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La stazione San Marco rappresenta il capolinea della linea ferroviaria Leopolda che all’epoca collegava il porto di Livorno con la capitale, Firenze

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Introduzione

La presente Tesi ha come oggetto il recupero della copertura della Stazione San Marco di Livorno, seconda stazione della città.

Essa fu fatta costruire da Pietro Leopoldo II di Lorena intorno alla metà dell’ottocento, alla luce del crescente numero di persone che utilizzavano la strada ferrata per compiere i loro spostamenti nel territorio del Granducato di Toscana.

La stazione San Marco rappresenta il capolinea della linea ferroviaria Leopolda che all’epoca collegava il porto di Livorno con la capitale, Firenze. La stazione, situata in prossimità dell’omonima "Porta San Marco”, fu progettata da Robert Stephenson, al quale si deve anche la realizzazione dell’intero tratto ferroviario Firenze- Livorno. L’inaugurazione della stazione avvenne nel 1853.

La struttura della stazione è costituita da un corpo di fabbrica che si snoda su tre lati attorno ai binari d'arrivo (stazione di testa); la facciata principale, posta sul lato occidentale della struttura, è costituita da un blocco più elevato preceduto da una pensilina metallica. Il prospetto, visibile dalla Piazza Bartelloni, costituisce l'elemento trasversale dietro al quale si attestano i binari ferroviari; esso presenta una serie di aperture, modificate in epoche successive, inquadrate in arcate cieche.

Originariamente i binari erano sormontati da una grande volta metallica, che costituiva l'elemento più caratteristico della stazione e che fu smantellata negli anni antecedenti alla seconda guerra mondiale.

Funzionò regolarmente come scalo ferroviario per il trasporto dei passeggeri fino alla costruzione della nuova stazione (Stazione Centrale), quindi perse gradualmente la sua importanza fino a diventare un semplice scalo merci. Oggi la stazione San Marco è ridotta in uno stato di forte degrado ed i suoi locali sono stati in parte adibiti a civile abitazione.

Attualmente soffre di un’ingiusta emarginazione dalla città e dalla sua gente. Il progetto di questa tesi ha come obiettivo la rinascita di questo maestoso edificio. Lo andremo a conoscere seguendo le tappe della sua

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storia e proporremo nella fattispecie la ricostruzione della copertura tenendo fede, almeno nelle linee generali, ai disegni originari. Lo scopo è quello di destinarla ad un ruolo di pubblica utilità per il quartiere e per la città, inserendola nuovamente nel complesso abitativo.

1- La città di Livorno

1.1 Livorno nel periodo Lorenese

Nel 1737 con la morte di Giangastone si ebbe la fine della dinastia De Medici. Il Granducato di Toscana fu così assegnato, in seguito ad accordi stipulati dalle grandi potenze europee, a Francesco Stefano di Lorena, marito di Maria Teresa d’Austria, figlia dell’Imperatore Carlo VI. Con lui si insediò in Toscana, per oltre un secolo, la dinastia dei Lorena che era legata agli Asburgo. Il nuovo Granduca di Toscana, Francesco II (regg.1737-1765), fu accolto benissimo a Livorno, tuttavia vi rimase poco perché, eletto Imperatore d’Austria e del Sacro Romano Impero nel 1745, aveva la sua residenza a Vienna e si faceva rappresentare a Firenze da un Consiglio di Reggenza, composto in gran parte da funzionari lorenesi.

Negli anni del primo trentennio lorenese la città di Livorno fu interessata da un programma di ampio respiro sia sul piano dell’economia che sul piano dello sviluppo urbano; si affermò un nuovo modo di pensare la città, legato alle idee e alle esperienze innovatrici diffuse in Europa nella metà del 700.

Francesco II di Lorena - La nuova immagine della città

Grazie a Francesco II e alla sua consorte Maria Teresa l’architettura si sviluppò su modelli europei e Livorno perse la sua immagine di città fortezza. L’assetto urbano mutò profondamente: Livorno non era più

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asserragliata sul porto, ma si proiettava adesso nell’entroterra. Comincia da questo momento l’espansione della città al di fuori della cinta bastionata, spinta dalla grande pressione abitativa che si era sviluppata nel centro della città. Nel dicembre del 1747, da Vienna fu dato l’ordine di provvedere al necessario ampliamento della città nell’area situata sulla costa sud, compresa tra le fortificazioni e il Lazzaretto S. Jacopo. Il nuovo Borgo di S. Jacopo fu circondato da una muraglia, fornito di un porticciolo e di un fosso interno, esso era costituito da quattro isolotti di case separate da canali, come nella Venezia Nuova e al centro un’ampia piazza di forma quadrata su cui si affacciava la nuova chiesa. Nel 1751 fu pubblicato un editto che stabiliva i privilegi concessi a tutti coloro che sarebbero venuti ad abitare nel nuovo sobborgo. Nella sostanza una delle esigenze sentite con maggior forza era quella di un più stretto rapporto con l’entroterra.

Pietro Leopoldo di Lorena – La sua politica urbana

La reggenza di Francesco II durò per 28 anni, fino al 1765, quando al trono di Firenze gli successe il secondogenito di Maria Teresa, Pietro Leopoldo (regg.1765-1792).

Pietro Leopoldo fu un ottimo sovrano, continuò con decisione la politica paterna e dimostrò la sua grande abilità nel governo e nell’amministrazione, quindi la Toscana poté tornare ad essere, per cultura, uno dei primi paesi della penisola appenninica. L’obiettivo principale della politica urbana di Pietro Leopoldo era quello di porre fine al fenomeno della pressione abitativa all’interno della città che portava talvolta alla costruzione di case in prossimità delle fortificazioni. Questa situazione, ormai insopportabile per coloro che vivevano nella città, metteva in evidenza la mancanza di spazio per la costruzione di nuove abitazioni all’interno delle mura. Per porre una soluzione a questo fenomeno si investì nella costruzione di nuovi sobborghi da edificare nella

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campagna, al di fuori della città fortificata. La politica urbana perseguita dal governo lorenese, accanto alla rottura degli antichi limiti posti alla città, studiava e proponeva una riorganizzazione dei servizi necessari al funzionamento della vita collettiva, dalla sanità, all’educazione e alla stessa amministrazione del governo cittadino. Nel 1775 si costruì un terzo lazzaretto sulla costa sud, poco oltre quello di S. Jacopo, questa nuova struttura sanitaria si chiamerà Lazzaretto di S. Leopoldo, che sparirà nel 1881 per far posto all’Accademia Navale; nel 1792 si arrivò alla decisione di realizzare un nuovo acquedotto utilizzando le sorgenti poste sulle colline di Colognole. In realtà questa opera pubblica sarà portata a termine solo cinquanta anni dopo, seguendo il grandioso progetto concepito da Pasquale Poccianti.

Quando nel 1790 Pietro Leopoldo fu incoronato Imperatore, lasciò in Toscana la reggenza di sette cittadini.

Ferdinando III di Lorena – Il dominio straniero a Livorno

Il successore di Pietro Leopoldo, Ferdinando III (regg.1791-1824), aveva idee meno liberali del padre e dimostrò minore impegno. Il periodo che iniziò con la sua assunzione al trono fu il più drammatico, ma per certi aspetti il più interessante per la storia di Livorno.

In questo periodo si susseguirono nel territorio toscano numerosi eventi bellici che non poterono non influenzare la vita stessa della città. Nel 1796 Livorno fu invasa ed occupata dalle truppe della Repubblica Francese, e il Granduca Ferdinando III fu costretto a fuggire a Vienna con moglie e figli e a dichiarare la rinuncia da parte della casa dei Lorena al dominio sulla Toscana. Successivamente, nel 1800, con un trattato tra Francia e Spagna, fu formato il Regno d’Etruria che comprendeva Parma, Piacenza e la Toscana sotto il nuovo Re spagnolo Lodovico I di Borbone. Nel 1803 morì il Re d’Etruria e gli successe il figlio Carlo Lodovico, sotto la

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reggenza della madre Maria Luisa di Borbone, quindi sotto l’Impero Francese.

Durante questi anni di invasioni francesi e borboniche, la città decadde in una profonda crisi economica. Fu abolito il Porto Franco e conseguentemente si giunse a una flessione del commercio marittimo, della produzione agricola e ad un calo del rendimento industriale. In compenso furono avviate importanti attività produttive che misero in moto l’espansione urbana e lo sviluppo demografico.

Nel 1814 il Granducato di Toscana torna nelle mani di Ferdinando III di Lorena, ma la sovranità fu ulteriormente limitata da uno stretto patto con l’Austria. Nel decennio della sua restaurazione in Toscana, il Granduca cercò di riparare ai mali che l’invasione francese aveva arrecato alla Toscana, ma Ferdinando III non era in grado di sanare completamente i dissesti provocati dai nemici.

Pietro Leopoldo di Lorena – La politica paterna

Dopo la morte di Ferdinando III il dominio passò all’ultimo Granduca di Toscana, Pietro Leopoldo II. Egli, figura storica molto nota, undicesimo ed ultimo Granduca di Toscana, successe al padre e proseguì per 35 anni l’opera di miglioramento della città. La sua politica urbana si basò sulle leggi di Pietro Leopoldo, con particolare attenzione per l’edilizia pubblica, la costruzione di strade e ferrovie, la bonifica della Maremma e l’estrazione e il trattamento del ferro. Leopoldo II aveva un concetto patriarcale del governo e considerava la Toscana come la sua famiglia.

Livorno deve a lui l’ingrandimento e l’assetto definitivo della città, che aveva allora 38.000 abitanti dentro le mura e 30.000 nei sobborghi.

Nonostante l’intensificarsi dell’attività edilizia all’esterno della città di Livorno, molte categorie di cittadini considerarono più conveniente, per il mantenimento della propria condizione sociale e per il proprio lavoro,

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abitare in città. La carenza di abitazioni nel centro abitato spiegava la decisione di utilizzare, per l’edificazione, i terreni delle fortificazioni.

Tra i bastioni che potevano offrire ampi spazi ancora liberi, la scelta cadde sul Rivellino San Marco, il governo ricorse alla vendita di terreni pubblici per sopperire alle spese militari e nello stesso tempo per ricavare nuovi spazi per la crescita edilizia. Si procedette alla lottizzazione del Rivellino San Marco creando così il nuovo quartiere San Marco e nel 1828 fu costruita la nuova Porta San Marco. Successivamente si pensò ad una nuova operazione per l’espansione urbanistica all’interno della città.

Uno studio per l’urbanizzazione delle aree esterne al bastione del Casone (attuale zona di Piazza Cavour) fu messo a punto nel 1828 e l’operazione acquistò una nuova luce, quando si prese la decisione di mettere in diretta comunicazione queste aree con la città, aprendo una porta nel bastione del Casone, e quando si prese la decisione di lottizzare l’area interna al bastione stesso.

Figura 1. Luigi De Cambray Digny, ”Progetto per l’apertura di una porta tra la città e i sobborghi di Livorno e di aumento di fabbriche sulle antiche fondazioni del Casone”, 1828 (Firenze, Archivio di Stato, Regie Fabbriche 293).

Pietro Leopoldo di Lorena – La nuova cinta daziaria

Nel 1834 con un motu proprio del Granduca Pietro Leopoldo II, si restaurò il Porto Franco per la città ed il porto di Livorno includendo anche i nuovi sobborghi, che furono così circondati da una nuova cinta murata.

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Figura 2. Motu proprio di Leopoldo II che concedeva le nuove franchigie alla città di Livorno nel 1834.

La decisione andava incontro al vecchio ceto dirigente livornese, che vedeva nella restaurazione delle franchigie doganali un rilancio dell’attività del porto ancora legato al commercio di deposito. Vi era poi l’intento di stabilire un più rigido controllo daziario per colpire il diffuso fenomeno del contrabbando, di cui si avvantaggiavano le attività manifatturiere, che si erano impiantate all’esterno delle mura.

L’incarico di delineare il tracciato delle nuove mura fu affidato all’ingegnere Alessandro Manetti, direttore del Corpo degli Ingegneri d’Acque e Strade, ma furono elaborati altri progetti da Luigi De Cambray Digny e da Pasquale Poccianti. Nella soluzione definitiva del Manetti si aveva una maggiore attenzione al principio dell’economia rispetto alle altre proposte:

si ridusse l’area doganale, si realizzò la recinzione con un semplice muro, evitando di sottrarre all’uso agricolo una porzione eccessivamente ampia di terreni, e si risparmiarono spese non indifferenti per gli espropri e le opere di scavo.

La nuova cinta muraria era lunga circa 8 Km, alta 8 metri e larga alla base un metro e mezzo, essa seguiva un andamento circolare, ad una distanza massima dalla via delle Spianate di poco meno di un chilometro; tuttavia,

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sul lato settentrionale questa regolarità si interrompeva ed il muro si avvicinava all’abitato fino a ricongiungersi alla punta dell’antico bastione San Pietro. Fu istituita una fascia di rispetto, all’esterno come all’interno del muro, di 100 braccia fiorentine dove non era possibile costruire nuovi edifici o rialzare senza permesso quelli esistenti (analoga proibizione valeva anche in corrispondenza delle barriere). L’area urbana all’interno delle nuove mura lorenesi era di circa 424 ettari, come lo stesso Manetti aveva scritto, la nuova linea doganale aveva il compito, sul piano urbanistico, di dare una dimensione spaziale definita alla città che si stava espandendo. Manetti evitò di impegnarsi in prima persona nella progettazione delle barriere e degli edifici doganali che furono affidati al genero architetto Carlo Reishammer.

I lavori di costruzione procederono con una certa rapidità e già nell’agosto del 1835 furono stabiliti alcuni posti di controllo provvisori per dar subito corso alla riscossione dei dazi. Di particolare interesse risulta essere la Porta San Marco che insieme alla porta San Leopoldo, costituiva uno degli esempi toscani d'accostamento di elementi in ghisa e materiali tradizionali, quali la pietra bugnata. La porta presenta, infatti, accanto ad una struttura imponente in pietra, una serie di elementi in ghisa progettati per essere prodotti in serie e realizzati industrialmente. Gli elementi prefabbricati, creati dalla fonderia Granducale di Follonica, furono assemblati insieme per costituire l'apparato architettonico del fornice interno. Il massiccio utilizzo della ghisa fu probabilmente un desiderio espresso dal Granduca Leopoldo II, che intervenne personalmente più volte nella progettazione. Il ferro svolse qui la duplice funzione di struttura portante e di elemento decorativo, anticipando quelle che saranno le soluzioni architettoniche largamente adottate nella costruzione di grandi edifici pubblici (mercati, stazioni ferroviarie e altro). Tra le altre cose Reishammer, dal 841 al 1846, ricoprì il ruolo di “Commissario Regio per l’immediata vigilanza sulla esecuzione della strada a rotaia di ferro da Firenze a Livorno”, realizza la prima ferrovia Toscana detta appunto Leopolda, sovrintendendo successivamente alla costruzione di tutte le ferrovie toscane fino alla

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partenza dei Lorena nel 1859. In questo compito si distingue, per la concezione moderna della strada ferrata come mezzo di comunicazione alternativo a quello stradale, ovvero un collegamento più veloce e diretto tra i centri industriali più importanti.

Figura 3. L’individuazione delle barriere doganali all’interno della nuova cinta daziaria di Alessandro Manetti.

1 Porta a Mare 4 Barriera Fiorentina 2 Barriera Maremmana 5 Porta San Marco 3 Porta San Leopoldo 6 Dogana d’Acqua

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Figura 4. La Dogana D’Acquae il bacino esterno all’arrivo del canale navigabile da Pisa.

Figura 5. La Porta S. Marco lato campagna.

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Figura 6. La Porta S. Marco lato città. Da questo lato è piuttosto evidente e ben riuscito l’accostamento tra la pietra bugnata e il ferro.

Leopoldo II di Lorena – L’ammodernamento della città

Nel dicembre del 1838 si decise l’abbattimento dei bastioni che dividevano la città dalle nuove espansioni verso la campagna. Nel progetto preparato da Luigi Bettarini (1790-1850), architetto del circondario, l’opera di demolizione riguardava l’intera linea della fortificazione medicea, risparmiando il solo lato settentrionale dove rimanevano la Fortezza Nuova, l’unica struttura difensiva ad essere sostanzialmente inalterata, il Rivellino San Marco e il Forte San Pietro, il cui lato esterno era inglobato nella cinta daziaria. La rettificazione del Fosso Reale consentiva l’apertura, in corrispondenza delle anse riempite, di due piazze semicircolari, adesso la via d’acqua veniva attrezzata con alcuni scali (scalandroni), in funzione di una maggiore comodità e rapidità di scarico delle merci, operando una definitiva trasformazione, in analogia con le funzioni che già svolgevano i fossi di Venezia. Con la trasformazione del Fosso Reale si compie la riconversione in vie d’acqua commerciali di tutti i fossi della città di Livorno nati per scopi militari e di difesa.

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Il progetto prevedeva la copertura di un ampio tratto del fosso compreso tra la Fortezza Nuova e l’ansa che seguiva il bastione di S. Cosimo: tra le due sponde della via d’acqua, si gettò un’ardita e solida volta continua, lunga 240 metri, una sorta di grande ponte che fu risolto a livello del piano stradale in una piazza, cosiddetta del Voltone (oggi piazza della Repubblica), assai allungata e definita al centro da una piattaforma ovale.

Al centro, ad una distanza di circa 130 metri l’una dall’altra, furono poste le statue dei Granduchi Ferdinando III e Leopoldo II.

Figura 7. Luigi Baratri, “Pianta di Livorno”, 1867 (Livorno, Biblioteca Labronica, Collezione Minutelli). Questa immagine riporta il progetto del Piano Bettarini per l’abbattimento del sistema di fortificazioni.

Leopoldo II di Lorena – La fine del dominio lorenese in Toscana

La popolazione cresciuta in modo sproporzionato alla possibilità di occupazione alimenta uno spirito rivoluzionario che il Granduca cercò di mitigare facendo migliorie di ogni genere alla città. Nel 1849 ci fu un

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grande evento storico livornese: la difesa popolare contro l’invasione austriaca per la restaurazione dei Lorena che furono cacciati da Firenze da un moto popolare. Livorno era l’unico centro Toscano di resistenza agli austriaci. Il Granduca Leopoldo II, che si trovava a Porto Santo Stefano, fu dichiarato decaduto e fuggì a Gaeta su una nave inglese. In seguito ai disordini popolari poco chiari, il Municipio di Firenze fece richiamare il Granduca Leopoldo II. Livorno però si rivoltò contro la restaurazione di Leopoldo II, tanto che si arrivò ad abbattere la statua del Granduca stesso, posta in Piazza del Voltone. In Toscana si cedette dunque agli austriaci, ma i patrioti livornesi opposero resistenza, solo l’entrata armata di sedicimila soldati austriaci riuscirono a piegarli.

Solo il 2 gennaio 1854 gli Austriaci abbandonano la città di Livorno e nel 1859 Leopoldo II, a causa dei moti risorgimentali legati alla seconda guerra d’indipendenza, abbandonò definitamene la Toscana rifugiandosi in Austria. Finì così, dopo 122 anni, il dominio lorenese della Toscana.

1.2 Livorno dalla metà dell’800 ad oggi

Nel 1861 si abolì l’autonomia della Toscana che fu annessa al Regno Unito. Vittorio Emanuele II è a Livorno, diretto a Firenze dove sarà proclamato Re d’Italia il 17 Marzo del 1861. L’unificazione segnò per Livorno l’apertura di una nuova fase caratterizzata da profonde modifiche sul piano dell’organizzazione commerciale e produttiva.

L’abolizione del Porto Franco e la trasformazione della città

Con l’unità d’Italia Livorno attraversò una grossa crisi economica. La costituzione di un sistema doganale italiano unificato portò all’annullamento delle franchigie e dei privilegi che ancora vigevano a Livorno, Ancona e Messina. Il provvedimento che aboliva lo stato di Porto

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Franco nelle tre città fu approvato nel 1865 e reso operante dal 1° gennaio del 1868: Livorno non era più Porto Franco, fatto determinante per l’inizio della decadenza della città stessa.

Con l’abolizione del Porto Franco si segnò la crisi e la sparizione delle piccole attività manifatturiere cui il particolare regime doganale garantiva un facile approvvigionamento della materia prima e un’altrettanto conveniente esportazione del prodotto finito; vi era poi la perdita di valore dei magazzini della città non più immediatamente utili all’attività portuale, che costituivano una voce consistente della proprietà urbana. Infine deve essere ricordato il malcontento della popolazione che temeva, con la perdita delle franchigie, un peggioramento delle condizioni di vita, senza intravedere possibili sbocchi di una situazione economica sentita come una crisi irreversibile. Con questo nuovo regime economico furono colpiti gli interessi commerciali e molte società mercantili e bancarie si trasferiscono altrove o cessano la loro attività. Conseguenza della mutata situazione economica fu la decadenza di tutte quelle strutture architettoniche e urbanistiche create per il grande porto di deposito granducale. Il quartiere della Venezia subì profondamente questo fenomeno: disertato dai ceti abbienti divenne residenza per i ceti più popolari, vide un progressivo e pesante degrado. I palazzi settecenteschi furono abbandonati così come parte dei fondi e delle cantine. Con il sindaco Nicola Castella (1844-1907) si vide la ripresa di una politica comunale volta a realizzare servizi e pubbliche attrezzature. Fra il 1886 e il 1893 egli diede l’incarico di studiare un nuovo piano regolatore per la città di Livorno, ma non fu mai progettato per mancanza di finanziamenti, tuttavia l’idea diede il via a importanti costruzioni fra le quali quella dell’Accademia Navale nei pressi del Lazzaretto San Jacopo. Una massiccia opera di demolizione fu eseguita nel 1933, questa volta dietro il Duomo, sfigurando l’ambiente. Ancora più sfigurata fu l’immagine della città tradizionale dalla Seconda Guerra Mondiale, durante la quale il

“centro” di Livorno fu nettamente raso al suolo.

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La Seconda Guerra Mondiale e il Dopoguerra

Il 10 giugno del 1940, Mussolini, che già deteneva il potere nel paese, dichiarò alla radio di aver consegnato la dichiarazione di guerra a Francia e Germania. Tanti livornesi ignari della gravità della notizia, riuniti in Piazza Cavour acclamarono esultanti e la vita continuò apparentemente invariata. Negli anni del fascismo, ogni forma di dazio fu abolita e all’antica imposta comunale si sostituì l’imposta del Consumo. Durante la guerra Livorno fu bombardata dai nemici e gli obbiettivi principali furono le fonti di energia della città. L’unica zona colpita più volte, ma non distrutta fu la Venezia Nuova, che, infatti, conserva ancora oggi il suo antico carattere.

La città diventò semideserta ed i livornesi continuarono a sfollare verso le terre vicine: Valle Benedetta, Nugola, Le Parrane, Castell’Anselmo, Vicarello, Nibbiaia, Casciana e San Miniato. Crebbe la grande carestia e la città fu ridotta ad un cumulo di macerie. Il 19 luglio del 1944 la V armata alleata ed i partigiani entrarono a Livorno e fu la liberazione. Alla conclusione del secondo conflitto mondiale Livorno presentò in modo drammatico le conseguenze dei bombardamenti subiti; il patrimonio edilizio esistente andò per lo più perduto, i senza tetto furono valutati oltre i 30.000. Dai rilievi effettuati dall’Ufficio Tecnico del Comunale dopo la liberazione, risultarono illesi solo l’8,3% degli edifici, mentre il 33,38%

furono distrutti, il 27,94% gravemente danneggiati e il 28,30% danneggiati.

Figura 8. La foto è stata scattata da Via Piave, ci mostra la Piazza d’Arme sgombra di macerie, in tutta la sua desolazione.

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Con il D.D.L. del 1 marzo 1945 n°154 si regolarono i piani di ricostruzione che l’amministrazione fu obbligata a redigere entro la fine dello stesso anno. Il Piano di Ricostruzione di Livorno fu redatto dall’Amministrazione in poco tempo sulla base dei piani e dei progetti elaborati in precedenza, ma non fu approvato per osservazioni avanzate dal Ministero dell’Istruzione in difesa del tessuto urbanistico del centro. Un nuovo piano fu elaborato dall’architetto Carlo Rocatelli, che espresse intenzioni precise circa la conservazione dell’antico tessuto del centro. Tuttavia, per ragioni economiche, la ricostruzione non seguì gli schemi originari del piano, ma al contrario, frettolosa e incontrollata, finì per cancellare gran parte della memoria storica della città: la città ideale dei Buontalenti fù pressoché cancellata. Pochi anni dopo fu costituita la commissione per lo studio di un vero e proprio Piano Regolatore Generale, licenziato nel 1953, ma effettivamente adottato per la prima volta nel 1956 e definitivamente approvato nel 1958. Livorno fu tra le prime città italiane a redigere una pianificazione urbanistica di ampio respiro che prevedeva, tra l’altro, un piano di sviluppo delle aree di edilizia economica- popolare, che portò alla nascita di importanti quartieri quali Coteto, Colline e La Rosa.

Negli anni ottanta nascevano i presupposti per la creazione di un nuovo Piano Regolatore le cui linee essenziali potevano sintetizzarsi in un’ulteriore espansione residenziale a sud della città, nella valorizzazione del centro storico e nel recupero e nel risanamento dei quartieri nord;

inoltre, sempre nella zona nord della città, nel potenziamento delle aree destinate all’artigianato e alla piccola e media industria. Ciò senza perdere l’identità, la memoria, ma mantenendo e rendendo evidenti le numerose tracce storiche.

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Figura 9. Veduta aere della città ripresa dal porto, 1937. La città storica appare ancora integra nella forma ben delimitata dal circuito dei fossi.

2- La Ferrovia Leopolda e quella Maremmana

2.1 La Ferrovia Leopolda

Nell'Italia pre- unitaria (l'Italia degli stati e staterelli "restaurata" dal Congresso di Vienna del 1815) la costruzione delle prime ferrovie o strade ferrate, negli anni quaranta del XIX secolo, non potevano che limitarsi all'impianto di una serie frammentaria di "tronchi" ferroviari, che raramente si potevano configurare come "linee" ferroviarie vere e proprie.

Gran parte dell'attuale Toscana apparteneva allora al Granducato di Toscana, che aveva Firenze come capitale, era delimitato a sud, est e nord-est e quindi quasi circondato, dallo Stato Pontificio ed era geograficamente prossimo a nord- ovest al Regno di Sardegna.

Pur essendo una linea chiaramente commerciale non fu facile trovare i finanziamenti ma in una circolare datata 4 Marzo 1838 e tradotta nelle

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lingue più diffuse, i banchieri Pietro Senn ed Emanuele Fenzi, uniti in società, proposero di finanziare la costruzione a capitalisti stranieri.

Ottenute le adesioni (14 Aprile 1838), in 40 giorni, fu nominata una commissione tecnica di nove membri, ingegneri ed architetti, presieduta dal generale conte Luigi Serristori ed alla quale partecipò anche l’ingegner Giuseppe Pianigiani, futuro progettista della Strada Ferrata Centrale Toscana.

Il 5 Luglio erano pronti due tracciati di massima, rispondenti a precise esigenze commerciali, e furono sottoposti all’ingegnere inglese Robert Stephenson, figlio del pioniere delle ferrovie George Stephenson, che fu poi incaricato di redigere il progetto esecutivo grazie alla sua fama internazionale; egli realizzò infatti, fra il 1833 e il 1838, la Londra Birmingham e numerose altre ferrovie oltre che in Gran Bretagna anche in Belgio, Polonia, Egitto e in America.

Stephenson fu convinto a partecipare al progetto da Orazio Hall, cognato della moglie del Fenzi, e da Agostino Kotzian, già Presidente della Camera di Commercio di Livorno, che andarono direttamente a Londra per incontrarlo nell'agosto del 1838.

Egli si fece precedere, per i sopralluoghi del caso, dai suoi assistenti William Hopner e Robert Townshend.

Compiuti gli studi opportuni, Stephenson dichiarò che la linea proposta dalla commissione, avente il tracciato corrente lungo la valle dell’Arno, era quella da preferirsi. Presentò il progetto particolareggiato definitivo il 30 Aprile 1839 e fu approvato dal Granduca con sovrano rescritto il 25 febbraio 1840. Il progetto prevedeva l’investimento di una spesa complessiva di 13.467.760 lire. La concessione definitiva alla linea fu accordata con motu proprio in data 5 Aprile 1841, ma per l’inizio dei lavori fu necessario attendere la promulgazione del direttore generale delle acque e strade in data 20 aprile 1841. La direzione dei lavori fu affidata all’ing. Guglielmo Hopner.

Il 7 Giugno 1841 ebbe luogo a Firenze la prima adunanza generale della società con l’elezione del primo consiglio di amministrazione che deliberò

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di assumere il nome di Società Anonima per la Strada Ferrata Leopolda in onore del sovrano. Da qui, il nome di Ferrovia Leopolda.

I lavori iniziarono partendo da Livorno con un binario unico, l’obiettivo era quello di far fruttare subito il collegamento con il porto di Livorno ed occorre tenere presente che il materiale d’armamento affluiva via nave dall’Inghilterra.Il 13 marzo 1844 fu inaugurato il primo tratto di 12,3 Km Livorno- Pisa e fu aperta al pubblico la stazione Torretta di Livorno. Quasi contemporaneamente furono avviati i lavori della Stazione di Livorno San Marco, posta in corrispondenza dell'omonimo varco doganale lungo le Mura Leopoldine. Questo tratto fu la prima linea ferroviaria in Toscana e la seconda in Italia. Un treno a vapore andava da fuori porta S. Marco, dove era la stazione di Livorno, a Pisa in poco più di 20 minuti.

Il successo fu strepitoso, sia a livello merci che a livello passeggeri, ed accelerò i lavori dei cantieri. Pontedera fu raggiunta il 19 ottobre 1845 (Km 19,4), Empoli il 21 Giugno 1847 (Km 26,8) e l’anno successivo, il 4 giugno 1848, l’intera linea, lunga 97 Km, era aperta al traffico da Livorno San Marco a Firenze stazione Leopolda, giusto fuori le mura cittadine presso Porta al Prato.

Il 12 giugno 1848, si svolse la solenne cerimonia d’inaugurazione alla stazione di Porta a Prato, alla presenza del Granduca Leopoldo II, dei suoi Ministri e dell’allora Arcivescovo di Firenze, Monsignor Minacci, che diede la sua benedizione.

Il viaggio inaugurale, con la presenza delle Autorità, si svolse nel tratto tra Firenze ed Empoli.

Quanto alla stazione terminale della ‘strada ferrata’, la prima stazione ferroviaria di Firenze, lo Stephenson non aveva specificato l’esatta posizione nella quale dovesse essere collocata. Due furono le soluzioni proposte: l’una voleva che la linea ferroviaria arrivasse all’interno delle Cascine; l’altra proponeva una zona interna della città. Prevalse una scelta intermedia che prevedeva l’utilizzo di un terreno fuori delle mura fiorentine, vicino alla Porta al Prato.

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La costruzione della linea ferroviaria portò grandi benefici economici ed anche sociali; fu però osteggiata con risvolti sanguinosi a Montelupo Fiorentino dai barrocciai locali che vedevano compromessa la loro attività, consistente nello scaricare i barconi fluviali che risalivano l’Arno e poi trasportare le mercanzie fino a Firenze.

La Stazione Torretta e la Stazione San Marco

Livorno ebbe la prima stazione ferroviaria (Stazione di Torretta della ferrovia "Leopolda" 1844) della Toscana, insieme a Pisa (Stazione Leopolda), e il primo collegamento ferroviario toscano (tratta Pisa- Livorno, 1844).

Figura 10. Vista della stazione Torretta.

Questo tratto ferroviario fu prolungato ad est fino a Firenze, unendo infine (1848) Firenze con Pisa e Livorno con l'obbiettivo, tipico dell'impianto di ferrovie, di collegare l'entroterra con il mare, ovvero collegare la capitale, Firenze, con il porto, Livorno. Analogo scopo ebbero i più tardi collegamenti Torino- Genova (1855) nel Regno Sardo (o di Sardegna) e Roma-Civitavecchia (1859) nel Regno Pontificio.

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Nel 1848 l'unica linea ferroviaria terminata e funzionante era la linea Firenze-Livorno, denominata "Leopolda". Vicino al completamento era l'Empoli- Siena, che fu terminata nel 1849, la Pisa- Lucca- Pistoia fu aperta nel 1° tratto nel 1846.

La Stazione Torretta di Livorno, però a causa del crescente traffico di passeggeri si rilevò insufficiente ad accogliere questi ultimi, essendo costituita da un semplice capannone sprovvisto di sale di attesa. Cominciò così la realizzazione di una nuova stazione, la Stazione San Marco (seconda stazione di Livorno) inaugurata nel 1853, in prossimità dell’omonima "Porta San Marco" (vedi Fig. 11-12).

Figura 11. Stazione San Marco vista dell’omonima porta. Si nota l’impostazione generale della copertura con il lucernario nella parte più alta e i comignoli delle stufe utilizzate per riscaldare il grande spazio interno. L’ elemento caratteristico della facciata principale è l’arco in muratura sul quale insisteva la copertura.

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Figura 12. Stazione San Marco vista lato binari. Questa foto ci permette di apprezzare le caratteristiche salienti della copertura, qui ancora in fase di montaggio.

La tipologia di questa stazione non si discosta dalle soluzioni tipiche delle stazioni di testa già esistenti al tempo. Infatti, essa era costituita da un corpo di fabbrica che si snodava su tre lati attorno ai binari d'arrivo;

all’interno dei quali erano presenti tutti i servizi necessari per accogliere sia i passeggeri in arrivo che in partenza. La facciata principale, posta sul lato occidentale della struttura, era costituita da un blocco più elevato preceduto da una pensilina metallica. Il prospetto visibile dalla Piazza Bartelloni costituiva l'elemento trasversale dietro al quale si attestavano i binari ferroviari; esso presentava una serie di aperture, inquadrate in arcate cieche. Originariamente i binari erano sormontati da una grande volta metallica, l'elemento più caratteristico della stazione.

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La stazione Marittima

Proprio per migliorare lo scambio delle merci tra il porto di Livorno e la capitale del Granducato di Toscana, il 12 agosto del 1858, due anni esatti dopo la posa della prima pietra, fu inaugurata la stazione Marittima di Livorno (terza stazione della città), che "rappresentava lo sbocco ferroviario al traffico portuale" fortemente caldeggiato dalla Società concessionaria della "Leopolda".

La stazione Marittima di Livorno (vedi Fig. 13) fu progettata dall'ingegnere Giuseppe Laschi, e la costruzione della stazione ebbe inizio 1856: fu colmato a tal fine un vasto spazio di mare, scavata una darsena quadrilatera per comodità delle barche, ed eretti lungo i suoi lati grandi capannoni per il deposito delle mercanzie. Dalla parte di terra fu realizzato un edificio per accogliere gli uffici, e uno più piccolo fu edificato in mezzo all'acqua per ospitare le guardie di finanza. La via ferrata, prima di arrivare alla stazione S. Marco, attraversava il Fosso dei Navicelli su di un ponte girante di ferro, per giungere alla darsena e proseguire poi lungo i moli del deposito franco. Fu realizzata inoltre per agevolare gli scambi commerciali una via di comunicazione, chiamata la foce, tra la darsena ed il fosso che bagnava la Fortezza Vecchia. La Stazione Marittima fu inaugurata il 12 agosto 1858.

Figura 13. Progetto Stazione Marittima.

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La società "Leopolda" confluì nel 1859 in un'altra più ampia società, sempre privata, la società "Delle Strade Ferrate Livornesi", che iniziò ad operare proprio negli anni in cui si preparava (1859-1860) l'unificazione nazionale per merito della monarchia sabauda.

L' Unità modificò la geografia politica ed economica del paese. Divenne quindi impellente stabilire un collegamento fra le vecchie capitali e la nuova, Torino, ed avviare la costruzione di una "rete" ferroviaria nazionale, conseguenza sia dell’abbattimento delle barriere doganali, sia della necessità di creare un mercato unico nazionale.

2.2 La ferrovia Maremmana

Dopo l’unità d’Italia di particolare interesse risulta essere la storia della Ferrovia Maremmana, ferrovia italiana inaugurata nel 1863. Essa costituisce tutto oggi parte della linea Pisa- Roma della RFI SpA nella tratta che va da Livorno al confine con il Lazio.

La linea ferroviaria fu concepita fin dagli anni trenta del XIX secolo, assieme alle principali linee del Granducato di Toscana, come naturale prosecuzione verso sud della linea Leopolda che, come già detto, da Firenze raggiungeva l'importante porto di Livorno.

La prima concessione fu rilasciata nel 1845. In quegli anni la Maremma era un territorio di scarsissima rilevanza economica, essendo stata terminata da pochi anni la bonifica, e la possibilità di collegare Roma con una linea orograficamente poco impegnativa era preclusa dal governo dello Stato Pontificio, che vedeva nella ferrovia un’"opera del demonio".

Tale prima concessione non portò pertanto a nulla di fatto.

La situazione cambiò nel 1860, quando il Governo Provvisorio Toscano rilasciò una nuova concessione e i lavori furono velocemente iniziati. La tratta Livorno-Cecina fu inaugurata nel 1862 ed i lavori si conclusero il 14 novembre 1863 con il completamento della linea fino al fiume Chiarone, allora confine tra il neonato Regno d'Italia e lo Stato Pontificio.

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Inizialmente la linea partiva da Livorno in direzione est, dirigendosi nell'entroterra per circa dieci chilometri fino a raggiungere Collesalvetti, piegando poi decisamente verso sud e percorrendo la valle del fiume Tora, ampia e dolce, fino all'altezza di Rosignano Marittimo. Superato il basso spartiacque, ridiscendeva facilmente verso la pianura costiera di Cecina e da qui proseguendo senza difficoltà lungo la costa fino a Follonica, piegava nuovamente verso est per descrivere un amplissimo cerchio attorno al montuoso retroterra di Punta Ala per giungere a Grosseto. Dopo Grosseto si superavano facilmente i Monti dell'Uccellina, si passava alle spalle del Monte Argentario e si arrivava appunto al fiume Chiarore (vedi Fig. 14-15).

Linea a servizio del territorio, nel 1867 divenne improvvisamente di primaria importanza per il giovane Regno: attraverso la Porrettana, poi Via Firenze e la linea Leopolda oppure direttamente via Lucca-Pisa, si metteva in congiunzione la Pianura Padana con Roma, essendo stata terminata il 22 giugno 1867 l'interconnessione con la Roma-Civitavecchia presso il confine del Chiarore. Infine nel 1874 entrò in funzione la Pisa- Genova, collegata attraverso Modane alla Francia (vedi Fig. 16).

Figura 14. Sviluppo della linea tra Cecina e Pisa tra il 1848 ed il 1863.

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Figura 15. Sviluppo della linea tra Cecina e Pisa tra il 1873 ed il 1911

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Figura 16. Strade ferrate Toscane

Purtroppo la linea tra Cecina e Pisa non era diretta, ma passava da Livorno Via Collesalvetti e quindi, nel 1871, Pisa fu connessa direttamente con Collesalvetti, snellendo il traffico nord-sud, ma tagliando fuori Livorno dalla direttrice nazionale Genova-Roma. Nel 1877 furono apportati miglioramenti al tracciato nella tratta Collesalvetti-Cecina.

A peggiorare ulteriormente le cose per la città di Livorno, c'era il fatto che nel 1865, la rete nazionale fu divisa in 4 società, e fino alla legge delle

"convenzioni ferroviarie" del 1885, la linea per Genova appartenne, da

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Pisa in su, alle "Strade Ferrate Alta Italia"; ciò implicava il trasbordo da Pisa di merci e persone provenienti da Livorno e dirette a nord.

In pochi anni la situazione delle ferrovie a Livorno si era rovesciata: da fattore positivo per il porto e il commercio, a motivo di totale isolamento.

Gli ultimi decenni del secolo vedono quindi i tentativi di riallacciarsi all’importante percorso Genova-Roma con la richiesta di una Viareggio- Livorno- Cecina, saltando Pisa. Soltanto agli inizi del 1900 (in concomitanza con un periodo di ripresa della città) la questione fu risolta con la costruzione del tratto costiero Livorno-Vada; il tratto Livorno- Viareggio fu bocciato (1902) dal Consiglio Superiore delle Strade Ferrate, perché il fatto di escludere Pisa avrebbe significato tagliare fuori della direttrice Genova- Roma, altri centri della Toscana: Firenze, Siena, Arezzo da una parte, Lucca e Pistoia dall’altra.

Comunque per il tratto Livorno- Vada la città di Livorno ottenne più del previsto: la nuova linea ebbe un doppio binario, atto al passaggio dei treni direttissimi (di qui la grande importanza che il comune dava alla nuova stazione).

La linea, iniziata nel 1904, fu terminata in circa 6 anni.

La stazione Centrale

Approvata finalmente la sospirata Livorno-Vada, iniziò la costruzione della nuova stazione, la "Stazione Centrale" (quarta stazione di Livorno) posta al termine del viale degli Acquedotti. Iniziata attorno al 1907 e terminata nel 1910.

La tipologia della stazione centrale di Livorno non si discosta dalle soluzioni tipiche delle stazioni di transito già esistenti: essa consta, infatti, di tre corpi di fabbrica (quello centrale più grande) collegati da due lunghe ali, più basse, attraversate internamente da una galleria che disimpegna le sale d’aspetto e i vari uffici; al centro si trova l’atrio d’accesso con la

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biglietteria. Si tratta perciò di uno schema che è possibile ritrovare in molte altre stazioni italiane dell’800 e anche del’900 (vedi Fig. 17).

Figura 17. Foto stazione Centrale di Livorno.

Con la costruzione della nuova stazione, la Stazione San Marco perde gradualmente la sua importanza fino a diventare un semplice scalo merci.

3- Ipotesi di recupero

3.1 Ipotesi di recupero dell’area

L'area di progetto è il grande triangolo sfrangiato del parco ferroviario che termina con la dismessa stazione di San Marco, incuneata nella periferia della città di Livorno a ridosso della Porta omonima. Poco più a ovest si collocava a cavallo del Canale dei Navicelli che collegava Pisa a Livorno,

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la bella architettura in mattoni e pietra della Dogana d'Acqua, distrutta dai bombardamenti dell'ultima guerra. La costruzione della linea ferroviaria, avvenuta nel 1840, ha posto le premesse per il successivo interramento di questa importante via di comunicazione (il canale), sostituita appunto dai binari ferroviari che ne hanno utilizzato il tracciato per proseguire poi fino alla stazione marittima.

Nel 1940 fu smontata la copertura in ferro della galleria (vedi Fig. 18).

Figura 18. Ultime fasi di smontaggio della copertura in acciaio e demolizione dell’arco frontale in muratura, 1940.

A causa della guerra, le grandi tettoie vennero quasi tutte demolite (ad esempio Torino P.N., La Spezia, Pisa C.le, Livorno S.M., Collesalvetti,ecc.) perché divenute:

1. riserva di "materiale ferroso" da riciclare ad uso bellico 2. insufficienti a contenere i treni e i marciapiedi dei binari;

3. di troppa onerosa manutenzione:

e sostituite da pensiline isolate metalliche o in cemento armato.

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La superficie dell’area attualmente perimetrata è di circa 70.000 mq e forma l'unità territoriale organica elementare 4c21: “Stazione di S. Marco con destinazione a servizi e residenza”. Tale area confina a nord-ovest con una vasta zona residenziale, mentre a sud-est il perimetro sfrangiato è determinato dall'incastro di fabbriche e magazzini del porto. È quindi un’area di frontiera che separa differenti zone funzionali della città, denotate da differenti scale edilizie: la grande scala delle fabbriche del porto commerciale e al di qua dei binari la più modesta scala dei quartieri residenziali. Tra le due zone si interpone la figura ancora consistente dell'originario edificio della stazione S. Marco, che racchiude nella sua forma a U la traccia di una doppia coppia di binari in disuso. È significativo che un edificio monumentale che rappresentava il simmetrico della Porta nelle Mura, una volta persa la destinazione funzionale e simbolica di

“Porta della Città”, sia stata recuperata ad un uso diverso, in questo caso di residenza, adoperando il vuoto della ex-galleria dei treni come una naturale corte con giardini e piccoli orti (vedi Fig. 19-20).

Figura 19. Foto aerea, lato mare.

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Figura 20. Foto aerea, lato monte.

Il progetto di riqualificazione del quartiere è stato l'occasione per ripensare ai modesti risultati in Italia delle politiche a sostegno dell'edilizia residenziale pubblica ed in generale ai piani di recupero delle periferie al di fuori della città consolidata, che, a parte alcuni esperimenti (Libera, Daineri, De Carlo, etc.), si è ripiegata sulla riproposizione di tipologie aggregative della città consolidata, attraverso le figure edilizie normate della schiera, della linea, della torre (vedi Fig. 21-22).

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Figura 21-22. Progetti Florian e Carloni-Fontana.

3.2 Ipotesi di recupero della stazione

Vista la sua ubicazione, al vertice di questo triangolo e in prossimità dell’attuale Piazza Bartelloni, la stazione S. Marco potrebbe diventare il punto focale di tutto il quartiere e il collegamento con il resto della città.

Ripensando, infatti, agli spazi della ex stazione, ed in particolare alla corte interna, questi potrebbero essere adibiti a pubblico utilizzo. La struttura potrebbe diventare un centro polifunzionale ed accogliere manifestazioni, concerti, spettacoli teatrali e mostre. Gli utenti di questo complesso sarebbero appunto i cittadini livornesi che, grazie alla presenza degli spazi destinati a parcheggio delle vetture (che la zona può offrire), potrebbero usufruire di questo nuovo ritrovo culturale.

L’intervento permetterebbe inoltre di valorizzare l’ex stazione come edificio di interesse storico, artistico ed architettonico ed in questo senso potrebbe diventare un’attrazione turistica per la città.

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Da qui è nata l’idea del recupero della vecchia copertura in modo da permettere la trasformazione di quello spazio, che un tempo era un semplice punto di arrivo e di partenza occupato da binari e marciapiedi di servizio, in un’immensa piazza (115x 30 m) coperta. L’idea è quella di creare un luogo di aggregazione lasciando, però al suo interno l’antica coppia di binari coperti da una pavimentazione vetrata amovibile che permetta da un lato di ricordare la destinazione originaria della struttura nel suo complesso e dall’altro di poter “ospitare” locomotive storiche.

3.3 Ipotesi di recupero della copertura

Per la realizzazione della copertura si è pensato di utilizzare pannelli di vetro che permettano di evidenziare ancor di più il collegamento tra la piazza al coperto (115x30 m) e l’area circostante. La fascinosa spazialità così recuperata diverrebbe il connotato principale del luogo, suo fattore di potenzialità creativa.

Per quanto riguarda lo schema generale della copertura si è voluto mantenere la tipologia ad arco a spinta eliminata. Lo schema ad arco, infatti, ci permette di mantenere quasi immutato l’aspetto originario dell’opera; mentre lo schema statico ad arco a spinta eliminata ci permette di sgravare la muratura dalla spinta orizzontale e in più è proprio lo schema adottato dalla copertura originaria.

Per quanto riguarda i materiali da utilizzare per la realizzazione delle capriate sono state proposte due soluzioni alternative:

1. travature portanti in legno lamellare;

2. travature portanti, traliccio tridimensionale, in acciaio.

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Travature portanti in legno lamellare

Visto il crescente interesse per il legno lamellare si è pensato di utilizzarlo per la realizzazione degli archi portanti costituenti la copertura. Si è quindi eseguito un dimensionamento di massima e si è visto che questa soluzione poteva essere adottata (vedi Cap. 4). Dal punto di vista estetico, e soprattutto per ragioni storiche, questa soluzione non è risultata del tutto appropriata (vedi Fig. 23).

Figura 23. Modello capriata in legno.

Travature portanti, traliccio tridimensionale, in acciaio

La seconda soluzione, travature in acciaio, è risultata essere la più idonea dal punto di vista del mantenimento storico dell’edificio. Già alla fine del XVIII secolo, infatti, le importanti innovazioni tecnologiche legate alla rivoluzione industriale, portarono ad un notevole incremento della produzione di acciaio e ghisa, con una sensibile riduzione dei costi. Questi materiali, in passato utilizzati in architettura solo per la realizzazione di elementi accessori (grappe, ancoraggi, tiranti), trovarono quindi una maggiore applicazione anche nell'edilizia, dove furono utilizzati

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essenzialmente per la realizzazione di ponti in ferro, di edifici con scheletro metallico e di coperture trasparenti in acciaio e vetro. Gli impieghi più spettacolari e importanti di questa nuova tecnologia sono ponti, serre, edifici per esposizioni universali, capannoni industriali, stazioni ferroviarie e gallerie per il pubblico passeggio.

L’impiego di questi nuovi materiali da costruzione non porterà però alla formazione di uno stile completamente autonomo dai vari revival ottocenteschi, ma spesso si limiterà alla realizzazione di coperture su invasi neoclassici, neogotici o neorinascimentali. Perfino le opere realizzate interamente in ferro non raggiungeranno mai una vera indipendenza dai gusti, dalle forme e dal senso dell'architettura eclettica ottocentesca. Caso emblematico è quello della Torre Eiffel a Parigi, dove gli archi che si aprono dalla base fino al primo livello della torre, posto a circa 50 metri d'altezza, non sono portanti, ma sono appesi alla struttura.

Questi elementi, evidentemente privi di qualsiasi funzione statica, rappresentano quindi una sorta di inutile dipendenza dalle forme classiche, alle quali il progettista, l'ingegner Gustave Eiffel, fu costretto a sottomettersi.

Sul finire dell'Ottocento le costruzioni in acciaio trovarono grande fortuna negli Stati Uniti d'America ed in particolar modo a Chicago, dove furono realizzati i primi grattacieli del mondo. Ben presto questa tecnica costruttiva si diffonderà rapidamente in tutto il Paese, in particolare a New York, dove, col nuovo secolo, sorgeranno edifici alti anche più di trecento metri.

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Figura 24. Modello capriata in acciaio.

Le opere principali in Italia sono:

• Galleria De Cristoforis a Milano, di Andrea Pizzala (1831).

• Galleria Vittorio Emanuele a Milano, di Giuseppe Mengoni, iniziata nel 1865 in stile neorinascimentale.

• Stazione di Milano Centrale, di Alberto Fava (vedi Fig. 25). .

• Galleria Mazzini a Genova, costruita a partire dal 1870.

• Galleria Umberto I a Napoli, aperta nel 1890 dopo tre anni di lavori

• Teatro Goldoni di Livorno, inaugurato nel 1847 (vedi Fig. 26).

• Mercato Centrale di Firenze, progettato da Giuseppe Mengoni e costruito tra il 1870 ed il 1874.

• Mercato delle vettovaglie di Livorno, aperto nel 1894 (vedi Fig. 27- 28).

• Ponte di Paderno, sul fiume Adda, realizzato tra il 1887 ed il 1889.

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Figura 25. Copertura Stazione di Milano.

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Figura 26. Copertura Teatro Goldoni di Livorno.

Figura 27- 28. Fotografia delle capriate del Mercato delle vettovaglie di Livorno e delle loro decorazioni.

Alla luce dei sopraelencati motivi si è preferito pensare ad un recupero della copertura in termini storici, mantenendo oltre alla caratteristica forma ad arco, anche l’utilizzo dell’acciaio come elemento portante.

3.4 Recupero della struttura in muratura

La struttura in muratura sottostante presenta caratteristiche tipiche di quella epoca. Le numerose aperture, che si affacciano nella corte interna e modificate in epoche successive, sono inquadrate in arcate cieche.

In architettura l'arcata cieca è un arco, generalmente facente parte di una serie continua, sovrapposto ad una parete chiusa.

In caso di dimensioni contenute si parla di arcatelle o di archetti, spesso disposti su mensole sporgenti e ugualmente ciechi.

L'arcata cieca fu molto in voga in epoca medioevale, soprattutto nell'architettura romanica. Gli esempi più celebri sono da ricercarsi nel Romanico pisano ed in particolare nel registro inferiore del Duomo,

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Battistero, Torre Pendente e Camposanto Monumentale di Pisa (vedi Fig.

29).

Duomo di Pisa Arcate cieche nel Camposanto

monumentale di Pisa

Dettaglio di un'arcata cieca in San Michele in Foro a Lucca

Basilica di San Miniato al Monte a Firenze

Figura 29. Esempi di arcate cieche.

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