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DAVID DABYDEEN LA CARRIERA DI UNA PROSTITUTA (A HARLOT’S PROGRESS)

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Academic year: 2021

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DAVID DABYDEEN

LA CARRIERA DI UNA PROSTITUTA

(A HARLOT’S PROGRESS)

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Prologo

22 aprile 17-- . Mr. Pringle è seduto al tavolo nella soffitta di Mungo, un

tavolo che Mungo utilizza come scrivania, per mangiare e sfogliare la Bibbia. Sistema i fogli bianchi in una pila ordinata. Immerge la punta della penna nel calamaio e la muove con ansia, in attesa di una parola. Questa è la terza visita ma almeno aveva iniziato, se non altro, ad annotare la data dell'incontro.

Mungo è rannicchiato nel suo letto, completamente avvolto in una coperta nuova, un regalo del Comitato Abolizionista, che da mesi lo rifornisce di cibo e abiti. Egli si dimostra ingrato. Non ricambierà la loro benevolenza con il dono della confessione.

"Bisogna pur dire qualcosa," esorta Mr. Pringle, “ci deve essere una storia.” Tira fuori la penna dal calamaio e osserva Mungo con lo sguardo implorante di un cane.

Mungo, padrone della situazione, guarda con occhi socchiusi Mr. Pringle, come se a stento scorgesse il profilo dell'uomo più giovane. Fa uno sforzo eroico per inclinare la testa verso Mr. Pringle, e nel mentre si lamenta.

"Un inizio, Mungo”, lo supplica Mr. Pringle, ma Mungo è completamente sordo. Mr. Pringle avvicina la sedia al letto così che Mungo possa leggergli le labbra. "Un i-ni-zio.” dice, e Mungo annuisce a stento. Mr. Pringle riaccosta la sedia al tavolo, afferra la penna e attende. Fa dei ghirigori sulla data, disegnando una serie di orecchie, alcune pendenti e mutilate, altre come le teste dei narcisi che aveva visto sul ciglio della strada durante il viaggio verso la soffitta; narcisi dai colori vivaci contro il gelo offuscato della città, sprezzanti nel proclamare la loro sopravvivenza nella novità, una nuova stagione, un nuovo inizio.

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Certo, un uomo, persino un negro, è tenuto ad essere rispettoso verso la carità altrui, sebbene preferisca fare incetta del passato e tenerlo da parte per i tempi duri. D‟inverno, in Inghilterra, ogni volta che un uomo apre bocca si forma un pennacchio di ghiaccio, che egli può risucchiare appagato. Il freddo ti entra nelle ossa, non sono mai stato uno che si lamenta di quanto mi manchi il caldo tropicale dell‟Africa. Ed è la vecchiaia, e il lavoro, che nel corso degli anni curvano la mia schiena, non come i bianchi che contro il freddo pungente si raggomitolano per tenersi caldi e restano nella stessa posizione anche quando sorge il sole, come se fossero menomati e paralizzati dalla memoria. La memoria non essere mio problema, ecco perché non racconto niente a Mr. Pringle. Posso cambiare la memoria, così come posso cambiare posizione, scalzar via la coperta, saltar fuori dal letto, fare uno o due passi di cotillon, e farfugliare in quelle sue pagine bianche le sillabe più esuberanti. Ma un uomo deve essere grato e alimentare la curiosità di Mr. Pringle in cambio di tutta la pietà che lui riversare su di me, lo scellino qui, le brache nuove lì.

Mr. Pringle fa domande, scrive e prende nota delle risposte di Mungo che sono concise al limite della rozzezza. Mungo dice che non riesce a ricordare il

nome del suo villaggio ma “sembrare Barambongdodo.” “Da qualche parte in Africa”.

Domanda: mi racconti qualcosa sul paesaggio dove sei nato? Risposta: un posto caldo. L'unica caratteristica del paese che gli è rimasta in mente è il caldo. Di fronte alle variazioni della mia domanda, volte a stimolare la sua memoria, ripete soltanto: "caldo-posto caldo". A quanto pare non c'erano né uccelli, né animali selvaggi, né alberi; tutto ciò è assurdo. Ritengo che sia agli stadi iniziali della demenza, provocata dalle tribolazioni della vita di un Negro ma anche dall'età avanzata. Dopo un periodo di silenzio opprimente, steso a letto come un'immagine di rigor mortis, all'improvviso si tira su dritto e mi sussurra: "Caldo-posto caldo. Fuoco! Foco! La Foresta Morta bruciare. Bianco. Il mondo diventare bianco-bianco, fumo, folto come barba di Manu." Dopodiché si butta all'indietro sul letto, fissa il soffitto e si addormenta con gli occhi aperti.

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Rendendosi conto che Mungo è un archivio dissestato, Mr. Pringle decide di colorire e popolare un paesaggio di sua fantasia, concedendo così a Mungo il dono dell'intelligenza ed eloquenza. Questo perché il libro che Mr. Pringle ha intenzione di scrivere sarà il ritratto di Mungo narrato in prima persona. Un libro, che dia l'impressione di essere una trascrizione delle parole di un Negro (come ben si comprende, emendate per quanto concerne la grammatica, le espressioni indiscrete e inopportune, e via dicendo), porterebbe notevoli benefici al Comitato per l'Abolizione della Schiavitù. In qualità di suo giovane Segretario, Mr. Pringle sarebbe certo universalmente lodato per la dedizione e i risultati ottenuti nel documentare la Carriera del più vecchio abitante africano di Londra: Mungo, portato in Inghilterra dal capitano Thomas Thistlewood e venduto al servizio di Lord Montague, passato poi nelle mani del ben noto lestofante ebreo Mr. Gideon e della sua amante, Mery („Moll‟) Hackabout; si ritiene che abbia vissuto a Charing Cross per due decenni o forse più. Mungo non è stato visto per molti anni, costretto nella sua soffitta da una grave artrite (o malinconia?), ma prima era una celebrità sia nel quartiere degradato che nella casa signorile, la sua persona veniva accolta con la stessa eccitazione nello squallido bordello o nella galleria barocca. Mendicanti e nobili gli erano amici allo stesso modo, e gli si accalcavano attorno quando faceva il suo ingresso nel bordello oppure nella High Church. Questo è quel che Mr. Pringle immagina, giacché la sua unica fonte di informazione è il ritratto fatto da Hogarth di Mungo in veste di giovane schiavo della prostituta Moll Hackabout. Sono trascorsi circa trent'anni dalla famosa incisione di Hogarth, e Mungo è svanito dalla memoria. Soltanto grazie al Comitato Abolizionista e al suo grande sforzo nel redigere un censimento dei neri di Londra, Mungo è stato riscoperto. Il proposito di Mr. Pringle è di renderlo di nuovo visibile, come una cometa riapparsa per disegno di Dio; e sebbene egli si trovi ormai troppo avanti negli anni per goderne a pieno, il libro restituirebbe a Mungo la fama, o addirittura la fortuna, da lui un tempo posseduta.

Chi sono i tuoi genitori? Dove si trova e qual è il paese chiamato Africa da cui provieni? Quando e come sei giunto a Londra? Chi, quando, cosa, come,

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perché di questo e quello: Mr. Pringle brama di capire il legame che intercorre tra un casermone e un bordello, un fetido negro e un profumato animaletto da compagnia. A quanto pare crede che un tempo fossi un misero bambino nero che giocava in una duna di sabbia, con la bocca raggrinzita dal sole, poi dopo che tanta acqua era passata sotto i ponti mi ritrovai in un boudoir inglese, con un turbante piumato sulla testa, la pelle così levigata e splendente come i miei denti, e gaio succhio dal prosperoso seno di Moll. Perdono l'errore di Mr. Pringle, perché è un uomo di vera civiltà e senno. Eppure procrastino la mia risposta, borbotto e mi fermo, e prego che attribuisca la mia lentezza alla sordità, oppure alla naturale docilità di un africano che non riesce ad arrivare al dunque per quanto addestrato dalla frusta o dal clero. Soltanto quando allungo la mano sul suo scellino, la mia risolutezza si indebolisce e ostento la mia educazione classica quando gli dico, “Signore, non sono degno della vostra donazione,” e mi fermo e subito inizio a canticchiare una ballata di strada con la bava all‟angolo della bocca, farfugliando e facendo lo scemo. Le mie parole lo costernano alquanto. Non riesce a ritenermi capace di un discorso tanto lucido quanto un tempo erano i miei denti. No, il negro biascica e mastica l'inglese, il negro scherza e fa il cretino con la lingua, ha la fronte bassa e assomiglia a una scimmia.

No, io non sono rozzo, posso scrivere da solo la storia, perché ho assimilato molti dei tuoi manierismi linguistici e la Bibbia di re Giacomo è a portata di mano per fornirmi quelle espressioni che potrebbero risvegliare nella tua anima la compassione per la situazione di un Negro. Figuriamoci! Potrei stuzzicarti per farmi fare un dono di riparazione, ma mi tengo i tuoi soldi, fammi dire cuesto e cuello, fammi dire che provengo da una tribù del Bongo-Bongo; e sono fratello germano e cugino di primo grado di bestie della giungla come antropofagi, ermafroditi, serpenti tigrati e tutte le altre creature sognate dai tuoi scrittori o scoperte dai tuoi viaggiatori. Ma certi tipi di rivelazioni non fanno per Mr. Pringle. Lui vuole una testimonianza seria che farà appello alla carità cristiana di una cittadinanza illuminata che, leggendo attentamente il mio racconto di immeritata pena, condurrà nelle sedi del Parlamento una campagna in favore della

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mia emancipazione e quella di milioni di miei fratelli. Puah! Dove succhia l‟ape, lì succhio anche io. Fammi dire cuesto e cuello fino che venire il giorno che muoio, presto.

Mr. Pringle inizia a scrivere i mormorii di Mungo in un‟epopea, la cui cornice è già nella sua mente. Tutto ciò che attende sono le sbavature di un negro decrepito. Ha investito in un costoso libretto per appunti rilegato su cui trascrivere la storia di Mungo. Questo crea un'immagine di decoro e professionalità che mancava nei precedenti fogli sparsi. Sebbene Mungo finora abbia parlato solo in modo enigmatico e minaccia di spirare nel corpo e nella voce da un momento all'altro, Mr. Pringle non si pente del suo investimento. In fondo, è un cristiano, e crede nell'inesauribile generosità dell'Onnipotenza di Dio, che farà venir fuori il vero personaggio di Mungo e le sue avventure, benché raccontate in modo deturpato a causa della fragilità di mente e della grammatica barbara. Mr. Pringle, come umile strumento del Signore, purificherà la storia dalle sue imperfezioni, al fine di mostrare l‟innocenza di Mungo. Laverà l'etiope, ripulendolo dai colori del peccato e della brama che macchia la pelle di Mungo, risultato della schiavitù.

Organizza il suo libretto per appunti in una serie di titoli di capitoli:

1 Africa.

2 Viaggio verso le Americhe a bordo di una Nave Negriera. 3 Lavoro nella piantagione.

4 Viaggio in Inghilterra con il Capitano Thistlewood. 5 Al servizio della famiglia di Lord Montague. 6 Mr Gideon, l‟Ebreo, compra Mungo.

7 Traviato dal servizio prestato a Moll Hackabout, una comune prostituta. 8 Discesa nella melma della povertà e della malattia.

9 Redenzione di Mungo grazie al Comitato per l'Abolizione della Schiavitù.

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115 1 La mia adorata terra natia: Africa.

2 Paradiso perduto: gli sgomenti della mia cacciata nelle Americhe nelle viscere di una nave negriera.

3 Il sole spietato: il duro lavoro nella piantagione. 4 ecc., ecc.

Sì, con meschinità, lo lusingo, poiché sono passate settimane dal nostro primo incontro e ancora non ho dato il via a Mr Pringle. E così la sua mano è sospesa sopra il calamaio mentre l'altra affonda nella tasca dei suoi pantaloni, tastando le monete, considerando l'idea di cedermene una o tenermi ancora in attesa. Radix malorum est cupiditas, dicevano gli antichi. Capisce che ho fame, perché ho la bocca secca e tre belle piaghe mi sono comparse sulle labbra, segno di malnutrizione. Ma Mr. Pringle è così avido di un frammento delle mie memorie che mi guarderebbe morire di fame piuttosto che rinunciare per me alla sua mirra. Forse non dovrei mettere così a dura prova la sua anima di cristiano e portarlo sulla strada della schiavitù. Vedo le sue dita serrarsi in un pugno nascosto, come se volesse colpirmi per il mio spirito ribelle. Lotta per trattenere la collera, affondando sempre di più la mano nella tasca dei pantaloni. La penna nell‟altra, come se stesse aspettando di firmare un‟autorizzazione al mio arresto, o alla mia vendita.

Si schiarisce la gola ma butta giù, resistendo con successo all‟impulso di gentilezza. Ritrae la mano priva di spiccioli dalla tasca e posa il palmo sul tavolo rivelando tutta la sua avarizia. Scrolla l'inchiostro dalla penna e la posa sul foglio bianco. Il suo volto si contrae come un barboncino eccitato che scodinzola, con quel furore sufficiente a produrre un ringhio intimidatorio. "Un inizio," dice alla fine, la sua voce s‟infrange su di me con una passione talmente inattesa che subito gli cedo.

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PRIMA PARTE

Questo annotalo nel tuo libro Mr. Pringle, dagli lustro col tuo inglese migliore:

Papà è lontano. Lui mai qui. Mai. Coltiva campo o combatte guerra. Una volta lui venire casa. Io in braccio a mama, dormo, e lui separare me da lei e portare via me, dalla porta. Potrei piangere però sono felice che lui è qui, finalmente. Lui stendere coperta calda su me e è buio allora lui scorrere dita su mio viso, così disegna me nella mente. Così mi riconoscerà sempre, anche se è tutto buio.

Una volta, un uomo venire a nostra capanna. Deve essere mio padre, perché lui separare me da mama e porta via me da lei. Io dormire. No piango perché io volio che lui essere mio padre. Lui stendere coperta calda su me e toccare mio viso. Io no guardo lui, io volere lui pensare me adormentato ma di nascosto annuso sua mano. È, ora io ricordare, profumo melone, pulito e giovane e no peccato, allora io stare buono buono e lui andare da mia mama.

Mamma fare me bagno, fare me mangiare, mettere me davanti porta di capanna per coprire la mattina luce. Papà partito e lei no vuole vedere, come lei essere sola. La difendo dal sole dei suoi occhi.

Non me la ricordo bene. Passati tanti tanti anni che io confondo suo volto con Moll e tutto il resto. Lei è così emaciata oppure penso a una donna bianca? Gli occhi di mia madre sono pieni di angoscia. Un mattino in particolare il suo viso cola tutto e anche se lei non dire nulla, io lo so che mio padre non tornerà. È diventato uno spirito e invisibile vivrà nella Foresta Morta, dove a nessuno è concesso passare.

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La Foresta Morta è al margine del nostro villaggio. Non ci passare, dire mia madre. Perché? Non ci passare, lei dire ancora, stavolta con voce severa. Il suo viso fare tante tante grinze così lei sembrare arrabbiata.

Non so il suo nome, che età avesse, di chi fosse figlio, eccetera. Non ho ricordi di me e lui assieme ad altri ragazzi e ragazze, non ricordo nessun altro eccetto lui e me, e poi soltanto mentre vaghiamo per la Foresta Morta. Noi là poi fare peccato. Lo conosco soltanto nella Foresta Morta e nel peccato, prima che se ne andasse per diventare spirito. Ci devono essere stati altri bambini, altri giochi che ci facevano vivere e crescere ed essere beati, no morire. Eppure mi resta soltanto il gioco della morte.

Cos'è la Foresta Morta? È il sonno nei miei occhi. È la patina bianca sulla faccia della terra africana. Il nero è ovunque con suolo fertile ma la Foresta Morta crescere, una linea di confine tra il nostro villaggio e un altro, coperto da foschia e liquido bianco che sgorga dalla superficie delle rocce. Saba – questo è il nome che ora venire in mente a me – e io ci avventuriamo là dentro, come due stupidi. Lasciamo gli spazi del villaggio dove il popolo dei bambini potere giocare, il laghetto in cui sguazziamo, gli alberi dove con la pania catturiamo i kabuti, solo per le melodie che fanno quando sono attaccati ai rami, lasciandoli poi volar via perché cattivi da mangiare. Forse penserai che emettano strida rauche e agitandosi emanino un odore cattivo, ma i kabuti di fronte alla morte sono tranquilli come se cantassero l'un verso l'altro e rivolti al cielo lontano. Semplici uccelli stremati, dal sapore disgustoso, ma con canti che ci commuovono a tal punto da lasciarli liberi, persino il bambino più crudele e la mano più devastatrice.

Saba è così. Becchetta gli altri, li deride, gli tira gomitate nel petto per mozzargli il fiato o sentirli piangere. Ma a differenza degli altri bambini io non ho paura di lui, perché lo considero come un uccello kabuti, pieno però della musica sbagliata. Lui vuole parlare bene ma la sua gola invece raschiare. Avverto questo in lui. Un giorno mentre lui lanciare sassi nel laghetto, mi avvicino a lui, grido il suo nome e quando si gira gli do un ceffone sulla bocca. Le sue mani, un tempo piene di collera, ricadono sui fianchi. Ora è il mio schiavo. Per lui sono come la

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morte. Canterà dolcemente per me ogni volta che lo ordino, ma io non lo lascerò andare.

Un colpo improvviso può renderti schiavo per sempre. Se ti avvicini furtivo a qualcuno, come faccio io con Saba, e con un rapido colpo gli fai il vuoto nella testa, cancelli parole e tutto il resto, crei così spazio nuovo dove solo tu puoi abitare. "Vieni qui" e "vai là" e "fai questo", puoi dire, e lui obbedirà, poiché adesso lui è te, non più se stesso né nessun altro. Nella sua testa non c'è più niente, e il sangue scorrere sul suo volto. Ma attenzione, per farti uno schiavo ti devi muovere con rapidità e sferzare un solo colpo netto, altrimenti prima o poi ne avrà abbastanza, nella sua vecchia ostinazione, e un giorno si ribellerà e ti maledirà.

Saba raccogliere frutta per me quando glielo ordino. Lui andare prendere legna per mia madre al posto mio. Talvolta gli do da fare cose inutili per tutto il giorno come scavare una buca nel terreno. Poi ricoprila, gli dico, e fanne un'altra. Quando sono soddisfatto lo mando a casa sua. Un giorno sono stufo di lui. Ha ripulito dalle erbacce il nostro giardino, eliminato i formicai, mi ha intagliato un flauto, levigato una pietra molto appuntita, per farla rimbalzare meglio da una sponda all‟altra del laghetto, come un coltello che con due o tre colpi sventra la pancia di un pesce. Ma ora non ho più compiti da affidargli. Vieni con me nella Foresta Morta, dico d‟impulso, e quando lui guardare me come un mendicante guardare sue piaghe, capisco che ormai lo domino del tutto e non avrò pietà di lui.

L‟ampio viale ricoperto da conchiglie caree che attraversa il nostro villaggio si riduce ad un sentiero di polvere. Saba mi è davanti come a una capra che anticipa il suo guardiano verso il macello. Si ferma di soppiatto in cerca di un‟altra via ma non ve n‟è alcuna. Fa per tornare indietro e sfuggirmi ma io lo fermo, lo conduco verso la Foresta Morta. Nel panico estremo proverà a ribellarsi e attaccarmi, ma nella mia mente affiorano da chissà dove le parole: io non

tollererò disubbidienza alcuna, sono qui armato di pugnali di pietra.

Ora ricordo quando mio padre morì, ma non come. Fu magnifico. Tutte le donne andarono alla capanna chatree al centro del nostro villaggio e danzarono tutta la notte. Là di solito stavano gli uomini a fumare, fasciarsi le ferite, spulciarsi

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i piedi, alimentando il fuoco, mentre discutevano e talvolta litigavano per l‟ultima sorsata di vino changa rimasto nella ciotola. Ma stanotte solo donne, nude, che a vicenda si dipingono seno e ventre fino ad assomigliare ad animali, urlando di gioia, e bevono avide come maschi, battendo i pugni per terra, e solo io sono autorizzato a stare fra loro, tutti gli uomini e il popolo dei bambini sono banditi nelle loro capanne. Anche mia madre. È nel nostro giardino che veglia mio padre avvolto nella scorza di breta che emana una lieve nuvola d‟incenso. Il suo sguardo lo assiste mentre le candele ardono furiose contro il buio e il silenzio di una cappella inglese.

In questo vortice di figure e colori io mi muovo. Una giungla di seni mi viene offerta, per stanotte, soltanto stanotte, mio padre è morto, tutte le donne sono mie spose, secondo gli antichi costumi. Posso scegliere di cacciare la giovane gazzella oppure il serpente dalle labbra rosse. Le donne battono i piedi attorno a me e bevono e bevono. Fremono e cadono a terra, fingendo di essere bestie ammazzate. Mi danno un pugnale per spellarle, e squarciare via dai loro ventri la mia eredità, immagini della concupiscenza di mio padre, la giovane gazzella, il serpente dalle labbra rosse.

Ora ricordo, e ho altre parole da rammentare, quanto fosse stupendo, il coro e l‟esibizione delle impudenti donne dipinte. Sono accompagnato nell‟età virile – proprio mentre sono poco più che un bambino – dal gioco dei loro capezzoli, e i loro corpi come per magia traggono calore dal mio sangue, finché non mi stordisco, unto dalle fredde colle che fluiscono dalla loro nudità, e il fiato esce dalla mia bocca con un canto inquietante e divento il padre che mia madre accudisce, le sue orecchie chine sulle labbra morte, nella speranza di udire ogni traccia di suono, ogni cantico d‟amore che un tempo si rinvigoriva dentro di lei, raschiando e facendole male come un sacco pieno di pietre ebo, creando così il bambino che ha dato alla luce.

Ora ricordo, ma allora, in un tempo increato, quando non c‟erano parole, c‟era soltanto un fanciullo, che spingeva un bullo verso la morte.

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Il sentiero di polvere si riduce a un un singolo viottolino largo appena per due piedi. Dalla Foresta Morta fuoriesce un muco bianco che ci risucchia verso di sé. La Foresta Morta è come un cuore di capra appena estirpato. È avvolto in una pellicola bianca ricoperta da grasso bianco. Mia madre colpisce più volte con il pugnale di pietra il cuore avvolto nella ragnatela, finché, sparito il biancore, risplende nella sua mano.

Spingo Saba in un banco di foschia e lui avanza. Quando il sonno lo abbandona e comincia a vedere dall‟altra parte, mio padre accoglierà la sua gola con una dentatura splendente. Saba deve andare, spietato io lo spingo, ma lui piange, si oppone, e il baccano che fa è talmente angosciante che quasi lo lascio libero. Ma siamo nella Foresta Morta e mio padre attende per avere il suo sangue, perciò Saba deve obbedire.

Quando mia madre avvicinò la punta del pugnale nel cuore purificato e lo perforò, uscì un flusso improvviso di rosso che fece scolare a terra. Poi, torcendo il pugnale avanti e indietro apre la carne del cuore come fosse la corolla di un fiore. Ci sono quattro petali – due per lei, due per mio padre morto. Stanotte lei li infilerà crudi nella bocca di mio padre e nella sua, quando veglia il suo corpo avvolto nella scorza di breta.

Saba è entrato nella Foresta Morta, dove mio padre lo farà a pezzi. Ho il cuore che batte come tamburo dove la foschia si dissolve, e aspetto il suo grido. Non sento niente. Spalanco gli occhi e guardo nella direzione in cui è andato ma non vedo niente. Squarcio via la nebbia dalla mia faccia, ma il sonno mi appanna gli occhi, nel panico grido il nome di Saba, lo chiamo e lo richiamo mentre la nebbia cola nella mia bocca come una linfa velenosa.

Mio padre è freddo. Io sono seduto vicino a mia madre e guardo mentre strappa la scora di breta e gliela avvolge intorno, poi lo copre con foglie di breta. Ci lavora tutto il giorno, intenta come un ragno. Quando finisce di inghirlandarlo, fa l‟offera della carne, ma lui non mangerà, allora lei porta i petali del cuore alla sua bocca. Seduto accanto a lei la guardo mangiare e piangere su di lui. Poi arrivano le donne e mi portano via per il rito dello spogliamento e della danza. Io

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voglio rimanere accanto a lei e a mio padre, ma loro mi allontanano e lei non protesta, e lui giace a terra e si rifiuta di mangiare. Mi riportano indietro la mattina seguente quando ormai non mi importa più di lui. Lui è andato via dal nostro recinto come se qualcuno lo avesse sollevato mentre dormiva e lo avesse portato lontano lontano. Le donne mi mettono vicino a mia madre che si sta riposando nella capanna. Mi fanno stendere nudo vicino a lei e loro non mi copriranno con una coperta calda. Lei non protesta.

Saba arriva al mio grido proprio quando sono lì lì per crollare. La sua vista mi riscuote. Sono felice di vederlo e che è tutto intero, nessuna parte mangiata, nessuna ferita, niente petto fracassato. Mi dispiace che papà sia ancora morto, però sono felice per Saba, che in lui non sia sbocciato il sacrificio. Quando torniamo al villaggio lo lascerò libero e la smetterò di giocare con lui. Ma per ora lui farfuglia, con la faccia sconvolta dal dolore. Non mi dirà cosa ha visto. La sua pelle è opaca come se la morte avesse soffiato cenere su di lui. Stacco un ramoscello da un albero felpan qui vicino e scuoto la polvere dal suo corpo finché non ritorna nero. Poi noto che in mano ha una zucca portata dal campo del morto. Me la dà come tributo e quando la apro, dentro c'è del cibo, palline di ocho secco e sarabell. Mangia, dico con rinnovata malignità, mangia, così sarà il mio schiavo per l‟ultima volta, anche se libero. E io lo guardo mangiare il cibo della morte e metto così la sua vita al mio servizio. Aspetto finché anche l'ultimo pezzo sia stato masticato e ingoiato, allora ci allontaniamo dalla Foresta Morta e torniamo verso casa.

Le donne, quando mettono i petali di carne nella mia bocca, maledicono i loro padri e i padri dei loro padri con le parole più oscene, raccontando come questi penetrassero le loro madri per succhiare gli sciroppi che io adesso attingo da loro, la mia bocca avida del tuorlo peccaminoso, loro inveiscono, mentre mi soffocano nella loro nudità affondando le loro labbra su di me, e le loro mani che corrono sulla mia pelle fanno stillare liquidi sconosciuti fuori dal mio corpo, che loro osservano con spregio e strofinano contro la loro nudità in un gesto di scherno. Sono un serpente cui è stato spillato via il veleno, ridono, un capla

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privato del suo aculeo, ridono ancora in un coro di scherno, che ancora dopo innumerevoli anni mi fa sentire il potere della loro comunità e so che così mi resero loro schiavo, non della carne ma dei loro modi di soffrire. Da quel giorno sono stato destinato a servire Moll, eppure qualcosa ancora mi dava il coraggio, coraggio sufficiente a schiaffeggiare Saba, perché nessun uomo, qualunque sia il suo potere, mi affemminerà.

Questo l'ho imparato dal piacere e dalla vile oscenità delle donne, ma anche dal periodo del mio castigo quando non c'era facoltà di parola, cibo, compagnia, luce, eppure dopo il panico iniziale, i fendenti della fame e la pazzia del buio, giunsi a compromesso con la mia disperazione così che niente potesse uccidermi.

Accade tutto in un lampo, giusto il tempo di un respiro, sebbene le botte fossero durate più a lungo, giacché io mi intorpidii dopo i primi colpi e il resto fu l'inutile ira del nostro Capovillaggio che, fra parole di castigo, mi tirò una scudisciata dietro l'altra sulla schiena, mi strattonò indietro la testa affinché la mia fronte fosse volta verso il sole, e poi ci premette sopra una pietra bollente, marchiandomi con il segno del mio peccato, poiché avevo sconfinato negli spazi dei morti, e mentre Saba gemeva nella sua capanna con lo stomaco in subbuglio e rigonfio di demoni come una donna adultera vegliata e curata da nessuno, l'ingresso della capanna era bloccato con una pietra così da impedire che il minimo soffio di vento entrasse a fargli compagnia, o che la luce ricadesse sul suo viso con falso sollievo.

Il Capovillaggio marchia la mia fronte con il simbolo del male, e mi mettono in una buca profonda che mia madre è costretta a scavare, e mi ci abbandona dentro con le sue stesse mani, calandomi giù con una corda di scorza di breta, poiché la mia disubbidienza ha portato il peccato su di lei e la minaccia di distruzione sul nostro villaggio, giacché i nostri antenati hanno lasciato la Foresta Morta adirati, lasciandoci indifesi contro i nemici: mosche, siccità, stelle malevole e le tribù con cicatrici diverse. Saba morirà e rimarrà insepolto ma questo non placherà i nostri avi, tuttavia sarà per sempre tumulato nell'argilla e

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nella pietra, senza poter parlare con gli altri, fumare la pipa e bere liquore con loro nel gelo della notte, o abbandonarsi ai ricordi dei corteggiamenti, dei battibecchi con le mogli, degli abbondanti raccolti, dell'incidenza della guerra, né sputerà sul terreno per plasmare poi il fango fino a formare il seme di una futura nascita che accresca i numeri della nostra tribù. Saba non seminerà il futuro, ma nemmeno questa totale messa al bando dalla storia della nostra tribù sarà sufficiente a rabbonire i nostri avi, che sono migrati in un altro luogo, lasciandoci senza memoria del passato e in balia di un futuro abortito in partenza.

Così sono finito in una buca profonda dove devo restare fra una fase lunare e l‟altra, il tempo che gli dèi impiegarono per crearci a partire da frammenti di cielo, dipingendoci con tinte scure e mettendoci su una terra velata di verdi e vermigli. E nell‟impeto del secondamento gli dèi, sopraffatti dalla bellezza che avevano creato, immersero le mani nello scintillio delle stelle e spalmarono venature di fiumi più limpidi e delle cascate. Poi presero la zolla di terra più chiara e la dipinsero col rossore dello scorpione, il dorato del granchio-tara, il nero della pantera, l‟ocra rossa del pesce-nadar, il fulvo chiaro dell‟antilope, e nella bocca di ogni creatura gli dèi soffiarono un suono a seconda del loro colore, così la terra ebbe una scala che andava dal ronzio, al gracchio, al gorgoglio, al flautato e all‟ululato e un milione di arie in più che davano gioia e dolore. E una volta creata la terra, colorate le sue creature e messi noi al potere, tutto si agitò, crebbe lento e morì, gli dèi se ne andarono via a creare altri mondi, lasciando i nostri avi a sorvegliare che non dimenticassimo il passato o cercassimo alla cieca il futuro.

Dunque sono calato in una fossa, un discepolo morto della terra dove la mia dipartita sarà un sacrificio agli dèi e agli avi, affinché il sapere sia ripristinato nella nostra tribù: l‟astuzia di leggere enigmi nella foglia e nel vento che determineranno il modo in cui cacciamo e piantiamo; i riti mascherati; le preghiere per il nuovo nato. Io devo soffrire la fame finché la carne si stacchi dal corpo, fino a che tutto il creato si sia disfatto in me.

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Ma io non ho mai sofferto, mai. Tutti sono morti, quando invece sarebbe toccato a me, non a loro. Perchè? Sono io che feci il peccato, non Saba che non uscirà mai dal suo guscio di pietra, che sta piangendo senza che nessuno lo possa sentire, né mai potrà, poiché il fumo arresta tutte le urla. Mi accovaccio sul fondo della mia fossa e la guardo ispessirsi come pietra contro il cielo ma le grida di mia madre e della nostra tribù non raggiungeranno le orecchie spietate degli dèi, né vi badano i nostri avi, dimentichi del dovere.

La luce s‟infrange su di me e mi avvolge, tre giorni, tre notti ormai nella fossa di mia madre, privo di acqua, mi sto indurendo come letame essiccato al sole, ma non c‟è dolore, né sofferenza, poiché la mia mente è diventata insensibile al vuoto di stomaco, e le mie lacrime da molto tempo si sono cristallizzate e sigillano così i miei occhi, facendomi abituare a me stesso nella solitudine. All‟inizio rovistavo la terra in cerca della carne gelatinosa dei vermi ma ora la mia bocca è serrata come i mie occhi, e non vuole niente. Non mi accontento di niente. Il primo lamento, il panico iniziale e lo stupido gesto di scavare raspando i fianchi della fossa, sognando una scala per arrampicarmi fuori dalla mia e rinascere nello sguardo fisso di mia madre, ormai tutto è passato. Accetto che nessuno mi riveda più. Divento quasi maligno nel pensiero. La ripicca tiene a bada il dolore, non soffrirò, no, rido piuttosto in modo stridulo al destino di Saba, all‟inutile ira del Capovillaggio, e al muto cordoglio di mia madre quando avvolge la corda di scorza di breta (breta-bark) attorno alla mia vita come fece intorno a corpo di papà. E se gli avi sono tanto stupidi da abbandonarci a causa del torto fatto da un ragazzino, allora è bene che vadano inutilmente nell‟oscurità. Da quali nemici ci hanno mai protetto? Dalla piaga delle mosche? Dalla siccità? Gli avi sono deboli, sono codardi, useranno il misfatto di un bambino come scusa per scappare via e lasciarci vittima del cacciatore bianco che viene con il fucile (così abbiamo chiamato questo oggetto magico) e la torcia e la catena e la tazza e la croce.

Il puzzo di fumo. Il cielo è sferzato dalla paura, il cielo è un fuggi fuggi di uccelli dal loro nido.

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Dai lustro a tutto questo nel tuo inglese, Mr Pringle, nel tuo libro mettici il fragore del grido, i pugnali che si tuffano nella carne come bagnanti felici, e il fumo che salendo dai tetti in fiamme come il fiato ansimante dalle lingue dei cani, sbianca il nostro villaggio diventato ormai una Foresta Morta. Questo è ciò che vedo quando mi trascinano su e mi posano sul bordo della fossa, uomini con cicatrici diverse che hanno invaso il nostro villaggio e ucciso tutto ciò che si muove. Ora loro trovano me, l'ultimo della nostra tribù, l'ultimo testimone, poiché Saba si lamenta, egoista, nella sua grotta di pietra e non vede e non sente il massacro della sua famiglia, e loro mi piegano sul bordo della fossa, mi faranno a pezzi, mi strattonano la testa indietro per scoprire il collo, e il coltellaccio è sollevato ma prima che possa cadere volgo lo sguardo alle costole del nostro villaggio (restano infatti soltanto i rami che sorreggevano il graticcio e la paglia), la casa delle donne danzanti, il giardino dell'ultima notte di mio padre con le stelle che guardavano dentro i suoi occhi morti. Il coltellaccio scintilla su di me e quando distolgo lo sguardo per l'ultima volta, tutto ciò che avevo dimenticato o trascurato di vedere appare sotto una luce viva. In mezzo al fumo, ecco la mano del nostro stregone che getta sassolini dentro un cerchio. Il suo nome è Manu, la sua schiena è ormai sempre curvata per disegnare cerchi nella terra e la sua faccia è ricoperta da un zazzera bianca che lo fa sembrare una Foresta Morta. Si accovaccia per studiare i sassolini, mentre la gente accalcata da lontano trattiene il fiato, con la paura di essere troppo vicini quando egli d'improvviso si tira su e predice la loro morte. Soltanto Ellar, la zoppa, la zitella, si avvicina, masticando di continuo la pianta-toba, così da rinfrescarsi la bocca per un amante futuro. Ellar scruta la terra da sopra la spalla di Manu, impavida d‟innanzi all‟esito dei sassolini, poiché contro di lei non ci può essere violenza che lei non abbia già invocato. E se un amante non le farà visita di notte, quando la sua gamba sbilenca non è oggetto di dileggio, allora che la morte la porti via sotto mille sembianze. Mia madre mi manda nel cortile di Ellar con una ciotola di fichi-tamma dal nostro giardino, poiché non c‟è uomo che la nutra, e le galline che alleva son troppo leste per il suo piede zoppo, quando arriva l‟ora di ammazzarle; né faranno le uova e,

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per dispetto, si mangeranno tutte le sue provviste. C‟è Tanga, che prende il soprannome dalla frutta che abbonda nel suo giardino dato che poco altro ci crescerà, per quanto ci provi, niente taro o patata dolce o zucca, come se le sue mani fossero benedette soltanto per un‟azione. Quando il frutto tanda stagiona e gonfia la sua terra, l'intero villaggio mangia, perché lui è ben disposto a donare. È un uomo pieno di felicità, poiché sua moglie produce nidi di gambero e i suoi figli sono numerosi. C‟è Samyat e i suoi figli gemelli, con le mani sporche di argilla perché costruiscono case. C‟è Apal che porta i rami perché oggi rifà il tetto alla sua capanna. Arriva Sanu, con addosso una sciarpa di mosche perché sta facendo panetti di sterco di mulo per il suo focolare. Davanti c'è Janga che si pavoneggia e fa vorticare le braccia come se dovesse lanciare una pietra verso un nido in cima a un albero. È un uomo fiero, è il cacciatore con la mira migliore, e dopo i suoi assalti giù dagli alberi piovono uccelli morti. Baju si gingilla fuori col naso all'insù, respirando l'aria, e tenendo gli occhi chiusi in concentrazione: lei riesce a predire il tuono o il bel tempo o un segno dei nostri avi a partire dal più piccolo odore portato dalla brezza più lieve. Il suo corpo è sempre coperto di lividi perché inciampa su cose invisibili per terra. Onya chiama i suoi figli e anche se questi sono morti alla nascita, lei non smette di chiamarli. A volte la senti mentre li rimprovera, perché si son nascosti nella foresta e non vanno da lei. Ogni sera mette fuori due piatti di cibo per loro, ma soltanto le iene se li mangiano. C‟è Nara che di solito sta tutto il giorno seduto appoggiato alla sua capanna, mentre fuma la pipa e succhia i semi di tamba (dato che da tempo ha perso i denti) finché non è ora di ridormire: non c‟è bisogno di sforzarsi tanto poiché è più vecchio di quel che si pensa, e ai suoi tempi ha ucciso settanta elefanti, duecento gatti selvatici e seimila cervi. Ora la sua mente è ottusa come la punta della sua lancia. Per tutto il giorno fuma, succhia e si addormenta. Tutti costoro, e altri, emergono dal buio del fumo per salutarmi con imprecazioni per aver portato su di loro la morte, e cercano la vendetta nella luce della lama del coltellaccio e lo incitano affinché ricada sul mio collo, facendo rotolare la mia testa nella fossa per essere sepolta come un seme che darà alla luce soltanto un fiore infecondo con le spine.

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SECONDA PARTE

I

Io ho avuto molti inizi, tutti segnati da un lungo e futile lamento – uscito non dalla mia bocca ma da quella di mio padre. Ho avuto un padre, sebbene lo abbia del tutto dimenticato. Tuttavia, mio padre si lamentava – ora posso immaginare l‟afflizione nel suo cuore quando ordinò che fossi bandito nella terra selvaggia, a morire fra le vedove. Io neppure me le ricordo eppure esistevano, e una si chiamava Rima, e fu lei a sottrarmi alla vista delle lucertole. Ero, suppongo, un normale bambino denutrito che sopravviveva con una dieta africana di escrementi animali, la mia fame era placata soltanto dalle storie declamate da Rima fra un pasto e l‟altro. Ah, le sue storie erano scarse o abbondanti, e tuttora sono ossessionato dalla melodia innata della sua voce, la sua tensione stridula. Altrimenti immagino la cadenza di un osso succhiato con brama del suo ideale di carne, poi sgranocchiato per disperazione, finché la bocca si rende conto della sua fatuità: Rima vacillava così, fra un lirismo sognante e un brutale stridore di denti.

Le vedove – e ce ne devono essere state cinque o una trentina – erano incapaci di fare figli o oltre l‟età feconda, perciò destinate alla morte. Di solito, una donna il cui marito era stato ucciso in guerra o divorato dagli animali all‟inizio veniva accolta nel tempio del villaggio. I figli dell‟Anziano e i suoi nipoti si univano a lei. Il suo periodo di prova durava fra le fasi di luna crescente e gibbosa. Se poi rimaneva incinta, la sua vita veniva risparmiata e tornava a lavorare nei campi. Altrimenti la cacciavano nella terra selvaggia, con la testa rasata, e i polsi rotti e i palmi marchiati dal simbolo del male.

Fu Rima a spiegarmi l‟antropologia dei nostri usi e costumi tribali, oppure me li son sognati per ripugnanza di me stesso. Mi raccontò che tutte le donne

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pativano un‟ansia isterica la notte prima di una battaglia o di una battuta di caccia. Imploravano i mariti di stare tremendamente attenti. Strofinavano sulla loro pelle un olio speciale il cui odore avrebbe creato una specie di scudo attorno al loro corpo. Recitavano preghiere apprese dalle madri e dalle nonne. Alla fine facevano ripetutamente all‟amore coi loro uomini, così sul campo di battaglia o sul terreno di caccia, ricordandosi del sesso, avrebbero desiderato di tornare vivi dalle loro mogli.

“Non mogli,” aveva detto Rima. “Schiave. Gli uomini erano padroni. Solo l‟Anziano e la sua cerchia si permettevano il matrimonio. Noialtre eravamo schiave del capriccio di ogni uomo, anche se ci definivano padrone di noi stesse.”

Certo ora faccio un po‟ la tara della spiegazione di Rima, perché aveva un po‟ la mente distorta e una feroce avversione per gli uomini. Non ce la faccio a credere che eravamo un popolo così pagano, così estraneo al decoro universale e ai precetti cristiani da permettere il sesso sfrenato e sregolato. È vero, il nostro destino successivo fa pensare che eravamo discendenti di Gomorra, dunque cancellati dalla faccia della terra, però io sono sopravvissuto, e la mia esistenza può solo indicare la presenza di Dio fra di noi. Come si spiegherebbe altrimenti la

mia presenza, un uomo che in una quarantina d‟anni o forse più non ha mai alzato

una mano callosa su una donna, tanto meno sequestrato il suo corpo? Come mai sono stato tagliato fuori dalle antichissime pratiche dei miei antenati? Mediante quale atto di disobbedienza mi sono autoeliminato dal passato? Qualunque sia la verità, resterò fedele al resoconto di Rima, perché lei mi ha amato malgrado il mio sesso, mi ha sopportato, mi ha nutrito, e perfino quando fu ferita a morte da uno sparo, mi sussurrò un‟ultima benedizione. Poi la sua bocca fu inondata di sangue, e io sarò altrettanto prodigo nel raccontare la sua storia.

Rima descriveva così la condizione delle donne: giorno e notte stavano rannicchiate sulla soglia della capanna comune, attendendo il ritorno dei loro padroni. Non mangiavano niente, facevano a meno di dormire. Poi, annunciati dall‟improvviso e chiassoso volo degli uccelli della foresta, apparivano gli uomini.

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Subito dopo iniziava la lamentazione, non appena le donne scrutavano con affanno il corteo per i loro padroni. Per quelle donne talmente disgraziate da essere vedove, seguivano settimane di razzia, la sopportazione del giubilo dei ragazzi – i figli e i nipoti dell‟Anziano, troppo giovani per la guerra e per braccare la preda, ma ormai grandicelli abbastanza per provare quelle usanze future. Avevano appreso le virtù della caccia di gruppo; l‟intesa dei gesti; la percezione della posizione altrui anche nel buio; l‟attesa mimetizzata e concentrata del momento giusto per sfogare la forza repressa contro la preda con una scarica di lance.

Dopo le settimane di prova, alcune donne, per timore dell‟esilio, s‟imbottivano il ventre con foglie di breta. Le madri insegnavano loro che tali foglie, per quanto dolorosissime, avrebbero assorbito il sangue prima che qualsiasi segno rivelatore potesse macchiare le loro cosce. Altre mangiavano bocconi di terra, così che i veleni nel terreno gli provocassero dolore e gli gonfiassero la pancia, in modo da sembrare incinte.

Una volta che la loro inutilità diventava palese, venivano raggruppate e strofinate energigamente con le selci-ebo, smussate a tal punto da rendere la rasatura della loro cotenna assai dolorosa. Si spalmava poi della cenere bollente nei canaletti aperti sulla loro pelle, facendogli assumere le sembianze del più disprezzato degli uccelli, la taccola. Disprezzato perché ogni dentellatura della sua lussureggiante corona verde indicava un momento di carestia nella storia della nostra tribù. Le donne venivano stigmatizzate come la taccola e mandate via a morire di fame o a essere divorate – in ambo i casi un sacrificio propiziatorio agli spiriti malvagi della sterilità che abitavano nella terra selvaggia. Ma la crudeltà maggiore doveva ancora arrivare, ovvero la frattura dei polsi e la pressione di una pietra incandescente sui palmi che lasciava l‟impronta del male. Era uno strano simbolo chiamato peia che mi divenne noto solo grazie al soggiorno in Inghilterra, visto che la mia gente non ne sa niente di formule matematiche. Il segno fu una questione di superstizione che deriva da un passato molto lontano, quando, secondo Rima, degli stranieri ci fecero visita nei nostri sogni.

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Nessuno se li ricorda con precisione. Con il passare del tempo sono diventate figure misteriose. Gli stranieri erano di carnagione olivastra, con capelli neri e fluenti. Avevano toraci e spalle corpulenti, ma la parte inferiore dei loro corpi era costituita da botti di legno, attaccate ad animali bizzarri, che rotolavano per incanto lungo il terreno. Per la prima volta i miei avi si erano imbattuti nel carro. Fino a quel momento il loro mondo era limitato alla capacità dei loro piedi, giacché non avevano cavalli, carri, o ruote. Quello che a loro sembrò fantastico e inspiegabile mi divenne noto, quando mi imbattei negli uomini bianchi e i loro libri. L‟evento della visita, un tempo fonte di terrore per la mia tribù, per me divenne un banale fatto storico: li conoscevo come alessandrini erranti, un battaglione di predoni del passato che peregrinando dal Nord Africa in un modo o nell‟altro erano finiti centinaia di miglia lontani in una regione sconosciuta. Sentieri fangosi intralciarono la loro avanzata, abbandonarono i loro carri e presero a vagare per la palude e la giungla. Nella disperazione più totale massacrarono qualsiasi cosa e chiunque si trovasse sul loro cammino. Fu la boscaglia a far cambiare proposito ai Greci, il suo colossale squallore. Tu che vivi in Inghilterra in giardini ben curati; tu che hai dei nomi così melodici per la natura – ruscelli, prati, boschi, boschetti e fruscìo dei fiumi – non puoi apprezzare la spaventosità della boscaglia. Ulula in modo perpetuo, come un‟anima condannata alla dimora degli angeli caduti. È il regno di Satana, l‟Ade, l‟Inferno, il Regno di Plutone, l‟Oltretomba. La nostra parola nativa per indicarla è peia, un‟evidente storpiatura del pi greco, che noi indichiamo anche come TT.

Fu la boscaglia – i suoi insetti, gli animali, la vegetazione lussureggiante, il chiasso mortale – che spinse i Greci al massacro. La leggenda narra che infilzarono, fecero a pezzi, scuoiarono, appiccarono fuochi oppure tormentarono a morte milioni di persone. I greci divennero i demoni della sterilità. Alfine, spossati dalla violenza delle loro azioni, abbandonata ogni speranza di ricongiungersi con i loro compatrioti, si insediarono sulle rive del fiume Cheria. Sgombrarono il terreno, costruirono una fortezza, e schiavizzarono un numero di

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africani sufficiente per addolcire le loro sorti e venire incontro ai loro desideri sessuali.

Placate le passioni e grazie al silenzio confortante che regnava per molte miglia attorno alla fortezza, dove ogni forma di vita era stata decimata, i greci recuperarono la loro vera indole. Alleggeriti dal fardello della fatica, le loro menti prosperarono con idee ereditate. Fra di loro discutevano sui meriti della filosofia di Zenone e sulla poesia di Senòfane. Ridussero le pietre colorate in polvere e la bollirono nel grasso animale per farne dei colori. Composero una pittura murale nel ricordo della loro patria su un lato della fortezza per commemorare la gloria della loro civiltà: qui la splendida Acropoli e il sontuoso Stadio; là una legione che torna trionfante dalla guerra egiziana, portando come trofei schiavi, tessuti preziosi, decorazioni. Gli uomini avevano un aspetto autoritario, le donne erano snelle e dalla pelle lattea. La leggenda non fornisce tale dettaglio, perciò mi dovrai perdonare se cerco di infiorettare il mio racconto ma fallisco nell'intento, poiché nessuna parola inglese può descrivere la perfezione della tribù greca.

Loro dipingevano, loro filosofeggiavano. Si occupavano di speculazione sulla geometria. Misurarono i rapporti tra forme e piani e li codificarono in un'algebra astrusa. E tutta questa civilizzazione la elargirono ai loro schiavi più intelligenti e alla progenie mulatta. Con il passare del tempo nella radura della giungla fu creata una nuova mirabile tribù; una tribù di neri di tutte le sfumature che poteva combattere con le pure e semplici abilità dei loro avi africani, ma le cui menti erano agghindate con il decoro della cultura greca. L'originalità della loro essenza si diffuse come una piaga benefica per tutta la regione, sebbene nel corso dei secoli l'oscurità della giungla e della mente africana facesse resistenza. L'entusiasmo della penetrazione iniziale lasciò il posto all'apatia e alla spossatezza. La mente africana rifiutò con tenacia l‟estasi dell'astrazione. La nuova tribù, nata da processi di estinzione, a sua volta si estinse. La boscaglia rivendicò il suo territorio, ricoprì la pittura murale e la fortezza.

La leggenda narra questo in modo differente. Racconta di una banda di predoni, progenie della luna, dalla faccia scabra e pallida; scesero dal cielo con

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una moltitudine di carri, purificando gli occhi a tutti coloro che li guardavano, sterilizzando la terra e tutte le sue creature. La nostra tribù fuggì precipitosamente dalla tremenda luce bianca della loro presenza. Cercammo rifugio nelle grotte profonde. Spalmammo fango sui nostri corpi per creare un mantello di invisibilità. Eppure la luce ci raggiunse, inondando lo sperma e l'utero, così che la nostra tribù si riducesse a pochi membri. Per la disperazione uscimmo allo scoperto per scagliare dardi alla luna. Questa deve aver avuto pietà del nostro gesto insulso, o forse provò ammirazione per il nostro coraggio, tanto da richiamare la sua lattea progenie così rapidamente come l'aveva liberata. Questi scomparvero, lasciando alla nostra tribù la memoria più remota.

Qualche germe della civiltà greca è sopravvissuto al soffocamento della boscaglia e dei neri per riaffiorare secoli dopo sulla mia fronte. Sono convinto di essere una traccia di una perduta tribù dei greci, altrimenti come potrei spiegare il simbolo Pi inciso sulla mia fronte? Sono nato con il simbolo del male sulla fronte, proprio lo stesso segno marchiato nelle mani delle donne prima di mandarle nella terra selvaggia. Ecco perché mio padre si lamentò quando per la prima volta pose gli occhi su di me, pensando che fossi presagio di una nuova oscurità, una nuova sterilità.

II

Ma lasciamo perdere il suo cordoglio per raccontare la storia di Rima e delle sue tribolazioni, ché sono impresse nei miei pensieri. Per quanto mi agiti e tenti di dimenticare, lei si rifiuta di scomparire. Anzi più avanti vado negli anni, con tutta la rovina mentale che grazie al cielo ne consegue, e più lei mi si materializza dinanzi per tormentarmi. Talvolta penso sia una figura che ho assimilato dai libri condensatasi poi in una goccia velenosa che ingoio e rigurgito.

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Negli ultimi anni, con la fondazione del Comitato Abolizionista, c‟è stata una tale valanga di storie strazianti sulla sofferenza degli africani da rifornire una biblioteca di malinconia, dove soltanto un Santo o un Misantropo potrebbe chiedere asilo. Ogni giorno nelle osterie viene divulgata una ballata nuova che racconta di qualche negra sventurata, in balia della brama di un coltivatore antillano. Le tipografie di Cheapside sono ornate da immagini di tale concupiscenza, giacché ogni incisore trova uno scopo tematico e pecuniario per il suo bulino finora inattivo. Rima è forse una di queste vittime, figlia dell‟indignazione morale e dell‟affarismo; eppure lei è di una stoffa così vivace che forse non posso essermi soltanto imbattuto in lei in un banale disegno a colori o sulla pergamena di un compositore di ballate.

Rima era un‟anima imprigionata in un bastone ricurvo, ridotta così dalla fame. Non era nera, ma color rame, come se il sole avesse prosciugato i suoi oli naturali. Quando camminava i suoi piedi – un groviglio di spine – squarciavano il terreno. E quando parlava emetteva lo stesso suono stridulo. Niente di lei suggeriva succulenza. L‟unica cosa che stillava da lei erano storie, e queste scaturivano con un tale strazio che era come se stesse recidendo un‟arteria già esaurita. Nei mesi, o forse nei giorni, che ho trascorso con lei, ero inorridito dalla sua perdita di sangue, ogni storia che raccontava era un passo avanti verso il suicidio. Nella società di Mr. Pringle l'espressività è ostentata e un libro viene stimato come il massimo successo di un uomo. Ma, secondo me, il libro non è niente di più che un memoriale splendidamente adornato e una tomba. Parlare significa tirar fuori l‟essenza, svuotarti dentro e creare spazio per la tua stessa sepoltura, per questo io ho trattenuto delle cose come baluardi contro la morte. Sono stato zitto dinnanzi alla penna e alla vanga del becchino di Mr. Pringle.

È allora perché ti sto parlando di Rima? Perché lei insiste a prorompere dalla cassa del mio petto. È così insistente che talvolta penso che il mio cuore palpiterà con una violenza fatale. Io vivrò quindi permettendole di attaccarsi a me come una mignatta. Un piccolo salasso acquieterà entrambi.

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Ma andiamo con ordine... Rima era una schiava nella nostra casa, che di giorno svolgeva i soliti doveri domestici, e di notte come di consueto si prodigava per dar piacere a mio padre. Descriveva mio padre come un uomo dalle maniere cortesi, che la trattava con lo stesso rispetto che mostrava per mia madre. Era alto di statura, ben proporzionato, con un fronte ampia a significare i suoi poteri profetici. Nella società civile si comportava con dignità come si confaceva al nipote dell'Anziano del nostro villaggio. Nella giungla era il più lesto dei cacciatori. Sempre attento al minimo movimento delle foglie o dell'erba. Riusciva a leggere i segni delle presenze animali con grande perizia così come riusciva a predire il destino della nostra tribù studiando le parti interne del legno Sapan.

Quando Rima mi narrò tutto questo, capirai se confesso che sbeffeggiai le sue descrizioni, definendola bugiarda e povera pazza d‟amore. Si voltò dall‟altra parte e pianse e benché fossi solo un ragazzino mi maledii per la mia mascolinità, per averle provocato vergogna e dolore così come avevano già fatto gli uomini del villaggio. Pur tuttavia, ho il sospetto che stesse conferendo a mio padre pregi inadeguati, altrimenti come si spiegano le mie fattezze? Sono tracagnotto e butterato, con le guance sporgenti, un naso angoloso e una fronte bassa da scimmia con una formula greca. Da bambino, quando Rima provvedeva a me e mi rifilava tali storie del mio avvenente padre, sapevo che mi sarei evoluto in una forma orribile. Ne presi coscienza senza il contributo dello specchio. Né c‟erano laghetti limpidi dove poter sbirciare per vedere il riflesso della mia infanzia. L‟unico specchio d‟acqua nella terra selvaggia era un abbeveratoio stagnante, la cui superficie era insudiciata da insetti morti e sterco di animali.

No, sebbene avessi probabilmente ereditato i poteri profetici da mio padre, quell‟aspetto della descrizione di Rima non riesco ad accettarlo, altrimenti come mai egli non predisse il male della mia nascita? Forse lo fece, ma non riuscì a trattenersi a causa del desiderio per mia madre. Forse era così eccitato dalle carezze di mia madre che non si curò più di poter rilasciare un seme rovinato. Forse dubitò del suo talento profetico, per lussuria. Si rifiutò di credere allo spettro della morte che si materializzò mentre faceva l‟amore con lei. Riuscì a

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predire la mia nascita, e la conseguente disgrazia, eppure ne dubitò. Ma forse fu per un motivo più solenne che la semplice lussuria o insicurezza. Forse lui voleva che io nascessi; voleva sfidare l‟asservimento delle nostre donne alle brutali tradizioni. Desiderò fortemente che io mi facessi avanti, pur recando il simbolo del male, perché se il miracolo di tale nascita poteva determinare la distruzione della tribù, li avrebbe anche liberati in un futuro necessario. Io sarei stato l‟archivio danneggiato della mia tribù ma anche la sua espressione risorgiva, scrivendo la scoperta del Nuovo Mondo degli Uomini Bianchi. Un simile atto di scrittura mi avrebbe di sicuro ucciso al pari del primo spagnolo alle Bermuda che fu infilzato sulla spiaggia da un indigeno costernato.

III

Qualsiasi fossero le motivazioni di mio padre, confuso dalla voglia o esaltato dalla rivoluzione, io sono nato al rumore del suo lamento. Secondo Rima, mia madre non era presente alla mia nascita se non in modo superficiale. Fu fatta stendere, partorì il bambino e fu accompagnata via. “Conoscevo tua madre solo come un paio di mani nere come l‟inchiostro,” disse Rima, spiegandomi che mia madre era una fanatica di chissà quale divinità. Nei giorni del nostro oscuro passato adoravamo i formicai, i favi e lo sterco delle gazzelle ammucchiato a forma di piramide sacra, insomma qualsiasi cosa che fosse minaccioso, attraente o disgustoso. In quanto seguace di Qualunque-Cosa, mia madre fu ricoperta con un velo dalla testa ai piedi e le fu imposto il voto del silenzio assoluto. Avvolta in un nero silenzio, dirigeva i lavori di casa a gesti che, col passare degli anni, divvennero talmente elaborati da creare un linguaggio nuovo utilizzato fra le nostre donne. Un dito irrigidito e negligente, simile al movimento delle antenne di uno scarafaggio; un pollice tremolante; un palmo raggrinzito come una foglia secca o come la lingua dell‟ibisco al crepuscolo – tutti questi segnali diventarono

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il modo per mettersi in contatto con le altre donne e con la natura, un sistema così astuto ed eloquente da ricordare il modo in cui i cacciatori si comunicavano a gesti il pericolo incombente nella savana – “e anche per difendere noi”, aggiunse Rima, poiché proprio mentre i cacciatori si comunicavano a gesti l‟imminente pericolo, le donne in segreto riferivano lo stato d‟animo del padrone alla potenziale vittima. Quando egli complottava per attaccare, quella che scopriva il suo intento lo segnalava a un‟altra e così via, finché il messaggio si diffondeva da una capanna all‟altra, e raggiungeva infine la sventurata.

“Tua madre parlava molto poco con le mani,” disse Rima, “qualunque gesto facesse era succinto come si addice alla moglie del nostro padrone. La sola volta che blaterò fu mentre stavi nascendo.” Secondo Rima le sue mani erano un tumulto di emozioni. Stesa a terra gridava, non con la voce, bensì con un folle tremito delle dita. Pianse tutta la notte e nessuna donna riuscì a confortarla. E fra gli spasmi del dolore si lasciò trasportare nello stato d‟animo di un narratore. Concepì un resoconto sulle origini della nostra tribù, un evento così vergognoso che tu, caro lettore, mi perdonerai se lo abbrevio e celo la sua indecenza nell‟elegante guscio del latino; come una Signora della tua società che lava le sue parti corrotte con l‟acqua di rosa, e le ricopre con sottovesti di broccato.

Mia madre nel delirio raccontò che, in origine, c‟era soltanto una donna senza nome. Girava il mondo in cerca di un compagno, ma gli dèi avevano proibito una cosa simile, gelosi della bellezza della loro stessa creazione. Era destinata all‟eterna giovinezza verginale, così che gli dèi potessero rimirarla per sempre e compiacersi. Ma un giorno, mentre si faceva il bagno in un lago, la donna fu spiata da un topo camboue. I suoi seni galleggiavano sul pelo dell‟acqua, riempiendo lo sguardo del topo. Mentre lei si beava nell‟acqua, il comboue scese giù dal suo albero con una tale furtività che persino gli dèi furono presi alla sprovvista. Scivolò dentro il lago e corpus feminae intravit. Quando ebbe terminato il suo passatempo, il topo exeunt ex corpore feminae, risalì sull‟albero e si nascose sui rami più alti. La donna fu così sconvolta dall‟improvviso abuso del suo corpo, una sensazione del tutto sconosciuta, che durante l‟osceno assalto non

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fece rumore alcuno. Corse fuori dall‟acqua e si legò una lembo di scoza di breta attorno alla vita, ricoprendo le sue nudità come mai aveva fatto prima. Provò vergogna per la prima volta, ma fu subito sopraffatta dal desiderio di sentire di nuovo la stranezza dell‟acqua. Allora gettò da una parte la veste e rientrò nel lago. Il topo la guardava dal suo nascondiglio segreto e sapeva che gli dèi sarebbero stati distratti dalla perferzione della nuda forma della donna. Al momento giusto scese, cercando di mimetizzarsi nella cavità fra le sue cosce. Per tutto il giorno si stiracchiò e si gonfiò dentro di lei finché il corpo di lei eruppe e sanguinò per la prima volta. Poi si riposò sulla riva, inorridita dall‟enorme chiazza che aveva lasciato nell‟acqua. La sua paura lasciò il posto a un giubilo inatteso. Si sdraiò e rise del cielo in modo incontrollabile, rise volgarmente della foresta vergine attorno a lei. Rise così forte che la foresta vergine si scosse e i frutti caddero al suolo prima del tempo, baccelli acerbi si ruppero liberando i loro semi prematuri. Era l‟inizio del nostro tempo, disse mia madre, la nascita del nostro supplizio. La donna senza nome diede alla luce un‟ignota pestilenza. Gli dèi, vista la sua disubbidienza, vista la gravidanza del suo corpo che deformava la sua perfetta forma originaria, la punirono con la morte. Non una morte sola, poiché gli dèi erano infuriati non tanto per la sua disubbidienza, ma dal conseguente giubilo. La morte sotto innumerevoli e differenti forme crudeli. Morte per annegamento, per inedia, per guerra, per assassinio, per malattia, distrazione, terremoto, disgrazia, esaurimento, disperazione. Ma soprattutto morte di parto. Gli dèi infatti per perfezionare la loro vendetta, crearono l‟uomo per unirsi a lei – proprio l‟uomo che all‟inizio lei cercava con tanto ardore. Un uomo come mio padre, i miei antenati, me... Era mia madre, non mio padre, che vedendo il mio sesso, pianse alla mia nascita, un lungo e futile lamento.

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IV

Mia madre non discendeva dall‟amante di un topo di boscaglia, a dispetto dell‟affermazione di Rima. Rima era impazzita per il sole e per la fame, quando mi raccontò tali storie. L‟una era il riadattamento dell‟altra, con tanto di animali scaltri, vergini vogliose e divinità ingannate e sdegnate. Rima era impazzita anche per frustrazione.

Eppure le credo quando dice che mia madre ciarlava tutta la notte con le mani, delineando una cosmologia, come se la mia creazione dovesse essere inserita all‟interno di un qualche progetto grandioso. Tuttavia mi sarei aspettato qualcosa di più solenne che qualche segreta copula con un roditore, ma Rima, a parte la pazzia dovuta al sole, alla fame e alla frustrazione carnale, era chiaramente gelosa della fertilità di mia madre. Descriveva la mia nascita come una faccenda scadente compiuta da una donna pazza di dolore. Soltanto una donna priva di buonsenso e volontà sottometterebbe se stessa a tale oltraggio. Disse Rima con superbia. Meglio rendere il tuo corpo sterile con l‟inganno e pozioni segrete, e sopportare la terra selvaggia, che soddisfare l‟ambizione dell‟uomo.

E tuttavia suppongo che Rima non volesse nient‟altro che servire mio padre in modo produttivo. Altrimenti come spiegheresti, caro lettore, la cura con la quale mi allevò? Il mio primo e solo ricordo dell‟Africa è quello di essere cullato fra le sue braccia, forse con affetto, più probabilmente con una tale ferocia da sembrare una belva intenta a mangiarmi. È come se avessi trascorso tutta la mia vita in quel tempo e luogo lontano steso fra le sue braccia, timoroso dei suoi denti, ascoltando in eterno le sue fiabe malinconiche. Non ricordo niente di preciso a parte il suo viso feroce che produceva saliva, eppure nei momenti di incertezza assomigliava a quello che ho sognato di mia madre quando per la prima volta misi gli occhi su Moll: una donna dal seno prosperoso, condannata allo sperpero e alla malattia. Una fanciulla pura. Il sogno si tramuta in un incubo dai dettagli intriganti: c'è un volto, angoloso e color ebano, scavato nel basalto. Anche gli occhi e il naso sono intagliati con una geometria che corrisponde precisamente

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alla proporzione delle labbra. Ogni tratto è severo e rigido. Il corpo si muove con adeguata austerità. Gli arti sono levigati, ben saldi; cammina sulla terra con moderata leggiadria cuneiforme. Rima, in un mio istante di ingegno, è greca nella sua postura. Ha una padronanza di sé così greca nella sua perfezione da sembrare una formula matematica. Mi sveglio e ritorno all‟immagine del ramo essiccato, una cosa immensa nella deformità di spirito. “Gli uomini,” dice, “sono gli uomini ad avermi reso così nella tua mente vigile”. E mi guarda tenendomi fra le braccia affammate, con l‟intento di divorarmi. E io alzo gli occhi per vedere il volto rovinato di Moll, come un busto d‟alabastro di epoca classica logorato dal rozzo maneggio di vandali e banditori di aste.

Eppure, a dispetto di tutto il suo inveire contro gli uomini, Rima mi risparmiò. Forse l‟ha fatto per amore di mio padre. Ho il sospetto che il rifiuto di descrivere mia madre, quando la pregai per un‟espressione del suo viso, fosse il risultato della gelosia. Promise di disegnare il volto di mia madre sul terreno. Prese un rametto e si accovacciò per terra e mentre io sbirciavo da sopra le sue spalle, iniziò a delineare i tratti di mia madre. Ma la polvere non sarebbe rimasta ferma, un‟improvvisa raffica rapì mia madre e Rima si stufò dell‟impresa. Il vento soffiò la polvere nei miei occhi e, quando piansi, Rima non riuscì a consolarmi. Non volevo essere consolato, perché Rima non era mia madre e non aveva il diritto di calmarmi. “Comunque era sempre coperta da un mantello,” disse Rima con vero e proprio rancore, architettando la storia dell‟invisibilità di mia madre.

Al contrario le sue descrizioni di mio padre non erano mai esitanti o contraddittorie, questo perché suppongo che lo amasse. Il suo aspetto corrispondeva ai racconti dei viaggiatori nei libri come Viaggio in Africa di Adamson, che più avanti ebbi modo di sfogliare in Inghilterra; era il solito selvaggio nudo – dal piede lesto, dalla mira precisa e consapevole delle sue qualità sessuali. Provava gioia nel descrivere il talento delle sue mani, la sua capacità di coltivare anche il più ostinato dei terreni e dal nulla far apparire frutteti. Con la siccità o con l‟alluvione tutto quel che seminava fioriva. Alla nostra tribù, non senza risentimento, fu fatto mettere le radici. Prima migravamo

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da un luogo propizio all‟altro, ma una qualche calamità sconosciuta ci rese sedentari. Conservammo le nostre abilità nella caccia, ma soltanto mio padre conosceva come meglio scegliere il giusto terreno e ararlo con accurata profondità; quali granaglie sotterrare, e in quale fase lunare. Così asseriva Rima, senza spiegare l‟origine del suo talento. Nessuno nella tribù lo poteva fare – ipotizzarono che derivasse dal fatto che la moglie adorasse una divinità talmente avida della sua completa devozione che il marito fu compensato con un‟altra forma di fertilità. E con quanta abbondanza produceva, e con quale minuzia di particolari Rima descriveva la succosità di un chicco di melagrana, o una bacca spremuta, la sua gelatina e la linfa e la mucillagine. La fame le impastava la bocca. Parlava con eloquenza di frutta slavata dalla luna e lattescente; frutta dal colore sciatto; frutta dalla polpa dura; frutta aspra sulla lingua. Ed era una tale pletora di ricordi che quasi quasi lei avrebbe mostrato i denti. Fu la mia nascita, ringhiò, a far restringere il suo corpo. Quando tagliarono il mio cordone infatti il passato fu completamente annullato, gli dèi morirono come pure il talento di mio padre. La tribù morì, le mani di mia madre si placarono, io rotolai dalle sue mani indistinte e caddi a terra e rimasi steso lì tremolante e nauseato, finché Rima non si accorse di me. Osservò il segno rigonfio sulla mia fronte, che si imponeva contro i grovigli del secondamento, e pianse. Fu Rima a scoprirmi, viscido e misero come una medusa spiaggiata. Fu Rima, non mia madre o mio padre, a salutare la mia venuta al nuovo mondo con un lungo e futile lamento.

V

Rima si è nutrita della sua rabbia, facendomi dei gesti come se avesse preso il vizio di mia madre. Nell‟accusa delle sue mani leggevo il racconto di un amore inappagato e proibito. “Fu tuo padre a ingannare gli dèi e darti la vita,” disse, accusando mio padre di essersi intrufolato sotto il velo di mia madre e aver assalito la sua verginità, come comune topo di boscaglia che fruga nel nido di

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