• Non ci sono risultati.

1.1 Il microbiota intestinale 1. INTRODUZIONE

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "1.1 Il microbiota intestinale 1. INTRODUZIONE"

Copied!
25
0
0

Testo completo

(1)

7

1. INTRODUZIONE

1.1 Il microbiota intestinale

1.1.1 Composizione del microbiota intestinale

Il corpo umano, come ogni organismo multicellulare con un apparato intestinale evoluto, ospita una grande varietà di microrganismi che insieme costituiscono il microbiota intestinale. Esso svolge im-portanti funzioni: fornisce nutrienti all’ospite, aiuta nella digestione di componenti complessi dei cibi, costituisce una barriera contro l’invasione di microrganismi patogeni e contribuisce al mante-nimento dell’omeostasi immunitaria (Flint et al., 2012; Nicholson et al., 2012). Questa simbiosi stretta tra microbiota e il suo ospite nasce e si mantiene grazie al contributo reciproco tra i due. Il microbiota riceve dall’ospite nutrienti complessi, da cui l’ospite non è in grado di ricavare nutri-mento, e li converte in intermedi che possono essere successivamente assorbiti e metabolizzati dall’ospite (Nicholson et al., 2012).

Lungo il tratto gastro-intestinale umano si trovano differenti microrganismi in termini sia qualitativi che quantitativi, in risposta al differente ambiente fisico-chimico incontrato. La velocità di transito dei nutrienti, la composizione e lo spessore dello strato mucoso, la presenza e l’attività delle cellule del sistema immunitario, le secrezioni enzimatiche, la concentrazione degli acidi biliari, il pH e il potenziale redox, sono tutti fattori che determinano diversi habitat che possono favorire la crescita di alcune specie batteriche piuttosto che altre (Savage, 1977). La popolazione microbica che si trova nello stomaco è dunque diversa da quella trovata a livello dell’ileo, a sua volta diversificata tra una popolazione colonizzante la zona prossima alle pareti dell’intestino ed una caratterizzante l’interno del lumen, magari legata a particelle di cibo (Macfarlane et al., 1997) (Figura 1.1 e 1.2).

Nonostan-Figura 1.1 Rappresentazione schematica del tratto gastrointestinale umano: i contenuti intestinali (quantità di cellule batteriche per grammo), la disponibilità di nutrienti e l’attività fermentativa batterica tipicamente trovata nelle diverse sezioni di individui sani (Payne et al., 2012).

(2)

8 te le differenze della composizione della microflora intestinale nelle diverse regioni anatomiche dell’intestino, in linea generale il microbiota ottenuto dalle feci è accettato come una buona appros-simazione dell’intera ecologia microbica del colon.

Il microbiota colonico comprende molte centinaia di specie batteriche diverse, migliaia di ceppi e una popolazione con una densità pari a 1011-1012 cellule per grammo (più di 10 volte il numero di cellule umane di un individuo) (Guarner & Malagelada, 2003). Questa peculiarità è dovuta alle condizioni fisiologiche di questa nicchia naturale che la rende particolarmente adatta alla crescita microbica: un lento transito dei prodotti della digestione, substrati di crescita di facile accesso per i batteri, ed un ambiente leggermente acido, a livello del colon prossimale, che incrementa successi-vamente, a livello del colon trasverso e distale, a causa delle secrezioni dell’ospite e dell’assorbimento di acqua (Walker et al., 2005). Numerosi studi sono stati fatti sul microbiota co-lonico impiegando le feci perché di più facile accesso e prelievo. Tuttavia l’esatta composizione non è tuttora nota: si tratta infatti di batteri anaerobi facoltativi od obbligati, molti dei quali non so-no coltivabili con i metodi di microbiologia convenzionali o la cui relativamente bassa densità li rende di difficile isolamento rispetto a quelle più abbondanti. Inoltre esiste un’elevata variabilità in-tra- ed inter-individuale, influenzata principalmente dallo stato di salute dell’individuo e dall’ambiente esterno (dieta e xenobiotici). Nonostante il numero elevato di specie batteriche, attra-verso l’uso di nuove tecnologie di sequenziamento high-throughput, è stato osservato che il micro-biota fecale di un uomo adulto è dominato da un numero ristretto di phyla: principalmente si trova-no Firmicutes e Bacteroidetes, mentre in mitrova-nor misura Actitrova-nobacteria, Proteobacteria,

Fusobacte-ria e Verrucomicrobia (Durbàn et al., 2011; Eckburg et al., 2005).

Figura 1.2 Differenziazione delle specie microbiche nei diversi tratti dell’apparato digerente distinte in specie autoctone, più ab-bondanti numericamente, e specie alloctone (Walter et al., 2011).

(3)

9 I Firmicutes sono batteri Gram-positivi, anaerobici facoltativi od obbligati, in grado di formare en-dospore, possono essere sia a forma rotonda (cocci) che a bastoncello (bacilli) e si possono trovare in vari ambienti. La classe di questo phylum maggiormente rappresentata nell’intestino è quella dei Clostridia, composta da anaerobi obbligati e ulteriormente suddivisa in più subgruppi o clusters. Nel microbiota umano è stato trovato un sostanziale numero di Firmicutes associato a batteri cono-sciuti come produttori di butirrato, tutti appartenenti ai clusters clostridici IV, XIVa e XVI, che hanno un ruolo nel mantenimento e nella protezione dell’epitelio colonico (Eckburg et al., 2005). Il cluster IV, noto come gruppo del Clostridium leptum, contiene per esempio la specie

Faecalibacte-rium prausnitzii, associata a proprietà antinfiammatorie e stimolanti il sistema immunitario

intesti-nale (Miquel et al., 2013); il cluster XIVa, noto anche come gruppo del Clostridium coccoides, in-clude invece le maggiori specie batteriche coinvolte nella produzione di acido butirrico, promotore della salute colonica, che appartengono ai generi come Clostridium, Eubacterium, Roseburia,

Co-prococcus, Ruminococcus e Butyrivibrio (Hayashi et al., 2006). I clostridi appartenenti ai Cluster I e

II sono fortunatamente meno predominanti, poiché vi sono incluse specie patogene in grado di pro-durre tossine, quali Clostridium tetani e Clostridium histolyticum (Collins et al., 1994; Hatheway, 1990). Nel colon troviamo inoltre, sempre appartenenti ai Firmicutes i generi Lactobacillus, capaci di effettuare la fermentazione lattica, ed Enterococcus: entrambi ampiamente utilizzati come pro-biotici per la loro capacità di contrastare la crescita dei patogeni, per le loro proprietà antinfiamma-torie e benefiche per la salute umana (Tuohy et al., 2014a).

I Bacteroidetes sono batteri Gram-negativi, asporigeni, anaerobici obbligati, cocci o bacilli, larga-mente distribuiti nell’ambiente, in suolo, in sedimenti ed in acqua, come nell’intestino e sulla pelle degli animali. Questi comprendono in particolare i generi Prevotella e Bacteroides. Quest’ultimo è il principale componente della popolazione intestinale ed ha un alto grado di specificità dell’ospite: può allora riflettere le differenze nel sistema digerente dell’organismo che lo ospita; si è dimostrato infatti che, al contrario di Prevotella, il genere Bacteroides domina in particolare in quegli individui che seguono una dieta ricca in proteine e grassi animali (Wu et al., 2011). Inoltre questo gruppo contiene specie con note funzioni benefiche legate all’assorbimento dei nutrienti e al mantenimento e alla maturazione delle cellule epiteliali (Eckburg et al., 2005).

I Proteobacteria sono batteri Gram-negativi anaerobi facoltativi, che includono vari generi patogeni quali Salmonella, Vibrio, Helicobacter, Yersinia ed Escherichia. Non sorprende trovare questi gruppi batterici in minor abbondanza relativa (pari a circa lo 0,1% sui batteri intestinali totali), poi-ché queste specie facoltative hanno maggior difficoltà a crescere nell’ambiente strettamente anaero-bico del colon (Eckburg et al., 2005).

(4)

10 Gli Actinobacteria, infine, formano un raggruppamento di vari batteri Gram-positivi, a cui appartie-ne uno dei geappartie-neri più interessanti a livello intestinale, il geappartie-nere Bifidobacterium. Questi batteri anae-robici stretti sono commensali gastrointestinali a cui è stata riconosciuta la funzione di promotrice della buona salute dell’organismo ospite. È stato confermato infatti che i bifidobatteri hanno diverse attività positive nel colon: contribuiscono alla costituzione di un microbiota sano, riducono il cole-sterolo, prevengono la diarrea infettiva e il cancro, proteggono contro malattie infettive, regolano delle funzioni della barriera mucosa, modulano il sistema immunitario, producono metaboliti utili e metabolizzano quelli tossici (Ventura et al., 2014). Grazie a queste caratteristiche, essi sono larga-mente aggiunti come microrganismi probiotici in molti prodotti alimentari come yogurt, latte, pro-dotti per l’infanzia, formaggi e altri integratori alimentari (Russel et al., 2011). Nonostante i nume-rosi studi che confermano gli effetti immunomodulatori dei bifidobatteri, da soli o in combinazione con altre specie batteriche, i precisi meccanismi con cui essi esplicano la loro attività non sono an-cora stati completamente chiariti (Ventura et al., 2014).

Studi recenti hanno mostrato attraverso tecniche coltura-indipendente che il profilo del microbiota intestinale di qualsiasi individuo appare estremamente stabile nel tempo ed è unico per ogni indivi-duo, come un’impronta digitale (Zoetendal et al., 1998). Come il fenotipo dell’ospite, frutto dell’interazione tra predisposizione genetica e pressione ambientale, anche la composizione e l’attività metabolica del microbiota intestinale si basano sulla combinazione di geni e ambiente, come dimostrato da alcuni studi condotti su gemelli omozigoti (Zoetendal et al., 2001). Sembra in-fatti che un piccolo core di microrganismi sia comune fra la maggior parte degli uomini, con un gruppo di altri batteri (detti componente ausiliaria) specifica per ogni individuo. L’acquisizione del microbiota da parte dell’ospite, sia il core sia la porzione ausiliaria, dipende soprattutto da fattori estrinseci: l’esposizione e la colonizzazione dell’intestino da parte dei microrganismi nelle prime fasi della vita, provenienti sia dalla madre che dall’ambiente, i microrganismi ingeriti con il cibo, la provenienza geografica dell’ospite, e la dieta in generale, in particolare quei fattori alimentari che possono avere un impatto notevole sulla composizione del microbiota.

L’intestino umano alla nascita è sterile ma, già durante le prime fasi del parto, diverse variabili con-dizionano la sua colonizzazione da parte dei microrganismi: il tipo di nascita (il parto naturale porta a contatto il bambino con la flora vaginale e fecale della madre, cosa che non avviene durante il par-to cesareo), l’allattamenpar-to al seno, lo svezzamenpar-to e altri fatpar-tori esterni; il tipo di colonizzazione i-niziale è importante perché fortemente rilevante per quella adulta (Guarner & Malagelada, 2003). Il microbiota infantile è quello più soggetto a variazioni, ma in ogni individuo presenta alcune caratte-ristiche peculiari: una maggior percentuale di Bifidobacterium spp.,una maggior presenza di batteri anaerobi facoltativi e minor variabilità di specie rispetto all’adulto (Lozupone et al., 2012). In

(5)

11 seguito, la dieta diventa il maggior fattore ambientale che determina la composizione del microbio-ta: alcuni alimenti possono infatti facilitare la proliferazione di certi organismi più favoriti nella fermentazione di determinati composti (Figura 1.3).

Si è osservato che un’alimentazione arricchita di proteine animali e grassi saturi, tipica delle popo-lazioni occidentali come USA ed Europa, provoca un aumento del genere Bacteroides, mentre una dieta a base di carboidrati e zuccheri semplici, prevalente nelle società rurali in cui gran parte dell’apporto energetico giornaliero deriva da cereali, legumi, frutta e verdura e occasionalmente da prodotti animali, favorisce la proliferazione del genere Prevotella (Guarner & Malagelada, 2003). L’altro importante fattore che influenza il microbiota intestinale è l’ospite, sia con il patrimonio ge-netico (sembra che la presenza di alcuni geni impattino sullo sviluppo del microbiota) (Lee et al., 2013), sia lo stato di salute. Numerose patologie che interessano l’apparato digerente presentano una comunità microbica fecale alterata, come si è osservato nel caso di sindrome dell’intestino irri-tabile (Irritable Bowel Syndrome, IBS) e delle malattie infiammatorie croniche dell’intestino

(In-flammatory Bowel Disease, IBD), tra cui la colite ulcerosa e il morbo di Crohn, che hanno

eviden-ziato una diminuzione del numero di F. prausnitzii (Sokol et al., 2009). Recentemente si è dimo-strato che anche l’obesità compromette la normale composizione e attività del microbiota intestina-le. Sia modelli animali sia studi umani hanno mostrato che, rispetto ad individui magri, i soggetti obesi presentano spesso una diminuzione del numero e della complessità di specie batteriche appar-tenenti al phylum dei Bacteroidetes ed un concomitante aumento dei Firmicutes (Conterno et al., 2011).

1.1.2 Principali funzioni del microbiota intestinale

Principalmente il microbiota svolge due ruoli metabolico, essendo fermentatori soprattutto di car-boidrati e proteine i cui prodotti finali influenzano importanti funzioni fisiologiche, produttori di

vi-Figura 1.3 I cambiamenti nella flora fecale nel corso della vita dell’uomo. Il feto esiste in un ambiente praticamente sterile prima della nascita. Nei primi due giorni, il colon dei neonati inizia a essere colonizzato da Enterobacteriaceae, streptococchi, incluso gli enterococchi, e i clostridi. Tra il 4° e il 7° giorno, i bifidobatteri diventano la popolazione predominante, mentre le altre popola-zioni diminuiscono. Nelle persone più anziane, i bifidobatteri tendono a diminuire, mentre i clostridi, compreso C. perfringens, lattobacilli, streptococchi ed Enterobacteriaceae aumentano (Mitsuoka et al., 1996).

(6)

12 tamine e digestori di acidi biliari, e immunitario, come barriera e competitore nei confronti di orga-nismi patogeni, educando il sistema immunitario e inducendo meccaorga-nismi di tolleranza (Fava, 2014; Sommer & Bäckhed, 2013).

1.1.2.1 Il microbiota intestinale come organo metabolico

Il microbiota partecipa al metabolismo di molti nutrienti che giungono al colon, esprimendo enzimi che l’ospite non è in grado di esprimere, da cui il rapporto di simbiosi tra ospite e microbiota. La prima funzione metabolica svolta dal microbiota intestinale consiste nella fermentazione di poli-saccaridi ed oligopoli-saccaridi derivanti dalla dieta che non vengono digeriti dall’ospite, e parte di mu-co endogeno prodotto dall’epitelio (Guarner & Malagelada, 2003). Una classe importante di alimen-ti privi di valore nutrizionale per l’uomo, solitamente composta da carboidraalimen-ti, è rappresentata dalle fibre alimentari. I prodotti finali principali della fermentazione microbica delle fibre alimentari sono gli acidi grassi a corta catena (Short Chain Fatty Acids, SCFA): acidi grassi saturi con una catena alifatica non più lunga di sei atomi di carbonio, i cui molteplici effetti benefici sul metabolismo e-nergetico dei mammiferi sono stati dimostrati in molti studi recenti (Den Besten et al., 2013; Macfarlane & Macfarlane, 2012). I predominanti nel colon sono l’acido acetico (2 atomi di carbo-nio), l’acido propionico (3 atomi di carbonio) e l’acido butirrico (4 atomi di carbonio). Il metaboli-smo anaerobico di peptidi e proteine a livello del colon (detto anche putrefazione) da parte dei bat-teri porta alla produzione di SCFA ramificati (Branched Chain Fatty Acids, BCFA): isobutirrato, isovalerato e 2-metil-butirrato, derivati dal catabolismo degli amminoacidi valina, leucina e isoleu-cina, rispettivamente (Cummings et al., 1987). La fermentazione delle proteine e di altre ammine provoca però anche la formazione di composti potenzialmente tossici come l’ammoniaca, lo ione HS-, altre ammine, fenoli, tioli e indoli (Guarner & Malagelada, 2003). Come mostrato in Figura 1.4, questi prodotti finali del catabolismo proteico sono tossici all’ospite poiché possono avere

ef-Figura 1.4 Schema riepilogativo del metabolismo di substrati contenenti azoto nel colon, e conseguente importanza fisiologica dei prodotti finali della fermentazione degli amminoacidi (Macfarlane & Macfarlane, 2012). *SCFA = Short Chain Fatty Acids; *BCFA = Branched Chain Fatty Acids.

(7)

13 fetti carcinogeni o mutageni e contribuire allo sviluppo di tumori o altre patologie intestinali.

La concentrazione di questi SCFA varia all’interno del colon in base alla disponibilità dei nutrienti e di conseguenza al tipo di fermentazione che si verifica in ogni scompartimento (Figura 1.5). A livello dell’ileo terminale è stata stimata una concentrazione di SCFA pari a 13 mM, che aumenta fino a 131 mM nel cieco e nel colon ascendente, dove si registra anche il pH più basso (5-6) e una maggior attività fermentativa di tipo saccarolitico. La concentrazione di SCFA scende fino a 80 mM nel colon discendente, portando il pH prossimo alla neutralità, ed ospitando un tipo di attività prin-cipalmente proteolitica con conseguente maggior presenza di BCFA (Cummings et al., 1987). Que-sto influenza la composizione microbica dei diversi tratti intestinali (Den Besten et al., 2013). La caduta di pH iniziale previene la crescita dei batteri patogeni sensibili al pH, come alcuni apparte-nenti alle Enterobacteriaceae e ai Clostridia (Duncan et al., 2009): per esempio, a pH 5,5 i batteri produttori di butirrato, come Roseburia e F. prausnitzii, rappresentano il 20% della popolazione to-tale, mentre nelle parti più distali dove c’è carenza di fibre alimentari fermentescibili, il pH incre-menta fino a 6,5, i batteri produttori di butirrato scompaiono quasi del tutto e i batteri associati ai

Bacteroides produttori di acetato e propionato diventano dominanti (Walker et al., 2005).

Ogni SCFA ha un ruolo fisiologico nel rifornimento energetico (circa il 10% del fabbisogno energe-tico giornaliero; McNeil, 1984), nella proliferazione e nella differenziazione cellulare, e nella rego-lazione immunitaria dell’ospite (Soldavini & Kaunitz, 2013). L’acetato raggiunge tramite il flusso

Figura 1.5 Importanza ecologica e metabolica dei diversi gruppi batterici colonici in relazione al flusso di carbonio e alla fermen-tazione nell’intestino crasso umano (Macfarlane & Macfarlane, 2012).

(8)

14 sanguigno prevalentemente il fegato e i tessuti periferici dove è utilizzato per la respirazione e per la sintesi di colesterolo nel fegato e nel cervello, il propionato e il butirrato sono usati per lo più dai colonociti e dal fegato come risorsa energetica nella gluconeogenesi (Fava, 2014). Il butirrato, pro-dotto principalmente dai clostridi appartenenti ai cluster IV, XIVa e XIVb, è coinvolto anche nei processi di inibizione della proliferazione cellulare e di stimolazione del differenziamento in linee cellulari epiteliali di origine neoplastica, suggerendo una possibile attività di reversione del fenotipo neoplastico (Hinnebusch et al., 2002). Inoltre regola l’omeostasi energetica e insieme all’acido pro-pionico svolge una funzione anti-infiammatoria. Mentre l’acetato viene utilizzato per la lipogenesi a partire dal glucosio in eccesso nel fegato, il propionato la inibisce regolando l’assorbimento dell’acido acetico a livello intestinale (Conterno et al., 2011). Gli SCFA prodotti dalla fermentazio-ne dei carboidrati regolano il rilascio di ormoni da parte delle cellule L dell’intestino, che inibiscono le contrazioni intestinali e le secrezioni pancreatiche e gastriche, riducono l’assorbimento dei nu-trienti, stimolano il rilascio di insulina, promuovono la sazietà e rallentano lo svuotamento gastrico (Conterno et al., 2011). Tutte funzioni che oggi sono sempre più d’interesse per lo studio dei fattori promotori lo sviluppo dell’obesità.

Oltre alle fibre non digeribili, il microbiota partecipa al metabolismo di altri composti nutritivi che hanno effetti positivi sull’organismo, i polifenoli. Essi sono composti presenti in molti tipi di frutta e verdura, e sono assorbiti per lo più a livello del colon grazie alla degradazione microbica, dopo essere stati convertiti in acido fenolico e cataboliti aromatici. Questi metaboliti raggiungono il si-stema circolatorio dove esplicano funzioni fisiologiche associate alla riduzione del rischio di malat-tie cardiovascolari, degli stati infiammatori, del cancro e delle malatmalat-tie neurodegenerative (Del Rio

et al., 2013; Koutsos & Lovegrove, 2014).

Alcuni membri del microbiota intestinale, in particolare specie appartenenti ai generi Bacteroides,

Eubacterium, Clostridium, Lactobacillus e Bifidobacterium, partecipano al metabolismo degli acidi

biliari. Questi composti sono derivati del colesterolo, sintetizzati a livello del fegato e secreti in forma coniugata (con taurina o glicina) nella bile per facilitare il metabolismo dei grassi e l’assorbimento delle vitamine e del colesterolo a livello dell’intestino tenue. La maggior parte degli acidi biliari è riassorbita a livello intestinale per ritornare al fegato, mentre circa il 5% giunge al co-lon dove subisce la de-coniugazione da parte delle idrolasi batteriche (Nicholson et al., 2012; Tuohy

et al., 2014b).

Il microbiota intestinale inoltre è molto importante per la produzione di vitamine: i micronutrienti essenziali che devono essere assunti con la dieta quotidianamente, poiché non sono sintetizzati dall’organismo umano ma gli sono necessari per l’attività di molti enzimi. In uno studio di LeBlanc

(9)

15 sintetizzare de novo vitamine del gruppo B, come l’acido folico, composto che riduce i livelli di omocisteina, fattore di rischio per malattie cardiovascolari (Tuohy et al., 2014b).

Gli effetti metabolici del microbiota intestinale possono in alcuni casi rivelarsi uno svantaggio. È il caso del metabolismo della colina, e di altri composti che la contengono o che presentano una strut-tura simile, come la carnitina e la betaina (Figura 1.6). La colina è considerata un nutriente semies-senziale (Patterson et al., 2008), per le sue funzioni a livello metabolico: dal coinvolgimento nel metabolismo dei lipidi (compreso il colesterolo) e nella struttura delle membrane cellulari (come costituente dei fosfolipidi e della lecitina), al suo ruolo come precursore per la sintesi del neurotra-smettitore acetilcolina, nonché come fonte di gruppi metilici, richiesti per il metabolismo di certi amminoacidi, come omocisteina e metionina (Tang et al., 2013). È stato descritto recentemente il ruolo potenziale di una via metabolica fosfatidilcolina-colina che coinvolge il microbiota intestinale e che contribuisce alla patogenesi di malattie cardiovascolari come l’aterosclerosi delle coronarie in modelli animali (Wang et al., 2011). È stato più volte osservato che diversi batteri presenti a livello del colon sono responsabili della degradazione anaerobica della colina con il conseguente rilascio nel lumen intestinale dell’ammina terminale derivata, la trimetilammina (TMA) (Figura 1.7).

Figura 1.6 (sopra) Strutture chimiche dei compo-sti che contengono lo stesso gruppo terminale (CH3)3N+ (rettangolo tratteggiato rosso), il quale

viene rilasciato nel lume intestinale dopo degrada-zione anaerobica da parte del microbiota intesti-nale, responsabile della produzione di TMA.

Figura 1.7 (a destra) Percorso metabolico riassunti-vo che mostra il legame tra la fosfatidilcolina ingeri-ta con la dieingeri-ta, il microbioingeri-ta intestinale e gli eventi cardiovascolari avversi (Tang et al., 2013). I nu-trienti contenenti colina che raggiungono il colon servono da fonte energetica per il microbiota inte-stinale, producendo TMA, che viene rapidamente ossidata a TMAO dalle monossigenasi epatiche con-tenenti flavina (FMOs). La TMAO facilita l’accumulo di colesterolo nei macrofagi, l’accumulo di cellule schiumose nelle pareti arteriose, e

l’atero-sclerosi: tutti fattori associati a un maggior rischio di infarto, ictus e morte. La colina può essere inoltre ossidata a betaina a livello del fegato e dei reni. La betaina ingerita con la dieta può servire anch’essa come substrato per i batteri e formare così TMA e presumibilmente TMAO. *TMA = trimetilammina; *TMAO = trimetilammina-N-ossido.

(10)

16 La colina e la TMA sono piccole molecole ubiquitarie che giocano un ruolo centrale nei processi biologici in tutti i regni della vita, e sono collegate a una trasformazione biochimica singola. Questa attività metabolica, che contribuisce sia alla metanogenesi che allo sviluppo di alcune malattie uma-ne, si conosce da molto, ma solo recentemente è stata caratterizzata a livello genetico e biochimico (Cohen, 2014). È stato mostrato infatti che diversi batteri solfato-riduttori, appartenenti soprattutto ai generi Desulfovibrio, Clostridium, Streptococcus, Klebsiella e Proteus, possiedono nel loro ge-noma un cluster genico (cluster cut) codificante per un nuovo enzima glicil-radicale, la colina trime-tilammina liasi in grado di scindere il legame C-N della colina e produrre TMA (Craciun & Balskus, 2012) (Figura 1.8). Nello studio di Craciun e Balskus è stato dimostrato attraverso tecni-che molecolari, coltura-indipendenti, tecni-che il cluster genico cut è diffuso antecni-che tra membri di generi batterici di solito non ritenuti in grado di usare la colina, ma completamente assente nel genoma dei

Bacteroidetes.

Dalla TMA, nel colon, può formarsi anche la dimetilammina (DMA), entrambe le molecole si tro-vano normalmente nelle urine e sono precursori della dimetilnitrosammina, un potente carcinogeno (Zeisel et al., 1989). La maggior parte della TMA prodotta, però, attraverso il flusso ematico, passa dal colon al fegato, dove la monossigenasi contenente flavina 3 (FMO3) la ossida a trimetilammina-N-ossido (TMAO), una molecola che si trova in plasma e urine, associata a diverse patologie del fegato, malattie cardio-vascolari e diabete (Tang et al., 2013) (Figura 1.7). La L-carnitina, come la colina, è un composto che si trova in maggior misura nella carne rossa e, essendo convertita in TMA da parte del microbiota, contribuisce al rischio cardiovascolare comunemente associato al consumo di carne rossa (Koeth et al., 2014).

Figura 1.8 Cluster genico correlato alla degradazione anaerobica della colina. Sono mostrati i geni presunti per l’utilizzo della colina (cut), trovati all’interno del genoma del ceppo Desulfovibrio desulfuricans ATCC 27774, e il percorso biochimico proposto per il metabolismo microbico della colina (Craciun & Balskus, 2012).

(11)

17

1.1.2.2 Il microbiota intestinale come organo immunitario

Una caratteristica principale del sistema immunitario è la capacità di discriminare le strutture endo-gene o esoendo-gene che non costituiscono un pericolo e che dunque possono essere preservate (self) dal-le strutture endogene o esogene che invece si dimostrano nocive per l’organismo e che devono esse-re quindi eliminate (non-self). Un vecchio fondamento dell’immunologia classica assumeva che i microrganismi, non appartenendo alle cellule dell’organismo, quindi non-self, erano da considerare potenziali patogeni. La realizzazione della presenza di una comunità così vasta di microrganismi che abitano i tessuti dell’organismo umano ha indotto l’estensione del self anche alle cellule del mi-crobiota. Il sistema immunitario umano del muco intestinale non solo ha sviluppato una tolleranza nei confronti del microbiota, mantenendo comunque la capacità di combattere i patogeni, ma ri-chiede proprio la presenza di questi microrganismi per il suo sviluppo (Sommer & Bäckhed, 2013). Il principale sistema di protezione dell’intestino nei confronti dei patogeni consiste nella barriera fi-sica formata dalle cellule epiteliali e dallo strato mucoso che le ricopre, che oltre a fungere da lubri-ficante e facilitare il trasporto gastrointestinale protegge nei confronti delle invasioni batteriche. Il muco è secreto dalle cellule mucipare caliciformi del colon ed è prevalentemente composto da pro-teine altamente glicosilate, le mucine. Confrontando animali germ-free, nei quali non vive alcun ti-po di microrganismo, con altri cresciuti in maniera convenzionale, si è osservato che i primi hanno meno cellule caliciformi e uno strato di muco più sottile, che però dopo stimolazione con prodotti batterici quali lipopolisaccaridi (LPS) e peptidoglicano viene subito ristabilito (Sommer & Bäckhed, 2013).

Anche lo strato epiteliale ha un’importante funzione nel controllo della permeabilità intestinale: il suo complesso sistema di giunzioni, che mantiene le cellule strettamente legate le une alle altre, ha il compito di selezionare anche le sostanze nutritive, i metaboliti e i microrganismi dal lumen inte-stinale al sistema circolatorio e linfatico. In presenza di uno stato infiammatorio e patologico, si os-serva il malfunzionamento di questa barriera, generalmente definito stato di leaky gut, ovvero una condizione in cui l’intestino non è stagno ma presenta delle fessure che permettono il passaggio di patogeni, tossine, allergeni e metaboliti a livello sistemico, con gravi conseguenze per altri organi. È stato osservato che alcuni membri del microbiota sono in grado di fortificare la barriera intestinale, come i ceppi probiotici Lactobacillus plantarum (Anderson et al., 2010), Escherichia coli Niessle 1917 (Ukena et al., 2007) e Bifidobacterium lactis (Putaala et al., 2008). Questa capacità deriva dal-la loro abilità nell’indurre l’espressione genica delle proteine coinvolte nelle giunzioni strette epite-liali, come l’occludina e la TJP1 (Tight junction protein 1), oppure da prodotti del loro metabolismo fermentativo, come l’acido butirrico, che riduce la permeabilità intestinale e aumenta la resistenza elettrica trans-epiteliale (Conterno et al., 2011; Fava, 2014).

(12)

18 Oltre a stimolare il funzionamento e l’integrità della barriera intestinale, il microbiota stesso agisce da effetto barriera nei confronti dei patogeni: da un lato, compete con gli invasori per i substrati di crescita e occupa le nicchie intestinali, dall’altro secerne sostanze antimicrobiche che inibiscono la crescita di altri microrganismi. Questo può spiegare il fatto che animali germ-free sono più suscetti-bili alle infezioni e che l’assunzione di antibiotici spesso è associata a diarrea (Fava, 2014; Cummings et al., 2004).

Il microbiota intestinale costituisce anche uno stimolo importante per il sistema immunitario asso-ciato alle mucose. I diversi apparati mucosi dell’organismo sono infatti collegati tra loro da un network immunitario e sono accomunati dalla presenza di aggregati di cellule linfoidi che fanno parte di un sistema definito MALT (Mucosal Associated Lymphoid Tissue). Circa la metà di questo sistema è associata al tratto gastrointestinale, che con i suoi oltre 300 m2 di superficie mucosa è il distretto più importante del MALT, e viene più precisamente definito GALT (Gut Associated

Lymphoid Tissue). Esso è caratterizzato principalmente da quattro strutture: le placche di Peyer

(nella mucosa e sottomucosa dal piloro alla valvola ileocecale), l’epitelio follicolo-associato (forma-to dalle cellule M, sovrasta le placche separandole dal lumen), le cellule linfatiche della lamina pro-pria e i linfociti intraepiteliali. I linfociti presenti nelle placche sono per lo più di tipo B differenziati (o plasmacellule), di cui la maggior parte secernenti IgA, anticorpi che vengono trasportati nel lu-men intestinale dove si legano agli antigeni microbici e attivano le altre cellule del sistema immuni-tario. Le cellule M invece hanno la funzione di catturare le macromolecole e i microrganismi del lumen per poi processarli e trasportarli verso il tessuto linfatico sottostante. Nelle altre strutture si trovano le altre cellule effettrici del sistema immunitario e in prevalenza vi sono i linfociti T, a cui sono associati i macrofagi, gli eosinofili e i basofili.

Questi processi immunitari sono importanti sia per controllare le penetrazioni dei batteri commensa-li attraverso la barriera epitecommensa-liale, ma anche per mantenere il mutuacommensa-lismo tra ospite e microbiota, commensa- li-mitando la risposta innata verso quest’ultimo (Sommer & Bäckhed, 2013; Round & Mazmanian, 2009). Queste vie metaboliche possono essere modulate da fattori derivanti dal microbiota, per evi-tare un’eccessiva e potenzialmente dannosa risposta pro-infiammatoria dell’ospite: ad esempio, è stato dimostrato che la continua esposizione agli LPS derivanti dal microbiota porta a desensibiliz-zazione della cascata del segnale infiammatorio attivata dal legame di questi pattern microbici e i recettori extracellulari Toll-like (TLRs) del sistema immunitario innato dell’ospite (Cerf-Bensussan & Gaboriau-Routhiau, 2010).

Non solo la presenza in sé del microbiota regola il sistema immunitario, ma questo è dovuto anche grazie all’insieme dei prodotti della fermentazione microbica. In uno studio su modelli animali di Kim MH et al. (2013), per esempio, è stato evidenziato che gli SCFA, prodotti dai batteri presenti

(13)

19 nell’intestino di topi, possono influenzare il reclutamento dei linfociti, in particolare la chemiotassi dei neutrofili, attivando queste cellule tramite il legame con il recettore. L’acido butirrico in partico-lare è in grado di ridurre la produzione da parte delle cellule epiteliali intestinali della citochina MCP-1 (Macrophage chemoattractant protein 1), dell’interleuchina 6 (IL-6) e dell’interferone gamma (IFN-γ) e, insieme all’acido propionico, di diminuire i livelli di TNF-α (Tumor Necrosis

Factor α) e di ossido nitrico (NO) nei neutrofili. Il butirrato inoltre è in grado di indurre il

differen-ziamento dei linfociti T regolatori. Il microbiota intestinale e la sua attività metabolica che porta alla produzione degli SCFA è quindi in grado di agire in senso anti-infiammatorio, riducendo il rischio di insorgenza di malattie infiammatorie croniche sistemiche come la sindrome metabolica, l’obesità e l’invecchiamento (Fava, 2014).

1.2 Interazione dieta - microbiota - ospite

1.2.1 Modulazione del microbiota intestinale: probiotici e prebiotici

Un microbiota intestinale bilanciato è necessario per la salute umana visto il suo contributo al man-tenimento dell’omeostasi immunitaria, all’assorbimento dei nutrienti e allo sviluppo dell’intestino dell’ospite. Un microbiota sbilanciato infatti è spesso associato alla genesi sia di malattie acute che croniche, come la diarrea infettiva, la sindrome dell’intestino infiammabile, il diabete, il cancro al colon e le enteriti necrotizzanti neonatali. È stato chiaramente dimostrato che il microbiota intesti-nale può essere modulato da molti fattori sia interni che esterni, primo fra tutti la dieta (Gong & Yang, 2012). Per questo motivo si è da tempo iniziato a studiare in che modo attraverso la dieta si possa modulare in senso benefico il microbiota, favorendo la crescita di quei gruppi batterici che promuovono la salute umana e talvolta sfavorendo la crescita dei batteri potenzialmente patogeni. Sul mercato hanno cominciato a prendere piede prodotti alimentari noti con il nome di “cibi funzio-nali”, caratterizzati dalla presenza di componenti (naturalmente presenti o aggiunti) in grado di in-durre degli effetti fisiologici sull’organismo volti al mantenimento della salute o alla prevenzione delle malattie, pur rimanendo alimenti appartenenti ad un regime alimentare normale (Scientific concepts of functional foods in Europe. Consensus document, 1999). Tra i prodotti di questa cate-goria circa il 60% ha come obiettivo proprio l’intestino e sono noti con il nome di probiotici e pre-biotici (Cummings et al., 2004).

I probiotici sono definiti come microrganismi vivi che quando somministrati in quantità adeguata conferiscono un beneficio per la salute dell’ospite (FAO/WHO 2001) (Gregor et al., 2003). Il Gram negativo E. coli Nissle 1917, vari ceppi produttrici di acido lattico appartenenti al genere

(14)

probio-20 tici (Mileti et al., 2009). Gli effetti benefici di questi batteri può essere associato alla loro capacità di produrre vitamine, antiossidanti e defensine contro competitori patogeni. Sono inoltre caratteriz-zati dalla loro capacità di produrre SCFA e non tossine (Roberfroid et al., 2010), e di inibire la cre-scita dei patogeni attraverso vari meccanismi. Molti probiotici quali bifidobatteri e lattobacilli sono batteri Gram positivi, che sulla membrana esterna mancano quindi dei lipopolisaccaridi (LPS), i quali sono elementi batterici tossici, rilasciati in genere una volta che il microrganismo muore. Essi possono ridurre il rischio di infezione competendo con i patogeni per i nutrienti della dieta o per i recettori sulla parete dell’intestino (Lin et al., 2014). Alcune specie appartenenti ad altri generi bat-terici, come Bacteroides, Enterococcus, Eubacterium e Streptococcus, sono attualmente in studio perché potenzialmente benefici per l’ospite. Inoltre anche il produttore di butirrato Roseburia (Duncan et al., 2006) e il batterio che degrada la mucina Akkermansia muciniphila (Everard et al., 2013) sono stati riportati come potenziali probiotici.

Un alimento probiotico deve dunque contenere i batteri benefici vivi, in grado di attraversare le re-gioni del tratto gastrointestinale superiore, di persistere nel colon e lì agire in promozione della salu-te dell’ospisalu-te. I prodotti alimentari che sono solitamensalu-te usati per consalu-tenere i probiotici sono lattici-ni freschi (yogurt, creme di formaggio spalmabili) oppure liofilizzati (Cummings et al., 2004; Steer

et al., 2000).

I prebiotici invece sono componenti non vitali di alimenti che conferiscono un beneficio per la salu-te dell’ospisalu-te associato alla modulazione del microbiota (FAO/WHO 2001). Questi componenti a-limentari sono ingredienti che sfuggono alla digestione da parte degli enzimi dell’ospite nelle regio-ni superiori del tratto gastrointestinale (sono considerate quindi come non-digeribili) e giungono al colon dove fungono da substrati di crescita per il microbiota, stimolando selettivamente lo sviluppo e l’attività di un numero limitato di batteri già presenti nell’ospite che hanno potenzialità benefiche per l’uomo, principalmente bifidobatteri e batteri lattici, piuttosto che i batteri proteolitici e putrefat-tivi potenzialmente pericolosi (Cummings et al., 2004; Steer et al., 2000; Connolly et al., 2010). Recentemente, il consumo di proteine e grassi animali appare più associato in misura sempre mag-giore allo sviluppo di malattie. Inoltre è stato osservato che il microbiota fecale di bambini di origi-ne europea era sostanzialmente differente da quello di bambini provenienti dall’Africa rurale e cor-relato alle sostanziali differenze nelle abitudini alimentari (De Filippo et al., 2010).

I prebiotici più comunemente presenti nell’alimentazione umana appartengono alla classe di macro-elementi definiti come fibre alimentari, sostanze altamente complesse che includono carboidrati non digeribili e lignine di origine vegetale, amidi resistenti e polisaccaridi non amidacei. In base alla lo-ro struttura chimica, i prebiotici sono stati classificati principalmente in due gruppi: i fruttani tipo inulina (Inulin-type fructans, ITF) e i galatto-oligosaccaridi (GOS) (Martinez, 2014). Si possono

(15)

21 suddividere in due gruppi anche in base alla loro solubilità in acqua. Tra le fibre idrosolubili tro-viamo l’inulina, i frutto-oligosaccaridi (FOS), i galatto-oligosaccaridi (GOS), gli amido resistenti e i polisaccaridi non amidacei (come polidestrosio, xilani, gomma di guar); tutti questi composti si tro-vano generalmente in frutta, verdura e legumi, hanno la capacità di attrarre l’acqua formando un gel viscoso che rallenta lo svuotamento gastrico e l’assorbimento dei macronutrienti dall’intestino, e sono altamente fermentabili da parte di alcune specie batteriche intestinali (Shen et al., 2012). Le fibre insolubili invece, come la cellulosa o la lignina, sono scarsamente fermentescibili e agiscono accelerando il transito intestinale grazie ad un aumento della massa fecale, riducendo l’esposizione delle mucose a composti genotossici e carcinogenici (Costabile et al., 2012).

I composti che ad oggi mostrano un’attività prebiotica ormai consolidata sono i fruttani, carboidrati formati da ripetizioni di fruttosio; quelli a catena corta sono detti frutto-oligosaccaridi (FOS), men-tre quelli a catena più lunga sono noti come inuline. È stato ripetutamente dimostrato infatti che questi composti aumentano il numero di bifidobatteri fecali sia in vitro che in vivo (Tuohy et al., 2014a). Una dieta ricca di fibre, come quella che prevede un alto consumo di cereali integrali, dun-que ha un effetto benefico sulla salute (Kaczmarczyk et al., 2012), perché la ricchezza in carboidrati non digeribili promuove l’attività saccarolitica (e non putrefattiva) del microbiota nel colon e una conseguente produzione di SCFA. È stato mostrato che il microbiota si arricchisce di Bacteroidetes, specialmente Prevotella e Xylanibacter, aumenta il numero di Bifidobacterium spp., dei clostridi del cluster XIVa e del F. prausnitzii, e riduce la densità di Firmicutes ed Enterobacteriaceae (Lin et al., 2014).

Infine, anche polifenoli puri o i cibi ricchi di polifenoli, come cacao, te, vino, prodotti a base di soia e frutta, possono influenzare significativamente la composizione del microbiota intestinale, aumen-tando il numero sempre di bifidobatteri e lattobacilli, marker microbiologici di salute intestinale, e quindi possono essere classificati come possibili prebiotici (Etxeberria et al., 2013).

1.2.2 Metabolismo microbico della fosfatidilcolina e rischio cardiovascolare

Il microbiota intestinale può essere coinvolto anche nella produzione di composti tossici, quali la trimetilammina (TMA) che, essendo convertita a livello epatico in trimetilammina-N-ossido (TMAO), aumenta il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari (Shen et al., 2014; Tang et al., 2013). La produzione microbica della TMA sembra si origini da due fonti principali, la fosfatidilco-lina/colina e la L-carnitina (Koeth et al., 2013). Inizialmente, nello studio di Wang et al. (2011), ef-fettuato presso il Center for Cardiovascular Diagnostics and Prevention al Cleveland Clinic Lerner Research Institute, sono state analizzate moli di dati di spettrometria di massa, attraverso i quali è stato notato che, tra più di 6000 composti provenienti da 50 vittime di malattie cardiovascolari, un

(16)

22 set di metaboliti era strettamente correlato alla digestione della fosfatidilcolina, ed è stata messa in associazione con il rischio di infarto, ictus o morte. Tra quei composti era stata messa in evidenza la TMAO, alla quale è stata attribuita un’origine microbica. In studi in vivo successivi, lo stesso grup-po di lavoro guidato da Hazen (Tang et al., 2013) ha dimostrato la correlazione tra la presenza di TMAO nei fluidi umani e il microbiota intestinale. Era stato osservato infatti che sopprimendo il microbiota intestinale, con la somministrazione di antibiotici, i livelli di TMAO endogeno non era-no più rilevabili. In questo studio è stata iera-noltre messa in evidenza la differenza nel metabolismo fra persone onnivore e vegetariane/vegane. In queste ultime i livelli di TMAO erano significativamente più bassi e la loro capacità di sintetizzare TMAO dalla carnitina e dalla colina era molto ridotta ri-spetto ai soggetti onnivori. Lo studio umano condotto su pazienti di varia età, provenienza e stato di salute, ha inoltre dimostrato quali fattori erano riconducibili ad un più alto rischio di sviluppo di e-venti cardiovascolari avversi: l’età avanzata, un alto livello di glicemia, la presenza di ee-venti car-diovascolari avversi precedenti, di diabete o di ipertensione. Infine i soggetti affetti da precedenti eventi cardiovascolari avversi mostravano nel plasma e nelle urine un livello di TMAO basale più alto rispetto a quelli che non ne avevano mai avuti. In realtà, come sintetizzato nella pubblicazione di Tang e Hazen (2014) il microbiota intestinale è responsabile della produzione di TMA, sarà poi l’organismo ospite a convertirla in TMAO a livello epatico.

Alla luce di questi risultati si è ancora una volta evidenziato il ruolo importante della dieta nel man-tenere un microbiota intestinale sano e nella prevenzione di certe condizioni patologiche. È infatti importante agire sulla dieta piuttosto che ricorrere, se non in condizioni di emergenza, all’assunzione di antibiotici specifici, il cui uso eccessivo, inducendo antibiotico resistenza nei mi-crorganismi ne diminuisce l’efficacia. Si dovrebbe invece puntare all’alimentazione integrata con probiotici e prebiotici, e soprattutto dovrebbero essere adottati regimi alimentari che prevengano la formazione di sostanze tossiche nell’organismo anche non apportando in eccesso composti come la colina e L-carnitina. È stato ipotizzato che il consumo di questi nutrienti alimentari, presenti in maggior quantità nella carne rossa, e la loro conversione in TMA possano avere un effetto dannoso sul sistema cardiovascolare e promuovere l’aterosclerosi. Oltre al rischio di eventi cardiovascolari avversi, la digestione della carne rossa da parte del microbiota intestinale è associata anche al ri-schio di cancro colorettale. Si è visto infatti che, in aggiunta ai composti trovati nella carne (quali proteine, gruppo eme) e quelli generati dal processo di cottura (quali composti nitrosi, ammine ete-rocicliche), l’aumentata fermentazione batterica delle proteine non digerite e la produzione dei me-taboliti batterici derivati dagli amminoacidi possono interferire con le funzioni e il rinnovo delle cellule epiteliali del colon. Questo di fatto potrebbe spiegare come il cancro al colon si sviluppi principalmente a livello del colon distale e del retto, dove l’attività proteolitica avviene

(17)

maggior-23 mente (Kim E et al., 2013). In contrasto con questo, diversi studi dimostrano invece che la L-carnitina ha effetti benefici contro alcune condizioni patologiche che includono la resistenza all’insulina e cardiopatie ischemiche. Controverso il caso del pesce che rappresenta una fonte più significativa di TMA, con successiva produzione epatica di TMAO, ma il cui consumo è stato asso-ciato più volte ad effetti benefici sulla salute cardiovascolare (Ussher et al., 2013), sottolineando la necessità di condurre ulteriori studi (Lin et al., 2014).

1.3 Studio della composizione del microbiota intestinale

Nel passato, la determinazione dei cambiamenti del microbiota e delle sue funzioni corrispondenti in risposta a trattamenti dietetici è stata una sfida, dovuta in maggior misura alle limitazioni delle tecnologie microbiologiche convenzionali. Con il compimento dei progetti sul genoma umano (e non solo) e con quello ancora in corso sul microbioma umano (http://commonfund.nih.gov/hmp), sono diventate disponibili per lo studio del microbiota intestinale nuove tecnologie high throughput rivoluzionarie caratterizzate da coltura-indipendenza, alta efficienza e calcolo rapido,. La scelta sul metodo da utilizzare dipende dal quesito sperimentale a cui si intende rispondere, ma anche dalle restrizioni poste dal tempo e dai costi associati al loro utilizzo (Gong & Yang, 2012). Il grande van-taggio di tutte queste tecniche è la possibilità di potersi svincolare dalla coltura batteriologica, che inizialmente era l’unica disponibile, dal momento che molte delle specie batteriche del microbiota intestinale non possono essere coltivate o son difficili da isolare a causa della loro bassa concentra-zione in proporconcentra-zione ad altre specie. Dunque poiché sia le tecniche coltura-dipendente sia quelle coltura-indipendente hanno i loro vantaggi e svantaggi, la strategia migliore da adottare per lo stu-dio dell’ecologia del microbiota consiste nell’uso integrativo di entrambi gli approcci.

1.3.1 Tecniche coltura-dipendenti

Le tecniche coltura-dipendenti si basano su colture selettive e su saggi morfologici, biochimici e fi-siologici. I vantaggi di queste tecniche sono l’abilità di studiare le funzioni fisiologiche di batteri vivi, la disponibilità di colture batteriche pure, la loro utilità per la rilevazione di patogeni specifici dell’intestino, la loro comodità per test di suscettibilità antibiotica e per la genotipizzazione di isola-ti colturali (Suchodolski, 2011). Come menzionato sopra, però, quesisola-ti approcci per studi del micro-biota intestinale sono limitati, visto che il 40-90% dei batteri che lo costituiscono non sono coltiva-bili in laboratorio (Zoetendal, 2004). Questo svantaggio è determinato dalla selezione imposta dal mezzo e dalle condizioni di coltura: esigenze nutrizionali del batterio sconosciute, stress delle pro-cedure e anaerobiosi stretta per la maggior parte delle specie. In coltura pura inoltre non è possibile

(18)

24 studiare le interazioni dei batteri con gli altri batteri e con le cellule dell’ospite incontrate nell’ambiente naturale e complesso dell’intestino (Nocker et al., 2007). Inoltre, la conta batterica tradizionale può produrre risultati erronei a causa della complessità del microbiota e, in generale, le tecniche coltura-dipendenti richiedono tempo e lavoro non indifferenti (Zoetendal et al., 2004).

1.3.2 Tecniche coltura-indipendenti

Le tecniche che non richiedono la coltivazione di batteri, ma che sono basate sul DNA e altri ele-menti molecolari, rientrano nei metodi di analisi coltura-indipendenti. Questi approcci permettono di studiare in modo più comprensivo la diversità e la struttura della comunità batterica, sia a livello qualitativo che quantitativo (Eckburg et al., 2005; Gong & Yang, 2012). Le tecniche più usate in questo campo sono l’analisi DNA profiling basato sulla PCR (Polymerase Chain Reaction), la PCR quantitativa (qPCR), la FISH (Fluorescent In Situ Hybridization), la citometria a flusso, il sequen-ziamento del DNA e il DNA microarray.

Il marker molecolare più usato per studi di filogenia tra i procarioti è il gene codificante per l’RNA ribosomiale della subunità 16S (rRNA 16S), essendo un elemento del genoma conservato in tutti gli eubatteri con una dimensione relativamente piccola (circa 1,5 kb), ma con un appropriato equilibrio tra conservazione e variabilità sufficiente per distinguere fra le differenti specie e i ceppi, e abba-stanza similarità per identificare i batteri appartenenti allo stesso gruppo filogenetico (Sekirov et al., 2010). L’unico svantaggio di questo gene è che si può trovare nel genoma in più copie e quindi ren-de l’enumerazione batterica meno accurata. Per questo, in alcuni studi si trova preferenzialmente l’uso di altri geni come il cpn60, codificante per la subunità 60 kDa della chaperonina HSP60/GroEL, più corto e più specifico rispetto al rRNA 16S, uniformemente distribuito e soprat-tutto presente come singola copia (Hill et al., 2004).

Tra le tecniche di identificazione del profilo genomico largamente usate per caratterizzare il micro-biota intestinale si trovano la DGGE (Denaturing Gradient Gel Electrophoresis), la TGGE

(Tempe-rature Gradient Gel Electrophoresis), l’SSCP (Single Strand Conformation Polymorphism) e la

T-RFLP (Terminal-Restriction Fragment Lenght Polymorphism) (Gong & Yang, 2012). Anche se i principi e le procedure applicati sono differenti, queste tecniche impiegano sequenze nucleotidiche, come i primers impiegati nella PCR che bersagliano il gene dell’rRNA 16S per amplificare quella regione genomica. Con la DGGE o la TGGE, la separazione successiva degli ampliconi si basa sul comportamento di fusione di questi specifico per ogni sequenza. Nella SSCP, gli ampliconi sono separati in base alla diversa struttura secondaria di un filamento singolo di DNA. Nella T-RFLP gli amplificati sono digeriti da enzimi di restrizione che generano dei frammenti di restrizione con le estremità fluorescenti e questi poi sono identificati con elettroforesi appropriate. Ognuna di queste

(19)

25 tecniche porta all’isolamento di sequenze nucleotidiche che possono essere rivelate, tramite sequen-ziamento, per ottenere maggiori informazioni sull’identità tassonomica.

La qPCR è un metodo comunemente usato per misurare la densità della popolazione batterica del microbiota intestinale o di specifiche sub-popolazioni (Zoetendal et al., 2004). La quantificazione è ottenuta misurando la fluorescenza emessa da coloranti intercalanti (ad esempio il SYBR® green) il DNA o da sonde oligonucleotidiche ibridate al DNA durante l’amplificazione in modo proporziona-le alla sua quantità. L’attrezzatura impiegata per la qPCR è in grado di registrare e misurare la quan-tità di fluorescenza emessa dai prodotti della PCR accumulati ad ogni ciclo di amplificazione (real

time). Essendo questo accumulo proporzionale alla concentrazione di DNA target iniziale,

l’intensità della fluorescenza è correlata alla concentrazione del DNA target nel campione, che è a sua volta proporzionale alla prevalenza del batterio target. L’uso di uno standard consente la quanti-ficazione assoluta. Questa tecnica è molto più sensibile della FISH o del DNA microarray e fornisce misure molto più accurate, ma è limitata alla misura di una o poche specie batteriche per saggio, ol-tre a presentare le limitazioni relative alla presenza di copie di gene target in numero diverso in ge-nomi appartenenti a specie diverse dello stesso gruppo che si vuol quantificare (Gong & Yang, 2012).

Anche la FISH è comunemente usata per studi sulla composizione del microbiota intestinale (Zoetendal et al., 2004; Connoly et al., 2010). Sonde oligonucleotidiche marcate con coloranti fluo-rescenti hanno come target l’rRNA 16S specifico di specifici gruppi batterici. Attraverso l’ibridazione con sonde fluorescenti le cellule batteriche, associate ai tessuti dell’intestino o presenti nelle feci, possono essere visualizzate e contate con l’ausilio di un microscopio a epifluorescenza o mediante citometria a flusso. La FISH ha i vantaggi di essere quantitativa, automatizzata se combi-nata con la citometria a flusso o all’analisi dell’immagine al computer. È in grado di fornire la di-stribuzione spaziale dei batteri bersaglio nell’intestino. Inoltre, la FISH può rilevare i batteri non coltivabili senza arricchimento, anche se la sensibilità di questa tecnica è relativamente bassa rispet-to alle altre e la sequenza dei geni target deve essere disponibile nei database (Gong & Yang, 2012). La citometria di flusso, pur velocizzando la conta batterica e consentendo la separazione delle cellu-le, è abbastanza costosa e comporta una preparazione tecnica specifica per l’analisi dei dati sofisti-cata; infine la sensibilità della citometria è molto limitata a causa delle piccole dimensioni dei batte-ri (Wang et al., 2010).

Le nuove tecniche di sequenziamento del DNA sono dei metodi potenti per identificare la composi-zione del microbiota da varie specie (Eckburg et al., 2005). Con lo sviluppo del sequenziamento di nuova generazione (Next Generation Sequencing, NGS), attraverso tecniche come il pirosequen-ziamento 454, Illumina e SOLiD, si è massimizzata la risoluzione tassonomica, l’efficienza e la

(20)

26 sensibilità degli esperimenti, tuttavia ancora a costi relativamente elevati ed un’analisi bioinformati-ca estensiva.

Il DNA microarray è invece un saggio high throughput basato sull’ibridazione DNA-DNA, che permette di analizzare migliaia di geni in un singolo esperimento, con maggior efficienza e velocità d’analisi del sequenziamento ma a costi più elevati, una gestione complessa di una grossa numerosi-tà di dati ed i limiti determinati dall’ibridazione (Gong & Yang, 2012).

1.4 Modelli in vitro per lo studio del microbiota intestinale

A causa della difficoltà ad accedere ai principali siti dell’intestino, sono stati sviluppati modelli in

vitro per monitorare dinamicamente i processi microbici simulando il più verosimilmente le

condi-zioni all’interno di un organismo (Payne et al., 2012; Venema & van den Abbeele, 2013).

Questi modelli variano da semplici colture di tipo batch a complessi sistemi continui multi-compartimentali (Figura 1.9). Alla base di ogni modello di fermentazione vi è il principio secondo cui in un chemostato, semplice o multistadio, vengono inoculate feci umane e il microbiota fecale derivato viene mantenuto in crescita in anaerobiosi, a temperatura e pH controllati (Macfarlane et

al., 1998). La complessità dei modelli di fermentazione in vitro aumenta con il numero degli stadi

riprodotti dai chemostati, con i quali si cerca di simulare il colon intero. Il principale vantaggio di questi modelli in vitro è la possibilità di fornire delucidazioni in merito alle diverse fasi del processo

Figura 1.9 Tipi e caratteristiche di processo dei modelli delle fermentazioni coloniche in vitro che simulano le regioni del colon prossimale (R1), trasverso (R2) e distale (R3), operate a pH e temperatura (37°C) costanti e specifiche della sezione fisiologica, e sotto condizioni di anaerobiosi stretta (per esempio, attraverso insufflo di CO2 e N2 nello spazio di testa). Profili di fermentazione

(21)

27 di fermentazione permettendo il campionamento dinamico nel tempo in differenti regioni consecu-tive del colon umano. Essendo modelli standardizzati, essi forniscono anche risultati di una certa ri-producibilità. Infine, non meno importante, si tratta di esperimenti senza costrizioni etiche, per cui i patogeni, i composti tossici o radioattivi possono essere usati senza l’approvazione etica. Questi ap-procci in vitro sono comunque studi meccanicistici che sviluppano ipotesi che necessitano comun-que successiva conferma attraverso studi clinici in vivo (Venema & van den Abbeele, 2013). La se-lezione del modello di fermentazione appropriato richiede una valutazione attenta degli obiettivi dello studio considerati i vantaggi e gli svantaggi esibiti da ogni tipo di sistema.

1.4.1 Fermentazioni coloniche in colture tipo batch

È il modello in vitro più semplice, rapido e facile da installare, generalmente utilizzato per studi di fermentazione iniziali. Consiste in un chemostato di coltura in batch, ossia in un sistema chiuso nel quale il terreno di crescita non viene mai ripristinato con terreno fresco, né eliminato quando esauri-to: in questo modo i batteri crescono fino al raggiungimento dello stato stazionario, ma a fine fer-mentazione muoiono per mancanza di nutrienti e/o accumulo di composti di rifiuto tossici (Figura 1.9). Questo intervallo di tempo (in genere di 24-36 ore) è sufficiente per osservare la capacità fer-mentativa del microbiota intestinale di particolari substrati, dosati all’inizio della fermentazione, come componenti alimentari quali fruttani, tipo l’inulina, o amidi resistenti e altri carboidrati com-plessi di cui si vuole investigare l’effetto prebiotico (Steer et al., 2000). Per la crescita è necessario riprodurre le condizioni presenti all’interno dell’intestino e quindi un ambiente strettamente anaero-bico, una temperatura di 37°C e un pH pari a quello della porzione di colon che si intende ricreare e

Figura 1.10 Schema di una fermentazione di coltura fecale in batch a pH e temperatura controllate (Macfarlane & Macfarlane, 2007). Il pH è controllato da pH-metri che sono sia collegati a un elettrodo che misura il livello di pH all’interno del chemostato e sia a dei contenitori con base e acido, che pompa all’interno qualora il pH vari oltre i limiti previsti. La temperatura è mantenuta costante dal bagnetto, mentre l’anaerobiosi da gas inerte sterile (N2) gorgogliante al suo interno.

(22)

28 a seconda del tipo di substrato che si intende fermentare (Figura 1.10). Nel colon prossimale, sede principale della fermentazione microbica dei carboidrati, il pH è pari a circa 5,5, mentre nel colon trasverso e distale, dove avviene maggiormente la fermentazione delle proteine, il pH diventa sem-pre più basico (intorno a 7). Col proseguire della fermentazione, la concentrazione del substrato di-minuisce e quella dei metaboliti microbici acidi prodotti aumenta. Per poter osservare la capacità fermentativa del microbiota si utilizzano allora colture di tipo batch a pH controllato, per ovviare alla innaturale selezione microbica che la variazione di pH comporterebbe.

1.4.2 Colture continue

Sono stati messi a punto anche dei sistemi a flusso continui o semi-continui, a lungo termine, che replicano meglio le condizioni presenti all’interno dell’intestino umano: ricorrenti rimozioni di biomassa e aggiunta di terreno fresco permettono di mantenere la comunità microbica allo stato sta-zionario. Essi esistono come sistemi a singolo o multistadio.

I modelli a singolo stadio sono di solito usati per studiare le funzioni e l’attività metabolica del co-lon prossimale poiché il digerito misto proveniente dal ceco e dal coco-lon ascendente è ben simulato in questo modo (Macfarlane & Macfarlane, 2007). Questo modello è stato usato per esempio per investigare il meccanismo d’infezione di Salmonella nei bambini come la colonizzazione dell’intestino infantile (Le Blay et al., 2009).

Figura 1.11 Schema di coltura fecale continua a tre stadi a pH e temperature controllati (Macfarlane & Macfarlane, 2007). Il ter-reno di crescita sterile è versato nel vessel 1 (colon prossimale) e sequenzialmente alimenta il vessel 2 e il vessel 3 (colon trasverso e distale). I sistemi di controllo sono uguali a quelli descritti in Figura 1.10.

(23)

29 La funzione colonica umana viene svolta dalle tre regioni del colon (ascendente, trasverso e discen-dente), nelle quali è stata dimostrata una differenza sia dell’attività metabolica che delle comunità microbiche. Per meglio riprodurre la complessa attività del colon il migliore è il sistema a tre stadi in coltura continua validato da Macfarlane et al. (1998) (Figura 1.11). Questo modello consiste in tre chemostati in serie, ognuno dei quali è mantenuto ad un pH diverso corrispondente ad una por-zione distinta del colon: il primo mima il colon prossimale (pH 5,5), il secondo, il colon trasverso (pH 6,2), e il terzo, il colon distale (6,8). Il sistema di fermentazione a tre stadi è stato disegnato per mimare le caratteristiche spaziali, temporali, nutrizionali e fisico-chimiche del microbiota lungo tut-to l’intestino ed è statut-to validatut-to mediante misurazioni chimiche e microbiologiche del contenutut-to in-testinale ottenuto da vittime umane di morte improvvisa. Questi modelli sono risultati essere un grande vantaggio per lo studio del profilo fermentativo di un determinato substrato, un componente della dieta in grado di modulare il microbiota, favorendo o meno la crescita di determinati gruppi, e di convertirsi in metaboliti a seguito della sua fermentazione batterica (Payne et al., 2012).

1.4.3 Analisi delle fermentazioni del microbiota intestinale

Nel corso della fermentazione in vitro vengono effettuati dei campionamenti a intervalli di tempo definiti, e il campione prelevato viene sottoposto poi ad analisi chimiche e microbiologiche per va-lutare:

a. la composizione del microbiota, utilizzando uno dei metodi molecolari coltura-indipendenti descritti al paragrafo 1.2.2;

b. l’attività del microbiota, mediante la quantificazione dei metaboliti prodotti o dei composti consumati, quali gli SCFA, i polifenoli, la TMA e la colina. Per l’analisi dei metaboliti pro-dotti si utilizzano metodiche di chimica analitica e metabolomica come la cromatografia li-quida associata a spettrometria di massa in tandem (LC-MS/MS) o la gas cromatografia ac-coppiata a spettrometria di massa (GC-MS), in base allo stato del composto in analisi. Si tratta di metodi comunemente usati grazie alla loro elevata risoluzione, eccellente sensibilità e a una strumentazione relativamente economica (Zhao et al., 2006; Shim & Baek, 2012). In alternativa si possono utilizzare altri saggi chimici o enzimatici, come il saggio spettrofotometri-co di ossidazione della spettrofotometri-colina (Woollard & Indyk, 2000), che richiedono spettrofotometri-costi e un livello di espe-rienza dell’operatore inferiori, ma hanno una minor accuratezza.

Negli ultimi anni è stata sviluppata un’altra tecnica per l’identificazione coltura-indipendente e la determinazione simultanea dell’incorporazione di isotopi non radioattivi all’interno di cellule mi-crobiche, grazie all’accoppiamento della FISH con la microspettroscopia Raman (Huang et al., 2007). In questo modo le cellule, che durante la crescita hanno incorporato anabolicamente un

(24)

iso-30 topo non radioattivo, risultano marcate con quell’isotopo e all’analisi al microscopio associato allo spettrometro Raman mostrano nei picchi spettrali uno shift rosso chiave, rispetto a quelle che non sono marcate (Figura 1.12). Il rapporto dello spostamento dei picchi (red shift ratio, RSR) così cal-colato è strettamente correlato con il contenuto dell’isotopo nelle cellule. Berry et al. (2015) hanno evidenziato come attraverso questa tecnica sia possibile mostrare in modo accurato quali popolazio-ni batteriche incorporano il deuterio dopo essere cresciute in terreno contenente acqua deuterata, e-videnziando l’attività metabolica della cellula.

1.5 Scopo della tesi

Lo scopo principale del lavoro sperimentale descritto in questa tesi, svolta presso i laboratori del Centro Ricerca e Innovazione della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige (TN), Di-partimento di Qualità Alimentare e Nutrizione, gruppo di Nutrizione e Nutrigenomica in collabora-zione con la divisione di Microbial Ecology del Dipartimento “Microbiology and Ecosystem Scien-ce” dell’Università di Vienna, è stato quello di studiare la risposta metabolica del microbiota inte-stinale umano alla presenza di colina, in particolare la variazione qualitativa e quantitativa di deter-minate specie microbiche in relazione alla produzione di trimetilammina (TMA), attraverso un mo-dello di fermentazione fecale in vitro.

Per raggiungere tale obiettivo, sono state allestite fermentazioni del microbiota intestinale umano in coltura di tipo batch con controllo di pH, a temperatura controllata, in anaerobiosi stretta, in presen-za di colina o di un digerito di carne. Durante queste fermentazioni è stata misurata:

i) l’evoluzione della popolazione microbica in risposta alla presenza di colina e di un dige-rito di carne a confronto con l’effetto determinato dal prebiotico l’inulina;

Figura 1.12 Spettro Raman di singole cellule di E. coli cresciute in fase stazionaria in un mezzo contenente acqua pesante (0, 2,5, 5, 10, 15, 20, 30, 50 e 100% di D2O dell’acqua di crescita). Nello spettro si nota il caratteristico shift, tra 2000 e 2500 cm-1,

deter-minato dalla presenza del legame C-D, formatosi per incorporazione del deuterio nelle cellule (Berry et al., 2015). AU = unità ar-bitraria.

(25)

31 ii) la risposta metabolica alla presenza di diverse concentrazioni di colina, anche per poter realizzare un successivo disegno sperimentale che prevede l’uso di colina marcata con l’isotopo C13;

iii) l’attività metabolica in presenza di colina in soluzione acquosa contenente acqua deute-rata.

Per valutare l’impatto sulla composizione del microbiota intestinale si è utilizzato un metodo mole-colare coltura-indipendente, la FISH. Per determinare la produzione di TMA è stato messo a punto il metodo di analisi mediante gas-cromatografia accoppiata alla spettrometria di massa (GC-MS), successivamente applicato alla quantificazione di TMA, prodotta durante le fermentazioni in coltura

batch, da parte del microbiota intestinale. Il consumo di colina è stato misurato tramite saggio

en-zimatico spettrofotometrico, previamente messo a punto, a partire dai metodi proposti in letteratura, determinando successivamente la quantità di colina libera residua dopo 24 ore di fermentazione. Infine, in base ai dati ottenuti, nella seconda fase del progetto di tesi, si è sviluppato un successivo disegno sperimentale di fermentazione in vitro che prevede l’uso della colina marcata con isotopi non radioattivi (C13) in presenza o assenza di un antibiotico (la polimixina B).

Riferimenti

Documenti correlati

Among the arrested was Mariana Pequena, a former slave whose life began in Angola, who claimed that she had been converted to Judaism by her former lover, a Portuguese New Christian

Dato che per l’appunto la presente ricerca vuole indagare come sono stati vissuti gli anni del post- socialismo in Moldova, da parte della comunità moldava in Italia, sono

Questo, unito alla diffusione della motorizzazione privata (conseguenza del maggiore benessere delle famiglie), riduce costi e tempistiche per lo spostamento di merci,

A seguito dei trasferimenti delle amministrazioni nelle località della RSI , gli organi predisposti alla politica persecutoria riprendono la loro opera lungo la sponda gardesana del

Turning to accountability, the objectivity and transparency of information are probably the greatest contributions to democracy by parliamentary informatics projects..

La pianificazione delle attività, la definizione della strategia e il piano di revisione non sono tre processi separati o sequenziali ma anzi sono strettamente correlati tra loro e

• F. Abagnato, Sistemi teatrali: competenze, convenzioni, contributi, in “Economia della Cultura”, a. Guerra, Le Fondazioni nel settore culturale: il caso di Musica per Roma, in

28 Fredman, ‘Redistribution and Recognition: Reconciling Inequalities’ (n 5) 221.. social condition: a middle ground between the various approaches currently found in the