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1. INTRODUZIONE ... 3
1.1 I metalli pesanti ... 3
1.2 Il ruolo dello Zn ... 5
1.3 Meccanismi di tolleranza ai metalli pesanti ... 7
1.4 Il fitorimedio... 10
1.5 Fitoestrazione dello Zn: perché utilizzare il pioppo? ... 14
1.6 I trasportatori di tipo ABC... 18
1.7 Scopo del lavoro sperimentale ... 24
2. MATERIALI E METODI ... 25
2.1 Clonaggio del gene dr19 da cDNA di P. x euroamericana clone I-214 ... 25
2.2 Clonaggio del gene dr19 per la localizzazione subcellulare ... 29
2.3 Trasfezione transiente di protoplasti di Arabidopsis thaliana... 33
2.4 Clonaggio del gene dr19 per la produzione di piante transgeniche ... 35
2.5 Coltura in vitro e trattamento con Zn delle piante di P.alba ... 40
2.6 Campionamento delle piante di pioppo e determinazione del contenuto di Zn ... 44
2.7 Estrazione di RNA da foglie di P. alba e retrotrascrizione ... 44
2.8 Analisi dei livelli di espressione del gene dr19 ... 46
3. RISULTATI ... 49
3.1 Clonaggio del gene dr19 dal cDNA di P. x euroamericana clone I-214 ... 49
3.2 Clonaggi del gene dr19 per la localizzazione subcellulare e la produzione di piante transgeniche ... 53
3.3 Analisi dei livelli di espressione del gene dr19 in P. x euroamericana clone I-214... 55
3.4 Localizzazione subcellulare della proteina DR19 in protoplasti di A. thaliana ... 56
INDICE
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3.5 Risposta fisiologica di P. alba clone Villafranca al trattamento con Zn ... 58
3.6 Analisi dei livelli di espressione del gene dr19 in P. alba clone Villafranca ... 64
4. DISCUSSIONE ... 65
5. CONCLUSIONI E PROSPETTIVE FUTURE ... 71
BIBLIOGRAFIA ... 73
3 1.1 I metalli pesanti
I metalli pesanti sono un gruppo di elementi chimici non definito in modo univoco. Generalmente questi appartengono per la maggior parte ai metalli di transizione, con alcune eccezioni come ad esempio il piombo (Pb) e il tallio (Tl) (Lin e Aarts, 2012) (figura 1.1). Da un punto di vista più biologico, nella definizione di metalli pesanti sono compresi tutti quei metalli che risultano tossici per gli organismi, anche in concentrazioni estremamente basse (Rascio e Navari-Izzo, 2011).
I metalli pesanti sono elementi naturali che compongono la crosta terrestre, quindi normalmente presenti nell’ambiente. Tra quelli presenti in concentrazioni maggiori nei suoli europei si trovano arsenico (As), cadmio (Cd), cromo (Cr), rame (Cu), mercurio (Hg), nichel (Ni), Pb e zinco (Zn, figura 1.2). La loro presenza nell’ambiente è dovuta ai processi geologici, come ad esempio eruzioni vulcaniche e movimenti tellurici e alla composizione chimica della materia organica stessa.
Anche le attività umane inquinanti contribuiscono a una loro immissione nell’ambiente, come l’estrazione mineraria, l’attività di fonderie e acciaierie, l’uso di mezzi di trasporto a motore alimentati da combustibili fossili, l’incenerimento dei rifiuti e l’utilizzo di concimi in agricoltura (Lado et al., 2008). I metalli pesanti, quindi, sono inquinanti ambientali associati alle società industrializzate (Padmavathiamma e Li, 2007) e questo tipo di inquinamento aumenta in modo proporzionale con i livelli di industrializzazione (Ali et al., 2013).
I metalli pesanti si suddividono in due categorie: essenziali e non essenziali. Alcuni dei metalli pesanti a massa atomica minore sono anche elementi essenziali per la biologia, cioè richiesti in tracce dagli organismi viventi per la loro fisiologia. Alcuni esempi sono lo Zn, il cobalto (Co), il Cu, il Ni, il manganese (Mn), il molibdeno (Mo) e il ferro (Fe). Quelli non essenziali, invece, non sono richiesti dagli organismi viventi per nessun processo fisiologico, (come il Cd, Pb, As, Hg e
1. INTRODUZIONE
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Cr), ma sono in grado di entrare nella cellula attraverso l’apparato di uptake minerale esistente, andando a competere con i metalli essenziali e, quindi, a interferire con la normale fisiologia degli organismi (Lin e Aarts, 2012; Ali et al., 2013).
Figura 1.1 Tavola periodica degli elementi dove sono evidenziati in blu i metalli di transizione e in giallo i
metalli pesanti. Il bandeggio indica la sovrapposizione dei metalli di transizione con i metalli pesanti. In rosso sono delimitati i metalli pesanti coinvolti nei processi biologici. Modificata da pse.merck.de/merck.php?lang=EN(―Periodic table of elements - The Merck Group,‖ n.d.).
Tutti i metalli pesanti potenzialmente hanno effetti tossici: ciò dipende dalla concentrazione biodisponibile del metallo e dalla sensibilità dell’organismo esposto (Lin e Aarts, 2012). Alcuni esempi di effetti dannosi dei metalli pesanti sono l’alterazione della funzione di pigmenti ed enzimi, la formazione di radicali liberi, l’induzione di stress ossidativo e di danni al DNA (Padmavathiamma e Li, 2007; Ali et al., 2013). Tra i metalli pesanti a tossicità maggiore si trovano Hg, Cd, Pb, As, Cu, Zn, stagno (Sn) e Cr, dei quali i primi quattro non sono essenziali, mentre il Cu e lo Zn lo sono in tracce (Ali et al., 2013). Questi non sono tossici soltanto per l’uomo o gli animali ma anche per le piante, le quali se esposte a concentrazioni eccessive manifestano sintomi come la
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riduzione della biomassa, la clorosi fogliare, l’inibizione della crescita radicale, alterazioni morfologiche e, in estremo, la morte (Lin e Aarts, 2012).
Figura 1.2 Livelli di Zn nei suoli dell’Europa Centrale, dove la sua concentrazione è maggiore soprattutto nelle zone calcaree e sfruttate per l’agricoltura (dove sono utilizzati composti inquinanti come fertilizzanti, letame, concimi chimici) nelle vicinanze di centri urbani e zone industriali. Modificata daLado et al., 2008.
1.2 Il ruolo dello Zn
Lo zinco (Zn) è un metallo di transizione normalmente presente nella litosfera (Broadley et al., 2007). Il contenuto di Zn nel suolo dipende da cause naturali come le alterazioni chimico-fisiche delle rocce, le attività geologiche, i processi biotici come la decomposizione della materia organica, la struttura e il pH del terreno stesso (Broadley et al., 2007; Sharma et al., 2013). Anche le attività umane hanno un ruolo nell’ingresso dello Zn nelsuolo, come ad esempio l’estrazione mineraia, l’attività delle fonderie, l’utilizzo di combustibili fossili, l’uso di concimi e di fertilizzanti e la presenza di fanghi di scolo. Tutti questi contributi portano alla contaminazione dei suoli con lo Zn e, quindi, al manifestarsi di sintomi da tossicità nella vegetazione presente (Broadley et al., 2007).
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Questo elemento si trova nel suolo in varie forme chimiche con diversa solubilità e disponibilità per le piante. L’equilibrio tra le forme chimiche dello Zn e la sua distribuzione dipendono da vari fattori come la sua concentrazione nel suolo, la presenza di altri cationi, l’adsorbimento alle componenti colloidali del terreno o la formazione di precipitati insolubili (Broadley et al., 2007; Sharma et al., 2013). La forma ionica Zn2+ è quella solubile che viene assorbita dall’apparato radicale delle piante e la sua disponibilità aumenta al diminuire del pH (Broadley et al., 2007).
Lo Zn è un microelemento essenziale per tutti gli organismi, dall’uomo alle piante; infatti, partecipa a molte funzioni fondamentali per la cellula come la trascrizione e traduzione del DNA e la trasduzione del segnale. Questo metallo è l’unico ad essere cofattore di tutte le classi di enzimi, ossidoreduttasi, transferasi, idrolasi, liasi, isomerasi e ligasi (Broadley et al., 2007; Lin e Aarts, 2012; Sharma et al., 2013). Inoltre, è necessario per l’assunzione di una corretta struttura e il funzionamento di numerose proteine (Grotz e Guerinot, 2006). L’esempio più rappresentativo di proteine interagenti con lo Zn è costituito dai fattori di trascrizione con domini a Zn-finger (Broadley et al., 2007; Sharma et al., 2013).
Proprio per le funzioni fondamentali che lo Zn svolge all’interno della cellula, le concentrazioni di Zn2+ libero sono mantenute estremamente basse ed entro un intervallo ristretto (tipicamente nelle foglie la concentrazione di Zn è compresa tra i 15 e i 20 mg Zn kg-1 DW), per evitare effetti di tossictà legati al suo eccesso. Ciò si realizza attraverso la sua compartimentalizzazione, cioè il sequestro negli organelli citoplasmatici e i legami a elevata affinità nel citoplasma con molecole chelanti (Broadley et al., 2007; Lin e Aarts, 2012).
La crescita normale della pianta avviene quando le concentrazioni cellulari di Zn2+ rimangono all’interno di un intervallo ottimale. Quando le concentrazioni sono limitanti o eccedenti, invece, la pianta manifesta rispettivamente sintomi di carenza o di tossicità (Lin e Aarts, 2012, figura 1.3).
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Un eccesso di metalli pesanti, come lo Zn, induce una serie di conseguenze negative nelle piante. Si possono verificare sostituzioni di elementi essenziali, che portano a una carenza per quegli elementi, legami a gruppi tiolici di proteine con loro misfolding o inattivazione, oppure la produzione di radicali liberi e specie reattive dell’ossigeno (ROS), inducendo quindi lo stress ossidativo (Hall, 2002).
Figura 1.3 Curva dose-risposta della capacità di crescere delle piante in relazione alla presenza di
micronutrienti essenziali, come ad esempio lo Zn. Concentrazioni sia troppo basse che troppo elevate di Zn inducono un fenotipo sofferente, mentre all’interno dell’intervallo ottimale di concentrazione di Zn il fenotipo è normale. Modificata da Lin e Aarts, 2012.
1.3 Meccanismi di tolleranza ai metalli pesanti
Le piante che sono in grado di crescere su terreni inquinati da metalli pesanti sono definite tolleranti (Hall, 2002). In queste condizioni altre piante, non tolleranti, vanno in contro a stress da tossicità e, quindi, non sono in grado di crescere. Per affrontare le situazioni di tossicità da metalli pesanti le piante hanno evoluto diversi meccanismi a livello cellulare (riepilogati in figura 1.4). Le principali strategie evolute dalle piante prevedono l’esclusione al di fuori della cellula, la compartimentalizzazione o la traslocazione dei metalli pesanti (Lin e Aarts, 2012).
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Il meccanismo di tolleranza più importante e diffuso è la chelazione, sia a livello intracellulare che extracellulare. Le piante sono capaci di produrre agenti chelanti come gli acidi organici, gli amminoacidi e i peptidi o piccole proteine. Esempi di queste ultime sono le fitochelatine (PC) e le metallotioneine (MT): molecole di origine diversa, ma accomunate dalla composizione amminoacidica e dalla funzione. Entrambe, infatti, fungono da agenti chelanti in quanto contengono molti residui di cisteina e, attraverso i gruppi tiolici, sono in grado di legare i metalli pesanti e formare così dei complessi stabili. Le fitochelatine sono peptidi derivanti dal metabolismo del glutatione (GSH), la cui struttura è (γ-glutammil-cisteinil)n-glicina con n che può variare da 2 a 11.
Sono prodotte dall’enzima PC-sintasi, che si attiva in conseguenza della presenza di metalli pesanti e che utilizza come substrato il GSH. Le metallotioneine, invece, sono proteine a basso peso molecolare e codificate da geni specifici (Hall, 2002; Ali et al., 2013).
Gli acidi organici (ad esempio l’acido citrico e l’acido malico) sono prodotti normalmente dal metabolismo cellulare e possono formare complessi con i metalli pesanti a livello intracellulare, oppure nel suolo, dopo essere stati secreti da parte delle cellule radicali, per evitarne l’assorbimento.
Alternativamente, questi possono complessare alle componenti della parete cellulare (Hall, 2002;
Clemens et al., 2002). Anche i microorganismi presenti nel suolo, come le micorrize, sono in grado di abbassare la disponibilità dei metalli e impedirne l’assorbimento da parte delle cellule radicali (Hall, 2002; Clemens et al., 2002; Ali et al., 2013).
Sia la compartimentalizzazione dei metalli pesanti a livello degli organelli citoplasmatici, ad esempio il vacuolo, che la loro traslocazione in organi e tessuti meno sensibili ai loro effetti dannosi avvengono per mezzo dei trasportatori di membrana.
Il ruolo dei trasportatori è fondamentale per consentire l’omeostasi dei metalli essenziali ed escludere dal citosol i metalli pesanti. Nelle piante sono state identficate diverse famiglie geniche codificanti numerosi trasportatori di membrana (Hall and Williams, 2003). Alcune di queste sono le Heavy Metal ATPase (HMA), gli ATP-binding cassette (ABC) transporter, le Natural Resistance-
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Associated Macrophage Protein (NRAMP), i Cation Diffusion Facilitator (CDF), le Zinc-Iron Permease (ZIP), le proteine antiporto cationi/H+ e i Cu-Transporter (CTR).
Figura 1.4 Panoramica dei possibili meccanismi di tolleranza ai metalli pesanti a livello cellulare. Le
micorrize che avvolgono le cellule radicali possono impedire l’entrata dei metalli pesanti (M) nella cellula (A), oppure questi possono legarsi a molecole che compongono la parete cellulare, o alle molecole secrete dalla radice (B). Un altro meccanismo prevede di evitare l’ingresso attraverso il plasmalemma dei metalli pesanti nella cellula (C). In un contesto dove la concentrazione dei metalli è elevata il plasmalemma si trova in condizioni di stress, quindi sono attivati dei meccanismi di protezione (F). Una volta entrati nella cellula i metalli pesanti possono venire espulsi nell’apoplasto (D), oppure venire chelati nel citoplasma (E) da varie molecole come le fitochelatine (PC), metallotioneine (MT) o Heat Shock Protein (HPS). I metalli pesanti sono sequestrati nel vacuolo in forma ionica (H) oppure sotto forma di complessi formatisi nel citoplasma (G). Modificata da Hall, 2002.
10 1.4 Il fitorimedio
Le tecniche convenzionali di depurazione dei suoli dagli agenti inquinanti, compresi i metalli pesanti, prevedono l’utilizzo di metodi chimici e fisici come la vitrificazione, il soil washing, l’incenerimento del suolo, l’escavazione, l’immobilizzazione, la solidificazione e la stabilizzazione con sistemi elettrocinetici (Wuanae Okieimen, 2011; Ali et al., 2013). Per tutti questi metodi gli svantaggi di utilizzo sono maggiori dei vantaggi perché sono costosi, richiedono molta manodopera e incidono in modo drastico e irreversibile sulle caratteristiche dei suoli (Padmavathiamma e Li, 2007; Ali et al., 2013). Inoltre, questi metodi di depurazione, che possono avvenire sia in loco che ex situ, consentono o di rimuovere l’agente contaminante, oppure di stabilizzarne la presenza nel
suolo riducendo così i rischi legati alla sua presenza (Vangronsveld et al., 2009).
Visti i lati negativi di queste metodiche di depurazione, negli ultimi anni sono allo studio delle strategie alternative che siano più economiche, convenienti, efficaci e, soprattutto, con un impatto ambientale minore.
Il fitorimedio (o fitodepurazione) è una tecnica di depurazione dei suoli, dei sedimenti e delle acque dagli agenti inquinanti, che si basa sull’utilizzo di piante, naturali o geneticamente modificate, e dei microorganismi ad esse associati (Pilon-Smits e Freeman, 2006; Padmavathiamma e Li, 2007).
Questa tecnica di depurazione viene apprezzata dall’opinione pubblica in quanto considerata una soluzione naturale e a basso impatto ambientale rispetto i metodi convenzionali (Rascio e Navari- Izzo, 2011; Ali et al., 2013). I vantaggi legati all’utilizzo del fitorimedio sono sia applicativi che economici: questa tecnica può, infatti, essere applicata a terreni inquinati di grande estensione dove le strategie convenzionali non possono essere utilizzate (Ali et al., 2013) e consente di non alterare la fertilità dei suoli (Padmavathiamma e Li, 2007) per coltivazioni future.
La fitodepurazione comprende vari metodi di depurazione raggruppabili in categorie, ognuna delle quali ha un impiego specifico a seconda delle piante utilizzate, il tipo di agente contaminante, le
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condizioni del sito inquinato e il livello di pulizia richiesto (Padmavathiamma e Li, 2007). Man mano che la ricerca in questo settore prosegue, il numero delle categorie aumenta e le applicazioni si diversificano maggiormente. Padmavathiamma e Li (2007) riportano quattro diverse tipologie di fitodepurazione: la fitostabilizzazione, la fitoestrazione (figura 1.5), la fitovolatilizzazione e la fitofiltrazione. La fitostabilizzazione è considerata una tecnica di contenimento in quanto le piante non rimuovono gli agenti inquinanti dal suolo, ma li stabilizzano e li intrappolano attraverso il loro apparato radicale. Le altre tre tecniche sono invece impiegate per la rimozione degli agenti inquinanti: con la fitoestrazione (figura 1.5) le piante estraggono e assorbono i metalli dal suolo attraverso l’apparato radicale e successivamente possono traslocarli e accumularli nella parte aerea.
Con la fitovolatilizzazione le piante sono in grado di estrarre dal suolo e convertire alcuni metalli nella loro forma volatile, quando è possibile, e poi rilasciarli nell’atmosfera (un esempio è quello dell’Hg, che viene convertito e rilasciato nella forma innoqua Hg0). Infine la fitofiltrazione consente di applicare i concetti della fitoestrazione alle acque inquinate.
Figura 1.5 Schema del meccanismo di fitoestrazione. Le piante sono in grado di assorbire i metalli pesanti
attraverso il loro apparato radicale. Questi possono essere sequestrati a livello delle radici, oppure venire traslocati nella parte aerea. Modificata da Padmavathiamma e Li, 2007.
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Ali et al. (2013), oltre alle quattro tipologie elencate sopra, descrivono altre tre tecniche di fitodepurazione quali la fitodegradazione, la rizodegradazione e la fitodesalinizzazione. Le prime due si riferiscono alla degradazione di xenobiotici organici, ma con alcune differenze: nella fitodegradazione questi sono degradati dalle piante stesse, mentre nella rizodegradazione la degradazione avviene nella rizosfera, cioè da parte dei microorganismi associati alle piante. Con la fitodesalinizzazione le piante, in particolare le alofite, sono sfruttate per rimuovere dal suolo i sali in eccesso.
Rispetto ai metodi di depurazione convenzionali, l’utilizzo dei metodi di fitodepurazione spesso si rivela essere da 2 a 10 volte più economico (Pilon-Smits e Freeman, 2006). Questo vantaggio economico, inoltre, può essere triplice: tramite l’impiego di tecniche di fitostabilizzazione possono essere ridotti i rischi legati alla presenza e all’esposizione ai metalli pesanti e, a seguito di fitoestrazione, i metalli che hanno un valore di mercato (come Ni, oro (Au) o Tl) possono essere recuperati e riutilizzati (processo che prende il nome di phytomining). Infine, il fitorimedio garantisce una gestione del territorio duratura, in quanto la fitoestrazione può migliorare la qualità dei suoli per la coltivazione di colture economicamente redditizie (Vangronsveld et al., 2009).
Le tecniche di fitodepurazione presentano anche delle limitazioni. L’agente inquinante, infatti, deve essere biodisponibile per l’assorbimento e ad una profondità del suolo che sia raggiungibile dalle radici delle piante. Le piante, inoltre, devono essere in grado di crescere nel terreno inquinato che, quindi, deve avere caratteristiche adeguate. Infine, il fitorimedio richiede molto più tempo per la depurazione dei suoli rispetto i metodi convenzionali, nell’ordine di decine di anni (Pilon-Smits e Freeman, 2006).
La fitoestrazione (figura 1.5) è la principale tecnica di fitodepurazione (Ali et al., 2013), tanto che spesso questi due termini sono utilizzati come sinonimi (Padmavathiamma e Li, 2007). La scelta di
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una pianta per questo scopo deve soddisfare alcune caratteristiche (Padmavathiamma e Li, 2007;
Vangronsveld et al., 2009; Ali et al., 2013):
crescita rapida e produzione abbondante di biomassa
apparato radicale profondo e ramificato
elevata capacità di accumulo di metalli pesanti e di loro traslocazione nella parte aerea
tolleranza agli effetti di tossicità dei metalli pesanti
buona capacità di adattamento a condizioni diverse da quelle dell’habitat autoctono
resistenza a malattie e patogeni
facilità di coltivazione e di raccolta
essere non attrattiva per gli erbivori in modo da non far entrare i metalli pesanti nella catena alimentare.
Ci sono opinioni contrastanti riguardo la scelta delle piante con le caratteristiche più adatte alla fitoestrazione. Ci sono due gruppi di candidate: le piante iperaccumulatrici e le piante che hanno un accrescimento rapido e producono molta biomassa (Vangronsveld et al., 2009; Ali et al., 2013). Le piante iperaccumulatrici hanno in generale un accrescimento lento e scarsa biomassa, ma sono in grado di accumulare e tollerare quantità molto elevate di uno o più metalli pesanti, tossici per le piante non iperaccumulatrici, senza manifestare sintomi di tossicità (caratteristica che prende il nome di ipertolleranza). Le piante iperaccumulatrici sono in grado di traslocare i metalli pesanti assorbiti dalle radici alla parte aerea, ad esempio le foglie, dove vengono accumulati in quantità molto superiori rispetto alle altre piante (Rascio e Navari-Izzo, 2011).
Per la fitoestrazione può essere preferibile utilizzare piante ad accrescimento rapido e in grado di produrre molta biomassa, come salici e pioppi. Il grado di depurazione dei suoli che può essere raggiunto con questa tecnica dipende dalla biodisponibilità del metallo in questione e dalla profondità che le radici della pianta sono in grado di raggiungere. In questo modo non soltanto
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viene raggiunto lo scopo di depurare i suoli dai metalli pesanti, ma potrebbero essere realizzati anche scopi secondari come il recupero dei metalli estratti e accumulati (phytomining) e l’utilizzo della biomassa a scopi industrialio per produrre energia (Vangronsveld et al., 2009).
1.5 Fitoestrazione dello Zn: perché utilizzare il pioppo?
Il genere Populus (famiglia delle Salicaceae) viene utilizzato come modello di piante arboree per la fitoestrazione di metalli pesanti come lo Zn dai suoli inquinati. La diffusione del suo utilizzo come sistema modello si basa su alcune caratteristiche favorevoli (Bradshaw et al., 2000):
crescita rapida (in circa 20 anni è in grado di raggiungere i 40 metri di altezza) e produzione abbondante di biomassa
genoma piccolo
facilità di manipolazione genetica e di propagazione clonale.
Il genoma aploide del pioppo ha dimensioni relativamente ridotte, circa 550 Mbp, circa 4 volte maggiore quello di Arabidopsis (Marmiroli et al., 2011), organizzato in 18 cromosomi (Tuskan et al., 2006). Nel 2006 Tuskan et al. hanno sequenziato il genoma di Populus trichocarpa (Tuskan et al., 2006) e ciò ha costituito un avanzamento notevole per gli studi di genomica comparativa, come ad esempio per lo studio di quei geni codificanti proteine coinvolti nella risposta e tolleranza ai metalli pesanti (Marmiroli et al., 2011).
L’introduzione del pioppo come sistema modello, oltre ad Arabidopsis thaliana, consente di studiare in modo più completo anche le caratteristiche delle piante arboree. Gli alberi a rapido accrescimento come il pioppo, e che producono molta biomassa, sono sfruttati anche dal punto di vista commerciale, in quanto utilizzati per la produzione di legna, fibre, carta ed energia. Per questi
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motivi nel corso degli anni l’interesse verso questo genere sta aumentando sempre di più (Jansson e Douglas, 2007).
Il concetto alla base del processo di fitoestrazione è nato dallo studio delle specie iperaccumulatrici, che sono in grado di accumulare nei tessuti della parte aerea gli agenti tossici, come i metalli pesanti, a concentrazioni fino a 100 volte superiori rispetto alle specie non iperaccumulatrici (esempi sono le piante del genere Thlaspi e Alyssum, della famiglia delle Brassicaceae) (Pulford e Watson, 2003). Inoltre, gli studi che indagano la presenza di geni responsabili della tolleranza e dell’accumulo dei metalli pesanti sono stati effettuati soprattutto su piante iperaccumulatrici come Thlaspi caerulescens e Arabidopsis halleri (Marmiroli et al., 2011). Queste piante, però, non sono
in grado di produrre molta biomassa e hanno un accrescimento lento. Per gli scopi fitodepurativi sono stati presi in esame vari generi di alberi, e sono preferiti quelli a crescita rapida come ad esempio quelli apparteneti ai generi Salix, Betula, Populus, Alnus, Acer (Pulford e Watson, 2003).
Una valida alternativa è, quindi, utilizzare piante non iperaccumulatrici ma che hanno una crescita più rapida e producono più biomassa, come gli alberi di pioppo.
La profondità nel suolo raggiunta dall’apparato radicale e la sua estensione, la crescita a lungo termine e la produzione di molta biomassa, a livello della quale possono venire accumulati i metalli pesanti, sono tutte caratteristiche a favore dell’impiego del pioppo nella fitodepurazione (Marmiroli et al., 2011). Negli ultimi anni sono stati pubblicati alcuni studi su varie specie e cloni di pioppo che forniscono risultati promettenti sul suo possibile utilizzo per la fitoestrazione di metalli pesanti, in particolare lo Zn, dai suoli inquinati.
Il P. x euroamericana clone I-214 è stato utilizzato in vari sistemi (coltura idroponica, in vaso e in campo aperto) per studiarne il comportamento in presenza di eccesso di Zn. E’ stato visto che l’esposizione a rifiuti industriali ha un effetto positivo sulla crescita, sulla produzione di biomassa e
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sull’accumulo di metalli pesanti, senza indurre evidenti sintomi di sofferenza (Tognetti et al., 2004;
Sebastiani et al., 2004; Giachetti e Sebastiani, 2006). E’ stato determinato che la concentrazione subletale di Zn per il clone I-214 è 1 mM, tale da indurre sintomi di tossicità senza essere letale e in grado di influenzare negativamente la produzione di biomassa (Di Baccio et al., 2003). Il glutatione (GSH) e il suo metabolismo svolgono un importante ruolo antiossidante nella difesa dallo stress da Zn, il quale induce stress ossidativo, agendo da scavenger delle ROS prodotte (Di Baccio et al., 2005). Altri effetti dell’eccesso di Zn sono l’alterazione dell’attività fotosintetica, con induzione di sintomi da tossicità evidenti (Di Baccio et al., 2009).
Nel clone I-214 sono state riscontrate alterazioni strutturali a livello fogliare in presenza di una concentrazione subletale di Zn, in cui non si hanno sintomi visibili come la clorosi, ma si verificano alterazioni del mesofillo, degli spazi intercellulari e della funzionalità degli stomi (Di Baccio et al., 2010). Anche a livello radicale si manifestano delle alterazioni, infatti l’endodermide e la lignificazione dei vasi xilematici si sviluppano molto più vicini all’apice radicale rispetto la normalità (Stoláriková et al., 2012).
Inoltre, è stata condotta un’analisi approfondita sulle variazioni del trascrittoma delle foglie di P. x euroamericana clone I-214 in risposta a una concentrazione subletale di Zn, per identificare le
funzioni geniche e le vie metaboliche coinvolte nella risposta a questo tipo di stress, che si sono dimostrate essere localizzate nelle vie biosintetiche della fotosintesi, del metabolismo dei carboidrati e degli amminoacidi, dell’assimilazione di N e S e del metabolismo del GSH (Di Baccio et al., 2011).
Recentemente è stato eseguito uno studio in vaso su quattro diversi cloni di pioppo per individuare quello con la risposta migliore allo stress da Zn: il P. x euroamericana clone I-214 (produttore maggiore di biomassa) ed il P. alba clone Villafranca (il più resistente) sono risultati essere quelli con la maggiore capacità di accumulo (Romeo et al., 2014).
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Da studi in vaso è emerso, inoltre, che anche un’altra specie di pioppo, il P. x canescens 717-1B4, è in grado di tollerare un eccesso di Zn e di accumularlo nelle foglie e nella corteccia (Durand et al., 2010).
Un’altra specie di pioppo studiata per la fitodepurazione dei suoli inquinati da metalli pesanti è il P.
alba L.. Le foglie di P. alba possono essere utilizzate come bioindicatore del livello di
inquinamento del suolo da metalli pesanti, in base ai livelli di Cd e Zn che vi vengono accumulati.
Proprio questa capacità, però, può avere risvolti negativi; infatti, la caduta delle foglie in autunno comporterebbe un nuovo ingresso di questi metalli nell’ambiente (Madejón et al., 2004;
Ciadamidaro et al., 2014). Inoltre, gli alberi di P.alba coltivati in suoli contaminati sono in grado di crescere e produrre una quantità di biomassa maggiore rispetto quelli coltivati in suoli non inquinati (Ciadamidaro et al., 2013).
Su P. alba clone Villafranca sono stati condotti anche studi in vitro. Questo clone è in grado di tollerare concentrazioni di Zn intorno a 1 mM, soglia oltre la quale si manifestano sintomi di tossicità come riduzione della crescita radicale, clorosi fogliare e alterazione della fotosintesi. In risposta a questo stress viene indotta anche l’attivazione dell’espressione dei geni codificanti metallotioneine (Castiglione et al., 2007). Infine, è stato messo a punto uno screening in vitro in cui quattro diversi cloni di P. alba sono stati sottoposti a concentrazioni crescenti di metalli pesanti (As, Cu, Cd e Zn) per individuare quelli più adatti per la fitoestrazione: il clone Villafranca risulta il maggiore produttore di biomassa rispetto gli altri (Di Lonardo et al., 2011).
E’ stato realizzato uno studio in cui il profilo di espressione dei trasportatori di metalli del pioppo, a livello di intero genoma, è stato confrontato con quelli di altri sette organismi (dalle alghe a piante monocotiledoni e dicotiledoni) (Migeon et al., 2010), da cui emerge che il P. trichocarpa possiede un numero di geni codificanti trasportatori di metalli maggiore rispetto ad altre specie, e che questi
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sono espressi maggiormente a livello dello xilema. Le famiglie geniche descritte sono sei: i CTR, i CDF (o MTP per Metal Tolerance Protein), le ZIP, i Cation Exchanger (CAX), i NRAMP e, infine, le HMA, classificate come tipo di ATPasi 1B all’interno della famiglia delle P-ATPasi.
Il pioppo, quindi, è un buon candidato per essere impiegato nella fitoestrazione di metalli pesanti dai suoli inquinati, perché in grado di accumulare i metalli nella biomassa prodotta e di traslocarli nella parte aerea.
1.6 I trasportatori di tipo ABC
La superfamiglia di proteine ATP-binding cassette (ABC) è una delle più grandi note, i cui membri sono in grado di svolgere svariate funzioni in tutti gli organismi, dai batteri ai funghi, alle piante e agli animali. In A. thaliana e Oryza sativa sono codificate più di 120 proteine ABC. Queste svolgono un’ampia gamma di funzioni: mediano il trasporto attivo, modulano l’attività di canali ionici, sono proteine canale, oppure sono coinvolte in attività diverse dal trasporto, come la trasduzione del segnale. I trasportatori di tipo ABC sono in grado di trasportare un’ampia varietà di substrati come ioni, acidi inorganici, peptidi, zuccheri, polisaccaridi, lipidi, ormoni, metaboliti secondari, xenobiotici, erbicidi e complessi formati da metalli pesanti legati da agenti chelanti come il glutatione. Prendono parte a processi biologici diversi, come la detossificazione cellulare, la crescita e lo sviluppo delle piante, il movimento degli stomi e la tolleranza ai metalli pesanti (Theodoulou, 2000; Jasinski et al., 2003; Martinoia et al., 2002).
I trasportatori di tipo ABC, nelle cellule eucariotiche, sitrovano non solo nel plasmalemma, dove catalizzano l’efflusso dei loro substrati al di fuori della cellula, ma anche nelle membrane degli organelli citoplasmatici come il vacuolo, i perossisomi, i mitocondri e il reticolo endoplasmatico (Davies e Coleman, 2000).
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I trasportatori di tipo ABC hanno una struttura modulare e generalmente sono formati da quattro domini: due domini transmembrana (TMD) e due domini di legame ai nucleotidi (NBD). Il TMD ha caratteristiche idrofobiche in quanto costituito da 4 a 6 α-eliche transmembrana e forma la via fisica di passaggio del substrato attraverso la membrana. E’ a livello di questo dominio che viene determinata la specificità per il substrato da trasportare. Il NBD, anche detto ATP-binging cassette (ABC), invece è orientato verso il lato citoplasmatico della membrana e costituisce il dominio ATPasico che fornisce l’energia per il trasporto attivo, associandolo all’idrolisi di ATP e al rilascio di ADP (Theodoulou, 2000; Davies e Coleman, 2000; Rea, 2007).
Generalmente le proteine sono classificate come appartenenti a questa famiglia in base ai livelli di omologiatra le sequenze dei NBD, che possono variare tra il 30 e il 40%. Nella maggior parte dei casi, infatti, in questo dominio è presente una regione conservata di circa 200 amminoacidi, costituita dalle Walker A box e Walker B box intervallate da circa 120 amminoacidi in cui è presente il motivo tipico ABC, che permette di distinguere questi trasportatori da altre proteine che legano altri nucleotidi (Theodoulou, 2000; Davies e Coleman, 2000; Sánchez-Fernández et al., 2001; Rea, 2007, figura 1.6). A parte le caratteristiche di idrofobicità, non ci sono omologie significative tra i TMD delle proteine appartenenti a questa superfamiglia (Davies e Coleman, 2000).
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Figura 1.6 Struttura del dominio di legame ai nucleotidi (NBD) dei trasportatori ABC (Davies e Coleman, 2000).
Nei procarioti e negli organelli eucariotici i geni codificanti i domini dei trasportatori ABC sono tradotti separatamente. Negli eucarioti, invece, generalmente i domini sono fusi perché tradotti come un unico polipeptide (Theodoulou, 2000; Sánchez-Fernández et al., 2001). In questo secondo caso l’organizzazione dei domini può essere ―forward‖ (TMD1-NBD1-TMD2-NBD2) oppure
―reverse‖ o speculare (NBD1-TMD1-NBD2-TMD2). Inoltre, i trasportatori ABC si suddividono infull-size, formati da 2 NBD e 2 TMD, o half-size, dimeri in cui sono presenti un solo NBD e un TMD (Theodoulou, 2000; Rea, 2007).
Il meccanismo di trasporto è Mg-ATP dipendente (Rea, 2007) ed è schematizzato nella figura 1.7. Il legame del substrato da trasportare al TMD promuove il legame e l’idrolisi dell’ATP a livello del NBD. Ciò comporta un cambiamento strutturale del NBD e quindi del TMD, favorendo lo spostamento del substrato dall’altro lato della membrana. A seguito del rilascio dei prodotti di idrolisi, fosfato e ADP, il trasportatore può ritornare alla sua conformazione iniziale (Jasinski et al., 2003). Il meccanismo di trasporto non è influenzato dal gradiente protonico transmembrana generato dalle pompe di ioni H+, ed è inibito dall’ortovanadato (VO43-). L’ortovanadato, infatti, è un analogo stabile dell’ortofosfato: questo va a rimpiazzare il fosfato prodotto dall’idrolisi dell’Mg-
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ATP e impedisce il rilascio dell’altro prodotto di idrolisi, l’ADP, impedendo il ritorno del trasportatore alla confomazione iniziale (Rea, 2007).
Figura 1.7 Meccanismo di azione dei trasportatori ABC. Il legame del substrato (S) al TMD (fase I)
promuove il legame e l’idrolisi dell’ATP (T) a livello del NBD (fase II e III). Ciò comporta un cambiamento strutturale del NBD e quindi del TMD, favorendo lo spostamento del substrato dall’altro lato della membrana. A seguito del rilascio dei prodotti di idrolisi, fosfato e ADP (D), il trasportatore può ritornare alla sua conformazione iniziale (fase IV) (Jasinski et al., 2003).
A seconda della struttura, delle omologie di sequenza riscontrate tra i diversi organismi (come uomo e lievito) e dei processi cui prendono parte, i trasportatori ABC vegetali sono stati raggruppati in 13 diverse sottofamiglie (Sánchez-Fernández et al., 2001; Rea, 2007). Le prime cinque rientrano nei trasportatori full-size:
Multidrug Resistance (MDR) o P-glycoprotein (PGP),
Multidrug Resistance-associated Protein (MRP),
Pleiotropic Drug Resistance (PDR),
Peroxisomal Membrane Protein (PMP),
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ABC-One Homolog (AOH).
Altre quattro famiglie rientrano nei trasportatori half-size:
White-Brown Complex (WBC),
ABC-Two Homolog (ATH),
ABC Transporter of the Mitochondrion (ATM),
Transporter associated with Antigenic Processing (TAP).
Tre famiglie comprendono proteine solubili:
2’5’-oligoadenylate-activated RNaseL Inibitor (RLI),
General Control Nonrepressible (GCN),
Structural Maintenance of Chromosomes (SMC).
Infine la famiglia delle Nonintrinsic ABC Protein (NAP) costituisce un gruppo eterogeneo a parte di proteine ABC solubili o non intrinseche di membrana.
Nonostante nel corso degli anni siano stati caratterizzati molti trasportatori appartenenti a questa superfamiglia in organismi come il lievito, l’uomo e le piante, la maggior parte di questi non ha ancora una funzione nota. Inoltre, in alcuni casi, ai trasportatori ABC è stata attribuita una funzione controversa: sulla base delle omologie di sequenza tra organismi diversi, i trasportatori vengono attribuiti a una sottofamiglia specifica, ma non è detto che anche la funzione e il substrato siano conservati. In questo senso, quindi, è necessaria una caratterizzazione funzionale più approfondita.
Delle 13 sottofamiglie sopra elencate, le più studiate sono la PDR, la MDR e la MRP (Jasinski et al., 2003). La sottofamiglia MDR è stata identificata per la prima volta in cellule di mammifero, dove induce un fenotipo multifarmaco-resistente. Nelle piante i membri di questa sottofamiglia che sono stati studiati hanno funzioni diverse, come il trasporto di ormoni e di metaboliti secondari (Sánchez-Fernández et al., 2001; Jasinski et al., 2003; Rea, 2007).
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La sottofamiglia PDR viene considerata equivalente dal punto di vista funzionale alla MDR, ma nelle piante i suoi mebri trasportano metaboliti secondari prodotti in risposta agli stress ambientali subiti (come basse temperature, salinità elevata, presenza di patogeni o metalli pesanti) (Sánchez- Fernández et al., 2001; Jasinski et al., 2003; Rea, 2007).
La sottofamiglia MRP di trasportatori ABC, infine, è implicata nei meccanismi di detossificazione ed è stata identificata nelle piante a seguito dello studio del trasporto vacuolare nei processi di detossificazione da xenobiotici (Theodoulou, 2000). In generale questi trasportatori della sottofamiglia MRP sono responsabili del sequestro vacuolare di composti tossici (endogeni o xenobiotici) coniugati con il GSH o altri addotti (Jasinski et al., 2003;Rea, 2007). E’ stato riportato, inoltre, che anche alcuni membri della sottofamiglia PDR partecipano al sequestro vacuolare di metalli pesanti e xenobiotici chelati (Verbruggen et al., 2009).
Ci sono molti esempi di trasportatori di tipo ABC coinvolti nella tolleranza ai metalli pesanti e altri composti tossici. Generalmente questi sono sequestrati a livello del vacuolo sotto forma di complessi con il GSH o le fitochelatine (PC).
Lo Yeast Cadmium Factor 1 (YCF1) è un trasportatore vacuolare del lievito S. cerevisiae di composti chelati formati dal Cd complessato col GSH (Li et al., 1997). In S. pombe, HMT1 è un trasportatore vacuolare implicato nel sequestro di metalli pesanti (Cd) complessati con le PC (Ortiz et al., 1995). In modo analogo a YCF1 e HMT1, in A. thaliana AtMRP2 catalizza il trasporto non specifico di composti coniugati con il GSH all’interno del vacuolo, come anche AtMRP1 (Lu et al., 1998). Un altro trasportatore omologo di HMT1 è AtATM3, un trasportatore mitocondriale coinvolto nell’omeostasi del ferro e nella biosintesi dei cluster Fe-S, che, in presenza di Cd, è in grado di trasportare complessi GSH-Cd attraverso la membrana mitocondriale in Arabidopsis (Kim et al., 2006).
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A seguito di studi condotti nel lievito, in Oryza sativa è stato identificato il trasportatore OsABCG43/PDR5, la cui espressione viene indotta dalla presenza di Cd per conferire resistenza a questo metallo (Oda et al., 2011). In A. thaliana due trasportatori ABC, AtABCC1 e AtABCC2, contribuiscono alla resistenza all’arsenico mediando il sequestro vacuolare di complessi formati da As coniugato con le PC (Song et al., 2010).
Ci sono anche esempi di trasportatori ABC coinvolti nella tolleranza all’alluminio (Al). In Oryza sativa è stato identificato un complesso che trasporta l’UDP-glucosio ed è coinvolto nella resistenza
all’Al, localizzato a livello di vescicole intracitoplasmatiche e formato dal NBD OsSTAR1 e il TMD OsSTAR2, entrambi codificati da geni distinti (Huang et al., 2009). Anche in A. thaliana è stato identificato un complesso omologo a quello trovato nel riso e anch’esso coinvolto nella tolleranza all’Al. Questo è formato dal TMD chiamato ALS3, localizzato sulla membrana cellulare (Larsen et al., 2005), e il NBD, AtSTAR1, codificato da un gene diverso (Huang et al., 2010). Il gene omologo di AtALS3 e OsSTAR2 è stato identificato anche in Populus tremula, e, in presenza di un eccesso di Al, viene sovraespresso a livello delle radici (Grisel et al., 2010).
1.7 Scopo del lavoro sperimentale
Questo lavoro sperimentale si inserisce in un contesto di ricerca in cui il pioppo viene studiato come specie modello di pianta arborea per la fitoestrazione di metalli pesanti, come lo Zn, dai suoli inquinati. Il lavoro sperimentale svolto ha riguardato lo studio funzionale di un gene di P. x euroamericana clone I-214 codificante un putativo ABC-transporter, da noi chiamato dr19, che, da
nostri studi preliminari di Next Generation Sequencing, risulta differenzialmente espresso a seguito di esposizione a dosi subletali di Zn (1 mM). Lo scopo di questa tesi è stato quello di indagare il possibile coinvolgimento di questo gene nei meccanismi di tolleranza in risposta a un eccesso di Zn e, in particolare, al sequestro intracellulare di questo metallo.
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2. MATERIALI E METODI
2.1 Clonaggio del gene dr19 da cDNA di P. x euroamericana clone I-214
Il gene dr19 è stato clonato partendo da cDNA ottenuto da P. x euroamericana clone I-214, tramite una High Fidelity PCR utilizzando i primer DR19 forward e reverse (tabella 2.1), mediante il kit
―TAKARA BIO INC PrimeSTAR GXL DNA Polymerase‖ (Clontech) e seguendo il protocollo standard suggerito dal produttore. Le condizioni di reazione sono statele seguenti:
denaturazione iniziale 2 minuti a 98 °C;
denaturazione 10 secondi a 98 °C
annealing 20 secondi a 53 °C
estensione 1 minuto a 68 °C
per 30 cicli
fine reazione 5 minuti a 68 °C.
Al termine della reazione ad una aliquota del prodotto di PCR è stato aggiunto il loading buffer 6X (tabella 2.2). Questa è stata poi visualizzata su gel al 2% di agarosio con bromuro di etidio 10 mg/ml, tramite una corsa elettroforetica condotta a 100 V in tampone TBE 0,5 X (tabella 2.3). Una volta verificata la corretta amplificazione, il restante prodotto di PCR è stato purificato con il kit
―Nucleo Spin Extract II‖ (Macherey-Nagel) seguendo il protocollo del produttore. Subito dopo è stata preparata una reazione di A-tailing per aggiungere una deossiadenina alle estremità 5’ e 3’ del prodotto di PCR. Questa reazione è necessaria per poter ligare in modo efficiente l’inserto con il vettore pCRII (Invitrogen, figura 2.1), che presenta una deossitimidina protrudente alle estremità 5’
e 3’. La Reazione di A-tailing è stata preparatain un volume finale di 10 µl, aggiungendo
7 µl del prodotto di PCR purificato
1 µl Buffer (10 X)
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0,5 µl MgCl2 (50 mM)
1 µl dATP (2 mM)
0,5 µl Taq.
Il mix di reazione è stato incubato a 70 °C per 30 min. Il rimanente prodotto di PCR purificato è stato utilizzato per determinare la concentrazione del nostro DNA mediante visualizzazione su gel di agarosio, confrontando le bande con quantità note di DNA ladder (100 bp, New England), al fine di conoscere la quantità necessaria di A-Tailing per la reazione di ligation tra il prodotto di PCR e il vettore plasmidico pCRII, seguendo le istruzioni del produttore del kit ―Dual Promoter (pCRII) per TA Cloning‖ (Invitrogen). La reazione è avvenuta in 10 µl con 50 ng di vettore e una molar ratio 4:1 (inserto:vettore).
Per inserire il plasmide nelle cellule di E. coli, cellule competenti del ceppo DH5α sono state trasformate con il vettore pCRIIDR19 mediante elettroporazione. A ogni aliquota di cellule sono stati aggiunti 5 µl del mix di ligation ela trasformazione è stata effettuata mediante l’elettroporatore
―BIORAD Gene Pulser Xcell‖ impostato con i seguenti parametri:
Voltaggio 2,5 kV
Capacità 25 µF
Resistenza 200 Ω
Cuvette 2 mm.
Trascorsa circa un’ora di recovery in agitazione a 37 °C in 500 µl di mezzo LB, l’elettroporato è stato piastrato su agar LB con ampicillina, 100 µl di IPTG 0,1 M e 20 µl di x-gal 20 mg/ml per piastra. Le piastre sono state incubate a 37 °C over night.
E’ stato, poi, eseguito lo screening bianco-blu delle colonie cresciute tramite colony-PCR. Per questa reazione sono stati utilizzati i primer universali M13, che allineano sul vettore pCRII (la
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sequenza dei primer è riportata nella tabella 2.1 e lo schema del vettore nella figura 2.1). Per ogni colonia da testare è stata preparata una reazione di PCR in un volume finale di 10 µl, aggiungendo:
1 μl Buffer (10 X)
0,6 μlMgCl2 (50 mM)
0,2 μl dNTP (10 mM)
0,2 μl primer M13 forward (10 M)
0,2 μl primer M13 reverse (10 M)
0,3 μl Taq
7,5 μl H2O.
Le condizioni di reazione sono state le seguenti:
denaturazione iniziale 2 minuti a 94 °C
denaturazione 20 secondi a 94 °C
annealing 20 secondi a 53 °C
estensione 1,15 minuti a 72 °C
per 39 cicli
fine reazione 5 minuti a 72 °C.
Al termine della reazione i prodotti di PCR sono stati visualizzati su gel di agarosio al 2% come descritto precedentemente.
Tre diverse colonie risultate positive sono state inoculate in LB con ampicillina ed incubate over night in agitazione a 37 °C. Dagli inoculi è stato estratto il DNA plasmidico tramite il kit della OMEGA bio-tek ―E.Z.N.A. Plasmid DNA Mini Kit I‖ seguendo le istruzioni del produttore. La presenza del plasmide pCRII contenente il gene dr19 è stata verificata con delle reazioni di PCR preparate in 10 µl di volume finale, come descritto sopra, con circa 20 ng di pCRIIDR19. Sono stati utilizzati sia i primer DR19 forward e reverse che i primer universali M13 forward e reverse. Le
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condizioni di reazione sono state le stesse soprariportate, eccetto la temperatura di annealing, di 56
°C, e l’estensione, di 1,15 minuti.
Inoltre, è stata eseguita una digestione di verifica con l’enzima di restrizione EcoRI (Invitrogen), preparata in un volume finale di 10 µl aggiungendo 200 ng di DNA plasmidico, 1 μl REact3 Buffer 10 X, 0,5 μl EcoRI e 7,5 μl H2O incubando il mix a 37 °C per 1,5 ore.
Il risultato di queste verifiche è stato sottoposto a elettroforesi e visualizzato su gel di agarosio al 2%. Il DNA plasmidico delle tre colonie è stato infine disidratato, tramite incubazione a 65 °C fino a completa evaporazione dell’acqua, per poter essere sequenziato.
Figura 2.1 Vettore plasmidicopCRII del kit ―Dual Promoter (pCRII) per TA Cloning‖ (Invitrogen). Il plasmide pCRII si trova in forma linearizzata con una deossitimidina protrudente alle estremità 5’ e 3’ per rendere più efficiente il clonaggio di un inserto che abbia la deossiadenina protrudente alle estremità 5’ e 3’
complementari. Presenta, inoltre, il gene lacZ codificante la subunità α dell’enzima β-galattosidasi per lo screening bianco-blu in E. coli, e i geni per la resistenza all’ampicillina e la kanamicina.
29 Nome del primer Sequenza
DR19
forward 5’-ATGGACTTCGACCTTGATGAA-3’
reverse 5’-TCAATCAGTAGAGAATACCTTGG-3’
M13
forward 5’-GTAAAACGACGGCCAG-3’
reverse 5’-CAGGAAACAGCTATGAC-3’
Tabella 2.1 Sequenze dei primer DR19 ed M13.
Loading buffer 6X
Reagente Concentrazione
Glicerolo 30% (v/v)
Blu di bromofenolo 0,25% (v/v) Tabella 2.2 Composizione del loading buffer 6X.
Tampone TBE 5X
Reagente Concentrazione
Tris 5,4% (w/v)
Acido borico 2,75% (w/v) EDTA 0,5M pH 8 2% (v/v) Tabella 2.3 Composizione del tampone di corsa per elettroforesi TBE 5X.
2.2 Clonaggio del gene dr19 per la localizzazione subcellulare
Per poter inserire il gene dr19 nel vettore di espressione transiente pAVA319 (figura 2.2), è stato necessario inserire i siti di restrizione per gli enzimi BglII e XbaI agli estremi della sua sequenza. E’
stata, quindi, eseguita una High Fidelity PCR, utilizzando come template circa 20 ng del plasmide pCRIIDR19, con il kit ―TAKARA BIO INC PrimeSTAR GXL DNA Polymerase‖ (Clontech), seguendo il protocollo standard suggerito dal produttore. La reazione è stata preparata come descritto nel paragrafo 2.1, utilizzando la coppia di primer DR19/BglII forward e DR19/XbaI
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reverse (le sequenze sono riportate nella tabella 2.4). Le condizioni di reazione sono state le stesse riportate nel paragrafo 2.1, eccetto la temperatura di annealing dei primer di 58 °C.
Al termine della reazione un’aliquota del prodotto di PCR è stata visualizzata su gel di agarosio al 2%, come descritto precedentemente per verificare la corretta amplificazione.
Il restante prodotto di PCR è stato, quindi, purificato dal gel utilizzando il kit “Nucleo Spin Extract II‖ (Macherey-Nagel) seguendo il protocollo del produttore. Il DNA purificato è stato sottoposto ad A-tailing, ligation, trasformazione batterica e screening bianco-blu come descritto nel paragrafo 2.1.
Una delle colonie risultate positive dallo screening bianco-blu è stata inoculata nel mezzo LB con ampicillina e mantenuta in agitazione a 37 °C over night. L’estrazione del DNA plasmidico e le reazioni di PCR per verificare il corretto inserimento dell’inserto BglII-dr19-XbaI nel plasmide pCRII sono avvenute come descritto nel paragrafo 2.1. Il DNA, infine, è stato disidratato, tramite incubazione a 65 °C fino a completa evaporazione dell’acqua, per poter essere sequenziato.
Il gene dr19 con agli estremi le sequenze dei siti di restrizione (BglII e XbaI) è stato poi clonato nel vettore pAVA319 (figura 2.2), a seguito di digestioni con gli enzimi di restrizione BglII e XbaI (New England). L’inserimento dei siti di restrizione sopra citati si è reso necessario per il corretto clonaggio in frame con la EGFP all’interno del vettore pAVA319, vettore per l’espressione transiente in cellule vegetali.
Il vettore pAVA319 (4 µg) è stato linearizzato tramite due digestioni sequenziali. La prima è avvenuta con l’enzima BglII in 30 µl di volume finale, aggiungendo 3 µl NEBuffer2 10 X, 3 µl BglII e 22,7 µl H2O ed è stata incubata per 6 ore a 37 °C. La seconda digestione è avvenuta con l’enzima XbaI, aggiungendo al volume di reazione precedente 3 µl NEBuffer2 10 X, 3 µl XbaI, 0,6 µl BSA 100 X e 23,4 µl H2O ed è stata incubata over night a 37 °C.
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La sequenza BglII-dr19-XbaI (4 µg) è stata excisa dal plasmide pCRIIBglII-DR19-XbaI tramite una doppia digestione con gli stessi enzimi, aggiungendo 5 µl NEBuffer2 10 X, 2,5 µl BglII, 2,5µl XbaI, 0,5 µl BSA 100 X e 19,5 µl H2O, ed è stata incubata per 4 ore a 37 °C.
Le purificazioni del vettore e dell’inserto sono, successivamente, state eseguite da gel di agarosio all’1 e 2%, rispettivamente, utilizzando il kit “Nucleo Spin Extract II‖ (Macherey-Nagel) seguendo le istruzioni del produttore. Infine, la determinazione delle concentrazioni del plasmide linearizzato e dell’inserto purificati è avvenuta tramite visualizzazione su gel di agarosio confrontando le bande con quantità note di DNA ladder (100 bp e 1 Kb New England, rispettivamente).
La reazione di ligation tra l’inserto dr19 e il vettore pAVA319, digeriti con gli enzimi di restrizione BglII e XbaI, è stata preparata con una molar ratio 5:1 (inserto:vettore) e 70 ng di vettore in 10 µl di volume finale aggiungendovi:
1,8 µl vettore (70 ng)
3,3 µl inserto (65 ng)
1 µl Ligation Buffer 10 X
1 µl T4 DNA Ligasi
2,9 µl H2O.
La reazione è stata mantenuta in incubazione over night a 16 °C e il prodotto della ligation, pAVA319DR19, è stato usato per la trasformazione batterica come descritto nel paragrafo 2.1.
E’ stato, poi, eseguito lo screening delle colonie tramite colony-PCR. Per ogni colonia da testare è stata preparata una reazione di PCR in un volume finale di 10 µl come descritto nel paragrafo 2.1, utilizzando la coppia di primer DR19/BglII forward e DR19/XbaI reverse. Le condizioni di reazione sono state le stesse riportate nel paragrafo 2.1.
Al termine della reazione il prodotto di PCR è stato visualizzato su gel di agarosio al 2%, come descritto precedentemente.
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Le colonie risultate positive dallo screening sono state verificate per la corretta inserzione di dr19 in pAVA319 direttamente con una seconda reazione di PCR. Questa è avvenuta, come sopra riportato, in 10 µl di volume di reazione con la coppia di primer pAVA-GFP forward, che allinea sul vettore pAVA319, e DR19/XbaI reverse (le sequenze dei primer sono riportate nella tabella 2.4). Le condizioni di reazione sono state le stesse sopra riportate, eccetto che per la temperatura di annealing, che è stata modificata a 52 °C e il tempo di estensione aumentato a 1,15 minuti.
E’ stata fatta, inoltre, una digestione di verifica con gli enzimi di restrizione BglII e XbaI: sono stati digeriti 500 ng di DNA in 10 µl di volume finale, aggiungendo 1 µl di NEBuffer2 10 X, 0,5 µl BglII, 0,5 µl XbaI, 1 µl BSA 10 X e 4,5 µl H2O, e la reazione è stata incubata per 2 ore a 37 °C.
Il risultato di queste verifiche è stato sottoposto a elettroforesi e visualizzato su gel di agarosio all’1%.
Una delle colonie risultate positive alle verifiche sopra descritte è stato preinoculata in 10 ml di LB con ampicillina e mantenuta in agitazione a 37 °C. Dopo circa 8 ore, il preinoculo è stato addizionato a 300 ml di LB con ampicillina e mantenuto over night nelle stesse condizioni. Il DNA plasmidico pAVA319DR19 è stato estratto utilizzando il kit per maxiprep dell’Invitrogen ―Pure Link Hi-Pure Plasmid Filter Maxiprep Kit‖ seguendo le istruzioni del produttore. La purezza e la concentrazione del plasmide estratto, opportunamente diluito, sono state determinate tramite lettura spettrofotometrica con lo strumento ―SPECTRO StarNano‖ (BMG Labtech). L’analisi spettrofotometrica è stata, infine, confermata tramite visualizzazione del DNA su gel di agarosio all’1%, confrontando le bande con quantità note di DNA ladder (1 Kb, New England).
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Figura 2.2 Vettore pAVA319 (4780 bp) per espressione transiente in cellule vegetali di proteine di fusione al C-terminale della EGFP. La cassetta di espressione del vettore pAVA319 presenta il promotore forte costitutivo CaMV 35S e il gene reporter codificante la EGFP, alla cui estremità 3’ sono presenti i siti di restrizione degli enzimi BglII e XbaI per il clonaggio degli inserti. Modificata da von Arnim et al., 1998.
Nome del primer Sequenza
DR19/BglIIforward 5’-AGATCTATGGACTTCGACCTTGA-3’
DR19/XbaI reverse 5’-TCTAGATATCAGTAGAGAATACCTTGG-3’
AVA-GFP forward 5’-ACCAGACAACCATTACCT-3’
Tabella 2.4Sequenze dei primer DR19/BglIIforward, DR19/XbaI reverse e AVA-GFP forward.
2.3 Trasfezione transiente di protoplasti di Arabidopsis thaliana
I protoplasti sono stati ottenuti dalla coltura cellulare di Arabidopsis thaliana ecotipo Landsberg di 3 giorni e trasfettati mediante elettroporazione come descritto da Pitto et al., 2000 e Scebba et al., 2003.
La digestione delle pareti cellulari è avvenuta al buio per 2 ore a 25 °C in agitazione, utilizzando un rapporto 1:10 tra cellule e soluzione enzimatica. La soluzione enzimatica è stata preparata in 10 ml di soluzione A (tabella 2.5), aggiungendo:
1% (w/v) Cellulase
0,5% (w/v) Macerozima
0,5% (w/v) BSA (Bovine Serum Albumin)
0,1% (v/v) β-mercaptoetanolo.
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Il livello di digestione è stato controllato al microscopio ottico. Successivamente, i protoplasti così ottenuti sono stati lavati per 3 volte in Soluzione A ed infine risospesi nel tampone di elettroporazione (tabella 2.6) a una concentrazione di 7,5 x 106 protoplasti/ml. Ogni 0,4 ml di protoplasti sono stati trasfettati con 20 g di salmon sperm e 20 g di DNA plasmidico pAVA319DR19. La trasfezione è avvenuta mediante l’elettroporatore ―BIORAD Gene Pulser Xcell‖ impostato con i seguenti parametri:
Voltaggio 250 V
Capacità 350 µF
Resistenza ∞ Ω
Cuvette 4 mm.
Trascorsi 10 minuti in ghiaccio, l’elettroporato è stato trasferito in capsule Nunc da 6 cm di diametro preparate con 2,1 ml di mezzo di crescita MS a pH 5,8 (Murashige and Skoog, 1962), contenente il 3% di saccarosio, mannitolo 0,3 M, acido 2,4-diclorofenossiacetico (2,4-D) 0,1 mg/l, 6-benzilamminopurina (6-BAP) 0,2 mg/l e acido α-naftalene acetico (α-NAA) 10-6 M. Per il trattamento con Zn, al mezzo descritto è stato aggiunto Zn(NO3)2*6H2O 200 µM (concentrazione che corrisponde ad una LD 70). La visualizzazione è avvenuta per osservazione al microscopio confocale al termine di una incubazione al buio per 24 ore a 25 °C.
Soluzione A (pH 5.6 con KOH 1 M) dose per 500 ml
Reagente Concentrazione
Mannitolo 0,2 M
CaCl2-2H2O 0,08 M
Mes 0,5% (w/v)
Tabella 2.5 Composizione della soluzione A.
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Tampone di elettroporazione (pH 7,2)
Reagente Concentrazione
Hepes 10 mM
KCl 120 mM
NaCl 10 mM
CaCl2-2H2O 4 mM
Mannitolo 0,2 M
Tabella 2.6 Composizione del tampone di elettroporazione.
2.4 Clonaggiodel gene dr19 per la produzione di piante transgeniche
Per la preparazione dei vettori binari per la produzione di piante transgeniche è stata sfruttata la tecnologia Gateway, basata sull’utilizzo di sequenze di ricombinazione invece che dei convenzionali siti di restrizione.
E’ stata eseguita una high fidelity PCR utilizzando come template circa 20 ng del plasmide pCRIIDR19. E’ stato utilizzato il kit ―TAKARA BIO INC PrimeSTAR GXL DNA Polymerase‖
(Clontech), seguendo il protocollo standard suggerito dal produttore. La reazione è stata preparata come descritto nel paragrafo 2.1, utilizzando la coppia di primer DR19-gatew forward e DR19- gatew reverse (le sequenze sono riportate nella tabella 2.7) per inserire agli estremi di dr19 le sequenze attB per la ricombinazione. Le condizioni di reazione sono state le stesse riportate nel paragrafo 2.1, eccetto la temperatura di annealing dei primer di 58 °C.
Al termine della reazione, per verificare la corretta amplificazione, un’aliquota del prodotto di PCR è stata visualizzata su gel di agarosio al 2%, come descritto nel paragrafo 2.1. Il restante prodotto di PCR è stato, quindi, purificato dal gel di agarosio al 2% utilizzando il kit “Nucleo Spin Extract II‖
(Macherey-Nagel) seguendo il protocollo del produttore.
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E’ stata, poi, allestita la reazione di ricombinazione BP tra il prodotto di PCR dr19-attB e il vettore pDONR207 (figura 2.3) utilizzando il kit ―Gateway BP ClonaseII Enzyme Mix‖ (Invitrogen) e seguendo il protocollo suggerito dal produttore. La reazione è stata incubata a 25 °C over night e, in seguito, è stata fatta terminare tramite incubazione a 37 °C per 10 minuti in presenza di 1 µl di Proteinase K.
Successivamente, le cellule competenti di E. coli ceppo DH5α sono state trasformate con il vettore pDONRDR19 (entry clone) mediante elettroporazione come descritto nel paragrafo 2.1, utilizzando 2 µl del mix della reazione BP, e piastrate su agar LB con gentamicina. Lo screening delle colonie è avvenuto come riportato nel paragrafo 2.2. L’estrazione del DNA plasmidico e le reazioni di PCR per verificare la corretta ricombinazione dell’inserto con il vettore pDONRsono state eseguite come descritto nel paragrafo 2.1, utilizzando due coppie di primer:
DR19 forward e DR19 reverse (tabella 2.1, utilizzati con una temperatura di annealing di 56 °C)
pDONR207 forward e pDONR207 reverse (tabella 2.7, utilizzati con una temperatura di annealing di 54 °C e un tempo di estensione di 1,15 minuti), che allineano sul vettore pDONR.
Il DNA plasmidico è stato, infine, disidratato, tramite incubazione a 65 °C fino a completa evaporazione dell’acqua, per poter essere sequenziato.
Sono state poi allestite due reazioni di ricombinazione LR tra il vettore pDONRDR19 e i due vettori binari pMDC32 e pMDC45 (destination vector per la sovraespressione e la localizzazione mediante EGFP, rispettivamente; figura 2.4), con il kit ―Gateway LR Clonase II Enzyme Mix‖ (Invitrogen) seguendo il protocollo suggerito dal produttore. Le reazioni sono state incubate a 25 °C per 5 ore.
La trasformazione batterica e lo screening delle colonie sono state eseguite come sopra riportato, utilizzando 1 µl di ognuno dei mix, fatto reagire con 0,1 µl di Proteinase K come descritto sopra. I restanti mix di reazione sono stati lasciati in incubazione over night nelle condizioni descritte.
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L’estrazione del DNA plasmidico è avvenuto come riportato nel paragrafo 2.1. Sono, poi, state eseguite delle reazioni di PCR per verificare la corretta ricombinazione dell’inserto con i vettori pMDC32 e pMDC45, come descritto nel paragrafo 2.1, utilizzando due coppie di primer:
DR19 forward e DR19 reverse (tabella 2.3, utilizzati con una temperatura di annealing di 56
°C) sia per pMDC32DR19 che per pMDC45DR19
pro35S forward e DR19 reverse (tabella 2.7, utilizzati con una temperatura di annealing di 52 °C e un’estensione di 2 minuti) per pMDC32DR19.
Inoltre, per verificare l’inserimento dell’inserto nel frame corretto, è stata preparata una reazione di digestione del vettore pMDC45DR19 con l’enzima di restrizione HindIII (New England), in un volume finale di 10 µl, aggiungendo 600 ng di DNA, 1 μl NEBuffer2 10 X, 0,5 μl HindIII e 5,5 μl H2O. La reazione è stata mantenuta in incubazione per 2,5 ore a 37 °C e il risultato della digestione è stato visualizzato su gel di agarosio all’1%.
Infine le cellule competenti ―ElectroMAX di A. tumefaciens LBA4404‖ (Invitrogen) sono state trasformate con i vettori pMDC32DR19 e pMDC45DR19 mediante elettroporazione seguendo il protocollo del produttore. A 20 μl di cellule sono stati aggiunti 100 ng di DNA plasmidico e la trasformazione è avvenuta mediante l’elettroporatore ―BIORAD Gene Pulser Xcell‖ impostato con i seguenti parametri:
Voltaggio 2,0 kV
Capacità 25 µF
Resistenza 200 Ω
Cuvette 1 mm.
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Trascorse 3 ore di recovery in agitazione a 37 °C in 1 ml di mezzo LB, l’elettroporato è stato piastrato su agar LB con kanamicina e streptomicina. Le piastre sono state, poi, mantenute in incubazione a 30 °C per 48 ore. Lo screening delle colonie di A. tumefaciens è avvenuto come descritto nel paragrafo 2.1. Le colonie risultate positive sono state inoculate in LB con kanamicina e streptomicina e MgSO4 2mM e preparate per la conservazione a -80 °C in stock con glicerolo al 40% (v/v).
Figura 2.3 Vettore pDONR207 (5585 bp, Invitrogen). pDONR207 presenta i siti attP per la reazione di ricombinazione BP con un expression clone che sia delimitato dai siti attB. Presenta inoltre il gene ccdB, all’interno della cassetta di ricombinazione, per la selezione negativa in E. coli e il gene per la resistenza alla gentamicina per la selezione positiva in E. coli.
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Figura 2.4 Vettori binari pMDC32 (A, 11752 bp) e pMDC45 (B, 12458 bp).Entrambi presentano i siti attR per la reazione di ricombinazione LR con un entry clone che che abbia siti attL. Presentano inoltre il gene ccdB, all’interno della cassetta di ricombinazione, per la selezione negativa in E. coli, il gene per la resistenza alla kanamicina per la selezione positiva in E. coli, il promotore forte costitutivo 2X35S a monte della cassetta di espressione e i siti LB ed RB per l’integrazione nel genoma vegetale. In B, sotto il controllo del promotore 2X35S, si trova il gene reporter codificante la GFP6 per la localizzazione delle proteine fuse al C-terminale con la GFP6.
Nome del primer Sequenza DR19- gatew
forward 5’-GGGGACAAGTTTGTACAAAAAAGCAGGCTTCATGGACTTCGACCTTGAT-3’
reverse 5’-GGGGACCACTTTGTACAAGAAAGCTGGGTCTCAATCAGTAGAGAATAC -3’
pDONR207
forward 5’-TCGCGTTAACGCTAGCATGGATCTC-3’
reverse 5’-GTAACATCAGAGATTTTGAGACAC-3’
pro35S forward 5’-GACCCTTCCTCTATATAAGG-3’
Tabella 2.7 Sequenze dei primer DR19-gateway, pDONR207 e pro35S.