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Accade sovente che, quando consideriamo una qualsiasi attività umana dal punto di vista

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INTRODUZIONE

Tutti i sistemi filosofici del passato sono tentativi di risolvere il grande enigma dell’assoluto che la ragione richiede al fine dell’esperienza e che viene inutilmente cercato nell’esperienza. Essi sono però dei tentativi non riusciti, nella misura in cui tutti quanti, pur indispensabili come esercizi preparatori per la scoperta dell’assoluto, non ne hanno colto il vero significato e il fondamento.

K.L.REINHOLD, Versuch, p.541.

PARTE I. PREAMBOLO

Accade sovente che, quando consideriamo una qualsiasi attività umana dal punto di vista

della sua evoluzione storica, la nostra attenzione si concentri sulla grandezza di certe

personalità che a buon diritto assurgono a simboli di un’epoca. È peraltro ovvio che

categorie storiografiche come Ætas Kantiana o Goethezeit racchiudono una così grande

varietà di correnti e posizioni diverse da risultare, per la loro ampiezza, quasi prive di

significato, e che persino l’opera del genio più originale e rivoluzionario mostra ad

un’osservazione attenta di essere stata preparata per decenni dal silenzioso lavoro di molti

personaggi minori il cui nome non rifulge con altrettanta chiarezza negli annali della

storia. L’enorme quantità di ricerche che possediamo sui principali protagonisti della

storia del pensiero – talmente vasta che per la lettura completa della bibliografia relativa a

uno solo di essi non basterebbe la durata di una vita umana – giustifica oggi più che mai la

speranza di gettare su di loro una luce almeno parzialmente nuova attraverso un

approfondito studio delle circostanze che ne hanno preannunciato l’avvento. In base a

questa convinzione ho cercato di suggerire col presente lavoro che un rilevante contributo

alla Fichte-Forschung può essere offerto dall’analisi dei precursori, tra i quali si scoprono

alcune personalità di indiscutibile valore spesso trascurate dagli storici della filosofia, un

autentico «tesoro nascosto» (l’espressione è di F.Kuntze) nei casi più fortunati. Se letto in

questa prospettiva, cioè come indispensabile propedeutica storico-teorica alla Dottrina

della scienza, il mio studio non può tuttavia rappresentare che un suggerimento, un work

in progress bisognoso di un ulteriore sviluppo e di una conclusione. Sono qui a tema

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anzitutto i predecessori di Fichte, non come tali, ma come filosofi dotati di una propria identità e protagonisti di un originale percorso intellettuale. A causa del non piccolo lavoro esegetico e filologico necessario per il semplice accesso a questi autori, i cui testi risultano spesso di non facile lettura, la mia attenzione si è concentrata sulla resa sistematica del loro pensiero, sull’individuazione degli elementi di continuità e divergenza tra le rispettive dottrine e sull’esame critico di alcuni argomenti addotti a sostegno di queste. È vero che le ricerche sulla prima stagione postkantiana hanno ricevuto negli ultimi decenni un nuovo impulso non solo in Germania, sulla scia della Konstellationsforschung patrocinata da D.Henrich, ma anche a livello internazionale, come testimoniano l’imprescindibile monografia di F.C.Beiser

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e le traduzioni di opere primarie, alcune recentissime (i Briefe e il Versuch di Reinhold in italiano, rispettivamente nel 2005 e 2006, la Transzendentalphilosophie di Maimon in inglese nel 2010); tuttavia, la quasi totalità dell’immensa produzione tardosettecentesca gravitante attorno alle Critiche è ancora preclusa alla fruizione del pubblico non specialista di lingua italiana, e in primo luogo i tre grandi capolavori di Maimon (il saggio citato, la Logica e le Ricerche critiche). Confido perciò che anche soltanto quella parte dei miei sforzi diretta ad una Wiedergabe oggettiva e neutrale di questi filosofi, scevra da pregiudizi, sintetica ed esauriente al tempo stesso, fornisca un non trascurabile aiuto a coloro che desiderino farsi un’idea su alcuni dei protagonisti di un periodo assai breve ma fertile e ricco di discussioni come pochi altri, cruciale nella storia della filosofia e indispensabile per la comprensione dei grandi sistemi dell’idealismo classico. Fichte compare in questo lavoro solo marginalmente nei paragrafi conclusivi dei capitoli II e III, dove ho voluto offrire uno Hinweis per eventuali ricerche successive incentrate sull’analisi retrospettiva dei medesimi autori in base agli spunti da loro offerti alla Wissenschatfslehre. Rispetto a una lettura che, partendo da Fichte, procede a ritroso, la considerazione di questi autori come prosecutori (in positivo o in negativo) dell’impresa critica kantiana è più congeniale allo spirito del presente studio e forse anche più feconda. Oltre a costituire, come si è detto, l’anello di congiunzione tra l’idealismo trascendentale e quello assoluto, essi avanzano spesso nei confronti del criticismo obiezioni e riserve dalle quali ogni studioso di Kant può ricavare prezioso materiale per le proprie riflessioni. Anche da questo punto di vista, peraltro, il mio lavoro non può dirsi completo. Partendo da un’indicativa delimitazione

1 F.C.BEISER, The fate of reason – German philosophy from Kant to Fichte, Harvard University Press, Cambridge (Massachussets) & London, 1987. Questo testo costituisce la fonte principale per la seconda parte della presente Introduzione.

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cronologica del campo di interesse, approssimativamente compreso tra la prima pubblicazione della Critica della ragion pura (1781) e la Dottrina della scienza del 1794 – non mancheranno comunque evidenti deroghe a questa restrizione che, rigorosamente intesa, mi avrebbe obbligato a ignorare le Ricerche di Maimon e la Critica di Schulze – ho potuto analizzare in dettaglio, per ragioni di spazio e coesione tematica, solo il pensiero del giovane Reinhold e dei due autori appena citati, a scapito di filosofi come J.S.Beck e F.H.Jacobi che avrebbero senz’altro meritato un esame ugualmente approfondito.

Consapevole del fatto che questa scelta, al pari di ogni altra, risulta in certa misura arbitraria, non pretendo di sottrarmi a tutte le possibili obiezioni quando adduco a mia difesa la profonda continuità che lega gli autori in oggetto. Benché non abbia arricchito la teoria kantiana di nuovi contenuti, la Elementarphilosophie di Reinhold deve essere studiata in via preliminare poiché ha determinato col suo iniziale successo la diffusione del pensiero critico in Germania e si è presentata ai contemporanei (almeno fino alla comparsa dell’Enesidemo, ma in realtà anche agli occhi di Fichte) come un’esposizione migliorata della Critica, non separabile da questa. È perciò accaduto che alcune sottili modifiche apportate da Reinhold abbiano condizionato la prima ricezione dell’opera di Kant, anzitutto riguardo alla discussa nozione di cosa in sé. Pur non avendola a mio avviso fraintesa, Reinhold ha esplicitato e radicalizzato la tensione tra un’interpretazione idealista e una realista rispetto alle quali Kant ha inteso imboccare una problematica via intermedia, ritenuta poi impercorribile da Jacobi, Schulze, Maimon e Fichte. In senso idealista la cosa in sé è il concetto di un oggetto senza soggetto, un mero Gedankending che svolge la funzione negativa di limitare le pretese conoscitive dell’intelletto alla sfera dei dati sensibili. In senso realista essa indica l’oggetto propriamente (o trascendentalmente) esterno alla coscienza, fonte positiva delle sensazioni in quanto capace di esercitare un’inspiegabile azione sugli organi percettivi. Reinhold sembra mantenere questa ambiguità considerando la cosa in sé, da un lato, come pura materia delle rappresentazioni, dall’altro come origine o causa (sit venia verbo) di questa materia.

L’uso avventato di certi termini afferenti alla sfera della causalità suggerisce tuttavia una

sua propensione (implicita o inconscia) per la lettura realista. È mia ferma convinzione

che il discrimine tra idealismo e realismo risieda tutto in questa duplice interpretazione –

come confermano gli autori qui presi in esame, ciascuno dei quali si schiera dall’una o

dall’altra parte – e confesso di non comprendere tuttora come sia possibile una terza

soluzione. Non ritengo infondato il timore che Kant, preoccupato di evitare l’alternativa

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realista (esiziale per l’intero sistema critico) e spaventato dall’eventualità di un idealismo assoluto d’altronde coerente con le sue premesse, abbia in realtà oscillato tra l’una e l’altra senza risolvere la loro tensione.

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Dirimere la questione compete tuttavia ad altri studi. In questa sede ho semplicemente cercato di mostrare in che modo, sulla scia delle critiche schulzeane (invero non sempre fondate) e con l’apporto della tradizione leibnizio- wolffiana rivalutata da Maimon (con particolare riguardo alla dottrina dell’intelletto, dal quale è stata fatta discendere la sensibilità stessa), si sia potuta affermare con Fichte la via idealista. Che dunque i tre autori qui esaminati costituiscano altrettante fasi di un processo coerente che muove da Kant a Fichte è fuori di dubbio. Non ho tuttavia mai preteso di affermare che tale processo sia l’unica chiave di lettura del periodo da me studiato, o che fornisca una visione esaustiva del panorama filosofico postkantiano.

Da quanto detto deriva quasi automaticamente la semplice struttura di questo lavoro: la prossima parte dell’Introduzione è finalizzata a sopperire (in scarsa misura) alla carenza appena menzionata attraverso un inquadramento generale del contesto in cui si situano i nostri autori, a ciascuno dei quali è poi dedicato un apposito capitolo.

PARTE II. CONTESTUALIZZAZIONE

§1. INCIPIT TRAGOEDIA: HAMANN

Possiamo individuare l’inizio del dibattito postkantiano in un opuscolo polemico di poche pagine, la Metacritica sul purismo della ragione, scritto da J.G.Hamann nel 1784, pubblicato alle soglie del secolo successivo ma assai influente già in precedenza, grazie alla mediazione di Herder e Jacobi. Considerato in virtù dei suoi Memorabili socratici il padre dello Sturm und Drang, anticipatore di alcuni motivi fondamentali della Romantik (anche grazie all’appassionata lettura dei suoi scritti da parte di uno dei fondatori del circolo di Jena, F.Schlegel) quali il ruolo dell’arte come via d’accesso ad una conoscenza immediata e superiore alle astrazioni dell’intelletto che smarriscono l’unicità

2 Sulle reali o presunte contraddizioni insite nella nozione kantiana di cosa in sé cf. ad es. S.ATLAS, From critical to speculative idealism – The philosophy of Solomon Maimon, M.Nijhoff, Den Haag 1964, p.20 sgg., e la Vorrede del capolavoro di R.KRONER, Von Kant bis Hegel (J.C.B.Mohr, Tübingen 1961), dove inoltre si afferma con decisione che il processo teorico che conduce dalla Critica alla Dottrina della scienza segue una rigorosa necessità logica.

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dell’individuale,

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l’indipendenza del genio creativo dalle convenzioni stilistiche e formali, lo stretto legame tra la ragione e il contesto storico e sociale in cui si sviluppa e l’inscindibilità tra pensiero e linguaggio, Hamann offre un decisivo contributo al tramonto della Aufklärung e precorre molte delle critiche sollevate contro l’idealismo kantiano nel corso dell’ultimo, cruciale decennio del secolo. La centralità di Hamann, confermata dagli stretti rapporti epistolari da lui intrattenuti con molte personalità di spicco in campo filosofico e letterario, è anzitutto legata alla concezione (attinta da Hume e recuperata nel

“razionalismo mistico” di Jacobi) della fede come fondamento e prius logico del sapere discorsivo. La nostra esistenza e la realtà delle cose fuori di noi non sono secondo Hamann suscettibili di dimostrazione, ma devono essere credute allo stesso modo dell’esistenza di Dio. La fede non è conforme né contraria alla ragione poiché riguarda un ambito (l’esistenza in generale) su cui questa non ha la capacità o il diritto di pronunciarsi.

Pretendere di capire la realtà fino ai suoi ultimi fondamenti attraverso il principio di ragione, osare sottoporre ogni credenza ad una critica basata su tale principio, significa travalicare i limiti dell’uso legittimo della ragione e cadere nella medesima Schwärmerei che proprio in suo nome viene condannata. La critica della ragione deve dunque arrestarsi di fronte all’inesplicabilità di tutto ciò che è dato. Cercheremo di mostrare nel corso del presente lavoro come questo problema costituisca il punctum dolens su cui in ultima istanza si concentrano, secondo diverse prospettive, tutte le perplessità e le obiezioni sollevate contro la Erkenntnistheorie kantiana nel periodo compreso tra l’Idealismo trascendentale di Jacobi e la Critica di Schopenhauer.

Grazie alla conoscenza di J.F.Hartknoch, da lui stesso suggerito a Kant come possibile editore della Critica della ragion pura, Hamann legge l’opera prima della pubblicazione e ne abbozza una violenta recensione che riutilizza negli anni seguenti per la stesura della Metacritica, nella quale rimprovera a Kant e a tutti gli Aufklärer di ipostatizzare la ragione esaminandola indipendentemente dalle sue manifestazioni concrete nel linguaggio, nella storia e nell’esperienza. La ragion pura non ha alcuna realtà autonoma: il linguaggio precede i concetti, l’azione il pensiero. La distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno deriva dal misconoscimento dello stretto legame tra la ragione e la sua prima ed essenziale manifestazione sensibile, il linguaggio appunto, che, in quanto

3 In particolare il tema centrale della Aesthetica in nuce, la rivelazione di Dio nella sfera dei sensi e delle passioni, condotta alla suprema espressione dall’opera d’arte, richiama la concezione schellinghiana dell’arte come organon della filosofia trascendentale o mezzo per l’apprensione intuitiva dell’Assoluto (cf.

F.W.J.SCHELLING, Sistema dell’idealismo trascendentale, tr. it. G.Boffi, Bompiani, Milano 2006, pp.551- 581).

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contemporaneamente fenomeno fisico (flatus vocis o scrittura) e veicolo di contenuti concettuali, colma l’abissale frattura tra sensibilità e intelletto a causa della quale il problema basilare della Critica (la spiegazione della possibilità dei giudizi sintetici a priori) non può trovare una soluzione soddisfacente nell’orizzonte del criticismo stesso.

Finché queste facoltà sono concepite come fonti eterogenee della conoscenza è infatti impossibile giustificare l’applicazione dei concetti puri dell’una al materiale intuitivo offerto dall’altra. È un grande merito di Hamann aver riconosciuto questo problema, su cui gli interpreti kantiani dei decenni successivi continueranno a porre l’accento, suggerendo diverse soluzioni: Reinhold crederà di superare il dualismo in questione deducendo entrambe le facoltà dal Vorstellungsvermögen in generale, la cui natura cercherà di ricavare dal concetto di rappresentazione; Maimon, richiamandosi a Leibniz, concepirà la sensibilità come funzione inconscia dell’intelletto, mentre per Fichte e Hegel il trait d’union sarà costituito rispettivamente dalla volontà e dallo Spirito.

§2. EMPIRISTI E RAZIONALISTI

Negli anni in cui Hamann elabora la Metacritica si costituisce gradualmente all’interno del vasto movimento della Popularphilosophie un poderoso e sfaccettato fronte antikantiano i cui violenti attacchi suscitano reazioni molteplici e altrettanto vivaci da parte dei difensori del sistema critico. Nella Germania dell’ultimo quarto del Settecento i Popularphilosophen rappresentano i principali portavoce dell’ideale illuministico di liberazione del popolo dalla superstizione e dalla servitù tramite la capillare diffusione della cultura filosofica e scientifica in tutti gli strati sociali. «Il loro obiettivo primario è di natura pratica: rompere le barriere tra filosofia e vita, speculazione e azione, in modo che i principî della ragione non siano più sigillati in una torre d’avorio ma praticati dalla chiesa e dallo stato».

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Della filosofia critica essi avversano in particolare quelle tesi che sembrano mettere in dubbio la loro fondamentale convinzione circa l’autorità e l’infallibilità della ragione in ogni ambito dell’umano sapere ed agire: l’inconoscibilità della realtà in sé, la riduzione di spazio e tempo a forme pure della sensibilità, l’idea di una necessaria dialettica interna alla ragion pura e l’impossibilità di una dimostrazione teoretico-razionale dei fondamentali principî della teologia tradizionale (esistenza di Dio, immortalità dell’anima, libertà di arbitrio), da loro concepiti come presupposti necessari

4 F.C.BEISER, cit., p.165 (la traduzione è mia; lo stesso avverrà in tutte le citazioni successive, salvo apposite indicazioni).

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per ogni fede consapevole e per ogni condotta autenticamente morale. Principale bersaglio di queste polemiche è in ogni caso l’Estetica trascendentale, mentre le dottrine della Logica vengono fondamentalmente ignorate, eccezion fatta per alcune critiche relative all’arbitrarietà della tavola dei concetti puri dell’intelletto, riprese ed ampliate successivamente da Enesidemo-Schulze, Maimon e Schopenhauer. Sebbene il carattere variegato di questo movimento non consenta discorsi generali, è possibile distribuire schematicamente i primi avversari di Kant in due grandi gruppi in base alla loro ispirazione empirista (lockeana) o razionalista (leibnizio-wolffiana). Presentiamo adesso un breve aperçu di queste due correnti.

I lockeani mettono generalmente in discussione la possibilità di conoscenze indipendenti dall’esperienza, tacciano di artificialità e di arbitrio la distinzione tra fenomeno e noumeno (premessa necessaria alla trattazione kantiana della libertà) e pretendono di superare il dualismo tra sensibilità e ragione riducendo la seconda alla prima. L’idealismo trascendentale non è a loro avviso essenzialmente diverso da quello berkeleyano e culmina, analogamente allo scetticismo di Hume, nella limitazione della conoscenza umana a impressioni e rappresentazioni soggettive.

Dopo Ch.Garve, anch’egli appartenente al partito lockeano, è il grande storico della filosofia D.Tiedemann ad assumersi l’onere di una recensione della Critica.

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Il suo saggio Sulla natura della metafisica: esame dei principî del sig. prof. Kant è degno di nota solo per l’obiezione (poi ribadita da Eberhard e Schulze) circa la natura analitica dei giudizi matematici. Ch.G.Selle, ammiratore del Kant precritico, confuta su basi empiriste la possibilità dei giudizi a priori in toto, considerando lo stesso principio di non contraddizione astratto dall’esperienza. In Spazio e causalità: esame della filosofia kantiana il già menzionato Feder cerca di mostrare con dovizia di esempi che la rappresentazione dello spazio nasce e si affina grazie all’esperienza visuale e che la necessità della geometria si fonda, anziché sulla presunta apriorità di esso, sull’esperienza

5 Com’è noto, la prima edizione del capolavoro kantiano (maggio 1781) non desta all’inizio il minimo interesse presso il pubblico. La prima recensione, resa celebre dalla polemica che l’ha accompagnata, è quella del citato Garve, riveduta e abbreviata da J.G.Feder per la pubblicazione nel numero del gennaio 1782 delle Göttingische gelehrte Anzeigen (una copia si trova in I.KANT, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, hg. von R.Malter, Reclam, Stuttgart 1989, Beilage 2, pp.192-200; per una ricostruzione del successivo dibattito tra Kant e Garve si vedano ancora le Beilagen 4, 5 e 6, pp.205-246). Nella lettera a Kant del 13 luglio 1783 Garve sostiene che Feder, nell’accorciare la recensione, ne ha sostanzialmente alterato il contenuto. A mio giudizio, tuttavia, la differenza tra la versione originaria e quella pubblicata è di ordine puramente stilistico (cf. a questo proposito anche F.C.BEISER, cit., p.176).

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stessa.

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Più acuti e pertinenti risultano gli attacchi di H.A.Pistorius e G.A.Tittel circa l’effettiva utilità in ambito morale di un principio pratico puramente formale quale l’imperativo categorico (in particolare, Pistorius rileva la necessità del concorso di desideri e interessi sensibili nella determinazione dell’azione umana). Nel saggio Forme kantiane del pensiero o categorie Tittel accusa di artificiosità ed arbitrarietà la tavola delle forme dei giudizi esposta nel §9 dell’«Analitica trascendentale», dichiarando ogni tentativo di catalogazione delle categorie necessariamente incompleto a causa dell’inesauribilità dell’esperienza, unica fonte da cui provengono i nostri concetti. Un ultimo empirista le cui critiche a Kant sono ricche di premonizioni è il fondatore della loggia degli illuminati, A.Weishaupt. Il criticismo è per lui (come per lo Jacobi dell’Idealismo trascendentale) un totale soggettivismo: i suoi principî conducono alla riduzione della realtà esterna a stati di coscienza e contraddicono l’assunzione di una cosa in sé; in particolare, considerando la causalità come categoria o principio dell’intelletto Kant si preclude ogni spiegazione sull’origine delle rappresentazioni. Infine, se tutta la conoscenza consiste in apparenze soggettive, la Critica stessa non è che una teoria dell’apparenza delle forme conoscitive (troveremo in Schulze un argomento analogo).

I Popularphilosophen che si richiamano alla tradizione leibniziano-wolffiana affermano sostanzialmente che il criticismo kantiano, lungi dal rappresentare una «via intermedia»

tra dogmatismo e scetticismo, cade in realtà nell’ambito di quest’ultimo nel momento in cui nega alle leggi logiche qualsiasi portata ontologica ovvero traccia un solco invalicabile tra la dimensione del pensiero e la realtà in sé. L’unico modo per sfuggire alla negazione berkeleyana del valore reale (cioè extra-coscienziale) delle nostre conoscenze consiste per loro nel considerare i principî di ragion sufficiente e non-contraddizione come condizioni costitutive, necessarie e sufficienti, dell’esistenza effettiva delle cose, e non come semplici presupposti logicamente necessari (ossia puramente formali) della pensabilità dei concetti.

A loro modo di vedere la funzione della pura ragione non è limitata all’orientamento dell’indagine sensibile-intelletuale tramite l’idea dell’unità sistematica di tutto il sapere, ma comprende la reale scoperta delle verità ultime circa l’essenza di Dio e del mondo.

Accanto a J.A.Eberhard, la cui posizione verrà esaminata in dettaglio più avanti, possiamo annoverare tra i principali esponenti di questo schieramento J.F.Flatt, professore di metafisica e teologia a Tübingen, ferocemente criticato dal giovane Schelling nella celebre

6 Questa posizione è evidentemente (1) debole, poiché il “consensus omnium” proposto come prova empirica dell’universalità e necessità di un giudizio è inefficace (cf. Critica della ragion pura, d’ora in avanti KRV, B 3-4); (2) incapace di confutare realmente la concezione kantiana poiché intende lo spazio come un concetto o un’idea, misconoscendone la natura di pura forma.

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lettera a Hegel del 6 gennaio 1795, e J.A.Ulrich, dapprima grande estimatore di Kant, poi (probabilmente per astio nei confronti di Reinhold, affermatosi alla fine degli anni Ottanta come massimo conoscitore ed interprete della Critica dopo Kant stesso) autoproclamatosi fieramente sua «spina nel fianco». Nelle Institutiones logicae et metaphysicae egli mostra di accettare il criticismo come necessaria propedeutica per una metafisica realmente fondata, ma identifica poi quest’ultima scienza sic et simpliciter con il sistema leibniziano, insistendo sull’applicabilità delle idee di ragione e delle categorie intellettuali (in particolare quelle di causa e di sostanza) alla realtà in sé. Nella successiva Eleutheriologie Ulrich difende la classica tesi wolffiana della compatibilità tra determinismo e libertà, inserendo quest’ultima nell’ordine delle cause naturali: benché forze organiche, meccaniche e chimiche stiano alla base degli atti volitivi, l’uomo è libero in quanto dotato della facoltà di agire secondo il proprio volere (Kant, per tutta risposta, respinge con decisione questo fragile e capzioso “compatibilismo”).

Una menzione più circostanziata merita E.Platner, leibniziano convertitosi allo scetticismo in séguito alla lettura della Critica. I suoi Aforismi, oggetto di vivaci obiezioni da parte di Reinhold e Fichte, costituiscono un importante precedente per lo scetticismo metacritico di Schulze e Maimon. Senza considerarsi un avversario di Kant, Platner evidenzia l’esito scettico della critica della conoscenza: in quanto esterna (in senso trascendentale) alla coscienza, la cosa in sé non è pensabile neanche attraverso determinazioni puramente negative; ad esempio, il fatto che spazio e tempo siano forme della nostra sensibilità non esclude che le cose siano in se stesse spaziali e temporali. Ancora, Kant non riesce ad eliminare il dubbio humeano circa la realtà oggettiva dell’esperienza poiché nella decisiva Deduzione trascendentale si limita a dimostrare che la nostra esperienza, se deve essere oggettiva (cioè espressione di una necessità), ha da conformarsi ai concetti puri dell’intelletto. Questa fondamentale obiezione si ripresenterà in Schulze e più esplicitamente in Maimon, il quale noterà a più riprese che lo scetticismo consiste proprio nella negazione del quid facti dell’esperienza, ammesso da Kant senza alcuna dimostrazione.

§3. JACOBI E LA FILOSOFIA DEL SENTIRE

Nessuno studio sul dibattito tardosettecentesco intorno alla Critica della ragion pura può

esimersi dal trattare un pensatore che ha esercitato una profonda influenza sull’intero

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panorama filosofico e letterario dell’epoca. D’altra parte il carattere frammentario, occasionale e antisistematico degli scritti di F.H.Jacobi mi ha dissuaso dal dedicare a questo autore un capitolo a parte, che inevitabilmente avrebbe interrotto la forte contunuità rintracciabile tra gli autori esaminati più dettagliatamente in questo lavoro.

Mentre Reinhold, Enesidemo-Schulze, Maimon e Fichte, prendendo le mosse da un attento studio analitico della Critica, si propongono di volta in volta di elaborarne un’interpretazione in grado di superare le mancanze (presunte o reali) della lettura proposta dall’autore precedente (tanto che, come è noto, ancora Fichte sarà convinto di non aver sostenuto nient’altro che ciò che lo stesso Kant, in accordo con le proprie premesse e secondo l’autentico «spirito» del sistema critico, ha dovuto affermare), Jacobi affronta il criticismo, per così dire, dall’esterno, interpretandolo come espressione di quella filosofia dell’intelletto che trova i suoi massimi rappresentanti nel sistema di Spinoza e nello «spinozismo rovesciato» di Fichte. In base a questo approccio generale, le obiezioni che Jacobi muove a Kant, lungi dal ripercorrere puntualmente la Critica, si concentrano su alcuni temi fondamentali come la natura delle facoltà (immaginazione, intelletto e ragione), la distinzione tra fenomeni e cose in sé, certi aspetti dell’Estetica trascendentale e la caratterizzazione dell’idealismo critico in KRV, A 367-380.

La ricerca teoretica in Jacobi è sempre subordinata ad un bisogno più alto, di ordine

sentimentale o mistico, cioè la comprensione razionale dello Streben – innato nell’uomo –

verso un Assoluto concepito come vero, bello e buono in sé, e venerato al tempo stesso

come un Dio personale. Le prefazioni alle Lettere su Spinoza sembrano riecheggiare il

motivo anselmiano dell’intelligo ut credam. L’opera della riflessione e dell’intelletto, la

scienza limitata all’indagine del mondo nel suo complesso o in alcuni aspetti particolari,

deve prescindere dalla ricerca del divino ed assoggettare alla propria spiegazione tutto ciò

che è dato, non riconoscendo altra verità al di fuori di quello che si lascia da lei

comprendere. Supremo interesse di una scienza siffatta è la negazione della libertà, della

personalità dell’uomo e in generale di tutto ciò che, sfuggendo a qualsiasi ragionamento o

dimostrazione, può essere colto solo attraverso la fede nella sua rivelazione. Pur essendo

suscettibile di un progresso solo in virtù di questa intenzionale arroganza, la scienza

conserva la propria legittimità solo a condizione di abbandonarla non appena consideri la

portata delle proprie conquiste rispetto alla conoscenza in generale; in tal caso essa deve

attribuirsi un valore soltanto relativo, intendere se stessa come una delle possibili

modalità di indagine della realtà, e per di più come una modalità costitutivamente limitata

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al finito, perciò intrinsecamente falsa. A un intelletto senza fede, a una scienza priva di religione, forte del metodo dimostrativo ma ignara della rivelazione, la verità è necessariamente preclusa.

In contrapposizione alla divinizzazione della natura operata dai culti pagani, dalla quale deriva l’abbassamento di Dio al rango di una cosa priva di intelletto e volontà, il cristianesimo dà valore alla virtù e alla coscienza morale in quanto prove indubitabili della libertà dell’uomo, la cui origine non può essere spiegata a partire da un principio irrazionale e inintenzionale, ma solo in virtù di un Dio personale di cui l’uomo è immagine; in questo senso il cristianesimo è il solo vero antropomorfismo. Il carattere pratico dell’unica via di accesso al soprasensibile spiega la propensione di Jacobi, in forte consonanza con la religiosità pietista, all’introspezione morale e all’abbandono dell’universalità astratta (intesa in senso pratico come precettistica o criterio formale per la determinazione della condotta buona) a favore della considerazione di ciascun individuo nella sua immediata concretezza. Da ciò deriva lo stretto legame tra i grandi caratteri morali presentati nei romanzi (Allwill e Woldemar) e la speculazione filosofica di questo autore, spesso esposta in brevi testi dalla forma dialogica, epistolare o aforistica.

Come nota giustamente Bobbio,

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il fatto che alla base del pensiero di Jacobi stia «uno stato d’animo fondamentale, un moto del cuore», cioè «l’angoscia di fronte al nulla» in cui culmina ogni sistema basato sull’intelletto, non è sufficiente a stabilire significative analogie con l’esistenzialismo di un Kierkegaard o di autori successivi: la concezione jacobiana della filosofia come saggezza pratica o guida per una vita autenticamente virtuosa e felice è indice del profondo radicamento dell’autore nella cultura illuministica, benché la critica al sapere discorsivo e la concezione della ragione come facoltà dell’apprensione intuitiva del soprasensibile rappresentino chiare anticipazioni dell’imminente stagione romantica.

3.1. G

LI

S

PINOZA

-B

RIEFE

La notorietà di Jacobi è anzitutto legata alla celeberrima querelle epistolare con M.Mendelssohn sul presunto spinozismo di Lessing.

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Al di là del carattere contingente e

7 F.H.JACOBI, Idealismo e realismo, a c. di N.Bobbio, F.De Silva, Torino 1948, Introduzione, pp.IX-XI.

8 Pur celeberrima ed estremamente importante, questa controversia, in cui è da rintracciare l’origine del Pantheismus- e dell’Atheismusstreit, non può essere esaminata in questa sede. Ci limitiamo a notare superficialmente che essa, divenuta pubblica con l’uscita quasi simultanea delle Lettere di Jacobi e delle Morgenstunden di Mendelssohn, coinvolge, dopo la discesa in campo di Th.Wizenmann sostanzialmente in

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originariamente privato di queste lettere, si può scorgere in esse il nucleo fondamentale della filosofia jacobiana, allo sviluppo del quale sono dedicati i successivi scritti teorici di cui ci occuperemo brevemente nel corso del paragrafo (il dialogo David Hume e la fede, ovvero idealismo e realismo, pubblicato nel 1787 insieme all’importante appendice Sull’idealismo trascendentale e corredato nel 1815 dall’Introduzione all’edizione completa degli scritti filosofici; la Lettera a Fichte del 1799; Sull’impresa del criticismo di ricondurre la ragione all’intelletto, del 1801, portato a termine da F.Köppen secondo le indicazioni dell’autore; e infine il saggio del 1811 su Le cose divine e la loro rivelazione).

L’occasione delle Lettere su Spinoza, pubblicate per la prima volta nel 1785 e riedite quattro anni dopo, è fornita da Elise Reimarus,

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comune amica di Lessing e Jacobi, che nel luglio del 1783 informa quest’ultimo circa il proposito di Mendelssohn di scrivere una monografia Sul carattere e le opere di Lessing. Nella risposta Jacobi menziona una confidenza fattagli da Lessing nell’estate del 1780 in séguito alla lettura della poesia Prometeo di Goethe, secondo la quale egli si sarebbe convertito allo spinozismo in quanto filosofia dello ©n ka‹ pçn. Jacobi lascia maliziosamente a Elise la decisione circa l’opportunità o meno di comunicare la notizia a Mendelssohn, pur sapendo che un fatto così grave (spinozismo è nel pensiero settecentesco sinonimo di ateismo) non mancherà di suscitare una notevole impressione. Tralasciamo in questa sede le perplessità di Mendelssohn che, preoccupato di difendere il buon nome di Lessing, tende a considerare ironica la sua dichiarazione, e sorvoliamo sull’accesa discussione che sorge tra i due in merito alla corretta interpretazione della filosofia di Spinoza. Ciò che qui interessa è unicamente la funzione negativa che questa filosofia esercita nel pensiero di Jacobi. Essa rappresenta per lui l’apoteosi della Ïbriw dell’intelletto elevata a sistema, l’unico esito perfettamente coerente di un pensiero che pretende di afferrare e spiegare da solo, partendo da un principio, tutto ciò che esiste, l’ideale traguardo di ogni scienza che procede senza Dio, negando quell’atto di fede (il celebre «salto mortale») mediante il quale l’unico razionalismo autentico si appropria delle verità supreme, ridotte da Kant a

favore di Jacobi, lo stesso Kant il quale, nel breve saggio dell’ottobre 1786 Was heißt: Sich im Denken orientieren?, assume una posizione intermedia tra le due parti e delinea il concetto di Vernunftglaube inteso come un «tener per vero» che, in quanto fede, è sufficiente solo dal punto di vista soggettivo (cf. su questo punto KRV, B 855; Logiche Vienna e Jäsche, in Lectures on Logic, translated and edited by J.M.Young, Cambridge University Press 1992, pp.304-308 e 572-574), e in quanto razionale è originato a priori dal bisogno della ragione di dare contenuto e significato alla moralità (cf. Che cosa significa orientarsi nel pensiero, Adelphi, Milano 1996, in particolare pp.50-60).

9 Si tratta della figlia di H.S.Reimarus (1694-1768), autore della discussa Apologia o perorazione di coloro che adorano Dio secondo ragione, in cui vengono rifiutate tutte le religioni rivelate. Alcuni brani di questa pericolosa opera sono stati pubblicati da Lessing nei Frammenti dell’anonimo di Wolfenbüttel.

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idee regolative della ragione teoretica ma pienamente rivalutate sul piano pratico. La sostanza spinoziana è in realtà il nulla in cui l’intelletto risolve l’esistente;

nella riflessione ogni cosa particolare procede in generale dal grembo di un’universalità creatrice, cosicché la realtà, l’ente reale stesso, vien dietro alla cosa come semplice proprietà aggiunta, come un complementum possibilitatis, un concetto privo di contenuto, una vuota parola.

Per l’intelletto, in altri termini, l’universale precede e fonda l’individuo concreto, ed è possibile elevarsi per successive astrazioni al concetto sommamente esteso, comprendente sotto di sé ogni altra nozione e ogni individuo: «il pensiero puramente negativo di un essere infinito, del tutto indeterminato», al contempo un êpeiron materiale e un pensiero privo di oggetto (perciò vuoto), ossia un Uno-tutto in cui qualsiasi distinzione va perduta, persino la polarità cartesiana di pensiero ed estensione. Tale concetto è innalzato a supremo principio dell’Essere in virtù di una fallacia logica che induce a prendere per incondizionato ciò che è semplicemente indeterminato; così sorge l’idea spinoziana di una natura naturans, ragione inconscia e impersonale che crea incessantemente non per sua volontà ma in base alla legge necessaria che costituisce la sua essenza. Jacobi fa risalire l’origine di questo concetto al Teeteto platonico, dove Socrate rileva la mutua dipendenza e la relatività di tutte le cose percepibili dai sensi: niente possiede in assoluto una data qualità, né permane identico a se stesso, ma tutto diviene. L’Essere è dissolto in un vorticoso movimento che solo una dÒja altrettanto mutevole (perciò falsa e illusoria) è in grado di cogliere. L’esigenza di spiegare il divenire conduce alla sua negazione: ispirato dall’antico adagio «a nihilo nihil fit», vero principio della sua Ethica, Spinoza risale ad un Essere immobile ed eterno, origine non diveniente di tutto ciò che diviene, senza tuttavia accorgersi di aver semplicemente esplicitato la nullità del diveniente riconducendolo a un fondamento altrettanto nullo.

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10 In base a questa interpretazione la sostanza o divinità di Spinoza, «per sé sola e fuori dalle cose particolari, non ha alcuna esistenza determinata e completa». Secondo Jacobi l’insieme di tutte le cose finite in Spinoza è identico all’infinito: questo «non è un’assurda composizione di cose finite che costituiscano un infinito; ma è, nel senso più stretto, un tutto le cui parti possono solo essere ed essere pensate in esso e secondo esso» (F.H.JACOBI, La dottrina di Spinoza, Laterza, Bari 1969, p.119). L’essere originario e immutabile è anteriore a qualsiasi individuo materiale o pensante che esiste solo come sua proprietà o modo; l’infinita sostanza è «semplice materia prima» a cui non può spettare alcuna determinazione particolare poiché «omnis determinatio est negatio, seu determinatio ad rem iuxta suum esse non pertinet.

Dunque le cose particolari, in quanto esistono soltanto in un certo modo, sono i non entia; e l’essenza indeterminata e infinita è l’unico vero ens reale, hoc est, est omne esse et praeter quod nullum datur esse»

(pp.122-123).

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L’esito fatalista e nichilista del determinismo spinoziano è dovuto al fatto che l’intelletto costituisce in esso il punto di partenza, pur essendo in realtà una facoltà secondaria

«capace soltanto di riflettere a cose avvenute», cioè dipendente da una realtà precedentemente assunta, offerta al pensiero astratto. Tale assunzione è appunto ciò che realizza la fede, intesa anzitutto in senso humeano come l’invincibile tendenza dell’uomo a riconoscere un mondo esterno, sussistente indipendentemente dalla percezione attraverso la quale gli è dato.

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L’esistenza delle cose in sé non è dimostrabile o comprensibile: che le nostre rappresentazioni sorgano in noi a partire da loro e non viceversa è una convinzione originaria, non definibile altrimenti che come fede in una

«rivelazione miracolosa». L’importanza della citazione seguente giustifica la sua lunghezza:

Come possiamo noi aspirare alla certezza, se la certezza non ci è già nota prima; e come può esserci nota altrimenti che mediante qualcosa che conosciamo già con certezza? Questo porta al concetto di una certezza immediata che non solo non ha bisogno di prove, ma esclude affatto ogni prova, ed è solamente la stessa rappresentazione, che si accorda colla cosa rappresentata (dunque, ha il suo vero fondamento in se stessa). La convinzione mediante prove è una certezza di seconda mano, deriva da comparazione, e non può mai essere proprio sicura e perfetta. Ora, se ogni adesione che non derivi da ragionamenti è fede, anche la convinzione per ragionamenti deve derivare dalla fede e solo da essa riceve la sua forza. Mediante la fede noi sappiamo che abbiamo un corpo, e che fuori di noi esistono altri corpi e altri esseri pensanti. Una rivelazione verace, meravigliosa! Poiché noi sentiamo solo il nostro corpo, in questo o quell’altro stato; e mentre lo sentiamo, avvertiamo non solo i suoi mutamenti, ma anche qualcosa di affatto diverso, che non è semplicemente sensazione né pensiero, cioè altre cose reali, e invero colla certezza con cui avvertiamo noi stessi; poiché senza il tu è impossibile l’io.12

Raggiungiamo qui ciò che a mio avviso costituisce il tema portante dell’intera filosofia di Jacobi, il fondamento di quel realismo ingenuo per il quale la percezione immediata è il solo canale attraverso il quale si svolge la rivelazione della realtà in sé: ogni esperienza è

11 Per l’esattezza bisogna notare che Hume si avvale di una sfumatura semantica che viene inevitabilmente perduta nella rivisitazione jacobiana della sua teoria: la parola tedesca Glaube elimina la distinzione tra la fede in senso stretto (faith) e la semplice credenza (belief).

12 F.H.JACOBI, La dottrina di Spinoza, cit., pp.135-136. Da notare l’analogia tra questo passo e il «Teorema»

su cui Kant fonda la Confutazione dell’idealismo.

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ricondotta alla polarità irriducibile tu-io ovvero è interpretata come Begegnung tra un soggetto e il suo altro, rivelatosi e conosciuto mediante la fede. La medesima struttura, come è facile vedere, sta ugualmente alla base della comune esperienza oggettuale e del dialogo mistico con l’alterità kat’§joxÆn, Dio.

Già limitandoci a queste coordinate generali possiamo immaginare quanto profonda sarà la divergenza tra Jacobi e Kant.

3.2. L

A

A

USEINANDERSETZUNG CON

K

ANT

Gli attacchi di Jacobi alla filosofia critica, benché talvolta eccessivi, hanno contribuito in misura determinante a mettere in luce i nodi problematici – primo fra tutti il concetto di cosa in sé – su cui si è incentrato il dibattito che, attraverso gli autori da esaminare nel presente lavoro, ha condotto all’idealismo assoluto. Lungi dal pretendere di trattare in modo esauriente una questione così complessa e sfaccettata come il rapporto tra Jacobi e Kant, ci limitiamo a ripercorrere la schematica tripartizione proposta da V.Verra. Nel dialogo su Idealismo e realismo (cit., p.106 sgg.) Jacobi descrive esplicitamente il suo primo incontro con Kant: deluso dal saggio di Mendelssohn vincitore del concorso sulla domanda circa «l’evidenza nelle scienze metafisiche», e in particolare non convinto dalla rivalutazione dell’argomento ontologico da parte dell’autore delle Morgenstunden, egli si imbatte nel saggio precritico dedicato all’Unico argomento possibile sull’esistenza di Dio ritrovandovi uno dei cardini del suo pensiero, l’irriducibilità dell’esistenza a semplice predicato logico e la sua priorità rispetto a qualsiasi sapere discorsivo o dimostrativo che, lungi dal poterla fondare, ne presuppone la rivelazione immediata.

Nella centralità di questa idea sono già contenuti tutti i motivi del successivo distacco di

Jacobi da Kant. Intendere la ragione come un Vermögen deputato alla costruzione di

inferenze a partire da giudizi dati e alla prescrizione della massima estensione possibile

nell’uso dell’intelletto significa misconoscere l’essenza della nostra facoltà più alta. Essa

è in realtà tutt’uno col sentimento che, sorgendo dall’introspezione morale, ci permette di

cogliere l’Assoluto; è l’intuizione del Dio personale che si realizza nella fede. Che la

ragione, caratteristica peculiare attraverso cui il genere umano si eleva specificamente al

di sopra del regno animale (nel quale pure, come notato da Hume, certe forme o gradi

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inferiori di attività intellettuale si manifestano

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), sia analoga al senso in quanto capacità di apprensione immediata e non discorsiva, e rientri perciò nella «particolare sensibilità»

dell’uomo, è confermato per Jacobi dal significato traslato che il termine Sinn assume in composti come Unsinn, Schwachsinn, Tiefsinn, ecc. La conoscenza mediata tramite rappresentazioni si riferisce soltanto alle proprietà delle cose, mai alla realtà stessa, che deve essere direttamente percepita.

Coerentemente con questi presupposti Jacobi propone una «deduzione» alternativa di alcune fondamentali nozioni a priori come l’estensione, la sostanza e l’azione reciproca, partendo non dalle funzioni formali del puro intelletto ma dall’archetipo realista di ogni esperienza: la polarità originaria di soggetto e oggetto. L’opposizione o alterità tra il sentito e il senziente determina la loro esteriorità reciproca; l’estensione in generale, in quanto condizione senza la quale l’esteriorità non può essere pensata, accompagna pertanto qualsiasi contenuto della coscienza. Ancora, noi percepiamo immediatamente l’unione della molteplicità di elementi che compongono il nostro Io: da qui il concetto di individualità, altrettanto essenziale per la coscienza, legato in senso proprio ai soli organismi viventi ma applicabile per esteso a tutto ciò che si presenta come un molteplice connesso in unità (oggetto). Ogni individuo possiede, oltre all’«azione interna» che ne determina l’identità, la capacità di agire sulla realtà esterna e poiché nulla è completamente penetrabile ogni azione o contatto sarà accompagnata da una reazione o resistenza. Il tempo trae infine origine dall’impossibilità di concepire azione e reazione altrimenti che in una successione. Questi concetti possono essere definiti a priori o persino innati in quanto presupposti necessariamente da ogni coscienza individuale e ricavati immediatamente dal modo in cui la realtà le si rivela.

Saremmo dunque riusciti a mettere in luce i concetti di realtà, di sostanza o individualità, di estensione materiale, di successione e di causalità, come concetti che debbono esser comuni a tutti gli esseri finiti, manifesti a se stessi e che hanno il loro oggetto indipendente dal concetto, e quindi un significato vero ed oggettivo pur nelle cose in sé.14

13 D.HUME, Ricerca sull’intelletto umano, tr. it. M.Dal Pra, Laterza, Bari 1996, pp.163-169; Trattato sulla natura umana, a c. di P.Guglielmoni, Bompiani, Milano 2001, pp.361-367.

14 F.H.JACOBI, Idealismo e realismo, cit., p.121 (la sottolineatura è mia).

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Il breve e notevole saggio Sull’idealismo trascendentale mira a dimostrare che oltre al realismo appena delineato e all’idealismo assoluto per il quale la realtà in sé è inesistente o del tutto irrilevante, non datur tertium, e che l’idealismo trascendentale appartiene in realtà alla seconda categoria. L’espressione «oggetto esterno» ha per Kant due significati ben distinti: in senso trascendentale essa designa il fondamento assoluto dei fenomeni, inaccessibile all’intuizione e problematico per il pensiero; in senso empirico allude alle cose rappresentate nello spazio, a proposito delle quali non si deve dimenticare che «lo stesso senso esterno non è che un modo interno di rappresentazione» (KRV, A 378). I soli oggetti su cui possiamo riflettere e discutere sono evidentemente quelli della seconda specie, cioè semplici determinazioni soggettive che non rappresentano nulla degli oggetti esistenti realmente fuori di noi (Ivi, A 101). Questa posizione, ricavata – è opportuno sottolinearlo – da passi del Quarto paralogismo e della Deduzione A, rimossi da Kant nell’edizione del 1787, è per Jacobi chiaramente incompatibile col presupposto per cui gli oggetti esterni si imprimono sui sensi procurandoci le rappresentazioni. Infatti: 1) è da escludere che qui si parli di oggetti esterni in senso trascendentale, non potendosi altrimenti dire nulla al proposito; 2) gli oggetti empirici, d’altronde, sono mere rappresentazioni della mente ed è assurdo pensare che affèttino i sensi dando origine a ulteriori rappresentazioni. L’idea realista secondo cui la sensibilità svolge un ruolo di mediazione tra il soggetto e gli oggetti fuori di lui è peraltro implicita nella nozione stessa di sensibilità e non può essere abbandonata, perciò l’idealismo trascendentale finisce in un’aporia che non offre possibilità di scampo: senza il presupposto di un’azione della realtà in sé sul soggetto non è possibile entrare nel sistema, con quel presupposto è impossibile restarvi. L’oggetto vero – trascendentale – rimane per Kant sempre irraggiungibile; credere nella sua esistenza significa già abbandonare la prospettiva critica. L’idealismo trascendentale è dunque «l’idealismo più forte che sia stato mai concepito», un vero e proprio «egoismo speculativo» che annienta ogni realtà al di fuori del soggetto e delle sue determinazioni.

L’inizio della terza fase del confronto di Jacobi con Kant, caratterizzata da una moderata riconciliazione, è segnato dalla Lettera a Fichte. L’autore della Dottrina della scienza è il

«Messia» che ha portato a compimento la profezia del «Battista» Kant, dissolvendo le

contraddizioni di quest’ultimo in un sistema dell’«entusiasmo logico» che distrugge la

morale e rende impossibile, attraverso il più radicale nichilismo, quel rifugio nella fede

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che la Critica ancora concedeva in merito alle idee di Dio, dell’immortalità e della libertà,

postulati pratici e «soggetti essenziali della filosofia».

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