come a nessun personaggio femminile del Furioso capiti di essere ferito, e come persino il duello tra Bradamante e Marfisa sia ridicolizzato: Ruggero riesce infatti ad impadronirsi delle loro armi, e il duello epico viene trasformato in una lite tra ragazzine che si accapigliano33.

Persino il riconoscimento dell’abilità di arciera di Clorinda, eredità diretta di Diana, è poco chiaro. Un vero cavaliere disprezza infatti le armi che colpiscono da lontano e

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Cfr. Michel FOUCAULT, Histoire de la sexualité 2(L’usage des plaisirs), Paris, Gallimard, 1984, p. 237.

33

John McLUCAS, Amazon, Sorceress, and Queen: Women and War in the Aristocratic Literature of

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danno un vantaggio sleale a chi le usa. Questo spiega la frustrazione di Clorinda che in un’importante circostanza ricorre ella stessa ad arco e frecce.

L’alto riconoscimento di arciera non è tuttavia sufficiente per soddisfare la guerriera. Al termine dunque, di una giornata così ricca di gloria l’animo di Clorinda è scosso da timori e insicurezze non avvertiti in precedenza.

Finalmente, dopo che Clorinda è rientrata nella torre, la macchina da presa del narratore penetra all’interno della torre metaforica della mente della guerriera per presentarci per la prima volta il flusso dei suoi pensieri:

<<Ben oggi il re de’ Turchi e il buon Argante fer meraviglie inusitate e strane,

ché soli uscir fra tante schiere e tante e vi spezzar le machine cristiane.

Io ( questo è il sommo pregio onde mi vante) D’alto rinchiusa oprai l’arme lontane, sagittaria, no’l nego, assai felice.

Dunque sol tanto a donna e più non lice?

Quanto me’ fora in monte od in foresta a le fere aventar dardi e quadrella, ch’ove maschio valor si manifesta mostrarmi qui tra cavalier donzella! Ché non riprendo la feminea vesta,

s’io ne son degna e non mi chiudo in cella?>> (XII,3-4)

La giovane donna è nervosa e tesa, si mostra per quello che nessuno avrebbe mai sospettato ad uno sguardo esterno e superficiale. Al contrario di quello che la sua figura altera aveva prodotto alle prime impressioni, la guerriera appare in realtà molto insicura

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e incerta riguardo a sé stessa e alle proprie qualità. Presentata in un atteggiamento quasi di inferiore umiltà verso gli eroi pagani Argante e Solimano, che vede più abili nelle imprese guerresche34, Clorinda si domanda se tutto il proprio valore possa essere vanificato da azioni che riguardano l’abilità con l’arco, arma tipicamente amazzone e più semplice ( poiché consente di mantenere una maggiore distanza di sicurezza dai nemici) rispetto al violento scontro in campo aperto nella pratica delle armi.

Così la sua missione è di ferire il nemico con frecce da lontano, Clorinda dispera che non può partecipare alla guerra vera, virile operazione. Utilizzare le <<armi lontane corrisponde, in perfetta linea con la tradizione epica, a mostrarsi <<donzella>>, a rinnegare la scelta militare. Arco e freccia infondono connotazioni femminili rispetto alla spada cavalleresca e la lancia.

Anche cacciare sarebbe preferibile, dice, piuttosto che mostrare se stessa come una fanciulla tra i cavalieri la cui virtù maschile è provata per mezzo della loro presenza fisica sul campo di battaglia.

Clorinda ha bisogno di più di un semplice arco e frecce per dimostrare che lei stessa non si identifica più con la natura femminile: dal momento che le è impedito mostrare la sua abilità, perché non iniziare a indossare un abbigliamento femminile di nuovo, e perché non rimanere rinchiusi in una stanza. Secondo Virginia Cox, questa ricercata posa maschile, tuttavia, non ha solo lo scopo di sottolineare la tenacia e la ferocia della donna, ma comunica anche la sua incapacità ripetuta di trattenere l’ira.

Nella tradizione occidentale pre-moderna l’ira è prettamente maschile così come la lussuria è femminile. Dunque se le donne sono invitate a moderare la loro lussuria, gli uomini sono tenuti a trattenere la loro rabbia. Nella sua qualità di donna eroica, per

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definizione, Clorinda è così apprezzabile esattamente come Tasso afferma nel suo

Discorso solo in base alle virtù e vizi maschili.

La prospettiva del ritorno ad una condizione femminile spaventa Clorinda, con le sue limitazioni nel movimento, nell’onore cavalleresco, nel raggiungimento di gloria.

Per controbattere quello che vede come un pericoloso cedimento alla viltà del sesso imbelle, la guerriera si abbarbica all’esempio di Argante e Solimano quali modelli da emulare a tutti i costi, e architetta un piano che, a prezzo della vita, dovrà provare una volta per tutte il suo valore, non solo agli occhi del mondo ma in primo luogo ai suoi. La paura del fallimento deve essere superata con una prova di valore che rimetta in gioco la sua intera esistenza.

Il senso di angoscia che opprime la guerriera nasconde qualcosa di molto più profondo: la giovane sente che il proprio destino sta per compiersi e che il suo volere è guidato da una forza più grande, probabilmente, attraverso l’opera di Dio stesso; Clorinda si sente invadere da qualcosa di insolito e di audace che la spinge a lasciare lo spazio chiuso per eccellenza, le mura protettive di Gerusalemme, per avventurarsi in campo aperto e distruggere la torre dei Cristiani. La sua decisione si carica di presagi:

Depon Clorinda le sue spoglie inteste d’argento e l’elmo adorno e l’arme altere, e senza piuma o fregio altre ne veste (infausto annunzio!) ruginose e nere, però che stima agevolmente in queste occulta andar fra le nemiche schiere. (18)

(35)

Essa, per prepararsi all’impresa, muta la sua corazza, indossandone una assai diversa da quella a lei consueta. È questo un gesto altamente significativo, che se ha una sua motivazione logica nella possibilità di non essere scorta dai nemici indossando un’armatura priva di fregi lucenti, e si rivela necessario per rendere plausibile il mancato riconoscimento della donna da parte di Tancredi, è anche un segnale dello <<scadere degli emblemi assunti, la riduzione dell’involucro metallico al suo strato indifferente, senza più corrispondenza, neppure segnaletica, con la personalità>>35, segno della sua prossima metamorfosi36.

Clorinda è un essere in transizione, con un’identità rifiutata che risorge a tratti per minacciarla ed un’altra in via di costruzione.

Clorinda depone le proprie armi e ne indossa alcune ben più adatte all’impresa “rugginose e nere” in modo da passare inosservata tra i nemici attraverso l’oscurità. Ma, il fatto di indossare questi colori cupi chiama il Tasso a ribadire il concetto che qualcosa di infausto ( G.L., XII, 18 ) sta per verificarsi tanto che lo stesso e anziano Arsete ( eunuco e padre adottivo della fanciulla) decide che è giunto il momento di raccontarle la verità riguardo la propria nascita37. La giovane donna scopre così di essere figlia di Senapo, re di Etiopia di fede cristiana, e che sua madre ( devota a San Giorgio) l’aveva attraverso una sorta di miracolo:

D’una pietosa istoria, e di devote Figure la sua stanza era dipinta.

35

F. CHIAPPELLI, Il conoscitore del caos, cit.., p. 62.

36 Op. cit. 37

Di Benedetto fa notare come il canto XII sia interamente dominato da Clorinda: Clorinda è il primo personaggio che il lettore incontra; Clorinda ha l’iniziativa nel progetto dell’azione nel campo crociato; Clorinda è la protagonista di un’ampia digressione; Clorinda è poi la comprimaria nel duello con Tancredi; Clorinda piangono via via Tancredi, i pagani, Arsete, Argante. Come osservava Attilio

Momigliano, << quest’insistenza e il racconto dell’infanzia di Clorinda mostrano che il Tasso predispone e sfrutta la situazione con un proposito metodico che rende il complesso del canto unitario>>.p. 298

(36)

Sempre San Giorgio aveva suscitato istinto materno in una tigre che aveva allattato la piccola bambina anziché cibarsene. Dunque Clorinda è una figura abbandonata: la madre è costretta a consegnarla ad Arsete affinché il marito geloso non si adiri credendola infedele ( Clorinda nasce bianca da genitori di colore) e così la giovane cresce senza i propri genitori e senza la vera fede cristiana che avrebbe dovuto manifestarsi attraverso il battesimo. L’eunuco, infatti, pregato dalla madre ma, soprattutto dai sogni ricorrenti riguardanti San Giorgio avrebbe dovuto battezzarla dopo sessanta giorni dalla nascita ma, essendo lui pagano, aveva deciso, al contrario di crescerla in terre egiziane sotto la propria credenza pagana lasciandola all’oscuro sia dalla sua vera identità sia riguardo alla fede di appartenenza. E questo destino mancato si rivela solo ora, proprio nel momento in cui Clorinda esce per la rischiosa impresa sapendo che la aspetta qualcosa di misterioso e funesto proprio perché sia lei che Arsete hanno fatto simili oscuri sogni in quelli stessi giorni:

Ier poi su l’alba, a la mia mente, oppressa d’alta quiete e simile alla morte,

nel sonno s’offerì l’imago stessa;

ma in più turbata vista e in suon più forte: “Ecco” dicea “fellon, l’ora s’appressa che dée cangiar Clorinda e vita e sorte: mia sarà mal tuo grado, e tuo fia il duolo. Ciò disse, e poi n’andò per l’aria a volo. Or odi dunque tu che ‘l Ciel minaccia a te, diletta mia, strani accidenti.

Io non so; forse a lui vien che dispiaccia ch’altri impugni la fé de’ suoi parenti: forse è la vera fede. Ah giù ti piaccia depor quest’arme e questi spirti ardenti.

(37)

Qui tace e piagne: ed ella pensa e teme;

ch’un altro simil sogno il cor le preme ( G.L. XII, 39-40)

Se, fino a questo momento, Clorinda era sembrata una figura fortemente ambigua, divisa tra l’aspetto guerriero della lotta sotto Gerusalemme e quello amorevole dello sguardo di Tancredi, è a partire da questa rivelazione che essa diventa realmente personaggio alla ricerca di un proprio equilibrio. E, a questo punto, l’eroina perde la sicurezza e la freddezza precedenti poiché “ ella pensa e teme” e si ritrova smarrita in una nuova identità cristiana a cui non sapeva di appartenere e che rimette immediatamente in discussione tutto il suo ruolo all’all’interno di un contesto fondamentale come quello della guerra santa.

Clorinda si sta dunque apprestando ad affrontare un doppio duello: se da una parte il suo destino è quello di scontrarsi contro uno degli eroi più forti di Gerusalemme, dall’altra lo scontro che la aspetta è uno scontro interno tra la Clorinda “pagana” e la Clorinda “ cristiana”.

Ma ancora una volta, la fanciulla mostra una forza ed una capacità razionale quasi disarmanti quando, in risposta al racconto di Arsete reagisce in questo modo:

Rasserenando il volto, al fin gli dice: Quella fé seguirò che vera or parmi, che tu co’l latte già de la nutrice

sugger mi festi e che vuoi dubbia or farmi; né per temenza lascierò, né lice

a magnanimo cor, l’impresa e l’armi, non se la morte nel più fer sembiante che sgomenti i mortali avessi inante. ( XII, 41)

(38)

La guerriera decide di rimanere fedele alla religione con la quale è stata cresciuta sin da piccola e di non volerne mettere in dubbio la veridicità mandando in crisi tutto ciò in cui sino ad ora, aveva sempre creduto: dall’impresa non può assolutamente ritirarsi nemmeno se si trovasse davanti alla morte. L’orgoglio è dunque più grande della paura e, ancora una volta, il personaggio della guerriera mostra una psicologia ed un carattere altamente più raffinati rispetto alle eroine precedenti.

Ricevuta la benedizione dal re Aladino, Clorinda e Argante sono pronti per tentare la rischiosa sortita notturna: escono silenziosi nella notte e, avvicinandosi alle alte torri dei crociati, in breve tempo, causano un enorme incendio magnificamente descritto da Tasso “vedi globi di fiamme oscure e miste/fra le rote del fumo in ciel girarsi./Il vento soffia, e vigor fa ch’acquiste/l’incendio e in un raccolga i fochi sparsi” ( G.L., XII, 46). La sortita ha successo e Clorinda sembra riacquistare subito la fiducia in se stessa e nelle proprie qualità di guerriera ma il destino riservato alla donna è un altro: la giovane rimane chiusa fuori dalle mura e mentre cerca di dirigersi verso un’altra porta della città, la guerriera è seguita dall’ignaro Tancredi. Quest’ultimo non ha riconosciuto Clorinda perché essa non indossa la solita bianca e sfavillante armatura, anzi la scambia per un uomo valoroso per cui valga la pena rischiare un duello.

Lo scontro inizia con una foga ed un’ira incredibili, nessuno dei due indietreggia o manca un colpo ma entrambi, nonostante siano sempre stati raffigurati come combattenti onesti e virtuosi, mettono da parte la cortesia cavalleresca e approfittano della notte per colpirsi follemente come animali inferociti.

Il combattimento tra donna e uomo è tema classico per eccellenza e presenta una tipologia di elementi che si ripetono con una certa ricorrenza come: la morte o la sottomissione della donna e l’innamoramento precedente o successivo di uno dei due.

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