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CAPITOLO 3. SANTA CATERINA DA SIENA DEI SENESI

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CAPITOLO 3.

SANTA CATERINA DA SIENA DEI SENESI

3.1 «Sit(um) et posit(um) Romae, in regione Regule, in strata Iulia»1

Il 31 ottobre 1519, nella casa di Ponte degli eredi di Mariano Chigi, sede del banco della nobile famiglia senese2, non distante dalla futura chiesa di San Giovanni Battista, della quale, come si è già detto, proprio quel giorno i Fiorentini celebravano la posa della prima pietra, fu stipulato l’atto di vendita di una «[…] domus pro societate sanctae Catherines confratribus et hominibus nationis Senen(sium) […]»3. Il «casalinum seu domus», come definito nel contratto, che il mercante romano Michelangelo Mancini vendeva per conto del genero Nicola di Cernusco, mercante di Como, ad Andrea Bellanti, Mino Agazzari e Giovanni Patrizi, «[…] hominibus et confratribus eiusdem civitatis etc. n(obilibus) viris dominis […], etiam civibus et mercatoribus Senensibus […], tunc deputatis a dictis natione et confratribus dictae societatis […]»4, sarebbe diventato il nuovo tempio della comunità senese dimorante in Roma.

L’edificio, di circa 70 canne romane, sorgeva in via Giulia «seu strata publica», sulla quale si affacciava il suo prospetto principale. Lateralmente confinava con due immobili di proprietà, l’uno, dei fratelli Vannetti e, l’altro, di Marco Leni. Il prospetto retrostante dava su un cortile interno, prospicente via Monserrato, sulla qual via sorgevano due luoghi nazionali, la chiesa di Santa Maria degli Aragonesi-Catalani, le cui fondamenta erano state gettate nel 1518 proprio nello stesso isolato del “casalino”, e l’Ospizio degli Inglesi. Quest’ultimo rappresentava la Nazione che in quegli anni era il maggior acquirente di allume prodotto da Andrea Bellanti e soci, tra

1 ASR, Notai del Tribunale dell’Auditor Camerae, Notaio Nerotto, vol. 4507, c. 224r. Il documento è

riportato in Appendice B, doc. 10.

2 Per l’ubicazione del banco Chigi (oggi via dell’Arco dei Banchi) e la destinazione d’uso dei suoi locali

vedi Gnoli 1888, pp. 172-175. Cfr. Cugnoni 1879, pp. 487-490.

3 ASR, Notai del Tribunale dell’Auditor Camerae, Notaio Nerotto, vol. 4507, c. 224r. Il documento è

riportato in Appendice B, doc. 10.

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i quali compariva, come azionista minoritario, Agostino Chigi che deteneva un quinto delle quote.5

Il tempio, che la comunità senese si prestava a innalzare in memoria della santa concittadina, sarebbe sorto lungo quell’asse viario che nelle intenzioni di Giulio II, sarebbe dovuto diventare l’arteria portante del nuovo centro amministrativo, economico, commerciale e giuridico di Roma. Con l’elezione al soglio petrino di Giovanni Medici, il grandioso progetto di Della Rovere, già compromesso dalla Pax

Romana (1511) e dalla morte del fautore (1513) e di Bramante (1514), giunse al suo

fallimentare epilogo. Il passaggio dalla Renovatio Imperii giuliana alla Renovatio Etruriae leonina segnò la fine per molte opere architettoniche e urbanistiche promosse da Giulio II, quali le costruzioni del palazzo dei Tribunali e della piazza della Cancelleria. L’interessamento che Leone X manifestò unicamente per l’estremità settentrionale di via Giulia, area di pertinenza della civitas florentinorum, fece sì che negli anni del suo pontificato il lungo tracciato della via rimanesse per lo più fiancheggiato da orti, vigne e giardini, e da un’edilizia povera, in cui viveva «[…] gente vilissima, meretrici, hosti, alloggiatori e persone disoneste la maggior parte, poche case di nobili […]»6. Durante il pontificato mediceo la via bramantesca si ritrovò così esclusa dal circuito delle principali arterie cittadine, continuando a mantenere l’originario aspetto campestre. Lo spostamento dello sviluppo urbano in Campo Marzio e l’apertura di via Leonina, oggi via di Ripetta, furono le cause della condizione di isolamento in cui versò via Giulia. Testimonia la posizione marginale della via l’esclusione della stessa dal percorso del corteo funebre che nel 1520 accompagnò la salma di Agostino Chigi, morto prematuramente l’11 aprile, dalla villa Farnesina alla cappella in Santa Maria del Popolo: «Di Transtiberi si passò a Ponte Sixto per Campo di Fiore per Banchi fino al Ponte Sancti Angeli, e dal ponte retta prope flumine fino al Popolo.»7

Pertanto, quando presero avvio le vicende che portarono alla fondazione del primitivo edificio cultuale di Santa Caterina da Siena, strata Iulia aveva perso la sua originaria funzione ideologica e strutturale. Per comprendere i motivi che spinsero la comunità senese a erigere il proprio luogo di culto e di rappresentanza in quella via

5 Dante 1980, p. 76. 6Armellini1891,p. 424. 7 Agostino Chigi 1894, p. 87.

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che oramai era «tutt’altro che […] nobilitata o nobilitante»8, occorre tornare agli anni

in cui l’ambiziosa iniziativa urbanistica di Della Rovere aveva destato un interesse così grande da far registrare, nella nascente via e nelle adiacenti aree, una crescente urbanizzazione e una forte speculazione edilizia.9

Quando nel giugno del 1509 Giulio II concesse al nobile Collegio degli orafi ed argentieri di Roma il beneplacito di scegliere presso via Giulia un sito su cui erigere la propria chiesa, i soci dell’Università degli Orefici, dei quali molti erano Senesi, optarono per l’antica chiesa di Sant’Eusterio10. Una volta preso possesso dell’edificio chiesastico, i soci dell’Università cominciarono a costruire, o ad acquistare, beni immobili nella stessa insula su cui sorgeva la detta chiesa.11

La casa che fa ora angolo su via Giulia e il vicolo di Sant’Eligio fu pure sua (cioè di Agostino Chigi). Comperolla per suo conto maestro Antonio da san Marino. Parte di essa aveva appartenuto a Maestro Francesco di Antonio orafo senese e parte a Nicola di Cola Sabba cittadino romano. Rispondeva quattro ducati ogni anno alla università degli orafi per un giardino di venti canne che aveva presso, confinante coi beni di Bernardino Passeri della stessa università.12

Come ha evidenziato Luigi Spezzaferro, la politica speculativa e insediativa che la comunità senese attuò proprio in quell’area, si spiegherebbe sia con gli interessi immobiliari di Chigi sia con la vicinanza al Castrum – anche Castello o Campo –

Senense.13 Questo toponimo, di cui rimane testimonianza in alcuni documenti del Tre-Quattrocento14 e nelle piante di Roma nel secolo XIV di Christiano Hülsen (1926)

8Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 64. 9 Ivi, pp. 431-443.

10 Il 6 dicembre 1509, la Magistratura delle Strade, in previsione della rettifica della strada che unisce

via Giulia al Tevere, espropriò gli orafi del terreno su cui sorgeva Sant’Eusterio. A causa della demolizione di questa chiesa, Giulio II concesse «[…] alli diletti figlioli dell’Università degli Orefici in Roma di costruire et edificare et di far fabbricare una chiesa ovvero cappella sotto detta invocazione di S. Eligio in strada Giulia e in loco che per tale effetto si trovasse più comoda […]»: De Simoni, s.a., p. 18. Il progetto della nuova chiesa fu affidato dal “Nobil Collegio” a Raffaello, probabilmente grazie all’intercessione di Antonio da San Marino, uno dei quarantadue soci fondatori dell’Università nonché amico dell’Urbinate, con il quale aveva collaborato sia nella cappella Chigi in Santa Maria del Popolo sia nella cappella della Santissima Trinità in Santa Maria della Pace. Nel 1509 Raffaello si cimentò nella progettazione dell’edificio chiesastico, i cui lavori costruttivi iniziarono nel 1516. Dopo la morte dell’architetto (6 aprile 1520), il cantiere fu affidato a Baldassarre Peruzzi. Per un approfondimento sulla chiesa di Sant’Eligio degli Orefici vedi Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, pp. 431-439.

11 Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p 431. 12 Momo 1866, p. 203.

13 Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 431.

14 Allo stato attuale degli studi, il testamento di Andrea di Orso Orsini (1348) è il documento più

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(fig. 17) e nei secoli XV-XVI (1ª metà) di Roberto Valentini e Giuseppe Zucchetti (1946) (fig. 18), delineava la zona compresa tra la chiesa di Sant’Eusterio e il complesso monastico di Sant’Aurea, l’odierna chiesa nazionale dei Napoletani, dedicata allo Spirito Santo. Dai pochi studi condotti sul tema,15 risulta che sin dai primi decenni del secolo XIV un cospicuo gruppo di Senesi si sarebbe stabilito nella zona per svolgervi attività legate alla lavorazione del ferro. La colonia si sarebbe insediata nelle case turrite di proprietà della famiglia dei Boveschi, le quali avrebbero conferito al luogo «l’aspetto d’un castello»16, come dimostrerebbe, secondo Umberto Gnoli, un documento del 1386, in cui vengono citate alcune moniales poste nelle vicinanze di Sanctae Aurae Castelli Senensis.17

Tra la chiesa di Sant’Aurea e il Tevere, nel cosiddetto feudo o monte dei Planca Incoronati18, «[…] un luogo quasi vuoto di abitazioni e in mezzo a terreni incolti

[…]»19, sorgeva la piccola chiesa medievale di San Nicola20, dove la Nazione senese,

una volta istituitasi in Confraternita, svolse i suoi offici e le pratiche legate al culto21 in attesa di prendere possesso del proprio edificio chiesastico.

Sant’Aurea “in campo Senese de Urbe”. Il detto documento, facente parte del fondo Orsini dell’Archivio Storico Capitolino, è stato citato per la prima volta in Gnoli 1984, p. 65.

15 Gnoli 1984, pp. 65-67; Lazzarini 1939, p. 5. 16 Gnoli 1984, p. 65.

17 Ibidem. La notizia è riportata anche in Catastini 1890, p. 26.

18 Il monte, posto a cavallo tra il Rione Ponte e il Rione Regola, designava l’area di proprietà dei

Planca Incoronati. La sua estensione era compresa tra il palazzo di residenza della famiglia spagnola, il quale sorgeva sulla confluenza delle vie di Corte Savella (l’odierna via Monserrato), del Pellegrino e dei Banchi Vecchi, e il Tevere. Attualmente i confini di tale monte sono identificabili con via Monserrato, la chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani e piazza Ricci, e i vicoli Malpasso e Prigioni. Per un approfondimento sul Monte dei Planca Incoronati vedi Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, pp. 369-381.

19 Ceccarius 1940, p. 16.

20 Le origini della chiesa di San Nicola si fanno risalire al XII secolo, dato che questa compare per la

prima volta in una bolla di Urbano III del 1186. Nel corso del tempo diversi furono gli appellativi che assunse la chiesa, quali “della Forca” o de furcis, “dei Giustiziati”, “degli Impiccati”, “degli Incoronati” e “in piazza Padella”. I primi tre appellativi trovano ragione dalle condanne a morte che venivano eseguite in un orto vicino alla chiesa, nel quale si conservavano le forche per le esecuzioni e nel quale vi era un pozzo in cui venivano gettati i corpi dei giustiziati. Dal 1513 la chiesa fu conosciuta come San Nicola degli Incoronati, dalla famiglia spagnola dei Planca Incoronati che in quell’anno ottenne da Leone X in patronato la chiesa. Successivamente, assunse il nome della piazza sulla quale sorgeva l’attuale area compresa tra le Carceri Nuove e la chiesa di Santo Spirito dei Napoletani. Nel 1936 la chiesa di San Nicola e gli immobili che prospettavano su piazza Padella furono demoliti, al fine di aprire una nuova arteria di collegamento – mai realizzata – tra ponte Mazzini e la Chiesa Nuova. Promotore di tale intervento fu il regime fascista, impegnato in un’opera di ristrutturazione del centro storico di Roma, attuata attraverso la politica degli sventramenti. Per un approfondimento sulla chiesa di San Nicola vediArmellini 1891, p. 471-472; Martinelli 1715, p. 36; Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, pp. 426-427.

21 «[…] dopo qualche tempo la medesima Nazione in qualità di Compagnia si radunasse nella Chiesa

Parocchiale chiamata S. Nicolò di M.r Paulo degl’Incoronati, come apparisce da Decreto sotto li 10 Decembre 1520.»: ASV, Congregazione Visita Apostolica, Inventario della V(enerabile) Chiesa, e Comp(agni)a di

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3.2 Il primitivo edificio cultuale

Dal giorno in cui Leone X riconobbe la Compagnia di Santa Caterina da Siena22 (4 luglio 1519), approvandone i primi statuti23,al giorno in cui la stessa Compagnia acquistò la casa del mercante comacino, trascorsero circa quattro mesi, durante i quali i confratelli si prodigarono a porre «insieme tante limosine» per comprare «un bel sito», sul quale edificare «una chiesetta, con oratorio et altre stanze per habitazione de’ Sacerdoti»24. Parteciparono economicamente all’impresa, connazionali residenti sia a Roma sia a Siena, tra cui il decano dei cardinali Giovanni Piccolomini e Agostino Chigi, il quale si rivelò il benefattore più munifico e generoso. Ai circa

S. Caterina da Siena a Strada Giulia 1727, vol. 105, b. 10, c. 1rv. Il documento è riportato in Appendice B, doc. 19. Il primo luogo di culto della Nazione senese a Roma fu la chiesa di Santa Maria in Monterone, così chiamata per il cognome o il luogo di provenienza – Monteroni d’Arbia – di quella famiglia che nel secolo XIII fece costruire accanto alla chiesa un ospedale per offrire ricovero e assistenza ai pellegrini e ai viaggiatori senesi. Sul retro della chiesa, in corrispondenza dell’altare maggiore, sorgeva anche un cimitero che i Senesi utilizzarono per seppellire i propri concittadini. In occasione di particolari festività, la comunità senese ebbe l’abitudine di raccogliersi in preghiera nella cappella del Rosario o Capranica – dalla famiglia che esercitò il patronato sulla cappella – in Santa Maria sopra Minerva, dove riposava il corpo di santa Caterina dal giorno della sua dipartita (29 aprile 1380). Tale consuetudine, mantenutasi per quasi due secoli, s’interruppe nel 1573, quando i frati domenicani traslarono la salma della santa al di sotto dell’altare maggiore. Al ripristino del sepolcro nel suo primitivo domicilio (1579) fece seguito anche il ripristino della pratica. Dal 1855, anno in cui furono eseguiti i lavori che riconferirono alla Basilica l’aspetto gotico, il monumento fu nuovamente traslato sotto l’altare maggiore, dove attualmente si trova. In merito alla presenza della comunità senese al cospetto della cappella Capranica vedi AASCS, Sezione III, Relazione della nuova fabbrica della chiesa, oratorio e suoi annessi di S. Caterina da Siena in Roma fatta nell’anno 1798, vol. 21, fasc. 15. Il documento è riportato in Appendice B, doc. 32.

22 Sin dalla sua istituzione, la Confraternita senese si dedicò all’esercizio delle pratiche cultuali e

caritatevoli. Tra questi ultimi “uffici di pietà”, che aumentarono nel corso del tempo, si ricordano: l’ospitalità verso i pellegrini senesi; l’assistenza verso i connazionali infermi; la sepoltura dei defunti indigenti; la distribuzione di un pane ai carcerati in occasione della festa di san Bernardino (20 maggio) e, infine, l’elargizione di doti alle povere zitelle nazionali affinché potessero maritarsi o monacarsi. La donazione dei sussidi dotali, celebrata fino al 1927, anno in cui l’Arciconfraternita decise di cessare tale pratica, il 30 aprile con una solenne cerimonia, fu possibile grazie ai lasciti testamentari di alcuni benefattori, quali Ettore Quercia (1574), Carlo Tornioli (1611), Giacomo Mastianini (1632), Lorenzo de Rubeis o de Rossi (1639), Giovan Battista Rubini (1762), Giovan Battista Tommaini (1795) e Carlo Ricchebach (1858). Sulla storia della Confraternita di Santa Caterina da Siena e le opere pie a cui si dedicò vedi Boccardi 2006, pp. 179-214; cfr. ASV, Congregazione Visita Apostolica, Visitatio Societatis Nationis Senensis in Eccl(esi)a S. Catterina in via Julia An(num) 1694, vol. 105, b. 9, cc. 1-8r. Quest’ultimo documento è riportato in Appendice B, doc. 18.

23 «Gettate che furono le prime pietre fondamentali della Chiesa Nazionale, stabilirono anche i

Nazionali Senesi quelle della politica col firmare ottimi capitoli da osservarsi inviolabilmente […], e tanto piu quanto quelle leggi sono anche venerabili per che furono firmate in quell’anno 1519 da gran Copia di Nobili e savij Nazionali, tra q(ues)ti furono Gio(vanni) Bat(tis)ta Casolani, et Andrea Ciani Avocati Concistoriali di gran stima in q(ues)ta Corte Romana per la fama della loro singolar dottrina, et integrità. Procurarono questi di stabilire un governo Aristocratico, e per cio ordinarono che sotto il manto purpurato di un Card(inale) Nazionale si ricoverassero […]»: BAV, Codici Vaticani Latini 11889,

Theatrum Romanae Urbis sive Romanorum sacrae aedes, t. XX, c. 215v. Il documento, citato in Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 415, è riportato in Appendice B, doc. 15. Purtroppo non rimane copia di quei primi statuti che subirono modifiche, ampliamenti e riforme negli anni 1557, 1744, 1897, 1966, 1987 e 1998.

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1.000 scudi d’oro raccolti dai confratelli, il Magnifico aggiunse più di 4.000 ducati d’oro e donò alla Compagnia e alla chiesa di Santa Caterina da Siena, rispettivamente, un cataletto25 di mano di Baldassarre Peruzzi e una pala d’altare, raffigurante la

Resurrezione di Cristo26 (fig. 19) di Girolamo Genga (Urbino, 1476-1551).27

La neoistituita Societas sarebbe diventata de iure la proprietaria dell’immobile di Andrea di Cernusco alla fine delle festività natalizie del 1519: termine entro il quale Bellanti, Agazzari e Patrizi avrebbero dovuto saldare la cifra d’acquisto, pattuita in 350 ducati d’oro largo, 50 dei quali vennero dati in acconto a Mancini in sede di contratto. Quindi, dal 1520 i confratelli, disponendo pienamente del bene acquistato, avrebbero potuto dare l’avvio ai “melioramentis”28 necessari per trasformare l’unità abitativa in luogo di culto, che avrebbero interessato l’apparato murario, l’orto, la volta e il cortile. I lavori iniziarono il giorno seguente la morte del Magnifico. Il 12 aprile 1520, sempre nella sede del banco Chigi, il priore Andrea Bellanti si accordò con il capomastro muratore Antonio da Vico Morcote, sulla natura dell’intervento, sui tempi di realizzazione, sull’importo dei lavori e sulle quantità dei materiali impiegati (calce, sassi, tegole etc.), stimate in 15 libbre la canna. Le Conventiones “obbligarono” Antonio a «[…] cooprire lo corpo dela dicta ecclesia dalla parte principale fino allo muro dello altare della dicta ecclesia […] incolare et fare il matonato de dicta ecclesia sacristiam verzo […] voltare e coprire […] lo corpo de dicta ecclesia […] coprire et fare la volta della sacristia et coprire lo tecto d’essa […]”29. Con i 30 ducati d’oro largo ricevuti al momento della firma dei patti, il capomastro ticinese avrebbe dovuto pavimentare e voltare l’aula chiesastica, e ristrutturare la copertura. La messa in opera di tali lavori sarebbe dovuta avvenire nei tempi prescritti dal contratto: quindici giorni per il mattonato e otto giorni per la volta e il tetto. Sapendo che per il capomastro

25 All’inizio del Seicento le quattro tavole che formavano il cataletto peruzziano furono smontate «[…]

per sodisfare all’esqui(si)to gusto nella pittura alla gloriosa mem(oria) del Card. [Francesco] Gonzaga, che le dimando […].»: BAV, Codici Vaticani Latini 11889, Theatrum Romanae Urbis sive Romanorum sacrae

aedes, t. XX, c. 215r. Il documento, citato in Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 415, è riportato in Appendice B, doc. 15. Purtroppo a seguito dello smembramento delle raccolte dei duchi di Mantova, le quattro tavole, dalle quali Francesco Gonzaga ricavò altrettanti quadri, due dei quali rappresentavano l’effigie di Santa Caterina e del beato senese Ambrogio Sansedoni, andarono disperse.

26 Attualmente la pala di Genga è visibile nell’oratorio della chiesa, dove è stata collocata a seguito dei

lavori settecenteschi.

27 Sulla committenza svolta da Agostino Chigi per la chiesa di Santa Caterina da Siena vedi Cugnoni

1881,p. 42.

28 ASR, Notai del Tribunale dell’Auditor Camerae, Notaio Nerotto, vol. 4507, c. 224r. Il documento è

riportato in Appendice B, doc. 10.

29 ASR, Collezione acquisti e doni, b. 46, n. 53, fasc. 15, c. 74r. Il documento è riportato in Appendice B,

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muratore il mancato adempimento di tale disposizione avrebbe comportato la restituzione delle somme percepite e la perdita dell’incarico affidatogli, si può presumere che i lavori del corpo della chiesa si chiusero in meno di un mese. La ristrettezza dei tempi di esecuzione trova ragione nella modesta natura dell’intervento, il quale sarebbe giunto a compimento con l’ultimazione dei lavori della sacrestia. Prima di dare inizio a queste ultime fatiche, consistenti nella realizzazione della volta e del tetto, Bellanti avrebbe accreditato ulteriori 20 ducati d’oro largo ad Antonio da Vico Morcote.

Le fonti sei-settecentesche, a cui più volte si è fatto riferimento, attribuiscono a Baldassarre Peruzzi la paternità del disegno del primitivo tempio di Santa Caterina da Siena. Tale testimonianza, sebbene fino a oggi non supportata dai documenti del secolo XVI e dalle biografie dell’architetto, risulta plausibile alla luce di alcune rispondenze. Innanzitutto, la consuetudine delle confraternite di affidare la progettazione e/o l’abbellimento del proprio luogo di culto ad artisti connazionali30, il cosiddetto “atteggiamento di consorteria”31. Stando a Vasari, sia le origini senesi sia la maestria del fare artistico di Peruzzi, valsero allo stesso artista l’amicizia e la protezione di Agostino Chigi32, colui che gli commissionò il già ricordato feretro e colui che, come si vedrà più avanti, fu uno dei fautori di quell’impresa nazionale. Pertanto, il ruolo svolto dal Magnifico potrebbe essere un ulteriore dato indiziario del coinvolgimento di Baldassarre in Santa Caterina da Siena anche a livello progettuale. Infine, l’appunto «ricordo parlare a Baldassarre da Siena»33, annotato da Genga sul retro di uno dei due studi preparatori34 della Resurrezione di Cristo35, indurrebbe a

30 «Baldassarre Sanese […] fu sempre per sanese conosciuto […]»: Vasari-Milanesi 1906, IV, p. 592.

Vasari specifica la provenienza senese di Peruzzi, dato che oltre a Siena anche Firenze e Volterra si contendevano i suoi natali.

31 Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 131.

32 «[…] Baldassarre […] fece amicizia strettissima con Agostino Ghigi sanese, sì perché Agostino

naturalmente amava tutti i virtuosi, e sì perché Baldassarre si faceva Sanese […]»: Vasari- Milanesi 1906, IV, p. 592.

33 «Recordo andare a domino gironimo se (no?) viene / Ricordo andare a meser gironomo con...la... /

ricordo andar a maestro guido per el gruppo (con) la calce / pierantonio dar le prece con le lettere a casa de meser (gironimo?) / involti ne siugatoio con le scuffie / ricordo fare portare el materazzo al patrone / ricordo parlare a Baldassarre da Siena»: Colombi Ferretti 1985, p. 66.

34Si tratta del disegno preparatorio conservato alla National Gallery of Scotland di Edimburgo. L’altro

studio è conservato alla Galleria Nazionale di Oslo. Vedi Colombi Ferretti 1986, p. 70.

35 Sulla pala di Genga emergono due problematiche relative alla committenza e, di conseguenza, alla

datazione. Infatti, mentre Antonio Bruzio e Fabio Chigi, vogliono che a commissionarla fosse stato Agostino Chigi (BAV, Codici Vaticani Latini 11889, Theatrum Romanae Urbis sive Romanorum sacrae aedes, t. XX, c. 212v; Cugnoni 1881, p. 42. La prima fonte menzionata, citata in Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 415, è riportata in Appendice B, doc. 15), i critici d’arte ritengono che a commissionarla fosse

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pensare che l’operato di Peruzzi, relativamente alla fabbrica cateriniana, non si fosse limitato all’esecuzione di «[…] molte cose tutte lodevoli», delle quali l’unica opera certa è la «[…] bara da portar morti alla sepoltura che è mirabile […]»36. Il detto appunto lascerebbe supporre che Peruzzi avesse anche sovrinteso alle maestranze, come peraltro si evince dal contratto stipulato tra Andrea Bellanti e Antonio da Vico Morcote, nel quale viene specificato che il lavoro eseguito dal capomastro muratore, «[…] et cossì ogni altra differentia che venisse o potesse occurrere […]», avrebbe dovuto «[…] stare al pretio et iuditio […] per maestro Baltasare pictore citadino Senese […]»37. L’identificazione di «maestro Baltasare pictore citadino Senese» con Baldassarre Peruzzi trova riscontro in alcuni documenti, coevi e antecedenti a quello appena citato, nei quali il nome dell’artista è sempre preceduto dall’appellativo “maestro”: «maestro baldesar per chonte de la cappella de li mulatere carlini vinti»38, «[…] dicto maestro Baldasarre promecte lavorare e fare lavorare in dicta tribuna […]»39. Le due citazioni, estrapolate dai documenti riguardanti la chiesa di San Rocco40, si riferiscono, rispettivamente, al pagamento riscosso per le pitture della cappella dei mulattieri (18 agosto 1511) e alla stipulazione del contratto per la realizzazione della tribuna (20 maggio 1520). Attestata la veridicità dell’attribuzione proposta, si può comprendere l’importanza delle Conventiones: l’unica fonte cinquecentesca in cui Baldassarre Peruzzi viene menzionato in riferimento al cantiere di Santa Caterina da Siena.

Sulla base di quanto è emerso, è possibile far risalire la progettazione del primitivo luogo di culto della Nazione senese tra la fine del 1519 e i primi mesi del 1520.

stato il fratello Sigismondo, mosso dalla volontà di dare compimento a un desiderio espresso da Agostino prima di morire (Spezzaferro 2005, p. 441). Se fosse giusta la prima versione, l’opera di Genga andrebbe datata, almeno per quanto riguarda il suo inizio, a ridosso del 1520. Al contrario, se avessero ragione gli studiosi, allora andrebbe fatta risalire al 1523, anno in cui sono documentati rapporti d’affari tra Sigismondo e l’artista urbinate. Ma anche in quest’ultimo caso ci sono posizioni diverse. Infatti, mentre per Spezzaferro il dipinto è stato realizzato tra il 1523 e il 1527, per Annamaria Petrioli Tofani la sua realizzazione risale alla fine del 1530. Sempre secondo lo Spezzaferro ciò sembrerebbe difficile, dal momento che dopo il 1527 la presenza di Genga è abbondantemente documentata a Pesaro dove era impegnato nella costruzione della villa Imperiale. Vedi Petrioli Tofani 1964, p. 48-58; Spezzaferro 2005, p. 441.

36 Vasari- Milanesi 1906, IV, p. 592.

37 ASR, Collezione acquisti e doni, b. 46, n. 53, fasc. 15, c. 74r. Il document è riportato in Appendice B,

doc. 11.

38 Frommel 1961, pp. 177-178.

39 ASR, Ospedale di San Rocco, b. 1, c. 318. Il documento è citato in Frommel 1961, pp. 180-181. 40 Come è emerso dagli studi compiuti da Frommel, il 10 settembre 1508 Baldassarre Peruzzi entrò a

far parte della Confraternita di San Rocco, nella quale ricoprì gli incarichi di camerlengo (1515), sindaco (1524) e guardiano (1527). Vedi Frommel 1961, pp. 171-188.

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Baldassarre avrebbe così studiato il modo di intervenire sulla preesistenza tra la firma del contratto per la costruzione di palazzo Orsini a Bomarzo41 (29 dicembre 1519) e la firma del contratto per i lavori della tribuna della chiesa di San Rocco. Come è noto, il 1520 segnò uno spartiacque nella produzione peruzziana. Se prima di quella data le commesse pittoriche superarono per numero e pregio quelle architettoniche, queste spesso di incerta attribuzione, ad eccezione della villa Farnesina, del duomo di Carpi e della cappella Ponzetti in Santa Maria della Pace, dopo il 1520 la situazione si ribaltò, soprattutto a seguito della nomina di Peruzzi a secondo architetto di San Pietro. Al pari di Baldassarre, anche Raffaello, prima di essere chiamato in San Pietro (1514), legò la sua fama più agli interventi pittorici che a quelli architettonici, dei quali si ricordano i progetti delle stalle Chigi, della cappella Chigi in Santa Maria del Popolo, entrambi commissionatigli dal Magnifico, e della chiesa di Sant’Eligio degli Orefici.

La mancanza di documentazione grafica non permette di conoscere le soluzioni tipologiche e linguistiche adottate dall’architetto per superare i condizionamenti imposti dal sito irregolare e dall’immobile preesistente, gli “accidenti difficili”, come definiti da Howard Burns42. Tuttavia, incrociando i dati che si desumono dalle fonti sei-settecentesche, è possibile offrire una restituzione sommaria dell’edificio cultuale. Questo era ad aula unica, dall’impianto leggermente trapezoidale e dallo sviluppo longitudinale di circa quindici metri (69 palmi). Era largo in facciata poco più di sette metri (32 palmi), mentre di fronte all’abside si estendeva per circa otto metri (35¾ palmi). Si concludeva nel vano del coro, quest’ultimo dalla larghezza di circa tre metri e mezzo e dalla profondità di quasi due metri (16 x 8 palmi).43 Oltre alla cappella maggiore che ospitava l’altare dell’Assunta, al di sopra del quale fu collocata la pala di Genga, vi erano due cappelle laterali, dedicate a santa Caterina (a cornu Epistulae) e a san Bernardino (a cornu Evangelii). Al di sopra degli altari laterali vi era una nicchia, al cui interno era alloggiata una grande statua in gesso del santo titolare della cappella,

41 Prendendo come riferimento la stipula del contratto con Giovanni Corrado Orsini, la presenza di

Peruzzi a Bomarzo è documentata il 7 maggio 1520. Vedi Frommel-Fagliari Zeni Buchicchio c2002, pp. 111-117.

42 Tessari 1995, p. 9.

43 Per le misure della chiesa vedi AASCS, Sezione III, Relatione dello stato temporale della Comp(agni)a di S.

Cattarina di Siena in Roma data l’anno 1662, vol. 12, fasc. 15; ASV, Congregazione Visita Apostolica, Inventario della V(enerabile) Chiesa, e Com([agni)a di S. Caterina da Siena a Strada Giulia 1727, vol. 105, b. 10, c. 1v; BAV, Codici Vaticani Latini 11889, Theatrum Romanae Urbis sive Romanorum sacrae aedes, t. XX, c. 212r. I documenti citati sono riportati in Appendice B, rispettivamente docc. 17, 19, 15.

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raffigurato secondo l’iconografia tradizionale44. L’interno, illuminato da tre finestre poste in facciata, delle quali una di grandi dimensioni e due più piccole, fu affrescato da Timoteo Viti o Della Vite (Urbino, 1469-1523). Visti il coinvolgimento di Peruzzi in questa fabbrica e le “molte altre cose” che fece per la Compagnia di Santa Caterina da Siena, è lecito ipotizzare che l’artista avesse contribuito anche all’esecuzione dell’apparato decorativo. Baldassarre avrebbe potuto, infatti, avvalersi della pittura prospettica per ovviare ai limiti derivanti dalle contenute dimensioni dell’edificio e dall’irregolarità del sito.

I molti impegni che Peruzzi assunse a partire dal 1520, a causa dei quali non poté garantire una continua presenza in cantiere e per i quali si dovette assentare da Roma45, potrebbero spiegare perché la consacrazione di Santa Caterina da Siena avvenne solo nel 1526. Infatti, a quella data Genga aveva già fatto ritorno a Urbino, dove nel 1523 era entrato al servizio dei duchi della città, mentre Viti era deceduto. A causa della mancanza di riscontri, l’ipotesi rimane tale.

Successivamente al cantiere peruzziano, furono promossi altri interventi decorativi, eseguiti da Giovanni de’ Vecchi (Borgo San Sepolcro, ca. 1537 – Roma, 1615), il quale affrescò le pareti delle cappelle laterali e le lunette della volta con scene raffiguranti alcuni miracoli compiuti in vita dai due santi senesi46, e da Antiveduto Grammatica47 (Roma, ca. 1571-1626). Anche in questo caso, la frammentarietà delle

fonti non permette di risalire al periodo in cui intervennero gli artisti.

Completavano il complesso di Santa Caterina da Siena le abitazioni del cappellano e del sacrestano, l’archivio, l’oratorio e le stanze per le Congregazioni segrete del sodalizio, per il ricovero delle suppellettili sacre, dell’arredo chiesastico (paliotti, stendardi etc.) e dei paramenti liturgici (pianete, piviali etc.) e per l’ospitalità ai connazionali che giungevano a Roma.48 A questi ambienti, disposti nei due piani

44 Santa Caterina era raffigurata «[…] con Giglio, e libro in mano […]», mentre san Bernardino «[…]

con libro in mano, in mezzo a cui vedesi intagliato in oro il SS.mo nome di Gesù.»: ASV, Congregazione Visita Apostolica, Visitatio Ecclesiae, et Archiconf(raternita)s S. Catherinae Senensis Nationij An(num) 1739, vol. 105, b. 11, c. 11r. Il documento è riportato in Appendice B, doc. 20.

45 Si ricorda il soggiorno bolognese del 1521-1522.

46BAV, Codici Vaticani Latini 11889, Theatrum Romanae Urbis sive Romanorum sacrae aedes, t. XX, c. 212v.

Il documento, citato in Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 415, è riportato in Appendice B, doc. 15.

47Riedl 1998, p. 205.

48 Nel corso degli anni il complesso di Santa Caterina da Siena aumentò: ne entrarono a far parte dal

21 novembre 1609 piccole stanze con quattro letti che servivano per dare ospitalità alle monache di San Gregorio e San Nicola di Siena - dette di Madonna Agnese – che nel 1400 divennero proprietarie di quattro case poste accanto alla chiesa di Santa Maria in Via a Roma, grazie a un lascito di Madonna

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superiori alla chiesa, ad eccezione delle stanze riservate al sacrestano, poste nel cortile, si accedeva per mezzo di una scala, raggiungibile dal corridoio che partiva dalla sacrestia, quest’ultima contigua al muro dell’altare maggiore.49 Di questi locali, il più interessante per collocazione era l’oratorio, situato al di sopra della chiesa, della quale ne aveva la «[…] medesima lunghezza e larghezza […]»50. Era a uso del cappellano e dei confratelli, i quali vi tenevano le congregazioni generali e vi recitavano le orazioni, al termine delle quali veniva officiata la Messa. Nell’oratorio vi era infatti anche un altare, al di sopra del quale, dal 18 novembre 1625, era custodita dentro un tabernacolo un «[…] una copia del Crocifisso che parlò a Santa Cattarina portato in dono l’anno 1625 [18 novembre] dalla compagnia di Siena […]»51. La Confraternita di Santa Caterina da Siena in Fontebranda52 incaricò il pittore Rutilio Manetti (Siena, 1571-1639) di riprodurre fedelmente il crocifisso conservato nella chiesa di Santa Cristina a Pisa, a sua volta copia di un originale duecentesco, al cospetto del quale l’1 aprile 1375 la santa senese visse quell’intensa esperienza spirituale e corporea, i cui segni – stimmate – le rimasero impressi sino alla morte (figg. 20-21).

3.2.1 Cappella della Compagnia di Santa Caterina da Siena o chiesa della

Nazione senese: alcune considerazioni

Per le contenute dimensioni del primo edificio sacro dedicato a Santa Caterina da Siena, che gli valsero gli aggettivi di piccolo e angusto53, e per l’assenza di questo progetto dalle biografie di Baldassarre Peruzzi, nel 1973 Spezzaferro arrivò a

Landa, moglie di Baldo da Perugia. Nel 1503, secondo la volontà di Pio III Piccolomini (1503), le case servirono per offrire ricovero alle donne senesi che venivano in pellegrinaggio a Roma. Il 5 maggio 1564 la Compagnia di Santa Caterina da Siena per 22 ducati d’oro e 2 libbre di cera prese in enfiteusi – dalla durata di ventinove anni – le case con l’obbligo di mantenere la destinazione d’uso. Le case furono affrancate il 4 luglio 1606 per 775 scudi d’oro. E nel 1609, con il beneplacito delle monache, furono spostati questi letti all’interno del complesso chiesastico. Vedi BAV, Codici Vaticani Latini 11889, Theatrum Romanae Urbis sive Romanorum sacrae aedes, t. XX, c. 213rv. Il documento, citato in Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 415, è riportato in Appendice B, doc. 15.

49 BAV, Codici Vaticani Latini 11889, Theatrum Romanae Urbis sive Romanorum sacrae aedes, t. XX, c. 213r.

Ibidem.

50 BAV, Codici Vaticani Latini 11889, Theatrum Romanae Urbis sive Romanorum sacrae aedes, t. XX, c. 213r.

Ibidem.

51AASCS, Sezione III, Relatione dello stato temporale della Comp(agni)a di S. Cattarina di Siena in Roma data

l’anno 1662, vol. 12, fasc. 15. Il documento è riportato in Appendice B, doc. 17.

52 ASS, Regesti, 2007, p. 114.

53 ASV, Congregazione Visita Apostolica, Visitatio Societatis Nationis Senensis in Eccl(esi)a S. Catterina in via

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ipotizzare che nel 1526 venisse consacrata una piccola cappella, da adibire successivamente a chiesa e oratorio su progetto dell’architetto senese.54 A seguito del ritrovamento del contratto stipulato tra Andrea Bellanti e Antonio da Vico Morcote, è possibile affermare che il sodalizio senese si avvalse di Peruzzi sin dal 1520, a differenza di quanto supposto dallo studioso. La tesi di Spezzaferro, inesatta per quanto attiene la presenza di Baldassarre in quella fabbrica, sembrerebbe comunque plausibile per quanto riguarda la tipologia dell’edificio consacrato. Infatti, l’acquisto di un piccolo edificio dell’edilizia romana e gli esigui lavori promossi per adeguarlo alle nuove finalità d’uso, suggeriscono l’intenzione della Confraternita di Santa Caterina da Siena di realizzare un luogo di culto privato piuttosto che una chiesa per i propri connazionali. Le modeste dimensioni dell’aula sacra non avrebbero permesso di accogliere una cospicua comunità di fedeli, tanto è vero che nel Sei-Settecento i confratelli espressero più volte la necessità di ricostruire una chiesa più capiente55. Al di là delle dimensioni dell’edificio, a sostenere la tesi secondo la quale inizialmente Santa Caterina da Siena sarebbe stata una cappella, è la posizione sopraelevata dell’oratorio rispetto all’aula cultuale. La scelta di collocarlo all’ultimo piano dell’immobile, del quale rimaneva in parte la partizione interna originaria, risponderebbe alla necessità di offrire spazi funzionali più per il sodalizio che per la comunità. Oltre a ciò, non va dimenticato che l’edificio in esame non compare nell’elenco delle chiese e dei benefici di Roma che, nel 1561, Pio IV tassò per far fronte alle necessità dei poveri56. Dopo soli cinque anni avvenne però un cambiamento, dato che Santa Caterina da Siena venne inserita nel catalogo della sacra visita delle chiese di Roma, promossa da Pio V Ghislieri (1566-1572).57 Sulla base di queste fonti, si può supporre che, al massimo dopo quarant’anni dalla consacrazione, la cappella di Santa Caterina da Siena divenne ufficialmente chiesa. Tuttavia, come ha dimostrato Christian Hülsen, la compilazione della Tassa di Pio IV non è da considerarsi del tutto attendibile, a causa dei numerosi errori di stampa e di trascrizione dei nomi delle chiese, ad esempio, la Basilica Vaticana viene indicata come “S. Pietro in Toscana, basilica” –, degli ospedali nazionali e dei rioni.58 Al

54 Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 416.

55 ASV, Congregazione Visita Apostolica, Inventario della V(enerabile) Chiesa, e Comp(agni)a di S. Caterina da

Siena a Strada Giulia 1727, vol. 105, b. 10, c. 24r. Il documento è riportato in Appendice B, doc. 19.

56 Armellini 1887, pp. 76-81; Hülsen 1927, pp. XVI-XVII. 57 Catastini 1890, p. 28; Hülsen 1927, pp. XIX, 96-106. 58 Hülsen 1927, p. XVII.

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massimo tre anni dopo gli Acta Visitationis sub Pio V, la chiesa si dotò di un Nationis

Senensis Sepulcrum59, come testimonia Bruzio, il quale cita tra le lapidi sepolcrali del secolo XVI quelle di Giulio Giacomo Apolloni (1569), Cesare Orlando di Pietro Mani (1578), Tiberio Cerrato (1591), Giovanni Berto Raffaeli (1591) e Porzio Marescotti (1592)60.

Sebbene già dal 1566, l’edificio di proprietà della Confraternita di Santa Caterina da Siena fosse riconosciuto come chiesa, da un documento del 22 febbraio 1603, di cui si parlerà in seguito, si viene a conoscenza del fatto che fino ai primi anni del secolo XVII il detto edificio mantenne l’originario prospetto in mattoni, tipico delle case a schiera dell’edilizia romana del secolo XVI, come si può vedere nella già citata pianta prospettica di Tempesta (fig. 22). Oltre a denunciare la mancanza di una facciata compiuta, dovuta probabilmente al sacco di Roma che, come si è detto in precedenza, bloccò i cantieri ancora in corso d’opera, il documento ci informa che almeno da quasi cinquant’anni i confratelli ebbero in animo di far dipingere e ornare la facciata.61 La volontà di realizzare una facciata sembrerebbe sintomatica di un mutato spirito del sodalizio, desideroso di conferire riconoscibilità al proprio luogo di culto. In verità, come risulta da una lettera inviata nel 1542 dalla Balìa della Repubblica di Siena a monsignor Giovanni Gaddi, al fine di riscattare il complesso di Santa Caterina da Siena di Roma, messo all’incanto per i debiti contratti dalla Confraternita, e di cui si parlerà successivamente, fu intenzione del sodalizio di dotarsi da subito di una chiesa rappresentativa della Nazione senese.

59 Nel cimitero nazionale non furono sepolti solo i confratelli, ma anche importanti personalità senesi,

quali, ad esempio, il pittore Antiveduto Grammatica e i suoi familiari, come dimostra la lapide marmorea – “DEO VNI / ET MEMORIAE / IMPERIALIS DE GRAMMATICA / ET / ARTEMISIAE CAMOYAE / SENENSIVM CIVIVM / QVOSTHORUS VNVS / VNAQVE IVNXIT MORS / AC TVMVLVS / TITVLVS VT ESSET VNVS / FECIT / ANTIVEDVTVS / PARENTIBVS OPTIMIS / BENEMERENTIBVS” – che a seguito dei lavori settecenteschi venne murata nel passaggio che collega le due cappelle laterali di sinistra. Tra le fonti che riportano la notizia vedi Baglione 1935, p. 294; AASCS, Sezione III, Relatione dello stato temporale della Comp(agni)a di S. Cattarina di Siena in Roma data l’anno 1662, vol. 12, fasc. 15. Quest’ultimo documento è riportato in Appendice B, doc. 17.

60BAV, Codici Vaticani Latini 11889, Theatrum Romanae Urbis sive Romanorum sacrae aedes, t. XX, c. 216v.

Il documento, citato in Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 415, è riportato in Appendice B, doc. 15.

61 «Essendo che da molti Anni adietro se sia tratto più volte nella Congre(gazio)ne fatte dalla

Ven(erabi)le Compagnia di S. Catherina della Nazione senese di far dipingere e ornare la facciata dinanzi della Chiesa di detta Compagnia, dirse sempre tutta la natione se sia monstrata desiderosa, et accesa, et essendosi fin dell’Anno 1559 fusse fatto un foglio sottoscritto da quattro o sei di detta Natione, che promettevano far la spesa che fusse occorsa in detta pittura, e ornamento […]»: ASR, Segretari e Cancellieri della Reverenda Camera Apostolica, Notaio Ferrino vol. 693, c. 348r. Il documento, citato e trascritto in Rolfi 1997, pp. 206-207, è riportato in Appendice B, doc. 14.

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Molti di questa natione a li anni passati ordinorno in cotesta alma Città una loro chiesa o oratorio sotto il titolo di S.ta Cate(rina) da S(iena), per la quale presero il sito con certo canone quale per molti anni pagarono; ma succedendo di poi travagli et costà et quà così importanti che non si sono potute così diligentemente curare le cose come serìa stato conveniente. […] la preghiamo che si contenti, dentro ai termini del danno suo (che questo non voliamo) aiutare questi noxtri et essere operatore che così indegnamente una chiesa per tanti anni principiata et sotto lo honorato nome di quella santa non abbia spegnersi […].62

Sulla base di quanto esposto, risulta difficile definire con certezza la natura del primitivo luogo di culto intitolato a Santa Caterina da Siena, a causa sia della scarsità documentaria sia della contraddizione generata dall’essere, da una parte, un piccolo edificio, dall’altra, sede di una Confraternita che rappresentava la Nazione senese a Roma. Infatti, nel 1519 il sodalizio si vide riconfermato da Leone X il privilegio di portare in processione il Baldacchino nella festività del Corpus Domini, che era stato conferito da Pio II Piccolomini (1458-1464) nel primo anno del suo pontificato a un gruppo di connazionali63.

3.3 Il ruolo di Agostino Chigi: promotore o benefattore?

Per comprendere meglio le vicende che portarono all’istituzione del sodalizio senese e all’edificazione della chiesa di Santa Caterina da Siena, si dimostra necessaria una digressione sulla persona di Agostino Chigi, il cui nome torna spesso in quel cantiere sia per le donazioni elargite sia per le commissioni effettuate. Inoltre, il suo nome si lega a quello di Andrea Bellanti e al progetto di Giulio II, il pontefice che lo consacrò sulla scena romana.

Le fonti storiche più antiche, che testimoniano un coinvolgimento di Agostino in merito alla Confraternita di Santa Caterina da Siena e alla chiesa cinquecentesca, presentano il Magnifico talvolta come benefattore talvolta come promotore di quel disegno. Se Alessandro VII Chigi (1655-1667) nei suoi Chisiae Familiae Commentarij ricorda solo i doni che il prozio fece alla Compagnia e alla chiesa di Santa Caterina da

62 La lettera, citata e trascritta da Catastini 1890, pp. 57-58, è riportata in Appendice B, doc. 13c. 63 «Pio II; che fu Enea Silvio Piccolomini nell’anno 1458 dell’erezzione della Confrater(nit)a concesse

alla nazione Sanese di portare le aste del Baldacchino nella Processione del Corpus Domini a cui interviene il Papa, e di tal privilegio segue ora a godere l’Archiconfrater(nit)a.»: BAV, Codici Vaticani Latini 9198, Della Chiesa della Ven(erabile) Archiconfraternita di S.ta Caterina di Siena, c. 84r. Il documento, citato in Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 415, è riportato in Appendice B. doc. 17.

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Siena (il cataletto di Peruzzi e la pala d’altare di Genga), Bruzio nella storia Della

Compagnia di S. Catherina della Nazion Senese, al contrario scrive che la Confraternita si

congregò «[…] sotto la scorta di Agostino Chisi Patrizio Senese […], [il quale] proteso di stabilire la memoria di Si gran santa con dedicarle una Chiesa in Roma […] deputò per tanto chi raccogliesse l’elemosine de fr(at)elli per tal opera […], [la Nazione] non havendo potuto trovar più che mille scudi d’oro, vide […] che senza l’aiuto del Chisi si rendeva impossibile l’essecuzione di si santo dissegno, riccorsero quindi alla di lui esprimentata pietà. Non armò egli l’orecchie […], ò si legò le mani […], ma udì si bene le suppliche de’ Nazionali, e con magnificenza degna de’ suoi natali aprì i suoi Scrigni per comprare l’immortalità soministrando più di quattro mila ducati d’oro per comprare il sito, e metter mani alla fabrica […]»64.

Pertanto, dato che il Magnifico era strettamente connesso sia alla fabbrica, per le donazioni elargite, sia ad Andrea Bellanti, per i rapporti d’affare che intessé con questi, sia per gli interessi speculativi che aveva in via Giulia, si rende necessario un approfondimento sulla sua figura, in modo da comprendere meglio le vicende che portarono all’istituzione del sodalizio senese e all’edificazione del primitivo complesso cultuale.

Andrea Bellanti fu socio di Chigi nella società appaltatrice delle miniere di allume a Tolfa, collega del banco di famiglia e per alcuni anni suo affine, avendone sposato nel 1488 la sorella Eufrasia, morta nel 1496. Sebbene le notizie su Bellanti siano scarse e lacunose, è certo che nel 1513 si trasferì da Siena a Roma, dove fu “recerchato” da Agostino65, del quale divenne collaboratore e socio.

Bellanti con tutta probabilità agì da prestanome per Chigi che, ritrovandosi coinvolto in una disputa legale con gli Spannocchi, temeva la confisca dei beni. La causa con gli Spannocchi si concluse il 4 luglio 1519, esattamente lo stesso giorno in cui Leone X riconobbe il sodalizio senese. Pertanto, si può supporre che anche per quanto riguarda l’istituzione della Confraternita e la fondazione della chiesa di Santa Caterina da Siena, Bellanti avesse eseguito le disposizioni di Agostino. Come fece, ad esempio,

64BAV, Codici Vaticani Latini 11889, Theatrum Romanae Urbis sive Romanorum sacrae aedes, t. XX, cc. 212r.

Il documento, citato in Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 415, è riportato in Appendice B, doc 15.

65 «[…] e essendo io [Andrea Bellanti] venuto a Roma nel a(n)no 1513 fuj recerchato da m(esse)r

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anche Antonio da San Marino66, quando l’8 febbraio 1515 comprò per conto del Magnifico le già ricordate case poste ad angolo tra via Sant’Eligio e via Giulia, identificabili con il palazzo posto attualmente al numero civico 23 di quest’ultima. Sull’altra sponda del Tevere, in corrispondenza del Castrum senense e della casa acquistata dalla Confraternita, si ergeva la villa suburbana che Baldassarre Peruzzi aveva realizzato, tra il 1508 e il 1511, per Agostino Chigi. La villa sorgeva lungo un altro asse viario interessato dal rinnovamento urbanistico giuliano, via della Lungara, il cui tracciato rettilineo, compreso tra le porte Santo Spirito e Settimiana, sarebbe dovuto arrivare sino al porto fluviale di Ripa Grande, così da mettere in collegamento il Vaticano e Fiumicino. Secondo Arnaldo Bruschi, sarebbe da far risalire alla funzione commerciale della via la scelta del banchiere toscano di farvi costruire un’altra dimora, dati i commerci marittimi che gestiva.67

Ed è proprio la figura di Agostino Chigi – con i differenti interessi che egli sembra avere nelle tre strade – che può forse darci la riprova delle loro differenti caratterizzazioni. Se infatti egli ha il proprio banco e i propri fondaci nel “forum nummulariorum”68 e se costruisce […] la propria villa alla Lungara, su via Giulia il suo nome è invece documentabile in relazione a due confraternite: quella degli orefici e quella dei senesi […]. Tra la strada dei Negotia [via dei Banchi] e quella degli Otia [via della Lungara], la via Giulia si pone cioè come strada di rappresentanza pubblica, di pubbliche relazioni.69

Non si deve dimenticare che Giulio II è stato il pontefice che ha decretato la piena affermazione del potere per Agostino Chigi, nominandolo banchiere della Santa Sede, inserendolo alla Zecca, controllata dall’Università degli Orefici, e riconfermandogli le concessioni ricevute dal predecessore Alessandro VI70, quali la gestione delle entrate provenienti dalla dogana delle merci e delle pecore nonché dal monopolio del sale e dell’allume. Inoltre, si deve tener presente che proprio negli stessi anni in cui presero avvio le vicende storico-costruttive della chiesa di Santa

66 Il “primo piu’ eccellente orefice di Roma”, secondo Benvenuto Cellini, nel 1513 lavorò con

Raffaello nelle cappelle Chigi in Santa Maria della Pace e in Santa Maria del Popolo.

67 Bruschi 1969, pp. 630-631.

68 Il nome si deve a Leonardo Bufalini che chiamò così il tratto iniziale di via Mercatoria, come si vede

nella sua pianta di Roma (1551).

69 Salerno-Spezzaferro-Tafuri 1973, p. 57.

70 Per i monopoli che Alessandro VI concesse ad Agostino Chigi, e più in generale sulla sua attività,

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Caterina da Siena, Leone X stava promuovendo la costruzione di San Giovanni dei Fiorentini, affermando così al contempo sia la presenza fiorentina a Roma sia l’egemonia della propria casata, tanto nell’Urbe quanto nella città di origine. Il Magnifico avrebbe potuto emulare l’amico, volendo creare, nelle immediate vicinanze della “roccaforte” fiorentina, un quartiere senese. Se letta in quest’ottica, la fondazione della chiesa di Santa Caterina sembrerebbe assumere un valore programmatico, che giustificherebbe la scelta del sito. Inoltre, anche il coinvolgimento di Peruzzi, Genga e Viti sarebbe la riprova della presenza chigiana nelle sorti di quel cantiere; si tratta, infatti, di artisti che il Magnifico coinvolse in altre opere. Viti collaborò con Raffaello nella cappella Chigi in Santa Maria del Popolo; Genga, secondo Vasari, sarebbe stato chiamato a Roma da Chigi proprio per realizzare la pala d’altare della chiesa di Santa Caterina da Siena; Peruzzi aveva realizzato per Agostino la sua villa suburbana. Proprio il nome di quest’ultimo sembra indirettamente confermare la presenza di Agostino dietro il cantiere della chiesa della Nazione senese, al di là della modestia del disegno della chiesa stessa.

3.4 Un rapido declino

Dalla già citata lettera che nel 1542 la Balìa della Repubblica di Siena inviò a monsignor Gaddi, risulta che a causa di “[…] travagli […] così importanti”71, la Confraternita di Santa Caterina da Siena iniziò a non rispettare il pagamento del censo che gravava sull’immobile acquistato, tanto che l’intero complesso fu messo all’incanto. Infatti, come specificato nell’atto di vendita della casa di Nicola di Cernusco, a partire dal 1520, la Confraternita avrebbe dovuto accreditare annualmente – il 15 di novembre – alla signora Gregoria Martusa Porcari tale rendita, da stimarsi in 28 bolendini la canna. Alla morte della vedova Porcari, il censo sarebbe spettato al romano Luigi Agatucci che lo avrebbe riscosso semestralmente.72

I “travagli” a cui si fa riferimento nella lettera potrebbero essere le ragioni del “languore spirituale ed economico”, in cui cadde il sodalizio, il quale si dimostrò

71 Catastini 1890, p. 57. Il documento è riportato in Appendice B, doc. 13c.

72 ASR, Notai del Tribunale dell’Auditor Camerae, Notaio Nerotto, vol. 4507, c. 224v. Il documento è

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disinteressato sia “per le glorie artistiche che religiose”73. Dato che le fonti menzionate non specificano la causa delle difficoltà incontrate, è necessaria una contestualizzazione storica per comprenderne la natura.

Il 20 dicembre 1526, stesso anno della consacrazione della propria chiesa nazionale, Lorenzo Chigi diffidò pubblicamente Andrea Bellanti, accusandolo di essergli debitore di molti ducati74. L’accusa mossa dal primogenito del Magnifico a uno dei suoi tutori testamentari, segnò la fine dei rapporti tra quest’ultimo e i familiari di Chigi. I rapporti si erano già incrinati nel 1520, quando il fratello di Agostino, Sigismondo, accusò Andrea di aver occultato alcuni libri di conto del banco75, e quando quest’ultimo intentò una causa contro Francesco di Matteo Tommasi, amico, socio e uomo di fiducia del Magnifico, suscitando la disapprovazione degli eredi di Agostino. Le “Discordiae interea inter Chisios mercatores senenses et Andream Bellantium socium Romae […]” furono le cause sia dell’uscita dal banco Chigi di Bellanti (1520) sia del probabile allontanamento dall’Urbe dello stesso (1526), dato che dopo quella data se ne persero le tracce. E così nel giro di pochi anni dalla sua istituzione, la Compagnia di Santa Caterina da Siena rimase priva del suo fautore, Agostino Chigi, e di uno dei suoi priori, Andrea Bellanti, colui che aveva messo in pratica le disposizioni del Magnifico.

Alcuni mesi dopo l’accusa mossa da Lorenzo Chigi, Roma venne saccheggiata dai Lanzichenecchi, assoldati da Carlo V. Come si è già detto più volte, tra le molte conseguenze di questo tragico evento, preannunciato dal saccheggio che l’esercito capitanato dal cardinale filo-imperiale Pompeo Colonna compì in Vaticano e nelle zone limitrofe nella notte tra il 19 e il 20 settembre 1526, sono da ricordare il dimezzamento della popolazione, dovuto sia alle violenze subite sia alla pestilenza diffusasi sia alla messa in fuga di molti cittadini, tra i quali, come è noto, vi fu anche Baldassarre Peruzzi, che fece ritorno a Siena, e l’interruzione dei cantieri edilizi ancora aperti.

73 Catastini 1890, p. 18.

74 «[…] chel ditto Andrea Bellanti altro che sia Inhabile me ho suspecto et de lui non me fido per che

me he debitore de molti migliari de ducati come nelli libri del bancho appare.»: Cugnoni 1881, IV, p. 208.

75 «Lites enim cum Andrea Bellantio excercuerat Sigismundus anno MDXX ex eo, quod rationum libros quondam

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Questo quadro potrebbe spiegare i motivi per cui il sodalizio non rispettò il pagamento del censo perpetuo che gravava sull’immobile acquistato, a causa del quale, come si è già detto, la chiesa di Santa Caterina da Siena venne messa all’incanto. Di questo “grave inconveniente” 76 rimane testimonianza nella corrispondenza tenutasi, nel mese di luglio di quello stesso anno, tra Claudio Tolomei, Giulio Fanucci,la Balìa della Repubblica di Siena e il chierico di camera Giovanni Gaddi77, aggiudicatario dell’intero complesso. Come dimostra lo scambio epistolare avvenuto tra le parti, gli aiuti economici forniti da alcuni connazionali residenti a Roma e dalla Balìa della Repubblica di Siena, la quale inviò 50 scudi a fronte dei 280 richiesti78, permisero di tacitare i creditori. In questo modo la Confraternita di Santa Caterina da Siena poté riscattare la chiesa prima che si concludesse la procedura del definitivo incanto.

L’esiguità di capitale da investire fu probabilmente la causa per cui i confratelli non poterono far «[…] dipingere e ornare la facciata dinanzi della Chiesa […] che […] è in aspetto di mattoni […]»79, pur avendo in animo, sin dal 1559, di ultimare la fabbrica peruzziana80, rimasta incompiuta per una serie di eventi concomitanti, quali il sacco di Roma e l’allontanamento di Peruzzi e Bellanti da Roma. Per questo motivo nel 1603, l’aromatario senese Marco Antonio Ciappi decise di esaudire la volontà dei confratelli, facendosi carico delle spese necessarie per realizzare una facciata pinta. I lavori furono affidati al pittore Riccardo Sasso, il quale, entro quattro mesi dalla stipula del contratto (22 febbraio), avrebbe dovuto realizzare in legno di albuccio le cornici, in stucco di polvere di travertino quattro capitelli dorici da porre a coronamento dei quattro pilastri della facciata e in travertino sia le basi dei pilastri sia i due scalini d’ingresso – quest’ultimi avrebbero dovuto sostituire quelli esistenti in peperino; rivestire con stucco di polvere di travertino il frontespizio, le cornici, il

76 Delle lettere di M. Claudio Tolomei libri sette 1829, pp. 267-268. Il documento, citato e tracritto

integralmente in Catastini 1890, p. 20, è riportato in Appendice B, doc. 13a.

77 Per lo scambio epistolare vedi Appendice B, doc. 13a-d.

78 Catastini 1890, p. 57. Il documento è riportato in Appendice B, doc. 13b.

79 ASR, Segretari e Cancellieri della Reverenda Camera Apostolica, Notaio Ferrino, vol. 693, c. 348v. Il

documento, citato e trascritto in Rolfi 1997, pp. 206-207, è riportato in Appendice B, doc. 14.

80«[…] molti Anni adietro […] nella Congre(gazio)ne fatta dalla Ven(erabi)le Compagnia di S.

Catherina della Natione senese […] sempre tutta la natione se sia monstrata desiderosa, et accesa, et essendosi fin dell’Anno 1559 fusse fatto un foglio sottoscritto da quatro o sei di detta Natione, che promettevano far la spesa che fusse occorsa in detta pittura, e ornamento et vedendo dal esperienza susseguita […], che fin hora detto desiderio, e soscritione, non è stata mai effettuata […]»: ASR, Segretari e Cancellieri della Reverenda Camera Apostolica, Notaio Ferrino, vol. 693, c. 348r. Il documento, citato e trascritto in Rolfi 1997, pp. 206-207, è riportato in Appendice B, doc. 14.

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fregio e altri elementi architettonici della facciata; ornare in chiaroscuro le cornici, gli stipiti delle finestre e del portale d’ingresso, il timpano, i pilastri di ordine dorico e le mensole del portale; affrescare l’Assunta con gli Apostoli, in un riquadro sul frontespizio, quattro santi ovvero quattro angeli di bronzo, ai lati delle finestre poste al di sotto del tetto, santa Caterina che elargisce doti alle zitelle, al di sopra del portale e tra i due pilastri a lui prossimi; dipingere tra i pilastri due nicchie con santi e, al di sopra di queste, due piccole finestre.81 Il pittore avrebbe dovuto «[…] fare le sudette cose, et spiconar, arricciar, incollar, depingere tutta detta facciata far li sudetti stucchi, et conci, et ogni cosa mettere in opera a tutte sue spese, et far ponti, et ciò sarrà de bisogno […]»82 per 150 scudi83.

Nella pianta di Roma del 1618 di Matthäus Greuter (fig. 23), riconosciuto dagli specialisti come uno degli incisori più scrupolosi e attendibili dell’epoca, la chiesa si distingue dagli edifici contigui proprio grazie alla sua facciata, nella quale si possono notare i quattro pilastri appena menzionati e il coronamento a timpano. Secondo Serenella Rolfi, che per prima ha rintracciato e pubblicato il contratto stipulato tra Ciappi e Sasso, a Carlo Francesco Lombardi (Arezzo, 1545 – Roma, 1619) si deve il progetto della facciata di Santa Caterina da Siena, dato che nel disegno – oggi non più rintracciabile – posto a margine al documento notarile, era presente in calce la firma dell’architetto aretino. Per la studiosa, Lombardi avrebbe progettato una facciata simile a quella della chiesa di Santa Prisca all’Aventino (fig. 24), realizzata dallo stesso nei primi anni del secolo XVII.

Durante gli anni del pontificato di Alessandro VII, protettore della Confraternita di Santa Caterina da Siena,84 la chiesa della Nazione senese, che versava in uno stato di

81 ASR,Segretari e Cancellieri della Reverenda Camera Apostolica, Notaio Ferrino, vol. 693, cc. 348v-349v. Il

documento, citato e trascritto in Rolfi 1997, pp. 206-207, è riportato in Appendice B, doc. 14.

82 ASR,Segretari e Cancellieri della Reverenda Camera Apostolica, Notaio Ferrino, vol. 693, cc. 349v-350r.

Ibidem.

83 Stando al contratto, Ciappi avrebbe effettuato tre accrediti di 50 scudi l’uno a Sasso. VediASR,

Segretari e Cancellieri della Reverenda Camera Apostolica, Notaio Ferrino, vol. 693, cc. 349v-350r. Il documento, citato e trascritto in Rolfi 1997, pp. 206-207, è riportato in Appendice B, doc. 14.

84 Nel 1658 e nel 1667 Alessandro VII riconcesse alla Confraternita di Santa Caterina da Siena il

privilegio di liberare un condannato a morte. Sino a quel momento, le uniche “grazie di liberazione godute dalla Confraternita” furono solamente tre e risalirono agli anni 1593-1594 e 1618. Con un breve di Clemente XIII del 18 maggio 1761, la Confraternita, che dal 1736 era stata elevata da Clemente XII a grado di Arciconfraternita, poté godere a vita di quel privilegio. E così il 29 aprile di ogni anno, in occasione della festa di santa Caterina, venne liberato un condannato alla galera. Ancora oggi nella chiesa è presente una lapide commemorativa di quel privilegio: “CLEMENSXIIIPOM/

ARCHICONFRATERNITATI SANCTAE CATHERINAE / NATIONIS SENENSIS / A RAYNERIO DE ILCIO / S R E CARD EPISCOPO OSTIENSI / EJUSD ARCHICONFRATERNITATIS PROTECTORE / ROGATUS / JUS

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degrado, dovuto alle frequenti e abbondanti inondazioni del Tevere, fu abbellita, su progetto dell’architetto Francesco Contini (Roma, 1599-1669), di una nuova facciata a ordine unico e con un semplice coronamento a timpano, come si vede nella pianta prospettica di Giovanni Battista Falda (1676) (fig. 25). Anche Filippo Titi nel suo

Ammaestramento (1686) riporta che «ultimamente vi hanno fatto la facciata»85, sulla quale, al di sopra della porta maggiore, venne affrescata da Giovan Battista Passeri (Roma, ca. 1610-1679) l’effigie di santa Caterina86. Ritengo plausibile che agli anni del pontificato chigiano sia da far risalire anche la decorazione a fresco di una cappella da parte di Giovanni Paolo Schor o Paolo Tedesco (Innsbrück, 1615 – Roma, 1674), secondo quanto risulta dalla Vita dell’artista scritta da Nicola Pio: «In Santa Caterina di Siena a Strada Giulia fece alcune pitturine à fresco nella volta di una cappella»87. Una Relazione del secolo XVII documenta la necessità avvertita da Alessandro VII di far eseguire lavori che dessero un nuovo assetto all’angusta chiesa cinquecentesca: «havendo la Santità di N.S. dimostrato sempre un zelo immenso verso la serafica S. Caterina et una somma pietà verso la sua Natione; per vederla in angustia di chiesa e sito; ordinò fino nel principio del suo pontificato alli Em.i Card.li [Celio] Piccolomini e [Volunnio] Bandinelli che procurassero d’altro sito per far nuova chiesa e doppo più volte habbi reiterato altre istanze alli priori della Compagnia che procurassero di trovar qualche sito più proportionato e più utile alla Compagnia e che si ponesse in carta li disegni et assegnamenti per questa opera e che si deputasse persona che rappresentasse il tutto a S. S.tà. In esecutione di tal ordine fu radunata una Cong(regazione) di Nationali più qualificati nella quale furono eletti a procurar d’adempir la mente di Nostro Signore il marchese Patritij, li Commend(ato)ri fra Carlo Chigi e fra Fortunato de Vecchi e Niccolò Finetti quali hanno considerato tre luoghi e siti da fabbricar si posseno proporre con li disegni fatti da Francesco Contini

NOMINANDI ET LIBERANDI QUOTANNIS / UNUM EX REIS QUAMDIU VIXERINT TRIREMI DAMNATIS /

PER LITERAS APOSTOLICAS / XV KAL JUN MDCCLXI DATAS / INSTAURAVIT CONFIRMAVITQUE /

FLAVIUSCHISIUS/ S R E DIACONUS CARDINALIS S MARIAE IN PORTICU / VOLUNTATEM OPTIMI DECESSORIS SUI EXSEQUUTUS / PRINCIPI MUNIFICENTISSIMO / IN PERENNEM TANTI BENEFICII MEMORIAM / AENEA SYLVIO PICCOLOMINEO GUBERNATORE / COM BERNARDINO PECCIO CELSO SPANNOCHIO / JOSEPHO MENCARINO IOANNE – DOMINICO GUIDO / PRIORIBUS P M / PRID KAL OCTOBRIS A D MDCCLXI”. L’iscrizione è riportata anche da Forcella 1876, p. 347. Vedi Boccardi 2006, pp. 215-250.

85Titi 1686, p. 88.

86 «[…] la facciata interna era liscia imbiancata. Ma nell’esterna eravi dipinta sopra la porta maggiore

Santa Caterina opera a fresco del Passeri […]»: AASCS, Sezione III, Relazione della nuova fabbrica della chiesa, oratorio e suoi annessi di S. Caterina da Siena in Roma fatta nell’anno 1776, vol. 20, fasc. 175.

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Architetto Nationale»88. Purtroppo non sappiamo cosa impedì la piena realizzazione della volontà del pontefice.

Come si è detto in precedenza, la zona in cui sorge la chiesa venne a ricoprire un ruolo marginale nell’assetto urbanistico di Roma, e ciò potrebbe spiegare almeno in parte i motivi per cui la comunità senese non fu incentivata a destinarvi alcuna risorsa finanziaria per intraprendere lavori di rilievo, tanto che già alla fine del secolo XVII, mentre la chiesa di Santa Caterina da Siena risultava pericolante a causa delle infiltrazioni d’acqua, i confratelli discutevano della possibilità di ricostruirla in altro sito.

Le condizioni sempre più precarie in cui versava la chiesa, che pur tuttavia continuò a essere officiata, fecero sì che negli anni Quaranta del Settecento la Confraternita incaricasse il proprio architetto nazionale, Pietro Hostini (Savoia, ca. 1691 – Roma, 1756), di presentare un progetto per la ricostruzione. Di questo progetto, che non fu realizzato, rimane testimonianza sia in una relazione-preventivo del 1749 del capomastro Giuseppe Sardi89 sia in una nota del 12 giugno 1771 di Domenico Gregorini, nella quale l’architetto riferisce di un sopralluogo fatto nel 1743, come richiestogli dalla Confraternita, per controllare l’edificabilità del progetto dell’Hostini per la nuova chiesa90.

Del progetto dell’Hostini rimane testimonianza al capitolo XIX del libro della visita pastorale, compiuta il 20 maggio 1739 dal cardinale Francesco Borghese, protettore del sodalizio. Dalla relazione che ne venne fatta, si evince che i confratelli valutarono, nelle Congregazioni segrete del 21 aprile 1720 e del 21 settembre 1738, l’acquisto di due case confinanti con la chiesa di Santa Caterina da Siena, al fine di ampliare l’edificio chiesastico, ma la risoluzione non ebbe mai esito favorevole. Nel 1743, essendosi ripresentata l’occasione di tale acquisto ed essendo i confratelli ancora discordi su quel tema, il cardinale Borghese intimò il 3 giugno di quello stesso anno una Congregazione straordinaria, alla quale parteciparono, ad eccezione dei

88 Si tratta di una relazione anonima e non datata, ma che si fa risalire al secolo XVII. Del manoscritto,

non più presente nell’Archivio dell’Arciconfraternita di Santa Caterina da Siena, rimane una pubblicazione parziale in Borghini 1984, p. 214.

89 AASCS, Sezione III, Studi, progetti e inchieste nella fabbrica della nuova chiesa. Ristretto di Giuseppe Sardi per la

fabbrica della chiesa fatta nell’anno 1749 , vol. 11, cc. 37r-38r. Il documento è riportato in Appendice B, doc. 21.

90 AASCS, Sezione III, Studi, progetti e inchieste nella fabbrica della nuova chiesa. Nota autografa di Domenico

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