TRADUCTION A VUE, TEXTE 25/10/2008 BERNARDI ELEONORA
“Una vita per la pace”
Intervista a Wangari Maathai, premio Nobel per la pace nel 2004 27.12.2004
Una vita spesa nella lotta per i diritti delle donne, la conservazione ambientale e la conquista della democrazia. Quasi trent’anni di sforzi, riconosciuti lo scorso ottobre con il Nobel “per il suo
contributo allo sviluppo sostenibile, alla democrazia e alla pace”. Wangari Maathai, sessantaquattro anni, è la leader del Green Belt Movement, “movimento della cintura verde”: una comunità di oltre 100mila persone che dal 1977 ha piantato più di 30 milioni di alberi sul territorio kenyano,
promuovendo l’ambiente e al contempo lavorando per l’emancipazione delle donne. Dopo decenni passati all’opposizione contro il regime di Daniel Arap Moi, Wangari è stata eletta in Parlamento nel dicembre 2002. Il neopresidente democratico Mwai Kibaki l’ha nominata viceministro dell’ambiente e delle risorse naturali.
In un’intervista rilasciata qualche giorno dopo aver ritirato il premio dal Comitato di Oslo, Wangari racconta la sua visione del mondo a PeaceReporter. Le interminabili guerre africane, la piaga dell’Aids, i problemi della deforestazione e della desertificazione in tante aree del pianeta, l’importanza della tutela ambientale ai fini della pace: la prima donna africana a conquistare un premio Nobel spiega che, per il mondo, è arrivata l’occasione di cambiare modo di pensare. E non possiamo più permetterci di aspettare.
Una volta lei disse che “proteggere l’ambiente globale è direttamente collegato al
mantenimento della pace”. Crede che il mondo si renda conto dell’esistenza di questo legame?
"Ovviamente non tutti capiscono questa relazione, e questo è il motivo per cui il dibattito è così diffuso. Ma è anche vero che il momento è maturo affinché questo dibattito si tenga, e per riconoscere che l’ambiente è un ingrediente molto importante per sostenere la pace".
Lei ha ricevuto il premio Nobel per i suoi sforzi tesi a migliorare la situazione ambientale del Kenya, combattendo la deforestazione e la desertificazione. Sono problemi che riguardano tutto il pianeta - lo sfruttamento della foresta amazzonica, l’effetto serra, la questione delle emissioni inquinanti – e siamo ancora lontani dalla soluzione. Nel suo discorso di accettazione del premio Nobel, ha esortato il mondo a “cambiare il modo di pensare”. Quanto tempo crede ci vorrà?
"Penso che possa succedere nel corso di una generazione, perché la consapevolezza c’è già. Forse non abbiamo ancora una grande “massa critica” di persone coscienti del problema, ma i segnali di una diffusa consapevolezza ci sono. Le reazioni del mondo al mio Nobel sono un indicatore del fatto che un numero crescente di persone capisce che pace, ambiente, democrazia e sviluppo sono collegati".
Non teme che dare il Nobel per la pace a un’ambientalista sia una cosa facile da fare e lodevole, ma che facendo così il mondo in qualche modo si mette a posto la coscienza e poi si lava le mani della questione ambientale?
"Credo che, scegliendo me per il premio, il Comitato abbia di fatto chiesto al mondo di concentrarsi
sul problema. Quindi, invece che dimenticarlo, penso che ci sarà ancora più pressione per dargli la dovuta attenzione. E spero che specialmente i giovani chiedano ai loro governi di porre le questioni dell’ambiente e della democrazia al centro delle politiche nazionali. Questa è la mia speranza, perché ora tutto il mondo deve concentrarsi sull’ambiente, non possiamo più permetterci di ignorarlo".
Dopo il processo di decolonizzazione, il continente africano è se possibile ancora più povero.
La questione dello sviluppo dell’Africa è sempre sul tavolo, ma nessuno sembra in grado di trovare una soluzione. Crede che il mondo potrebbe fare di più?
"Forse in nessun altro luogo come in Africa vediamo l’impatto della cattiva gestione delle risorse nazionali, le disuguaglianze, la mancata volontà da parte di leader e uomini politici di utilizzare queste risorse per il bene della gente, che così non può vivere in pace e si trova invischiata in conflitti infiniti. La sfida è per i leader africani, che sono chiamati a concentrarsi su una migliore gestione delle risorse e su una distribuzione delle ricchezze più equa, ad adottare processi
democratici così che i loro popoli possano godere della pace ed essere in grado di svilupparsi e uscire dalla povertà. Spero che l’assegnazione del Nobel a una donna africana acceleri questo processo. Ora è molto più accettata l’idea che i governi cambiano con il voto e non grazie alle armi, e l’Unione Africana sta incoraggiando molto l’adozione dei principi democratici".
Lei è ottimista riguardo il futuro del suo continente?
"Molto ottimista. In Kenya abbiamo dato l’esempio, mostrando che è possibile cambiare governo democraticamente, senza spargimento di sangue. Abbiamo ancora qualche problema con la coalizione che abbiamo formato, ma chiediamo ai nostri leader di continuare con questo
esperimento, di sacrificarvi le loro ambizioni, perché può davvero invogliare molti altri africani a cambiare il loro governo con il voto e scegliere la democrazia, che con molta più probabilità può dare loro la pace e l’opportunità di svilupparsi".
Alessandro Ursic Pablo Trincia