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“Se sia opportuno trasferirsi in campagna” di Giovanni Giudici

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Academic year: 2021

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“Se sia opportuno trasferirsi in campagna”

di Giovanni Giudici

Che la partecipazione al tema vittoriniano di Industria e letteratura non si traduca, in fin dei conti, in un‟adesione cieca e definitiva da parte del poeta è dimostrato, dopo le sconfessioni di Sereni e di Pignotti, anche dall‟opera di Giovanni Giudici. Analogamente all‟autore di Una visita in fabbrica, con il quale inizia una corrispondenza in seguito all‟uscita della raccolta La stazione di Pisa nel 1955, nel 1956 Giudici viene assunto da una grande industria, la Olivetti di Ivrea, con la qualifica di impiegato di prima categoria: formalmente è addetto alla biblioteca dell‟azienda, ma è destinato, nelle intenzioni di Adriano Olivetti, alla conduzione del settimanale “Comunità di fabbrica”. Per lavoro si sposta a Torino ed in seguito, nel 1958, a Milano, dove lavora come copywriter presso la Direzione Pubblicità e Stampa della Olivetti, redigendo i libretti di istruzione e testi illustrativi di macchine da scrivere e calcolatrici. L‟esperienza in una fabbrica “particolare”1

come quella non basta però a trasformare immediatamente –anzi, egli stesso non si considererà mai tale- Giudici da poeta borghese a “intellettuale olivettiano”, nel senso di intellettuale-sociologo:

Trovarmi lì con quel bistrattato, ma nient‟affatto ignobile, “paternalismo” di Adriano Olivetti, a contatto diretto però con la situazione operaia, fu per me uno choc. Avevo molti contatti con gli operai, e anche molte amicizie, perché uno dei giornali che facevo era un giornale di fabbrica che si occupava non soltanto della Olivetti ma anche di altre piccole fabbriche del Canavese; tutti i pomeriggi giravo con la macchina a raccogliere notizie per gli articoli. Ma poi lì, tra gli “intellettuali olivettiani”, per chiamarli così, trovai delle persone che erano in possesso di strumenti culturali che io non avevo.2

1

Dagli anni '40 fino agli anni '80 poeti, letterati e scrittori di rilievo della letteratura contemporanea (tra i più noti: Ottieri, Volponi, Fortini, Sinisgalli, lo stesso Giudici etc.) lavorano nella fabbrica di Ivrea ricoprendo ruoli diversi, anche di grande responsabilità: nell‟idea progressista di Adriano Olivetti la formazione tecnico-scientifica e quella umanistica si integrano e quindi devono coesistere e cooperare in ogni ambiente. Negli anni '50 questa visione si traduce in una politica di selezione del personale che, per i livelli più alti, si basa sul "principio delle terne": per ogni nuovo tecnico o ingegnere che entra in azienda si assume anche una persona di formazione economico-legale e una di formazione umanistica. Per Adriano Olivetti, intellettuali e letterati sono necessari dovunque, anche in un'industria a elevato contenuto tecnologico: il loro contributo favorisce un progresso equilibrato dell‟impresa ed evita gli eccessi del tecnicismo. Essi non sono quindi visti come un lusso o un "ornamento" dell'alta direzione, ma come fattori organici dello sviluppo aziendale, in particolare in settori critici come la pubblicità e comunicazione, le relazioni con il personale, i servizi sociali. Fonte: www.storiaolivetti.it

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È proprio negli anni milanesi che Giudici matura culturalmente, anche grazie all‟influenza di Franco Fortini, suo collega di lavoro3

, e alla frequentanzione del Blue

Bar di piazza Meda, dove confluiscono, tra gli altri, anche Sereni e Vittorini. Nella

capitale del miracolo economico il poeta trova insomma un ambiente ricco di sollecitazioni e la possibilità di recuperare “un‟idea di impegno politico” e di “riguadagnare una dimensione religiosa”4

. È questa, infatti, la bipolarità ideologica e morale che per tutta la vita scinderà Giudici tra due chiese, ovvero tra un‟identità cattolica, col suo peso d‟inerzia5

, e una coscienza marxista che presuppone un‟azione diretta nella società. Come indica il titolo della raccolta del 19636, il poeta ligure porta dentro di sé l‟intima struttura di un‟educazione cattolica, ma nello stesso tempo la pratica del mondo e della realtà lo preparano al richiamo di un altro credo, di natura politica e sociale e più funzionale al dramma moderno dell‟uomo. L‟innesto non è però privo di contraddizioni, dubbi, sensi di colpa: l‟esperienza marxista, cui egli rifiuta di integrarsi fino in fondo (alle elezioni amministrative del 1960 per il comune di Milano vota per il Partito Socialista Italiano e scrive: “Non ho l‟animo, è la mia viltà piccolo borghese, di votare all‟ultimo momento comunista”7), diventa oggetto di continua riflessione8 e fa sì che il contrasto non si risolva sul piano del conflitto delle ideologie, ma su quello della contrapposizione interiore tra la scelta della passività e una “voce di rabbia” che potrebbe –ma almeno in Se sia opportuno trasferirsi in campagna non lo farà- indurre alla ribellione.9

Il civico decoro10, ovvero il tenore di vita grigio ma rispettabile della Milano

impiegatizia nel cuore del miracolo economico, accomuna l‟insofferenza di Giudici e di Sereni per una condizione che moralmente e socialmente si configura come non-vita, come viltà e rassegnazione.

3 A Fortini Giudici riconosce ampi meriti: “Confesso che gli devo molto in termini di formazione personale, sentendomi al suo cospetto quasi come un ripetente; ho imparato da lui a studiare molte cose e soprattutto a lavorare sui testi poetici. È stato Fortini a introdurmi allo studio di Hegel e Lukacs, è stato lui a farmi conoscere Giacomo Noventa, la sua spiritualità aristocratica e la sua vena popolare. Per due –tre anni la nostra è stata una consuetudine importante, prima privata e poi sostanziale” da Oltre il „900. Un testimone della classicità, “l‟Unità”, 29 novembre 1994, cit. in GIUDICI, I versi della vita, p.LXV

4 La Milano di Giudici, uno sguardo di poeta, intervista di M. Cucchi, in “la Repubblica”, edizione milanese, 19-20 aprile 1992, cit. in GIUDICI, I versi della vita, p. LXVI

5

Cfr LUPERINI, Il Novecento, p.826

6 Mi riferisco a L‟educazione cattolica, Milano, Scheiwiller, All‟insegna del pesce d‟oro, 1963 7 GIUDICI, I versi della vita, p.LXVIII

8

Cfr FORTINI, Una nota su Giudici, in “Rinascita- Il Contemporaneo” luglio 1965, p.21 9 Cfr LUPERINI, Il Novecento, p. 826

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Io sono stato dentro questa struttura industriale [la Olivetti] il tanto che bastava a sentirne […] la “costrizione”. Non che io sia stato molto “costretto”: solamente, sono stato lì dentro quel tanto che mi ha permesso di avvertire l‟esistenza di questa condizione. Senza, a dir la verità, viverla. L‟ho sentita socialmente, diciamo così.11

Non a caso, a distanza di anni, Giudici affermerà l‟incompatibilità con l‟industria per l‟intellettuale che vuole mantenere integre le sue prerogative o, semplicemente, “salvarsi”:

La teorizzazione del posto su misura per l‟intellettuale l‟ha fatta Eliot, quando consigliava al giovane poeta: “Cercati un piccolo impiego in banca, con responsabilità di secondo piano”. L‟Ottocento e il Novecento francesi son pieni di scrittori impiegati nell‟Amministrazione, ma nell‟Amministrazione dello Stato, dove era possibile evidentemente “salvarsi”. Oggi la situazione è tale che se tu non sei pronto a “perderti” nell‟industria, e con zelo, l‟industria non ti può accettare: chi entra “deve” voler fare carriera.12

Franco Fortini conia per l‟amico Giudici - che per l‟Olivetti scrive sui giornali di fabbrica prima, e testi pubblicitari dopo- l‟espressione non troppo lusinghiera di “scriba dell‟industria”, a cui a posteriori, nell‟intervista a Ferdinando Camon,l‟interessato ribatte così:

Non lo so se sono stato uno scriba dell‟industria. Credo di essere stato uno che ha dato all‟industria, in cambio di uno stipendio, un po‟ di scrittura. Scriba dell‟industria è l‟intellettuale che va nell‟industria come intellettuale. Io non sono andato nell‟industria come intellettuale; io sono andato nell‟industria come venditore di forza-lavoro: la mia. Ho dunque alienato parte della mia forza-lavoro, che era la scrittura, ma in modo assolutamente anonimo. Non posso dunque considerarmi un “intellettuale olivettiano”, tra virgolette, ma un intellettuale che era per caso impiegato alla Olivetti. Sono due cose distinte.13

Già nella presa di distanza dalla categoria di “intellettuale olivettiano”, esemplificata, ad esempio, nella persona di Volponi (ma non solo: si pensi a Ottieri, Sinisgalli, Fortini etc.), intesa come scelta di “obiezione di coscienza”14

all‟interno dell‟esercito industriale, è insita quella tendenza ad una prevalenza indiscussa della “vita”, con tutti i suoi connotati emotivi e spirituali, sull‟”impegno”. Ha forse ragione Gian Carlo Ferretti quando rinviene in Giudici “un esasperato e furioso rinchiudersi in se stesso, con un atteggiamento di rivolta-rassegnazione, interesse-disgusto, per le

11 Intervista a Giudici in CAMON, Il mestiere di poeta, p.154 12

Ivi, p.157 13 Ivi, pp. 155-156 14 Ivi, p. 157

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passioni popolari, per la città industriale, per il mondo moderno in genere. Ma il suo dissidio finisce per assumere il tono di un ripiegamento scontato, di un‟ambiguità compiaciuta, di un conflitto interiore recitato all‟infinito”15, e la conclusione inconclusa di Se sia opportuno trasferirsi in campagna ne è la prova.

È poi non dell‟aporetico Giudici, ma di Sereni- che condivide con il collega ligure la condizione di intellettuale impiegato nell‟industria- la proposta a Vittorini di pubblicare su “Il Menabò” un ciclo di ventiquattro poesie dell‟amico, dal titolo Se sia

opportuno trasferirsi in campagna, che ha come nucleo il lungo componimento

eponimo. L‟atteggiamento di estrema cautela del direttore, solito alla macelleria editoriale16, fa sì che i componimenti comparsi sulla rivista nel settembre 1961 non siano ventiquattro, ma diciassette. Il successo di queste poesie è di incoraggiamento a proseguire il lavoro, ma anche e soprattutto, motivo di timore: per usare le sue stesse parole: “Mi sento impegnato – ed è un errore – ad una prova definitiva.”17

Un‟affermazione, questa, che non fa che confermare come la poesia di Giudici si riveli, per sua natura intrinseca e come risultante di un conflitto mai risolto tra cattolicesimo e marxismo, tra ripiegamento e impegno, inadatta ad accogliere l‟eco di una grande aspirazione civile o sociale, configurandosi, piuttosto, come lirica del quotidiano, intima in se stessa fino alla soluzione dell‟elegia.18 Certo, tra le tante voci “olivettiane”19

della “letteratura industriale”, la voce di Giudici spicca per la vigile coscienza delle subdole conseguenze che i miti del progresso inducono su coloro stessi che ne erano invocati destinatari, e la scelta di un certo impegno, anche se defilato, è confermata dalla sua collaborazione a “Quaderni piacentini”20

, insieme, tra gli altri, all‟amico e “motivatore” Fortini.

15 FERRETTI, Letteratura e industria, p.936

16 È Pignotti a parlare della tendenza di Vittorini di “macellare e rifare tutto”. Cfr la mia Conversazione con Lamberto

Pignotti, in Appendice

17

GIUDICI, La vita in versi, p. LXIX

18 BALDACCI, La poesia di Giudici, uno specchio per l‟uomo moderno, in “Epoca”, 20 giugno 1965, p.104. Giudici replica a questa affermazione nell‟intervista a Camon: “Io vorrei sentire il grande tema, però in questa situazione non lo sento: è un limite non mio, intellettuale, ma del tempo, un limite che la società ci impone. La poesia non ha più certi uffici che aveva una volta; così come non si fanno cattedrali, o affreschi.” In CAMON, Il mestiere di poeta, p.164 Per Luperini, “Il punto di partenza è una condizione di perplessità crepuscolare che si collega direttamente a Gozzano (ma in Giudici si nota pure l‟influenza dei liguri Montale e Caproni e quella di Saba) e va spiegata non solo in chiave psicologico-esistenziale bensì anche in chiave sociologica e ideologica. Cfr LUPERINI, Il Novecento, p.826

19

Si badi, però, come Giudici non si considererà mai un “intellettuale olivettiano”.

20Cfr Ossola, Giovanni Giudici:”L‟anima e il nome”, in GIUDICI, I versi della vita, pp.XVII-XIX. I “Quaderni piacentini” hanno costituito un caso, abbastanza raro in Italia, di una rivista politico-culturale di sinistra, non legata ai partiti, correnti o gruppi, che per circa vent‟anni è stata il luogo naturale d‟incontro e di dibattito della nuova sinistra, e che nel 1968-69 diviene strumento di elaborazione e diffusione delle idee del movimento studentesco.

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Del resto, che la riflessione giudiciana non si limiti ad un discorso intimistico ed autoreferenziale è dimostrato anche dalla raccolta di saggi La letteratura verso

Hiroshima, che s‟interrogano sul destino di “distruzione totale” della letteratura nella

civiltà neocapitalistica, viziata da quell‟”inquinamento da informazione” frutto della gestione industriale e burocratica della cultura e dall‟uso indiscriminato delle nuove tecniche di riproduzione, trasmissione, diffusione e manipolazione dei prodotti del lavoro intellettuale. Nel saggio eponimo, dopo una panoramica letteraria sul modo di vedere e trattare il mondo industriale dal naturalismo francese all‟avanguardia storica (sono citati Joyce, Proust e Kafka), Giudici considera il problema nella sua stretta attualità:

In anni recenti il rapporto tra letteratura e mondo tecnologico è stato affrontato più volte, più volte è stato eletto ad argomento di discussione o di esperimenti, ma a mio parere con approcci quasi sempre sbagliati e con risultati alquanto scarsi. Abbiamo letto romanzi e poesie sulle varie manifestazioni della vita nelle società industriali avanzate; ci siamo visti presentare come “poesia tecnologica” versi che si pretendevano a novità per il semplice fatto che i loro autori avevano, con ben modesta trovata, arricchito il loto vocabolario di parole il cui uso si riteneva prerogativa unicamente degli ingegneri […]21

L‟articolo di Giudici è del 1972: l‟esperienza letteraria-industriale si è conclusa da un po‟ con esiti non troppo soddisfacenti, che riguardano- non sfugga il riferimento, a mio parere inequivocabile- anche quella “poesia tecnologica” di Pignotti (e di Miccini) che, volente Bilenchi, era apparsa tra le fila poetiche del quarto numero del “Menabò”. Ovvero, nel trarre il bilancio- vano e negativo- del filone genericamente definito come letteratura industriale, il poeta getta discredito anche su di una raccolta che aveva condiviso con la sua Se sia opportuno trasferirsi in campagna la partecipazione al tema vittoriniano, con il rischio (o forse l‟intenzione) di sminuire a posteriori la sua stessa collaborazione.

Nonostante il titolo catastrofico, Giudici non crede che l‟arte sia morta e neppure che sia destinata a morire: piuttosto, dato il surplus di fonti di informazione e di informazione stessa nella civiltà neocapitalistica, si è ridotto il margine di specificità riservato alla letteratura (intesa ai suoi più alti e duraturi livelli) ed è

[…] diventato sempre più chiaro che il testo letterario deve affidarsi, se vuole sopravvivere, non tanto ai suoi contenuti quanto alla sua capacità di provocare e di recepire al contatto con ogni suo singolo destinatario contenuti sempre nuovi e magari imprevedibili. In questo la letteratura in versi è privilegiata

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rispetto alla letteratura in prosa, diciamo pure al romanzo, perché a essa sembra tecnicamente più congeniale questa caratteristica di struttura assoluta, di macchina pluridimensionale (suoni, ritmi, associazioni, ambiguità, sensazioni e sentimenti) destinata a provocare nel destinatario processi reattivi che molto difficilmente una autore può predeterminare.22

Per Giudici, allora, “la letteratura o più genericamente l‟informazione culturale non è più qualcosa di diverso e di estraneo all‟industria, è industria essa stessa”, nel senso che la sua produzione è una delle tante produzioni industriali, “sicchè in essa i criteri della cosa industriale tendono a prevalere anzi prevalgono oggettivamente sui criteri della cosa letteraria”.23 In conclusione:

Se anche la letteratura, com‟è probabile, sta andando con tutto il resto alla lenta deriva di una Hiroshima dell‟informazione, il problema è probabilmente di scoprire quale insetto-poesia è destinato a sopravvivere o a rivivere sulle sabbie post-atomiche di quel possibile salutare traguardo: tutto dipende forse dal tipo di uomo che vi poserà sopra lo sguardo o che tenderà l‟orecchio al suo ritmo. È dunque una scommessa di natura politica.24

Se quindi a livello saggistico esiste in Giudici un margine di impegno, in poesia è solo all‟interno della descrizione della condizione anonima e quotidiana dell‟uomo impiegatizio che trova spazio la riflessione sul mondo capitalistico. Il rapporto gerarchico che vede ogni tipo di impegno sociale subalterno ad un discorso sulla “vita” è riscontrabile nella raccolta in cui confluiscono nel 1965 i diciassette componimenti del “Menabò”, La vita in versi, appunto, titolo programmatico e implicita promessa di uno scrupoloso rispetto della realtà25. La vita trascritta da Giudici- scrive Antonielli, che in parte riassume proprio i temi di Se sia opportuno trasferirsi in campagna- “è quella dell‟italiano medio alle prese con la civiltà industriale, immerso nella cronaca che ha per centro Milano; la società del neocapitalismo; l‟etica del benessere; il nesso dialettico datore di lavoro-lavoratore, l‟epopea della casalinga, lo smog, il gioco del calcio, l‟evasione settimanale in Brianza.”26

Ovviamente Una vita in versi non è solo questo: tralasciati in buona parte gli echi ermetico-novecenteschi, il contesto lirico, la lingua colta delle primissime poesie in virtù di un discorso introspettivo, riflessivo, con forte spinta all‟oggettivazione, il

22 Ivi, pp. 36-37 23 Ivi, p.38 24 Ivi, p. 39 25

Si veda l‟inizio della poesia eponima: “Metti in versi la vita, trascrivi/ fedelmente, senza tacere/ particolare alcuno ”, in GIUDICI, I versi della vita, p.115

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motivo ispiratore della raccolta- che a sua volta contiene in maniera sparsa il ciclo pubblicato sul “Menabò”- diventa la continua lacerazione interna tra il legame con gli antichi valori (la religione cristiana)e la nuova tensione ideale (il marxismo), tra l‟aspirazione ad un destino tutto privato come salvezza dalla massificazione neocapitalistica e l‟esigenza di una coscienza collettiva che faccia la storia. La tensione tra poesia pubblica e una privata, tra autoconfessione e bisogno di comunicazione col mondo, tra sfogo lirico e oggettivazione del proprio dramma si risolve in uno stato di ambiguità e confusione che è più volte ribadito nella raccolta.

All‟interno di Una vita in versi, le poesie del “Menabò”, ispirate al motivo della civiltà industriale, rappresentano il momento più critico del conflitto interiore, quello che reagisce con le armi dell‟ironia e del sarcasmo ai valori convenzionali borghesi e sui nuovi miti del “benessere”. L‟uomo di Giudici- che, come vedremo- è talvolta anche l‟uomo Giudici27

- rispetta la realtà accettandola per quello che è, pensa alla casa che può acquistare col mutuo, si destreggia tra neopadroni e neoschiavi, addormenta qualche scrupolo teorizzando sulla bontà come falso valore, sulla virtù come esercizio noioso, e assapora quanto può la sua fettina di benessere.28

Scrive Ferretti: “Ne nasce ora una poesia epigrammatica nutrita e arricchita da una vena moraleggiante pensosa e sottile; ora un denso poemetto ideologico; ora una poesia narrativa e discorsiva, condotta in forme metriche di tradizione popolare (quartine di endecasillabi o settenari liberamente ritmati), con trascrizione del “parlato” quotidiano o dialettale-gergale, e quindi una poesia sempre più tesa a farsi comunicativa.”29

Giustissimo, e integrerei con il pensiero di Mengaldo30, per il quale “Giudici non è solo il fedele rappresentatore , ironico e autoironico, della società prima del miracolo economico (o neocapitalizzazione dell‟Italia) poi postmoderna; ne vuol essere anche il critico.” Egli non tanto fotografa da realista le superfici della società postbellica quanto ne radiografa costanti e miti dal profondo, nelle quali lui stesso si trova, suo malgrado, irreversibilmente immerso. Proprio per questo, secondo Crovi31, egli va accettato come testimone, ma non come giudice: se infatti per la maggior parte dei giovani della sua generazione, votatisi con entusiasmo alla vita di relazione, il modo

27 La sovrapposizione tra personaggio e poeta è frequentissima in Se sia opportuno trasferirsi in campagna. 28 Cfr ANTONIELLI, I “versi” e la “vita”, p.77

29

FERRETTI, La letteratura del rifiuto, p.244 30

Cfr MENGALDO, La tradizione del Novecento, p.357

31 Le contrastanti posizioni di Mengaldo e di Crovi sull‟atteggiamento di Giudici verso la società capitalistica vanno a mio parere considerate nel contesto storico in cui vengono espresse: a posteriori quelle del primo, su una rivista impegnata e nel pieno degli eventi in questione il secondo. Ecco forse perché considererei quella di Mengaldo una critica più lucida e esaustiva, mentre mi pare che da quella di Crovi emerga un certo fastidio per il pudico impegno di Giudici.

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più attivo di fare storia è stato quello d‟esserne, anche nell‟equivoco, protagonisti; Giudici sembra, invece, dire che il fare storia sta in una sorta di pudore che può essere rifiuto del conformismo, paura del benessere e dei pregiudizi classisti, rivendicazione – per l‟uomo – della libertà dall‟automatismo prammatico della civiltà dei “consorzi delle fabbriche”, ma anche riaffermazione di un “in interiore hominis habitat veritas” che può, ancora una volta, portare a negare la storia.”32

Il grigiore piccolo-borghese che informa la poesia di Giudici –e che da Se sia

opportuno trasferirsi in campagna passa a La vita in versi- e il tono dimesso e

quotidiano hanno fatto parlare di “condizione crepuscolare” del personaggio impiegatizio. In realtà, il poeta parte sì dalla consapevolezza dell‟inevitabilità di una condizione mediocre, cui si adegua nei gesti e nella parole, assumendo un atteggiamento sostanzialmente remissivo, ma cerca poi il riscatto facendo di se stesso un personaggio vivo entro una commedia (amara), che è l‟unica dimensione autentica concessagli.33 La ricchezza di dati palesemente autobiografici diventa quindi tessera e strumento non di una diretta raffigurazione lirica, ma di uno sdoppiamento e di una fuga in figure e funzioni rappresentative. Tra i vari risultati di questa “escussione dell‟io”34, la tendenza dell‟io poetante di Giudici a trasformarsi in personaggio-tipo,

che, con specifici tratti linguistici e sociali, raffigura emblematicamente l‟uomo impiegatizio si alterna a quella di un io sostanzialmente autoriale che narra brani d‟autobiografia (si pensi soprattutto ad Anch‟io, incentrata sulla controversa figura del padre o ai passi sulla morte). E tuttavia questi due piani finiscono spesso per coincidere, in quanto il poeta Giudici è anche “lo scriba dell‟industria” fortiniano, cittadino della Milano “cuore del miracolo economico”: egli condivide quindi con il suo personaggio impiegatizio le stesse frustrazioni, le stesse velleità, la stessa impotenza.

Mengaldo definisce Giudici un “postermetico, anzi anermetico, dunque anche estraneo al tardo simbolismo”: mentre “l‟aristocrazia linguistica degli ermetici significa anche collocarsi dentro la tradizione poetica italiana (Dante, Petrarca, Tasso, Leopardi…), succhiarne i fiori e riciclarla –e al loro meglio (Montale, Luzi..) i “moderni” tentano la sintesi della storia nazionale e del moderno”, il nostro poeta è “solo moderno”. Il suo rapporto con la tradizione italiana non è di continuatore all‟interno, ma di libero, quasi cinico utente, verrebbe da dire spettatore; egli non

32

CROVI, Nota su Giovanni Giudici, in “Menabò”, 4, p.212 33 Cfr CUCCHI, Giovanni Giudici, p.544

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assorbe per trasformarle le citazioni dei classici, che vengono invece consumati e collocati su un‟altra sponda35

. È il caso- all‟interno del ciclo Se sia opportuno trasferirsi

in campagna- delle riprese di Dante (riciclato antifrasticamente, secondo la mia ipotesi,

in Tanto giovane) e di Petrarca (con il tramite di Michelangelo in Anch‟io), ma anche, più velate, di Luzi e di Montale. Ma l‟autore coevo a cui Giudici è maggiormente debitore in questa raccolta è a mio parere Vittorio Sereni, i cui meriti non si fermano alla ripresa dell‟urbano decoro, modificato nel civico decoro impiegatizio. Il poeta ligure mutua da Una visita in fabbrica dell‟amico quell‟atmosfera di oppressione e chiusura che stringe in una morsa (è ripreso lo stesso vocabolo) gli operai di Un‟altra

voce, ma soprattutto- con una filiazione ancora più evidente- la citazione leopardiana E di me si spendea la miglior parte (“A Silvia”), che Sereni riproduce fedelmente e

Giudici con variatio (Qui di me si perdeva la miglior parte, “Se sia opportuno trasferirsi in campagna”). Una coincidenza che, secondo chi scrive, non può essere considerata semplicisticamente tale, ma che probabilmente risente della reciproca frequentazione dei due poeti a Milano, dove entrambi si trovano impiegati nell‟industria.

Il linguaggio poetico di Giudici36, archiviato quindi l‟ermetismo novecentesco, è piuttosto la risultante di un processo compositivo che tende, da un lato, ad avvicinare la lingua scritta a quella parlata, abolendo la loro reciproca estraneità, e, dall‟altro, ad amalgamare tessere e materiali linguistici di varia natura e provenienza37. Il presupposto è, come in Pignotti, la consapevolezza di un anacronismo di fondo della lingua poetica tradizionale:

[…] siamo portati infatti ad osservare come la lingua letteraria in cui uno scrittore di versi si trova a dover operare (egli non può rifiutarla a priori) gli si presenti in qualche modo arretrata rispetto alla realtà che è suo oggetto. In ragione diretta della novità del proprio progetto, egli la sente come impoverita di copertura aurea, menomata nella sua rispondenza a una realtà che esige nuove significazioni.

Di ciò lo scrittore prende coscienza nell‟attuarsi medesimo del suo progetto, quando, per così dire, si fa egli stesso rivendicatore della realtà, attraverso un‟invenzione linguistica per molti aspetti simile al bricolage, arricchendo e integrando la convenzione linguistico-letteraria prevalente di elementi e usi lessicali e sintattici attinti a zone diverse e assumendoli a livello della letterarietà.38

35 Per il rapporto di Giudici con la tradizione cfr MENGALDO, Per un saggio sulla poesia di Giudici in La tradizione

del Novecento, pp.354-355

36

Per il linguaggio poetico di Giudici cfr ancora TESTA, op. cit., pp. 111-133 37 Ivi, p.111

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Per colmare il divario tra lingua scritta e lingua parlata, Giudici ricorre a termini e costrutti del registro orale dell‟italiano: dall‟ampio repertorio delle forme disfemiche (si pensi a “puttana” di Tanto giovane) ai lessemi e i moduli di stampo colloquiale (in primo luogo cosa-e e roba-e), fino ad esiti caratteristici del cosiddetto italiano dei semicolti (caso esemplare è il “ciài la nomina” di Tanto giovane). Questi reperti lessicali dell‟oralità- che danno vita ad un sermo humilis- non sono utilizzati in virtù di un “preziosismo alla rovescia”, fine a se stesso, ma di una loro assunzione di oggetti come testimoni e mezzi della vita impiegatizia.

L‟ironia è un altro elemento latente ma sempre presente nella poesia di Giudici, che trova la sua giustificazione teorica in un saggio dello stesso autore, La gestione

ironica (contenuto in La letteratura verso Hiroshima), incentrato sulla necessità di

rinnovare un linguaggio poetico ormai logoro e inadeguato ad “una realtà che esige nuove significazioni”.39

. Il poeta-bricoleur, che integra il codice convenzionale con elementi e usi lessicali e sintattici appartenenti ad aree non letterarie, può però decidere di esercitare l‟atto innovatore in una diversa direzione rispetto alla “rivoluzione linguistica”, attraverso lo strumento dell‟ironia, ovvero può

[…] innovare cioè non la forma istituzionale, ma il suo proprio atteggiamento nei riguardi della medesima, attribuendogli un ossequio, un riconoscimento, tanto chiaramente formale da apparir menzognero, ossia ironico, equivalente insomma a una sospensione o negazione di riconoscimento. […]

Un atteggiamento siffatto si vuole intendere per gestione ironica della forma istituzionale […] Quando la rivoluzione non è possibile e l‟intervento riformatore si prospetta inefficace, la gestione ironica è un tipo di approccio che non compromette la volontà organizzante, differenziante, del soggetto, non la isola nella realtà del suo tema.40

Anche la metrica utilizzata da Giudici può essere definita “media”, come dimostra l‟uso continuo della quartina, che produce un andamento quasi narrativo (è infatti il metro tipico della poesia non lirica romanza e di quella didattica dell‟Italia settentrionale, usata ad esempio da Giacomino da Verona e Bonvesin da la Riva)41, e l‟adozione sistematica di enjambement non lirici ma tranquilli e prosastici. Si tratta di strutture reinterpretate del tutto liberamente, soprattutto per quanto riguarda lo schema delle rime e la loro corrispondenza; tuttavia queste licenze poetiche, che non mancano nemmeno rispetto alla misura endecasillaba del verso e che a volte sbilanciano

39

Cfr GIUDICI, La gestione ironica, in La letteratura verso Hiroshima, p. 212 40 Ivi, pp. 213-214

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paurosamente il rapporto metro/sintassi, danno più un‟impressione di trascuranza che di trasgressione intenzionale, complice il tessuto linguistico e stilistico generale e il tono parlato.42

Ne viene fuori, in conclusione, una poesia talvolta epigrammatica, più che lirica, con un alto tasso di tautologia, espansione, ridondanza, dispersione, caratteristiche che la distinguono dalla poesia lirica ma non ne fanno neanche una poesia dell‟espressione (che non emerge mai in modo fulmineo, ma solo dopo un discorso). Queste tendenze si formalizzano attraverso anafore, versi similari, ripetizioni distanziate, che Mengaldo considera “il sistema principe che consente il passaggio dalla lirica al racconto senza troppa entropia”. Tali ripetizioni, per così dire, verticali e intratestuali, non sono poi che l‟altro aspetto di una costante vistosissima in Giudici, l‟iterazione orizzontale e sequenziale, cioè il ripetersi variato di moduli e temi da una poesia all‟altra.

Queste peculiarità dimostrano, se mai ce ne fosse ancora il bisogno, come Giudici non sia un lirico, ma indicano anche il suo vero punto di forza: l‟aver saputo sapientemente trasformare l‟insopportabile monotonia e iteratività del sociale e del reale nell‟iteratività un po‟ necessaria, un po‟ abilmente inventata delle forme poetiche a esso addette.”43

42 Cfr ESPOSITO, Metrica e poesia del Novecento, p.125 43 Cfr MENGALDO, op. cit, pp. 364-365

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Un’altra voce

Tra questi scatti la mia vita è chiusa: le porte del mattino, l‟orologio marcatempo ai cancelli.

Così batte

il cuore ansioso ai suoi traguardi attonite 5 pause nella cadenza dei miei passi;

ogni peccato diventa tentazione ogni peccato si fa tentazione

nuova, promessa già violata; è il torbido aquilone dei nostri sensi il vento

che ci guida alla morte. (E non avremo

10 dunque una sosta, un limite, un silenzio provvisorio sospeso tra gli opposti poli della scintilla?)

Vorrei prendere

fiato e non posso scegliere, consistere in una proda senza vento, dire:

15 eccomi, qui mi trovo.

Ma ad ogni passo Si consuma

<la mia veste carnale: ad ogni passo>

s‟accende un fuoco ed è già spento – un altro fuoco vibra nell‟aria.

Oggi diventa ieri, un tarlo, un trapano, L‟oggi mi si fa ieri etc. etc.

un martello m‟incalzano: la fronte

20 d‟ogni uomo si piega in me, la palpebra degli uomini soggiace; la mia palpebra

cede a sempre più brevi intermittenze.

Cerco un respiro, un valico: le brevi licenze militari, i desideri

prossimi al compimento. prossimi al compimento…Qui vorrei

Qui vorrei

(13)

serenità dei giorni memorabili, disconosciuti prima che trascorsi.

(E fosse stato amore la mia sola

verità di rimorsi?) verità conosciuta, il segno esile

dei lenti sopraccigli che sfioravano appena le sue tempie?

30 Un‟altra voce

oggi mi parla che non so, mi dice:

lo sai perché resistere. E resisto

a un assedio di giorni e di rotaie,

d‟empi orologi, di tranvai, di strade tramvai

35 affollate al mattino, se con voi io m‟affretto ai cancelli (e mi ripete:

lo sai perché resistere), se ancora

l‟eco perdura in me della mia casa, della porta sbattuta sulla quiete 40 del respiro domestico.

La morsa

s‟allenta e si richiude; si ripetono

gli scatti, brillano i fuochi, ritornano gli scatti, i fuochi brillano, ritornano

le oscure vigilie in cui m‟inseguo. oscure le vigilie E‟ la mia vita,

forse come la tua, fatta d‟attesa.

Questa poesia rappresenta un‟eccezione44 rispetto agli altri componimenti di Se

sia opportuno trasferirsi in campagna: da una parte esula da una parte dalla tradizionale

struttura in quartine, dall‟altra dalla confluenza in Una vita in versi del 1965, poiché fa parte de La stazione di Pisa (uscita del 1955). Questa silloge urbinate45 -nota Della Rossa- da una parte si distingue dalle prove esordienti per “l‟evidente maturazione stilistico-formale, la quale riesce spesso a sostenere la poesia su toni elevati”, dall‟altro, attraverso l‟immagine della stazione, luogo topico della rappresentazione urbana nella

44

Insieme a Dance, meat & vegetables e a Montesacro, che però apparirà ne La vita in versi con il nuovo titolo di

Tornando a Roma.

(14)

letteratura otto novecentesca46, introduce il riferimento a tutte le aporie e le angosce che caratterizzano l‟esistenza dell‟uomo nella città, che verranno in seguito sviluppate ed approfondite.47

Un‟altra voce , posta in apertura alla raccolta, è considerata il componimento più

rilevante -e non a caso verrà recuperata dall‟autore, ancora in posizione incipitaria e con alcune modifiche non sostanziali, per il ciclo pubblicato su “Il Menabò”- in virtù dell‟adozione dei temi della meccanica iteratività della vita quotidiana e dell‟alienazione del lavoro standardizzato come motivi ispiratori della poesia. Per Della Rossa si tratta della “prima occasione in cui sia possibile rinvenire nella poesia giudiciana una dinamica che sarà peculiare della sua maturità poetica, ovvero la contrapposizione di una voce, intesa quale persona poetica autonoma, al personaggio-io, il quale subisce l‟evolversi dei fatti e non vive, ma viene vissuto dalla storia.48

Si esplicita, infatti, il dialogo dialettico tra il personaggio protagonista del testo, precursore dell‟uomo impiegatizio dei componimenti successivi, e il poeta, identificabile con l‟altra voce, quella che sprona a resistere.

Già dai versi iniziali emerge infatti un senso di angoscia e di oppressione quasi claustrofobica -sensazione comune anche a Una visita in fabbrica di Sereni- veicolato da termini come vita chiusa, porte, cuore ansioso, attonite pause (vv. 1-6), e da calchi dal linguaggio e dal paesaggio “industriale”, come scatti, orologio marcatempo49

, cancelli, e ancora pause ( si noti il costante riferimento alla dimensione del tempo, che

si configura di nuovo come “stretto”). Subito rinveniamo una tendenza tipica in Giudici, quella dell‟uso sistematico dell‟enjambement ( si veda, a titolo esemplificativo, i vv. 2-3, 4-5, 7-8 etc. etc.) a spezzare in due soprattutto i nessi sostantivo-aggettivo, mimando, a livello stilistico, la mancanza di unità e la frantumazione della realtà.

Significativamente autobiografico è poi l‟affiorare di spunti del registro religioso in un contesto che non lo esigerebbe: il peccato, la tentazione (entrambi al v.6), e infine la morte (v.9), anche se in questo caso sociale, idea ossessiva nella poesia giudiciana , intesa, alla luce dell‟ispirazione cristiana dell‟autore, “come momento critico ma necessario dell‟esistenza, come ineludibile misura di confronto”.50

46 Le attestazioni precedenti che possono aver influenzato Giudici nell‟assunzione e nel trattamento del tema urbano sono essenzialmente i Fleurs du mal di Baudelaire (in particolare i Tableaux parisiens) e, per quanto riguarda il topos della stazione, il Carducci di Alla stazione in una mattina d‟autunno. Cfr DELLA ROSSA, Esordio e primo tempo di

Giovanni Giudici, pp. 105-106

47 Ivi pp. 104-105 48

Ivi p.109

49 L‟orologio marcatempo segnava l‟ora di entrata e uscita dal lavoro sui cartellini dei lavoratori 50 Ivi, p. 105

(15)

I versi tra parentesi (vv. 9-12) fanno da controcanto alla voce principale, anelando un blocco della meccanicità (una sosta, un limite, un silenzio provvisorio, v.10) inteso come tentativo si riappropriazione dell‟autentico sé, sospeso tra gli opposti

poli della scintilla, ovvero equilibrato tra i ritmi innaturali ed alienanti imposti nella

fabbrica e il torbido aquilone dei nostri sensi (v.8). Il procedere ininterrotto del moto industriale comporta una perdita di identità da parte del soggetto, che, slegato da luoghi e persone, non ha tempo per trovare il suo ubi consistam, per dire: eccomi, qui mi trovo. Ai vv. 15-16 l‟immagine del fuoco (elemento catartico e prosecuzione della

scintilla dei versi precedenti) che si accende e subito si spenge, rende l‟idea del valore

effimero di un moto di ribellione nel personaggio, impedito anche dai ritmi incalzanti; nella versione tradita dal testo del 1955 (in La stazione di Pisa) essa è affiancata dall‟espressione Si consuma la mia veste carnale, che rimanda alla concezione spirituale del corpo come involucro temporaneo per un‟anima eterna. Effimera è la resistenza della fiamma, perché non c‟è tempo per pensare, per accendere fuochi di ribellione se l‟oggi è come ieri (si ricordino senza nostalgia i versi ossessivamente ripetitivi dedicati da Pignotti a questa ciclicità) , se il lavoratore diventa schiavo del suo strumento (un

trapano,/ un martello m‟incalzano, vv. 18-19: ancora termini antipoetici), se

l‟acquiescenza sommerge tutto (la fronte/ d‟ogni uomo si piega,v. 20, che sostituisce il più colto la fronte/ degli uomini soggiace dell‟edizione del 1955), se la stanchezza figlia della fatica fa cedere la palpebra a sempre più brevi intermittenze.

Unico sollievo al procedere negativo e abusato del tempo è costituto dal ritagliare spazi di intimità per se stessi, un respiro, un valico all‟interno della forza coercitiva del lavoro per pensare, solamente pensare, a dei momenti di sosta (Qui vorrei

fermarmi, v.24), come le licenze militari, i desideri prossimi al compimento, i giorni memorabili (vv. 23-26), anche se disconosciuti prima che trascorsi, per far ritrovare al

cuore almeno una sommessa serenità.

Ai vv. 28-29 il distico tra parentesi ripropone la voce interna e di controcanto del personaggio, che non è ancora l‟altra voce e che vanamente cerca rimedi e soluzioni confinati nella sfera privata e nell‟astrazione mentale: dopo le licenze, i desideri e i ricordi, l‟amore, in cui pure Sereni tentava- senza successo- di vedere il motivo di riscatto e di liberazione dal processo alienante. E fosse stato amore la mia sola verità di

rimorsi? sostituisce la versione più lunga e meno pregnante dell‟edizione precedente (E fosse stato amore la mia sola/ verità consociuta, il segno esile/ dei lenti sopraccigli che sfioravano/ appena le sue tempie?). La domanda, già formulata come estremamente

(16)

ipotetica, cade nel vuoto: come anche in Una visita in fabbrica un sentimento privato, che appunto nel privato agisce, non può costituire il riscatto né un‟attiva consolazione per una frustrazione che è prettamente collettiva, sociale, anche politica.

È infine l‟altra voce, quella esterna al personaggio e che Della Rossa identifica con quella del poeta, a parlare e a predicare non il rifugio nelle pause di lavoro, il viaggio mentale in realtà migliori, ma un atto concreto e difficile, la resistenza, tema presente (con lo stesso lessico) anche nel testo finale de La stazione di Pisa (resistete,/

con le mascelle serrate, all‟assedio, “Così vivo in Italia”).

Il personaggio coglie l‟invito, si fa più forte (E resisto/ a un assedio di giorni e

di rotaie,/ d‟empi orologi, di tranvai, di strade/ affollate al mattino, vv. 32-35) e

agguerrito contro il doppio nemico del tempo e dello strumento di lavoro. Ma è un incitazione che viene accolta solo se la resistenza si lega all‟iniziativa collettiva, alla reazione di tutti (se con voi/ io m‟affretto ai cancelli), se l‟eco motivante riesce a perdurare anche negli spazi di quiete domestica, agendo non solo come lenitivo momentaneo, ma come atto eseguito con coscienza.

Dopo questo effimero momento di orgoglio, nel finale la ciclicità del lavoro torna a sommergere tutto, la morsa (altra corrispondenza con Una visita in fabbrica:

“Accerchiati da gran tempo/e ancora per anni e poi anni ben sapendo che non/ più

duramente (non occorre) si stringerà la morsa”) s‟allenta e si richiude, in una ripetitività esaltata dalla ripresa degli stessi termini iniziali (gli scatti, i fuochi). Mentre così si chiude la versione de “Il Menabò”, la prima redazione (quella su La stazione di Pisa) è suggellata da un‟affermazione di amara consapevolezza (E‟ la mia vita,/ forse come la

tua, fatta d‟attesa), dove, ambiguamente, l‟”attesa” può essere sia in una giustizia

sociale – e quindi nella rivoluzione- che in una giustizia ultraterrena: l‟interpretazione rimane ambigua e irrisolta, secondo il conflitto interiore che percorre la poesia di Giudici e che, ancora una volta, si dimostra insolubile.

(17)

Sperimentale

Intuisce determina inventa – inascoltato Keplero sperimenta: supponi punto retta sfera – orbita che l‟includa e sorpassi,

5 seguila fino in fondo e troverai

la cometa in viaggio a un “Pax in terra”. Dai buchi delle tane l‟occhieggiano i tassi; e la volpe abbagliata – sembra un cane; e la chioccia – abbandona spaventata 10 la covata scaldata a metà.

“Di qua la giusta via per la cometa?” Supponi un altro punto un‟altra meta retta sfera – un‟altra orbita che tutto includa intersechi sorpassi, 15 chiedi in prestito il numero che manca

alla certezza – al crocevia, un cartello. Evita il non supposto pipistrello, il viscido in agguato:

“Dimmi – e se

20 fosse tutto sbagliato?”

Di tutt‟altro argomento è Sperimentale, del 1957, che apre la raccolta Una vita in

versi e rappresenta, con allusiva coerenza di stile, l‟iter della ragione impegnata alla

conquista della verità.51 La poesia si apre con un catalogo di procedimenti razionali (Intuisce determina inventa; sperimenta) ed un protagonista, Keplero, che nell‟immersione nei dati oggettivi perde la sua unicità e viene perciò scritto in minuscola. È proprio attraverso la figura dello scienziato e astronomo seicentesco,

(18)

scopritore, nel 1604, di una supernova52 ancora oggi nota come “stella di Keplero”, che si realizza il collegamento con la cometa in viaggio del v.6. La terminologia fisico-matematica (punto retta sfera – orbita, v.3), giustapposta come una serie di dati scientifici senza interpunzione, potrebbe allora mirare a documentare, nella regolarità del viaggio di una simbolica cometa, la razionalità della struttura del mondo. Ma la fede esclusiva nell‟oggettività del fenomeno scientifico è subito contestata attraverso la citazione, a mio parere non intonata, di Pax in terra, tratta dal canto degli angeli nell‟episodio dell‟annuncio ai pastori della nascita di Gesù Cristo (Lc, 2, 13-14).

13 E subito apparve con l‟angelo una moltitudine dell‟esercito celeste che lodava Dio e diceva: 14 “Gloria a Dio nell‟alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”53

Chi scrive, sebbene incompetente in materia evangelica, postulerebbe un errore di citazione da parte di Giudici, che forse aveva in mente il percorso dei tre re magi , quello sì, guidato da una cometa, piuttosto che l‟annuncio della nascita di Cristo ai pastori della zona, passo in cui il tema stellare è completamente assente.

In ogni caso la cometa è un fenomeno mirabile e straordinario che suscita le reazioni stupefatte della natura: dal catalogo matematico si passa a quello degli animali (tassi, volpe, cane, chioccia, vv.7-10), che per la non comune visione adottano comportamenti estranei e talora contrari al loro solito.

L‟insufficienza della ragione scientifica nell‟individuare il corpo celeste è evidente nella domanda, in posizione isolata e dunque enfatica, “Di qua la giusta via

per la cometa?” del v.11, che indica l‟incertezza dei risultati matematici. Segue allora

un ulteriore tentativo, che riprende gli stessi sostantivi (un altro punto un‟altra meta;

un‟ altra orbita54

, vv. 12-13) ed esattamente gli stessi verbi, ma aggiunge di chiedere in

prestito il numero che manca alla certezza, come a ribadire l‟incompletezza di una

ragione scientifica che pretende di scoprire tutto con i suoi strumenti. Esclusa la dimensione dell‟irrazionale, espressa attraverso immagini dal contenuto etico negativo (il non supposto pipistrello,/il viscido in agguato, vv. 17-18), possiamo allora immaginare quale sia, per Giudici, quel cartello al crocevia capace di orientare una ricerca non autosufficiente: sarà la bussola della fede a colmare le aporie e i deficit conoscitivi dell‟uomo o, meglio, a convincerlo della sua impossibilità di porvi rimedio.

52 Con “supernova” si intende un‟esplosione stellare estremamente energetica, corrispondente allo stadio finale dell‟evoluzione delle stelle dette “massicce”.

53 Cfr Vangelo di Luca, 2, 13-14

(19)

Non a caso, l‟interrogativa finale “Dimmi- e se fosse tutto sbagliato? suggella la velleità di un percorso scientifico condotto con ogni scrupolo di metodo ma senza l‟orientamento, a quanto pare fondamentale per il poeta, della fede.

(20)

Lasciando un luogo di residenza

Fumo, non nebbia padana, ma fumo di fabbriche si sfiocca

clandestino nel maltempo e marcisce le cellule del sangue appena uno

5 che credeva di respirare aria ne imbocca una spira – fumo che annerisce

negli armadi gli argenti e i lini umidi per troppo poco sole. Fumo e pioggia

veri, grevi, non detti da parole 10 soltanto, ci accompagnano in attesa

di andarcene di qui dove ha perduto

significato per noi dire <<sempre>>, per noi significato dire <<sempre>>

da quando non possiamo dare un nome al luogo del domani prevedibile. 15 Né odio né amore ci lega a questa casa

che speravamo provvisoria (ma

non per un tempo così breve), a questa casa che abbiamo per primi abitata e non ha odori che non siano i nostri 20 di animali docili ed innocui.

Abbiamo in questa ultima domenica sentito la messa vespertina

nella chiesa di legno, domandato se era stato completo il nostro obolo

25 per la chiesa che è da costruire di calce e pietre – quella che vedrà

(21)

gente diversa nascere e morire. Sono già lontani i nostri figli, soltanto tua è la voce che mi parla: 30 mio padre se n‟è andato ed è un‟età

la sua che ben si può dire che sia stata l‟ultima volta che ha visto la città.

Ho deciso in tre giorni di lasciarla.

Anche Lasciando un posto di residenza, scritta nel 1957, confluirà da “Il Menabò” a La vita in versi, “terza lirica del volume”, ma per Luigi Baldacci “la prima che si apra a quel senso della chiarezza comunicante, a quella medietà di discorso dialogico che segna il punto d‟arrivo e di conquista del cammino ideale di Giudici.”55

Al cosiddetto clichè urbano-industriale, si affianca qui il tema abitativo (in parte autobiografico dato il periodo si spostamenti lavorativi per il poeta56), ricorrente nella raccolta nella sua forma reale (Una casa a Milano) e ipotetica (Se sia opportuno

trasferirsi in campagna).

Le prime due quartine sono pervase dall‟immagine grigia e malsana del fumo, termine ripetuto ben quattro volte in soli otto versi, in linea con la tradizione letteraria ottocentesca (si pensi, ad esempio, alla descrizione iniziale di Coketown, la città inventata da Dickens per ambientarvi il suo Tempi difficili57). La descrizione del

paesaggio industriale accoglie tutti gli stereotipi letterari del genere (che in ogni caso corrispondono a realtà, se pensiamo alla trasformazione selvaggia dell‟area piemontese alla fine degli anni Cinquanta): l‟inquinamento fa pendant con un‟idea di vita malsana (marcisce/ le cellule del sangue appena uno/ che credeva di respirare aria ne imbocca/

una spira, vv. 3-6) e di grigiore meteorologico (Fumo e pioggia; troppo poco sole), ed

entra fin nell‟interno dell‟abitazione borghese ad annerire negli armadi gli argenti e i

lini umidi (v.7) della padrona di casa.

55 Cfr BALDACCI, La poesia di Giudici: uno specchio per l‟uomo moderno, p.107 56 Nel 1957, l‟anno di questa poesia, Giudici si trasferisce per lavoro da Ivrea a Torino. 57

“Era una città di mattoni rossi, se fumo e cenere lo avessero consentito. Così come stavano le cose, era una città di un rosso e di un nero innaturale come la faccia dipinta di un selvaggio; una città piena di macchinari e di alte ciminiere dalle quali uscivano, snodandosi ininterrottamente, senza mai svoltolarsi del tutto, interminabili serpenti di fumo. C‟era un canale nero e c‟era un fiume violaceo per le tinture maleodoranti che vi si riversavano; c‟erano vasti agglomerati di edifici pieni di finestre che tintinnavano e tremavano tutto il giorno; a Coketown gli stantuffi delle macchine a vapore si alzavano e si abbassavano con moto regolare e incessante come la testa di un elefante in preda a una follia.” DICKENS,

(22)

Dalla terza quartina in poi il tema abitativo si fa prevalente, nella versione di un‟instabilità domiciliare che è solo una delle molteplici facce dell‟instabilità esistenziale di cui è vittima l‟uomo nella società industriale. Certo, il personaggio impiegatizio di Giudici non vive il dramma –vero dramma di migliaia di immigrati meridionali- di lasciare l‟accogliente rustico del paesello per trasferirsi in una corea urbana, ma è gravato dall‟impossibilità di dire “sempre”, di dare un nome al luogo del

domani prevedibile e quindi di radicare i suoi sentimenti (né odio né amore ci lega a questa casa, v.15) in una casa per lui precaria e temporanea. Fuor di metafora, il

problema dell‟impiegato giudiciano è quello di non riuscire, sia per questioni di tempo, sia per la superficialità e l‟individualismo che pervadono la società consumistica italiana, a mettere radici, a trovare un ubi consistam, a sentire nella sua casa odori che

non siano i nostri di animali docili ed innocui (vv.19-20).

L‟elemento religioso emerge nella sesta e nella settima quartina attraverso gli elementi della messa vespertina, della chiesa di legno (identificata con quella di Canton Vesco, presso Ivrea) e dell‟obolo, tipico del bravo cattolico borghese, per la costruzione di un‟altra chiesa, più solida e al passo coi tempi, di calce e pietre (v.26). Si tratta di un riferimento a mio parere strumentale per attuare il passaggio al tema conclusivo, quello della morte, ossessivamente ricorrente nell‟opera di Giudici58

, in particolare della morte del padre: la fine della vita, letta cristianamente come momento “positivo”, corrisponde per il genitore ad un altrettanto liberatorio abbandono (definitivo) della città, vero e proprio inferno terreno.

L‟espressione ed è un‟età la sua che ben può dire […] dei vv. 30-31 è inquadrata da Antonelli nella sua filiazione da Aprile-amore di Mario Luzi (Ma è

ancora un‟età, la mia, / che 59

), che dimostra come Giudici si sia “giovato” del poeta toscano e “di alcune sue variazioni e licenze metriche sul tema dell‟endecasillabo, per condividerne la direzione di allontanamento da Montale e di amplificazione della originaria vocazione lirica.”60

Il componimento si conclude con un aprosdoketon finale che sancisce la decisione inattesa, dopo il lamento per il trasferimento coatto durato per tutto lo svolgimento della poesia e forse giustificabile con la suggestione della morte del padre, di lasciare la città in tre giorni (v.33).

58

Per il tema della morte cfr l‟intervista di Giudici in CAMON, Il mestiere di poeta, pp. 162-163 59 LUZI, Aprile-amore in Le primizie del deserto, in L‟opera poetica, p.203

(23)

Anch’io

Anch‟io finirò come mio padre. Mi dirà

il figlio troppo premuroso: “Leggi questo libro, scegli un interesse”.

5 Ripeterò le stesse

cose: passando a Chiavari, un verso – la ninfale

Entella; un‟avventura

Di guerra, ma non vera 10 che a metà, di una sera

che ero di pattuglia

e una macchina all‟alt non si fermò: “Miro alle gomme,

premo il grilletto:

15 ora devi sapere che il moschetto novantuno spostava in alto…” Anch‟io finirò come

Mio padre: “Non andrà dirò- sempre così come all‟età 20 delle caverne”.

Anch‟io con quattro amici scassati, generoso

fuori tempo, carogna

però al momento giusto per averne

(24)

In una silloge di poesie che si pretenderebbe fossero anche lontanamente affini al tema impostato nella rivista ospitante, Anch‟io costituisce un‟eccezione –anche metrica, trattandosi di settenari imperfetti piuttosto che di endecasillabi61-, a meno che non si consideri il periodo e il luogo in cui è stata scritta. Nel 1958 Giudici lavora presso la Olivetti a Torino62, che egli descrive come “una città dove sono stato molto bene e ho imparato […] soprattutto questo: che l‟idea di letteratura alla quale mi ero abituato fin allora era superficiale, scolastica, insufficiente, velleitaria”.63

A Torino io ho scritto la prima poesia che riconosco come totalmente “mia”, e che ha dato inizio a una delle linee portanti del mio lavoro; s‟intitolava “Anch‟io”. In questa poesia partivo dalla constatazione dell‟impotenza a scrivere poesia, da un senso di pochezza individuale. Il letterato industriale era abituato a sentirsi investito di una qualche missione, a considerarsi un unto del Signore. Io invece lì mi sentivo un poveretto, che il sabato e la domenica cercava di mettere insieme quattro strofe, e non sempre ci riusciva.64

La poesia, in cui la voce protagonista è scopertamente quella del poeta anziché quella del suo prestanome impiegatizio, è incentrata sulla figura del padre, già presente in Lasciando un luogo di residenza (anche se lì l‟attenzione è focalizzata piuttosto sulla sua morte) e comune anche ad altre raccolte successive. Lo spunto per Anch‟io- come racconta Giudici 65- nasce da un atteggiamento di disprezzo verso il genitore (risposatosi, dopo essere rimasto vedovo, con un‟altra donna da cui ha avuto cinque figli), che il poeta, “in uno stato di grande disarmo anche ideologico” accusa di aver fallito nella vita. Da qui il timore di diventare come lui, così privo di interessi da dover essere stimolato da altri (“Leggi/questo libro, scegli un interesse, vv. 3-4), ripetitivo, millantatore (un‟avventura/ di guerra, ma non vera/ che a metà, vv. 8-10).

Il riferimento alla ninfale Entella66 –autocommenta Giudici67- è giustificato dal fatto che tutta la cultura di suo padre era costituita da “citazioni da libretti d‟opera, alcune anche rare, […] e poi qualche sporadico verso del Carducci o di Giuseppe Giacosa68 o anche (ai fastigi del fervore lirico) di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi.”69,

61

Per la libertà metrica di Giudici rimando a ESPOSITO, Metrica e poesia nel Novecento, p.125

62 Si veda la continuità autobiografica con Lasciando un posto di residenza, che mette in scena il trasferimento proprio da Ivrea a Torino nel 1957

63

CAMON, Il mestiere di poeta, p.155 64

Ivi, p.155

65 L‟intervista a Giudici di R. Minore, in Dopo Montale, è citata in GIUDICI, I versi della vita, p.1376

66 L‟Entella è un torrente ligure, già presente in Dante (“Intra Siestri e Chiaveri s‟adima una fiumana bella”, Purgatorio,

canto XIX)

67 Cfr l‟apparato critico di Anch‟io in GIUDICI, I versi della vita, p.1376

(25)

ma è soprattutto una ripresa- e in quanto tale è indicata in corsivo- da Montale (“finchè lenta/ appaia la ninfale/ Entella che sommessa rifluisce dai cieli dell‟infanzia/ oltre il futuro, Le occasioni, Accelerato, vv. 12-16)70

Le quartine centrali riproducono uno dei tanti racconti del padre, mimandone il registro quotidiano, in parte disfemico e specialistico (ora devi sapere che

il moschetto/novantuno spostava in alto, vv. 15-16; scassati , v.22; carogna, v.23), e la

sintassi appartenente all‟orbita del parlato, a dimostrazione dell‟innovazione linguistica del poeta, che non si limita a citare l‟usualità, ma la assume integralmente in proprio.71

Il titolo della poesia è anche il suo refrain, con l‟anafora enfatica ad inizio verso ed inizio quartina che si ripete ai vv. 1, 17, 21, che è espressione letteraria di un‟ossessione psicologica, quella di assomigliare al padre, nelle azioni e nella recita delle solite frasi banali (Non andrà/- dirò- sempre così come all‟età/ delle caverne). L‟espressione quattro amici scassati dei vv. 21-22, che approfondisce la dimensione di prosastica familiarità, è riutilizzata, con inversione dei termini, in I suoi occhi ne Il male

dei creditori, dove ancora si parla criticamente del padre, espulso dal Partito Fascista

per morosità, e dei suoi malmessi compagni:

Lui dio re patria e duce calpestante Dal fascio espulso perché non pagante Con quei quattro scassati amici A spasso dai nomi non saprei Esattamente ricordare – Lanusei Spaccarelli Balducci…Tutti morti Di fame, non uno che fosse perbene!72

Il componimento si conclude, come già altre volte in questa raccolta di Giudici73, con un verso isolato, qui particolarmente forte nella sua pregnanza nominale (il danno e la vergogna), mutuato da Michelangelo Buonarroti, Rime, Che fie di me?

Che vuo‟ tu far di nuovo (“A che mi vuo‟ tu porre,/ che „l dì ultimo buon, che mi

bisogna,/ sie quel del danno e quel della vergogna?”, vv. 53-55)74

, che è a sua volta, e forse fonte più probabile, dittologia petrarchesca (“né so se guerra o pace a Dio mi

69

Ivi. Ceccardo Roccatagliata Ceccardi ( 1871-1919) è un poeta genovese, precursore della poesia ligure del Novecento che va da Sbarbaro a Montale.

70 MONTALE, Accelerato in Le occasioni in Tutte le poesie, p.135 71 Cfr MENGALDO, La tradizione del Novecento, p.358

72

Cfr I suoi occhi, in Il male dei creditori, GIUDICI, I versi della vita, p.369

73 Si veda, con lo stesso procedimento finale, anche Lasciando un luogo di residenza e Autocritica. 74 BUONARROTI, Rime, p. 41

(26)

cheggio,/ché „l danno è grave, et la vergogna è ria.”, 244, vv. 5-6)75

. Le suggestioni dei classici sono così assorbite, svuotate dall‟interno e diversamente collocate, secondo l‟uso giudiciano di un “consumo” moderno della tradizione.

(27)

Autocritica

“Risparmio, virtù popolare”: parla il pubblicano, esalta la sola qualità che gli piace, la sola che comprende… Ma non è vero – il popolo si spende

5 fino all‟ultimo soldo che non sa di possedere: impegna ori, vende lenzuola, mangia vive le sgualdrine, tutto conduce a una fine. In città

è il villico davanti alle vetrine 10 dopo mercato: mordere si sente

dal desiderio delle vanità

- cinghie, coltelli, ottoni – alle osterie

malfamate discende perché sa che ci sono baldracche e leccornìe, 15 soltanto per guardare- ma poi va

dove la voglia lo tira e il troppo vino,

sciupa il guadagno e i soldi che il vicino gli ha affidati, incauto, da comprare rose o rosari o l‟opera di Marx 20 - per ridere, per bere, per mangiare

e solo addormentarsi in servitù… Non ha voce, sogna di cantare al microfono la giovane magra scura di pelle e ruvida, ma in giù

25 tenerissima e bianca, che alla sagra ora è un anno è stata la più

(28)

bella del luogo dove per vergogna non torna: il suo amore è una carogna

di professione spia – con lui persegue 30 economie comuni e la decenza

sociale, incerta se l‟innocenza

sia da rimpiangere o irridere…Tregue

scarse offre la vita a chi insegue la sua ombra perché veda la sorte 35 che non libero sceglie sulle porte

d‟ogni mattino: i segni del benessere, che l‟avversario porge, accetta e crede accettandoli d‟essere

simile a lui, più forte – e non più fede 40 nel proposito serba, cede al giuoco.

Io che parlo del popolo (fu poco lo spazio per decidere) è di me che parlo consapevole, perché

la volontà non basta, occorre il fuoco

45 per non morire – ed il popolo in me con nuovi sbagli a sbagli antichi oppone riapro, si contenta a una carezza,

cane bizzarro d‟astuto padrone,

prodigo che ritorna alla prigione 50 desiderata donde partì

per una festa sordida…Ah fermezza del solitario compagno che ha l‟aspetto

(29)

ostile guarda e nomina; chiarezza 55 che non sorride e non si distoglie

a un clamore di schiavi, a un dialetto;

albero che non perde le sue foglie a un dolce vento di gioventù… Il popolo si lascia vivere, è perduto, 60 poca allegria gli toglie la virtù

di trasformare il mondo non veduto con i suoi occhi ma con altri… E tu, levita, cireneo, nemico del presente, batti alla porta di chi non sente

65 chiuso nel sonno la tua verità?

Ti schiaccia la pietà, ti fa vile lo scherno degli infallibili poco a poco:

solidale il popolo sta al giuoco,

ama il padrone, plaude al buon governo. 70 “Ha ragione, non è mai stato

così bene” ripete il prudente, “La borghesia è un‟onesta gerente

degli affari del proletariato.

Questa lunga poesia, composta da diciotto quartine più il solito verso singolo finale, affronta un tema comune anche a Versi per un interlocutore, quello delle folle travolte dal benessere, dell‟irrazionale mania consumistica che agisce e si diffonde come modello da imitare (pena l‟esclusione sociale). Dalla “psicologia delle folle”, livellate ideologicamente dalle civiltà totalitarie di inizio Novecento, negli anni Sessanta si passa alla follia delle masse compranti e alla patologia del consumo; l‟interesse nella politica, anche nei suoi aspetti più degenerati, cede il passo al disinteresse e al disimpegno.

(30)

Il componimento si apre con una voce opposta a quella dominante (ma non per questo positiva), quella del pubblicano76, l‟avido per eccellenza, che esalta la sola

qualità che gli piace, la sola che comprende (vv.2-3): il risparmio. Ma la sua è una

predica che cade nel vuoto nella civiltà della distorsione dei consumi, dove l‟ostentazione del benessere non considera le effettive possibilità economiche, dove il

popolo si spende fino all‟ultimo soldo che non sa di possedere e dunque, pur di

raggiungere lo standard borghese, impegna ori, vende lenzuola, mangia vive le

sgualdrine (anticamera della successiva forma disfemica baldracca).

L‟enjambement tra la seconda e la terza strofe introduce il quadretto del villico ingenuo a contatto con le vanità ( cinghie, coltelli, ottoni, gli strumenti del mestiere, che magari scintillano in qualche vetrina) delle città: persa di colpo l‟austerità tipica di una campagna chiusa e tradizionale, egli è risucchiato nel girone infernale delle osterie

malfamate, delle baldracche e delle leccornìe e del troppo vino. La scena

dell‟abbrutimento come conseguenza dell‟impatto tra mondo contadino e mondo urbano rimane, a mio parere, un po‟ troppo prigioniera dello stereotipo naturalista, con attribuzioni falsamente arcadiche all‟uno, e di diabolica perdizione all‟altro. Completa il clichè lo sperpero di soldi in origine destinati ad un nobile scopo, indifferentemente religioso o politico (si notino le due metonimie bipartisan rosari o l‟opera di Marx ad indicare le “due chiese”), e poi spesi in gozzoviglie, ovvero per ridere, per bere, per

mangiare (v.20).

Di seguito, al v.22, si apre un altro quadretto, quella della giovane magra con il sogno del canto, la più bella del luogo, dove però non torna più per vergogna. Il poeta non è esplicito, ma con ampia probabilità ci troviamo di fronte ad un altro luogo comune: quello della ragazza che, andata via dal paesello d‟origine, si è messa a vendere se stessa (ed è incerta se l‟innocenza/ sia da rimpiangere o irridere, vv. 31-32), magari in società con il suo amore (definito una carogna), con cui appunto

persegue economie comuni (v.30) e, ufficialmente, la decenza sociale, l‟ipocrita buona

apparenza.

Con la nona quartina il poeta introduce un discorso generale sul carattere subdolo e illusorio di un consumismo che si finge liberale e non costrittivo, anzi addirittura fortificante per l‟uomo, con la conseguenza che questi cede al giuoco (v.40). La figura dell‟avversario (il potere, sia politico che economico) che porge i

segni del benessere presentandoli come modelli da seguire per una vita vincente, non è

76 Il pubblicano, l‟appaltatore dei tributi nella Roma antica, è ancora, e non a caso, un personaggio prettamente biblico, frequentissimo nel Nuovo Testamento e in particolare nei Vangeli.

Riferimenti

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