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Capitolo 4 – Conclusioni Sommario

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Capitolo 4 – Conclusioni

Sommario

4.1 Sui problemi che pone l’istituto delle contestazioni 131

4.2 Necessità di riforma? 136

4.1 Sui problemi che pone l’istituto delle contestazioni Analizzato l’art. 500 c.p.p. come oggi appare, non possiamo esimerci dal portare qualche considerazione finale.

Chiarita la finalità delle contestazioni durante l’esame del testimone, cioè valutare la credibilità di quest’ultimo, s’impone nell’immediato all’interprete la questione attinente all’influenza che queste hanno sul giudice. In parole povere, le contestazioni possono influenzare, più o meno direttamente, il giudice nella sua decisione oltre i limiti teorici previsti dalla stessa disposizione codicistica? Questo è un problema che viene spesso trascurato nella prassi forense; si tende a minimizzarlo o ad ignorarlo, ma, invero, una volta che il giudice ha sentito leggere il verbale oggetto di contestazione al teste, e magari questo continua a mantenere la versione deposta d’innanzi al giudice, chi ci dice effettivamente che il magistrato ne terrà di conto limitatamente ai fini di valutazione della credibilità del testimone? Il giudice non è una macchina, fortunatamente; in quanto persona, è fisiologico che venga influenzato (1), magari anche solo a livello di subconscio, da qualsiasi cosa senta in aula: anzi, egli è

1 Sui modi e le possibilità di influenzare il giudice, si veda CARPONI SCHITTAR, La

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132 indotto a «selezionare alcune informazioni a discapito delle altre, privilegiandole, dopo averle ricodificate e riformulate in vario modo» (2). Purtroppo non esiste una soluzione effettiva «per il semplice motivo che non si può sondare l’interno psichico dell’organo giudicante» (3). L’unico

elemento che limita un fenomeno degenarativo in tal senso, è l’obbligo di motivazione della sentenza, come prevede l’art. 546 comma 1 lett. e) c.p.p. (4): in realtà, neanche questo risulta essere una garanzia insuperabile. Dalla motivazione di una sentenza, invero, non ci è consentito comprendere se la contestazione sia servita al giudice per interpretare il senso della deposizione del teste (5), sia servita a dare ad

un’altra prova un significato particolare (6), oppure «a supportare, in

modo decisivo, la ricostruzione del fatto, effettuata dal giudice nella sentenza, per il tramite di prove diverse, queste ultime puntualmente specificate nella motivazione» (7): tali evenienze restano nel foro interno del giudice. Così, in sincerità, bisogna ammettere che l’unico effettivo

2 LANZA, Il percorso della decisione, in Aa.Vv., Il processo invisibile. Le dinamiche

psicologiche nel processo penale, a cura di FORZA, Venezia, 1995, 63 ss.

3 PAULESU, Giudice e parti nella “dialettica” della prova testimoniale, cit., 12.

4 Sottolinea LAMBERTUCCI, Contestazioni nel corso dell’esame e obbligo di motivare

l’utilizzazione probatoria dell’atto di indagine, in Giur. it., 1994, II, 455, che «dal tenore

di quest’ultimo dettato normativo emerge in maniera evidente la finalità garantista assegnata alla motivazione, specie nella parte in cui chiaramente finalizza l’enunciazione delle ragioni di inattendibilità delle prove contrarie al controllo sull’esercizio del libero convincimento».

5 Come osserva ORLANDI, L’attività argomentativa delle parti, in

FERRUA-GRIFANTINI-ILLUMINATI-ORLANDI, La prova nel dibattimento penale, Torino, 1999, 40, «che le risposte vadano interpretate e comprese partendo dalle sollecitazioni che le hanno provocate, è suggerito già dal buon senso».

6 Così LOZZI, Il pubblico ministero nel nuovo processo, in Aa.Vv., Profili del nuovo

processo penale, a cura di GARAVOGLIA, Padova, 1988, 41.

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133 limite che può aversi alle considerazioni del magistrato giudicante, è il giudice stesso: rectius, il suo buon senso, la sua moderazione, la sua etica, la sua esperienza, nonché la sua logica (8).

Eliminare, invece, lo strumento delle contestazioni, come da alcuni prospettato, è un’ipotesi che appare ad oggi, se non utopistica, quantomeno ancora acerba. L’unico modo possibile sarebbe potenziare ulteriormente la fase del dibattimento e il contraddittorio a discapito di quella antecedente delle indagini preliminari, ma questo, per lo meno al momento, non ci pare del tutto sensato. È vero che la prova si forma nel contraddittorio tra le parti nel dibattimento, ma demonizzare impropriamente la fase d’indagine risulta aprioristico. Invero, la fase d’indagine non serve solo al pubblico ministero a raccogliere prove, giacché questa, come spesso accade, può concludersi con l’archiviazione dell’accusa in assenza di elementi che corroborano la tesi accusatoria. Una soluzione alternativa, forse, potrebbe essere ritenere la contestazione al pari della domanda suggestiva, vietata ex art. 499 comma 3 c.p.p. Ma, pur essendo la contestazione «una domanda di massima suggestione (in quanto pone l’interrogato di fronte ad una sua contraddizione e lo “guida” a comporla)» (9), non appare come tesa a suggerire, effettivamente, la risposta al teste. Invero, la contestazione fa scontrare il testimone con

8 CARPONI SCHITTAR, Modi dell’esame e del controesame, Milano, 2001, 272.

9 FRIGO, “Giusto processo” e funzione della difesa, in Aa.Vv., a cura di KOSTORIS,

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134 quanto ha dichiarato in via difforme prima, ma nulla vieta al teste di continuare a percorrere la sua strada continuando ad affermare quanto deposto davanti al giudice.

Sarebbe allora opportuno che la contestazione «svolgesse sempre un ruolo complementare ed accessorio rispetto all’escussione in forma dialettica» (10). Prima di arrivare ad utilizzare tale strumento, infatti, sarebbe preferibile far risaltare la contraddittorietà del testimone con ulteriori domande, progredendo nell’(contro)esame; se non è possibile altrimenti, allora, è doveroso, in quanto diritto di parte alla prova, contestare. La prassi attesta tutt’altro; l’uso, rectius l’abuso, col quale si ricorre in aula alle contestazioni è disarmante. Pubblici ministeri e avvocati dovrebbero essere più autocritici nel momento in cui si preparano all’esame e al controesame, predisponendo domande finalizzate ad un’escussione dalla quale deve rilevarsi la ragione della loro tesi e la demolizione di quella avversa: medice, cura te ipsum. Bisogna arrivare a comprendere che, anche ai fini di screditare il teste avverso, è molto più efficiente un’incalzante serie di domande ad hoc opportunatamente preparate, piuttosto che una serie continua di contestazioni; altrimenti, ha ragione chi, amaramente, etichetta l’art. 500 c.p.p. come «codificazione della pigrizia» (11). Porre le domande giuste,

saper quando e come porle, saper incalzare secondo una precisa strategia,

10 FANUELE, Le contestazioni nell’esame testimoniale, cit., 295.

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135 è non solo il miglior modo per escutere il teste, ma altresì per farlo cadere in contraddizione ed eventualmente far dubitare il giudice della sua credibilità. L’esame dialettico è lo strumento principale; la contestazione quello residuale ed eventuale.

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136 4.2 Necessità di riforma?

La prima questione con la quale l’interprete ha da interfacciarsi immediatamente è il tenore letterale della norma. Non si può negare, invero, che la norma non sia delle più felici e chiare nel suo stesso testo. Tanto per cominciare, per quanto riguardo la previsione generale di cui al comma 2° dell’art. 500 c.p.p., sarebbe stato preferibile seguire la proposta del progetto Tonini – Ferrua. Ad oggi la norma in questione prevede in positivo la possibilità di utilizzare le dichiarazioni contestate per valutare la credibilità del teste. Crediamo sia preferibile l’ipotesi di norma in negativo, come proposta nel progetto testé ricordato: «le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni non possono costituire prova dei fatti in esse affermati». Il tono perentorio di un siffatto dato legislativo ridurrebbe drasticamente le discussioni in tema d’uso delle contestazioni, nonché comporterebbe nell’immediato un’utilizzazione più attenta dello strumento in esame. Si potrebbe inserire, poi, un ulteriore comma per chiarire effettivamente se è volontà del legislatore che si possa o meno contestare al teste reticente e/o che dice di non ricordarsi. Le nostre positive considerazioni sul punto sono state frutto di previa interpretazione dottrinaria; dottrina che tuttavia è divisa al riguardo. Proseguendo, il comma 3 dell’art. 500 è alquanto infelice per la sua imprecisione; sarebbe opportuno aggiungere l’avverbio «precedentemente» in riferimento alle dichiarazioni rese: sebbene è logica deduzione, giacché sempre di contestazioni si parla, ciò eviterebbe

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137 polemiche superflue. Anche un chiarimento sul comma 5° non parrebbe così scarsamente utile. In particolar modo, non tanto sulle modalità procedurali, quanto specificare meglio i poteri del giudice e le possibilità del suo intervento. Potrebbe esser d’uopo dunque un intervento di riforma che si occupi quanto meno del dato letterario.

Veniamo adesso alle questioni, per così dire, accessorie all’art. 500 c.p.p. In primis, occorre trovare una soluzione volta ad evitare che vengano utilizzate, come punto di partenza per le contestazioni, risposte date a seguito di domande suggestive. Dato che il divieto ex art. 499 comma 3 c.p.p. si limita alle domande poste in dibattimento (12), nulla

osta a porre le stesse durante la fase delle indagini preliminari a persone informate sui fatti: le susseguenti risposte, poi, inficiate dai suggerimenti, possono essere usate ai fini delle contestazioni. In tale modo, dichiarazioni derivanti da domande nocive possono comunque avere ingresso in dibattimento. Pare doveroso escludere l’ammissibilità di tali tipi di contestazioni, ma l’unico modo per far accertare al giudice una situazione simile, risulta esser quello di far controllare direttamente il verbale delle indagini al magistrato, giacché questo contiene le domande poste dagli inquirenti. Tuttavia, la soluzione è pregna di conseguenze forse peggiori: il giudice, così facendo, verrebbe a conoscenza dell’intero

12 Infatti, per FERRAIOLI, L’etica della giurisdizione penale (Contributi per una

definizione della deontologia dei magistrati), in Quest. giust., 1999, 492, «tutte queste

regole, volte a garantire l’attendibilità delle prove, non valgono per gli atti investigativi proprio perché questi hanno uno scopo diverso dalle prove».

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138 verbale e quindi di tutte le dichiarazioni precedentemente rese. Si potrebbe forse pensare a modificare le disposizioni in materia di assunzione di informazioni dalle persone informate sui fatti: l’art. 362 c.p.p. fa un rinvio generico a quelle che sono le disposizioni in materia di testimonianza, ma non ne fa di specifici all’art. 499 comma 3 c.p.p. D’altro canto, visto che ci troviamo nella fase delle indagini preliminari è chiaro che venga dato più margine d’azione agli organi del pubblico ministero ma risulta quanto meno eticamente scorretto, anche in questa fase, porre domande suggestive al sol fine di perseguire una tesi accusatoria sulla quale si sta ancora indagando, e quindi della stessa non v’è certezza. L’unica speranza plausibile è allora quella di credere nel rispetto della deontologia degli organi inquirenti durante le indagini.

In secundis, occorre combattere tutte quelle prassi che sono dilatatorie del processo penale. Invero, l’abuso del ricorso alle contestazioni sarebbe facilmente limitabile nell’ottemperare il dettato costituzionale sulla ragionevole durata del processo. Più lontano è il dibattimento dal fatto di reato ovvero dalle conseguenti indagini, più i testimoni tenderanno a dimenticare gli avvenimenti passati o ad essere in contraddizione rispetto a questi. Da un primo angolo visuale, sarebbe il caso di essere più corretti nell’evitare di utilizzare pretestuosamente alcuni strumenti processuali: basti pensare alle notificazioni errate, alle impugnazioni superflue e a tutti quei rilievi posti in essere dalle parti solo

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139 per ottenere prolungamenti delle udienze ovvero rinvii delle stesse. Da un secondo angolo visuale, sarebbe necessario altresì potenziare gli organi di giustizia, sia nella veste del pubblico ministero sia in quella del magistrato giudicante, ad es. assumendo nuovi togati. Così facendo il carico di lavoro sarebbe meglio smistato e, di conseguenza, si dovrebbero ridurre sia i tempi delle indagini preliminari che quelli dibattimentali. Per concludere sul punto, il pubblico ministero dovrebbe, dal suo canto, iscrivere immediatamente il nome della persona indagata nel registro delle notizie di reato «anziché procrastinare tale atto, al fine di posticipare il dies a quo dei termini di durata delle indagini preliminari» (13).

13 Così FANUELE, Le contestazioni nell’esame testimoniale, cit., 301. Sul rapporto tra

ragionevole durata del processo e ritardata iscrizione nel registro delle notizie di reato si veda, tuttavia, AMODIO, Ragionevole durata del processo, abuse of process e nuove

esigenze di tutela dell’imputato, in Dir. pen. proc., 2003, 797 ss.; FURGIUELE, La “ragionevole durata” delle indagini preliminari, in Dir. pen. proc., 2004, 1194;

SPANGHER, Riforme, dopo il giusto processo anche il giusto procedimento. Ancora

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