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«Space matters»: lo spatial turn nelle forme del pensiero critico della contemporaneità

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CAPITOLO TERZO

«Space matters»: lo spatial turn nelle forme del pensiero critico della contemporaneità

After all anybody is as their land and air is. Anybody is as the sky is low or high, the air heavy or clear and anybody is as there is wind or no wind there. It is that which makes them and the arts they make and the work they do and the way they eat.

G.STEIN, Geography and Plays, 1922

A widely acknowledged “spatial turn” across arts and sciences corresponds to post-structuralist agnosticism about both naturalistic and universal explanations and about single-voiced historical narratives, and to the concomitant recognition that position and context are centrally and inescapably implicated in all constructions of knowledge.

D.COSGROVE, Mappings, 1997

Introduzione

Molti dei temi inglobati nei precedenti capitoli fanno capo a una più generale discussione sulle diverse modulazioni assunte, nel panorama contemporaneo, dall’intreccio contrappuntistico tra vita interiore ed esteriore, e di conseguenza dal rapporto polarizzato dell’io col mondo.

Secondo quanto abbiamo inoltre avuto modo di accennare, uno degli elementi più sintomaticamente rimarcanti dell’attuale Zeitgeist riguarda la messa in crisi del soggetto moderno, che con il declino dei pensieri totalizzanti si scopre invischiato in una fitta rete di dinamiche interrelazionali e condizionato da una congerie di vincoli esterni1.

1

Jean-François Lyotard, uno dei più noti ed esimi teoretici ad aver dedicato un’ampia discussione sul tema, presenta di fatto la condizione postmoderna – ovvero il tratto caratterizzante della presente epoca – come una condizione in cui è dato assistere al declino delle «grandi narrazioni» (l’Illuminismo, l’Idealismo e il Marxismo) e all’inaugurazione di un processo delegittimante nei

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De [la] décomposition des grands Récits […] il s’ensuit ce que d’aucuns analysent comme la dissolution du lien social et le passage des collectivités sociales à l’état d’une masse composée d’atomes individuels lancés dans un absurde mouvement brownien. […] c’est une vue qui nous paraît obnubilée par la répresentation paradisiaque d’une societé ‹organique› perdue. Le soi est peu, mais il n’est pas isolé, il est pris dans une texture de relations plus complexe et plus mobile que jamais. Il est toujours, jeune ou vieux, homme ou femme, riche ou pauvre, placé sur des ‹nœuds› de circuits de communication2.

Il progressivo e inarrestabile indebolimento dell’identità, oltre che dalla psicanalisi e dalla filosofia, è stato ancor più esplicitamente tematizzato nella letteratura sociologica che esamina l’interazione tra soggetto e complessità sociale3. In questo specifico ambito, i sociologi hanno rilevato che la problematicità della situazione esistenziale derivante dall’accrescimento dei nodi conflittuali dell’esperienza (la pluralizzazione dei modelli di vita, l’apertura a culture diverse, il contatto con l’alterità) ha determinato un’attenzione spiccata per il sé, che nelle società maggiormente evolute è diventato oggetto, in modo pressoché sistematico, di ricostruzioni aleatorie e relativizzanti.

Un simile mutamento è stato talvolta all’origine di configurazioni inaspettate, come affiora dalla severa e sferzante lettura offerta nel 1979 da Christopher Lasch relativamente ai modelli culturali della società statunitense, in seno alla quale egli registra il diffondersi a livelli di massa di un individualismo esasperato, capace di trasformare stili e comportamenti di vita.

Tale individualismo trova spiegazione nel fatto che gli anni ’70 si caratterizzano come un periodo di «disillusioni collettive», dove il futuro è sempre più incerto e minaccioso, e le persone, in un contesto di crescente discontinuità e malessere, sostituiscono all’etica del miglioramento di sé quella dell’autoconservazione, «fino alla guerra di tutti contro tutti, alla ricerca della felicità nel vicolo cieco di una preoccupazione narcisistica per il sé»4.

Recisi – o quanto meno rivalutati – i nessi con i quadri concettuali e comportamentali istituzionalizzati nel passato, «“l’uomo psicologico” del XX secolo», sempre secondo Lasch, «non mira a un potenziamento individuale e neppure alla trascendenza spirituale, ma anela alla pace dell’anima, in condizioni che la rendono sempre più improbabile»5. confronti dello statuto del sapere proprio della modernità (cfr. J.F. LYOTARD, La condition

postmoderne: rapport sur le savoir, Minuit, Paris 1979, passim).

2

Ivi, p. 31. Corsivi nel testo. 3

In sociologia, con l’espressione «complessità sociale» si fa in generale riferimento alla cultura che contraddistingue le società economicamente e culturalmente sviluppate.

4

C. LASCH, La cultura del narcisismo: l’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni

collettive, tr. it. a cura di M. Bocconcelli, Bompiani, Milano 1981 [1978], p. 9.

5

Ivi, p. 24. Su questo punto, cfr. inoltre C.LASCH, L’io minimo: la mentalità della sopravvivenza

in un’epoca di turbamenti, tr. it. a cura di L. Cornalba, Feltrinelli, Milano 19872

(3)

Nei suoi aspetti più eminentemente creativi, dunque, il narcisismo6 costituisce di per sé una forma di risposta ai problemi della realtà postindustriale, e trova i propri indicatori in una serie di atteggiamenti comuni a tutte le generazioni lacerate dal crollo della storicità e della «fiducia illuministica nella conoscenza»7 o, stando a quanto messo in luce da Jean-François Lyotard, della nozione di soggetto come centro unitario e stabile dell’esperienza8.

Di questi atteggiamenti due in particolare sembrano avere risvolti interessanti per il discorso che si sta qui per intraprendere, e che verterà precipuamente sull’analisi delle potenzialità di significazione convogliate dal binomio tra autobiografia e spazio.

Nelle sue molteplici declinazioni, infatti, il narcisismo contemporaneo comporta, da un lato, l’intensificarsi dell’amore e del rispetto per se stessi, dimostrato tanto dall’istinto di autoconservazione e di autotutela, quanto dalla coltivazione della propria persona, sia dal punto di vista fisico che intellettuale; dall’altro, l’attenzione ipertrofica di cui è oggetto l’io nel mondo contemporaneo sfocia in un rinnovato amore per l’ecosistema naturale e umano, che viene coltivato in tutta la sua piacevolezza estetica e sociale, poiché è appunto nell’ambiente circostante – anch’esso un “residuo” del narcisismo primario9 – che tutti gli individui si riconoscono, si sviluppano e si sentono a proprio agio.

In merito al primo punto Lasch specifica che una delle modalità per mezzo delle quali l’individuo cerca di esplorare le inestricabili relazioni tra la «vita privata e politica, tra la storia e l’esperienza personale» è l’atto stesso dello scrivere. La scrittura che serve da ausilio all’interpretazione delle transizioni epistemiche del presente, proprio perché divenuta espressione di un’incessante dialettica tra universo interiore ed esteriore, non può comunque sperare di carpire pienamente fatti e questioni contingenti se non adottando uno stile autobiografico, «che al peggio tend[e] a degenerare nell’esibizionismo, ma che nei

6

Si noti come Lasch impieghi la parola in un senso alquanto diverso da quello a essa attribuito da Freud, secondo il quale il narcisismo designa «il comportamento di una persona che tratta il proprio corpo allo stesso modo in cui è solitamente trattato il corpo di un oggetto sessuale» (S.FREUD,

Introduzione al narcisismo, tr. it. a cura di R. Colorni, Boringhieri, Torino 1976 [1914], p. 15). Nel

senso attribuitogli da Lasch il narcisismo, più che come sinonimo di egoismo o corrispettivo di una condizione patologica, deve intendersi come una costante psicologica della condizione umana,

connessa con i cambiamenti a lungo termine nella struttura dell’autorità culturale e sociale (cfr. C.LASCH, La cultura del narcisismo, cit., p. 46). Per ulteriori approfondimenti in materia cfr.

C.LASCH, L’io minimo, cit., in particolare le pp. 113-36. 7

Ivi,p. 8. 8

Sull’indebolimento del senso storico, che coinvolge tanto la Storia pubblica e condivisa quanto la percezione soggettiva del tempo, cfr. F.JAMESON, Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late

Capitalism, Duke UP, Durham 1997 [1984], in particolare le pp. 16-38.

9

Con «narcisismo primario» Lasch, parafrasando Freud, si riferisce all’illusione infantile di onnipotenza che precede la comprensione della distinzione fondamentale tra il sé e ciò che lo circonda (cfr. C.LASCH, La cultura del narcisismo, cit., p. 49).

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casi migliori dimostr[a] che il tentativo di comprendere i fenomeni culturali non può prescindere dall’analisi della loro influenza sulla coscienza»10.

Rispetto al passato, quando l’artista considerava i propri intimi conflitti lo specchio in scala ridotta della realtà esterna, ora, chiarisce Lasch, «per lo scrittore la vita non si riflette più nella sua anima. Succede esattamente il contrario: egli vede il mondo, anche nel suo squallore, come specchio di se stesso. Nel registrare le sue esperienze “interiori”, non cerca di presentare un resoconto obiettivo di un frammento rappresentativo della realtà, ma mette in atto un’opera di seduzione per ottenere attenzione, consenso o indulgenza su cui puntellare il suo vacillante senso di identità»11.

Per quanto concerne poi il secondo punto – la rivalutazione del mondo che ci circonda ai fini dell’acquisizione di un senso di stabilità e continuità – la premessa da cui si muove il critico è che i narcisisti «dedicano più attenzione ai propri bisogni che a quelli degli altri,

ma non sono l’amore e la stima di sé a sembrar[ne] le caratteristiche determinanti. Queste qualità implicano un forte e saldo senso della propria individualità, mentre i

narcisisti soffrono di un sentimento di mancanza di autenticità e di vuoto interiore. Trovano difficile instaurare un rapporto con l’ambiente»12.

Il narcisismo, in sostanza, è la difesa psicologica cui la cultura umana ricorre per affrontare l’ansia del distacco e i sentimenti di impotenza e subordinazione che scaturiscono allorché l’individuo diventa cosciente della distinzione tra il sé e il mondo esterno (quella che viene più esattamente indicata come la fase del narcisismo secondario).

Nella sua perenne ricerca dell’onnipotenza perduta, l’uomo ha tentato di negare la dipendenza dalla natura inventando tecnologie in grado di soggiogarla: un tentativo questo che contraddistingue tutta la storia occidentale e che conosce il suo massimo sviluppo prima con la rivoluzione industriale e, in tempi più recenti, con il progresso di cui si è fatta garante l’informazione postindustriale13.

Sennonché la certezza di poter vincere le limitazioni proprie della condizione umana plasmando autonomamente l’ambiente (un atteggiamento coincidente con la fase del narcisismo primario) altro non è che una vana illusione, oltre che una soluzione regressiva, poiché ostacola il conseguimento di un equilibrio all’interno di una realtà vacillante, che in apparenza – e sotto l’impulso di ambizioni narcisistiche – «[viene] sperimentata come un ambiente popolato da immagini evanescenti»14, ma con la quale ognuno di noi è al contrario inevitabilmente connesso.

10 Ivi, p. 28. 11 Ivi, p. 33. 12 Ivi, p. 266. 13 Cfr. ivi, pp. 269-70. 14 Ivi, pp. 275.

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In un clima di ipertrofia del senso storico, il ricorso alla conoscenza di sé e del mondo, unita alla valorizzazione del legame organico della vita e degli eventi ad ambienti specifici, sono pertanto considerabili non solo nella loro qualità di epifenomeni di una problematica assai più vasta – il sentimento di sradicamento e destabilizzazione che affligge l’odierna società umana –, ma anche come strumenti funzionali al recupero di quell’identità, individuale e collettiva, che la spinta omologante dell’appagamento consumistico e della deresponsabilizzazione professati dalla società di massa ha messo a repentaglio.

Allontanandoci per il momento dagli assi teorici di impronta sociologica per muoverci lungo quelli di marca etno-antropologica, possiamo analogamente constatare che esistono tutta una serie di prospettive, di solito coincidenti o almeno convergenti, che hanno affrontato la questione del rapporto tra individuo e spazio messa in moto dagli scenari della contemporaneità.

L’etnologo Marc Augé riscontra, ad esempio, che l’evoluzione delle società complesse alla fine del ventesimo secolo – il periodo da lui ribattezzato con il termine «surmodernità»15 – ha indetto alcune sintomatiche trasformazioni, tutte connotabili attraverso la figura dell’eccesso. La prima di esse riguarda il tempo, l’uso e la percezione del quale cambiano in corrispondenza di avvenimenti che hanno compromesso l’idea di progresso di cui esso si è fatto latore fino alle soglie del ’900: «questo declino è stato originato da varie constatazioni tra loro distinte: le atrocità delle guerre mondiali, dei totalitarismi e delle politiche di genocidio […]; la fine […] dei grandi sistemi di interpretazione che pretendevano di render conto dell’evoluzione dell’umanità in quanto insieme, e che in ciò hanno fallito a causa della distorsione o della scomparsa dei sistemi politici che si ispiravano ufficialmente ad alcuni di essi»16.

Il fatto che il tempo cessi di essere un principio di intelligibilità stimola così l’interesse per tutti quei documenti e quelle testimonianze capaci di mobilitare, in quanto segni tangibili di un passato irrecuperabile, il potenziale mnestico e identitario, ricordandoci di ciò che siamo e in che cosa risieda il nostro valore differenziale rispetto agli altri17.

La ricerca di un’identità resa «introvabile» dall’indecifrabilità del tempo e dagli effetti di una dilagante omogeneizzazione si ricollega a un’altra figura caratteristica della

15

Tale neologismo è stato appositamente coniato da Augé nell’ambito dell’elaborazione della teoria dei «nonluoghi», sulla quale torneremo tra breve. La parola, che è un calco dal francese «surmodernité» e viene consistentemente usata in luogo di «postmodernità», indica il periodo contraddistinto dal superamento della fase postindustriale, e tutti i fenomeni (sociali, economici e intellettuali) che da esso dipendono. La nozione di surmodernità, nell’accezione conferitale da Augé, è funzionale alla descrizione del mondo delle «trasformazioni accelerate», dove «[il] bisogno di dare un senso al presente, se non al passato, costituisce il riscatto [della] sovrabbondanza di avvenimenti» (M.AUGÉ, Nonluoghi: introduzione a una antropologia della surmodernità, tr. it. a

cura di D. Rolland, Elèuthera, Milano 2009 [1992], rispettivamente p. 40 e p. 44). 16

Ivi, pp. 40-41. 17

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sensibilità postmoderna (o meglio ancora della «condizione di surmodernità»), che è quella dell’«eccesso di ego». A conferma implicita delle tesi di Lasch, la figura dell’ego affiora quando l’individuo vede in se stesso un mondo a parte e, dinanzi all’assenza «di nuovi terreni in un universo senza territori, di respiro teorico in un mondo senza grandi narrazioni»18, individualizza qualsiasi approccio alla realtà esperita: in definitiva, commenta Augé,

[l]’accelerazione della storia e [il] restringimento del pianeta [determinano] il carattere molto particolare e […] paradossale di ciò che in Occidente si considera a volte come la moda del ripiegarsi su se stessi, del cocooning: mai le storie individuali, a causa del loro necessario rapporto con lo spazio, con l’immagine e il consumo, sono state così coinvolte nella storia generale, nella storia tout court. A partire da qui, tutti gli atteggiamenti individuali diventano concepibili: la fuga (a casa propria, altrove, la paura (di sé, degli altri), ma anche l’intensità dell’esperienza (la «performance») o la rivolta contro i valori stabiliti19.

Com’è quindi lecito supporre, il rinnovarsi dello statuto soggettivo pone una serie di interrogativi sui modi di pensare e situare l’individuo, che in un’era contraddistinta dall’abbattimento della realtà geo-politica dei confini e delle frontiere e dalla condivisione degli spazi di vita, cerca di contrastare il processo di disindividualizzazione20 tramite il recupero di quel senso di attaccamento alla terra e alle radici grazie al quale si rafforzano i meccanismi di conoscenza dell’io e del mondo.

Rappresentativa del periodo è d’altronde l’invasiva proliferazione dei nonluoghi, ossia di spazi «priv[i] delle espressioni simboliche di identità, relazioni e storia»21 (le autostrade, gli aeroporti, le stazioni ferroviarie, le catene alberghiere o gli spazi adibiti al commercio) che invece sono costitutive dei luoghi antropologici (gli altrimenti detti milieux de

mémoire, come le piazze, i mercati, i luoghi di culto), in cui i soggetti riconoscono se stessi

perché vi rintracciano una storia condivisa, essendo questi ultimi dispositivi spaziali unificanti e fondanti. Augé spiega in proposito che:

18 Ivi, pp. 48-49. 19 Ivi, p. 105. 20

«Il processo di disindividualizzazione è […] un processo di negazione di ciò che è particolaristico, discreto, specifico, di annullamento di ciò che fa di una soggettività un’individualità. […] Il processo di disindividualizzazione non ha tanto a che fare con una perdita dell’identità, piuttosto con una generalizzazione di questa. Da una parte l’Io identitario, particolaristico, unitario, concretamente definito, confluisce in una dimensione comunitaria sovraindividuale; dall’altra il sé si fa molteplice, plurale, aperto a una dimensione illimitata di possibilità» (G. B. ARTIERI, I media-mondo: forme e linguaggi dell’esperienza contemporanea, Meltemi, Roma 2004, p. 88).

21

Z. BAUMAN, Modernità liquida, tr. it. a cura di S. Minucci, Laterza, Roma 2002 [2000], p. 113.

(7)

[La] sovrabbondanza spaziale del presente […] si esprime […] in mutamenti di scala, nella moltiplicazione dei riferimenti immaginifici e immaginari e nelle spettacolari accelerazioni dei mezzi di trasporto. Essa comporta modificazioni fisiche considerevoli: concentrazioni urbane, trasferimenti di popolazione e moltiplicazione di ciò che definiamo «nonluoghi», in opposizione alla nozione sociologica di luogo, associata da Mauss e da tutta una tradizione etnologica a quella della cultura localizzata nel tempo e nello spazio. I nonluoghi sono tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni […] quanto i mezzi di trasporto stessi o i grandi centri commerciali o, ancora, i campi profughi dove sono parcheggiati i rifugiati del pianeta. Viviamo, infatti, un’epoca paradossale anche sotto questo aspetto22.

Giacché il sense of place (cfr. infra), a fronte dell’incremento della mobilità e della diffusione di spazi eterogenei e stranianti, ha assunto le parvenze di «un fantasma indigeno»23 continuamente invocato e inevitabilmente differito, non sono mancati indirizzi critici che nella varietà e simultaneità dei loro approcci hanno insistito sull’importanza dei luoghi nel costituirsi dell’identità del gruppo e del singolo.

In letteratura il volume dei discorsi e dei pronunciamenti teorici sulle suddette tematiche si è mantenuto alto fin dagli anni ’70, e ha prodotto risultati di grande rilievo anche per merito delle spinte propulsive provenienti da vari settori delle scienze umane, dove il trattamento intensivo del dato topologico è stato comunemente avvertito come necessario all’interpretazione dei nuovi e mutati contesti dell’espressione individuale.

Non manca poi chi, nel valorizzare l’ambiente concreto nel quale si innesta una data opera (un contesto comprensivo della resa dello spazio e del movimento, di oggetti, processi e luoghi)24, asserisce con particolare enfasi che la Storia e il tempo «are dangerous concepts because they seem to identify meaning with teleology and they lead the poet to fancy that he sees the spirit of the age by reading its signs in history. […] Poets would do

22

M. AUGÉ, op. cit., pp. 47-48. Nonostante l’apparente dicotomia tra luoghi e nonluoghi, Augé precisa tuttavia che nella realtà non esistono distinzioni valide in assoluto, o luoghi passibili di una lettura in un senso piuttosto che in un altro: «la stessa cosa vale tanto per il nonluogo che per il luogo: esso non esiste mai sotto una forma pura; dei luoghi vi si ricompongono, delle relazioni vi si ricostituiscono, e le ‹astuzie millenarie› dell’‹invenzione del quotidiano› e delle ‹arti del fare› […] vi possono aprire un cammino e dispiegarvi le proprie strategie. Luogo e nonluogo sono piuttosto delle polarità sfuggenti: il primo non è mai completamente cancellato e il secondo non si compie mai totalmente» (ivi, p. 77). E poco oltre aggiunge: «Nella realtà concreta del mondo di oggi, i

luoghi e gli spazi, i luoghi e i nonluoghi, si incastrano, si compenetrano reciprocamente. La possibilità del nonluogo non è mai assente da un qualsiasi luogo […]. Luoghi e nonluoghi si

oppongono (o si evocano) come i termini e le nozioni che permettono di descriverli» (ivi, p. 96). 23

Augé impiega il sintagma, che è propriamente mutuato da Benedict Anderson (cfr. B. ANDERSON, Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism,

Verso, London 1991), nell’ambito della critica alla nozione di luogo così come inteso presso le culture indigene (cfr. M.AUGÉ, op. cit., pp. 54-59).

24

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better to turn away from time toward space, from history toward geography, topography, landscape, place»25.

Sollecitata dall’attualità persistente delle nuove proposte di lettura e – a un livello più marcatamente sociologico – dal potere pervasivo delle innovazioni tecnologiche, la sensibilità della critica letteraria nei confronti dei luoghi sembra perciò aderire in toto alla temperie postmoderna, che si caratterizzerebbe appunto per la transizione dalle categorie analitiche temporali e storiografiche a un’immaginazione legata agli indicatori di spazialità26, siano essi spazi astratti, o concreti orizzonti geografici.

Uno degli elementi significativi da registrare nel dibattito sullo spazio in letteratura è che la critica si è incessantemente ricomposta sotto il peso di eredità multiple27: mentre dapprima gli studiosi hanno cercato di illustrare la funzionalità euristica dello spazio nella strutturazione del materiale testuale partendo dalle considerazioni bachtiniane sul cronotopo, gli argomenti sollecitati dall’analisi spaziale sono stati poi perfezionati nell’ambito di una prassi speculativa più estesa, che si inscrive non di rado all’interno delle prospettive culturaliste e coinvolge le metodologie della geocritica, le cui prolifiche teorie sono servite a inquadrare la fitta trama di relazioni tra dato letterario e mondo reale28.

Poiché inoltre la questione dello spazio implica la riflessione sulle facoltà percettive di coloro che lo attraversano e, fondando in esso la propria esistenza, vi disseminano impronte che continuano a esistere nel tempo, un punto di riferimento costante è divenuto lo studio del nesso tra identità e luogo. A differenza delle precedenti letture dello spazio viene introdotta, afferma Flavio Sorrentino, «una soggettività che si fa (più o meno) carico della leggibilità dello spazio e collega le relazioni tra gli elementi dello spazio con quella soggettività, istituendo così un processo bidirezionale. La soggettività si fa garante delle relazioni tra gli elementi dello spazio (permettendone la leggibilità) e quelli permettono di individuare e descrivere la soggettività»29.

25

D.DONOGHUE, cit. in L. Lutwack, op. cit., p. 2. 26

Cfr. S.MAXIA, «Letteratura e spazio: premessa», Moderna, 9(1), 2007, pp. 157-59, qui p. 157. 27

Si tratta, anche in questo caso, di una peculiarità del Postmodernismo, che «is often argued to undermine the binaries upon which previous ways of thinking relied, and to opt instead to blur boundaries between established categories […]. This is evident in academic thought in terms of the rise of new hybrid knowledges […] that rely upon interdisciplinary study» (E.H.JONES, Spaces of Belonging. Home, Culture and Identity in 20th Century French Autobiography, Rodopi,

Amsterdam-New York 2007, p. 39. Corsivi miei). 28

Tutto ciò a dimostrazione di come la geografia abbia un rapporto stretto e vincolante con la letteratura, secondo quanto opportunamente segnalato da Franco Moretti nell’incipit del suo

Atlante del romanzo europeo: 1800-1900 (Einaudi, Torino 1997). Su questi temi, che saranno

oggetto di successiva analisi, rinvio in via del tutto preliminare al fondamentale B. WESTPHAL

(éd.), La géocritique mode d’emploi, Pulim, Limoges 2001. 29

F. SORRENTINO (a cura di), Il senso dello spazio: lo spatial turn nei metodi e nelle teorie

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Ed è appunto nella connessione dello spazio – da interpretarsi quale depositario privilegiato dell’esperienza esistenziale – con la definizione di sé cui l’individuo è congenitamente predisposto, che la teoria letteraria dimostra una consonanza peculiare con alcuni assunti propri della sociologia e dell’antropologia, per le quali la congiuntura caratterizzata dalla “discontinuità” del modo di essere contemporaneo («an increasing number of people are making a home in homelesness, there dwelling in diasporic identities and heterogeneous histories», sottolinea Iain Chambers)30 e dalla minaccia alla presunta staticità e familiarità di confini e barriere, rende alquanto significative e pertinenti le nozioni di casa, radici e appartenenza31.

A questo riguardo si può aggiungere – per ricollegarci al focus analitico che è andato delineandosi già a partire dal precedente capitolo32, e anticipare infine l’argomento delle prossime sezioni – che il tema del rapporto tra sense of place e identità ha avuto ultimamente ampio riscontro ed evoluzione critica soprattutto in seno agli studi sulla letteratura autobiografica.

A sostegno di questa argomentazione Elizabeth Jones asserisce che, di fronte all’attuale fluidità geografica,

[t]he impact of […] cultural contact and cultural dislocation upon both individual identities and societies cannot be overstated. Moreover, in theoretical terms, whereas space used to be commonly understood to be a “dead” or “passive” arena in which events merely take place, its active, constitutive potential has increasingly been realized. Spaces are not merely empty stages upon which people act out their lives, but are deeply imbued with cultural meanings as well as entwined in the power relations around which societies revolve. At the level of both lived experience and critical analysis, then, understanding space seems to be an increasingly urgent prerequisite for any attempt to understand the contemporary world33.

E per corroborare l’esistenza di un emblematico connubio tra autobiografia e spazio la studiosa aggiunge ancora che «[t]he field of life writing is one that is currently enjoying a similarly significant renaissance. […] more crucially, much contemporary theory has hailed a focus on individual lives as the best way to generate “situated” or “embodied” knowledge and therefore to avoid sweeping generalisations about whole societies. […] The[se] two realms […] – space and life writing – are linked by their particular relevance to the contemporary world»34.

30

I. CHAMBERS, «Leaky Habitats and Broken Grammar» (1994), cit. in E. H. Jones, Spaces of

Belonging, cit., p. 52.

31

Ulteriori bilanci critici sulla questione si possono trovare in P.L.PRICE, Dry Place. Landscapes

of Belonging and Exclusion, Minnesota UP, Minneapolis-London 2004, in particolare alle pp.

83-120. 32

A tal proposito, si ricordi quanto precisato sulla nozione di posizionalità nel cap. 2, § 1. 33

E.H.JONES, op. cit., p. 17. 34

(10)

L’autobiografia, vale la pena ricordare, è notoriamente calata in una dimensione di referenzialità maggiore rispetto ad altre forme letterarie: per questo lo spazio si è trasformato, qui più che altrove, in una categoria distintiva e modellizzante, alla quale chi scrive fa con regolarità appello per garantire un ancoraggio referenziale al mondo.

Saldamente intrecciata al percorso interiore e al discorso conoscitivo dell’uomo su se stesso e su tutto quello che gli sta intorno, la scrittura del sé, come tra poco vedremo, dimostra infatti con frequenza sempre maggiore la sua natura di genere vincolato a luoghi che influenzano sia il processo di autopoiesi individuale di cui l’autobiografo (a livello individuale, così come in qualità di rappresentante di un gruppo o di una comunità) si rende protagonista, sia «lo spazio semiotico, di intreccio, intorno al quale [la logica interna della narrazione] si auto-organizza»35.

Prima però di procedere con il delineare in dettaglio la valenza dello spazio e i princìpi che presiedono alla sua resa nell’autobiografia, si rivela precipuo dedicare qualche approfondimento a quello che quanto finora evidenziato individua come un ricco territorio da esplorare, ovvero il rinnovamento dei protocolli di ricezione e rappresentazione della spazialità all’interno di vari settori disciplinari. Nel prossimo paragrafo ci occuperemo, quindi, sia dei motivi fondanti che delle essenziali interrogazioni sollevate dal cosiddetto

spatial turn nei metodi e nelle forme del pensiero critico.

3.1. La rifunzionalizzazione del concetto di spazio nell’episteme postmoderna

Con il termine spatial turn36 si è soliti indicare la crescente ed ecumenica propensione

della critica nel reintrodurre la spazialità tra i nuovi centri di interesse teorico, al fine di «restituire concretezza […] [al]le procedure di contestualizzazione e analisi processuale

35

F.MORETTI, op. cit., p. 7. 36

La definizione di spatial turn è stata coniata da Edward Soja, che in Postmodern Geographies (1989) accusa lo storicismo tradizionale di aver privilegiato il tempo a scapito dello spazio, e quindi di aver ostacolato l’emergere «[of] a comparable critical sensibility to the spatiality of social life, a practical theoretical consciousness that sees the lifeworld of being creatively located not only in the making of history but also in the construction of human geographies, the social production of space and the restless formation and reformation of geographical landscapes» (E.W. SOJA,

Postmodern Geographies. The Reassertion of Space in Critical Social Theory, Verso, London

1989, p. 11). L’idea – sollecitata dai nuovi scenari della postmodernità – che la Storia e l’evoluzione debbano essere sostituite dallo spazio viene ripresa tout court da Foucault, il quale asserisce che all’ossessione ottocentesca per la Storia debba sostituirsi, nella nostra epoca, un’epistemologia propriamente spaziale («Forse quella attuale potrebbe […] essere considerata l’epoca dello spazio» esordisce il filosofo nel suo famoso saggio Des espaces autres, al quale accenneremo più avanti).

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dopo le istanze contraddittorie provenienti dalla svolta linguistica e dal postmodernismo»37.

Trattandosi di una tendenza comune a più discipline, la “ricollocazione” scientifica dello spazio ha naturalmente dato adito a una nutrita pluralità di interpretazioni, le cui traiettorie sono state di volta in volta regolate e condizionate dai cambiamenti degli ultimi decenni. Nella velocità con cui si sono verificati tali cambiamenti e nel loro rapido succedersi, non è tuttavia da escludersi la possibilità di individuare valutazioni che nella disamina di passaggi e momenti decisivi hanno ostentato caratteri di maggiore unitarietà e continuità.

È innanzitutto evidente che un aspetto del processo qui preso in esame risiede nell’evoluzione della sfera socio-culturale, che ha determinato – come si può evincere da quanto preannunciato nelle precedenti pagine – un importante cambio di prospettiva negli studi umanistici, dove la preferenza è stata sempre più frequentemente accordata a indagini siglate dalla misura dello spazio.

Viene ormai considerato un dato di fatto che le scienze umane, nonché la teoria della letteratura, hanno prediletto con regolarità la categoria temporale come strumento di analisi e interpretazione, al punto tale da conferirle una posizione di primo piano nel pensiero della filosofia e della letteratura dagli ultimi scorci dell’’800 fino alle prime decadi del ’900 (su questo piano si potrebbero menzionare le letture della Recherche proustiana e dello Ulysses di Joyce come massima esemplificazione dell’orientamento storiografico della critica).

Eppure da almeno trent’anni il rapporto tra le due coordinate basilari del sentire umano è andato riassestandosi su inediti equilibri: da una parte il rilancio del pensiero kantiano38, dall’altra la rivoluzione teoretica instradata dagli studi sulla relatività di Einstein con la sua

37

A.TORRE, «Spatial Turn in History? Paysages, regards, ressources pour une historiographie de l’espace», Annales: histoire, sciences sociales, 63, 2008. Il suddetto articolo, che trae spunto dagli atti di un simposio sullo spatial turn nei metodi storiografici tenutosi presso il German Historical Institute di Washington nel febbraio 2004, è reperibile e consultabile al seguente sito web: http://www.lett.unipmn.it/sentinellepaesaggio/default.htm (sezione paesaggi). Per un utile confronto delle modalità con cui le varie discipline hanno inquadrato la dimensione spaziale in corrispondenza dello spatial turn, rinviamo a B. WARF – S. ARIAS (eds.), The Spatial Turn.

Interdisciplinary Perspectives, Routledge, London 2009.

38

Nella Critica della ragion pura (Kritik der reinen Vernunft, 1781) Kant ascrive a tutto il genere umano tre facoltà conoscitive: la sensibilità, l’intelletto e la ragione. La sensibilità, alla quale spetta il compito di ricevere i dati provenienti dalla realtà oggettuale (è la sensibilità che fornisce le intuizioni), utilizza le forme a priori del tempo e dello spazio per operare un discrimine tra i fenomeni finalizzati alla conoscenza. Mentre il tempo (Zeit) è la forma del senso interno, lo spazio (Raum) è specificatamente inteso come la forma del senso esterno, ovvero come quella modalità percettiva universale che fa da fondamento a tutte le intuizioni del mondo esterno.

(12)

concezione del tempo quale quarta dimensione39, hanno incentivato su più fronti una revisione concettuale ed epistemologica del dato spaziale.

All’interno di questo scenario il tempo, a lungo detentore di «una priorità epistemica» sullo spazio in ragione della sua funzione di «elemento totalizzante e coordinatore di senso», è stato ripensato in concomitanza con «lo sviluppo [di quei] contesti di determinazione e rappresentazione»40 cui esso appartiene e si situa.

Imbricata dunque con il mondo sociale, e perennemente sottoposta a variazioni che dipendono dalle esistenze storiche, la temporalità, osserva Marcello Archetti con sguardo antropologico,

è essenzialmente elemento della cultura, forma sociale e storica di conoscenza, [che] gestisce la vita della collettività con la forza di un principio regolatore: l’ordine sociale si identifica con l’ordine temporale. La sua forza prescrittiva è tale da assumere il carattere di realtà autonoma e da occupare sostanzialmente qualsiasi ambito. […] L’uso del tempo è sempre strettamente collegato al significato dato all’esistenza; di fatto le concezioni o figure del tempo sono orizzonti di interpretazione complessiva della realtà, aperture di senso a partire dalle quali si pensano i modi e le possibilità dell’esistere nel mondo41.

Quando «i modi e le possibilità dell’esistere nel mondo» si alterano in negativo e le esistenze sono indotte a percepire la discontinuità del presente come una situazione

storicamente ineluttabile, soggiacendo così all’angoscia per un futuro altrettanto insicuro –si pensi in proposito a quanto già acutamente prefigurato da Lasch e da Augé –, anche il

tempo da vettore rassicurante di valori e azioni si converte in un operatore «spezzato, puntiforme e sistemico»42. Di qui allora

[i]l frammento contemporaneo: tempo valido e compatibile in ciascun sistema modulare, replicante e mutante. Locale e parallelo con durata sempre più miniaturizzata da utilizzare specificatamente per ogni frazione della realtà. Tempo altro che vive nei programmi: diventato microsegno simulato e incomprensibile. Tempo precipitato e delegato alle strutture logiche e alle costruzioni tecniche. Spezzato e distinto, la sua complessa specificità sta solo nella sua polverizzata circostanzialità. […] Pluralità legittima di tempi e tentativo di ritorno a una forma di qualità controllata, inquieta e d’uso. La temporalità determinante è il presente che dimentica il passato e simula/schiaccia il futuro43.

39

Il considerare il tempo come quarta dimensione (una dimensione che esiste, per l’esattezza, in riferimento a spazi multidimensionali) discende da ricerche avviate ancor prima della formulazione della teoria della relatività. Tuttavia, è soltanto grazie agli studi compiuti da Einstein a partire dal 1905 che si ottengono fondati motivi per ritenere la quarta dimensione una realtà effettiva.

40

M.ARCHETTI, Lo spazio ritrovato: antropologia della contemporaneità, Meltemi, Roma 2002, rispettivamente pp. 15-16 e p. 13. 41 Ivi, pp. 15-16. 42 Ivi, p. 17. 43 Ivi, p. 19.

(13)

Persa la capacità di mantenere un nesso coerente con il passato e di scandire il vissuto degli individui, il tempo ha così finito per cedere allo spazio il ruolo egemonico detenuto in passato44. Lo spazio, dal canto suo, ha rapidamente modificato il proprio statuto, arrivando a incarnare il palinsesto semantico-metaforico privilegiato dall’episteme postmoderna, che si caratterizza, ricordiamolo, per l’affievolimento del senso storico (la crisi del mito progressista, il declino delle grandi narrazioni) e il conseguente affermarsi di una spasmodica cura per il sé (il narcisismo di Lasch e l’individualizzazione delle pratiche cognitive riscontrata da Augé), per i suoi bisogni immediati e per le reti capillari di relazioni mediante le quali all’individuo è ancora concesso recuperare un senso di stanzialità (il sense of place, vale a dire il rapporto consustanziale con uno spazio che funge da «orientamento cognitivo ed esperienziale»)45 di fronte alla fuggevolezza del mondo contemporaneo46.

Dal confronto con lo spazio della modernità – uno spazio autonomo e improntato a modelli estetici più che sociali – emerge inoltre che lo spazio dell’era postmoderna ha

invaso la dimensione culturale secondo traiettorie straordinariamente mobili. E poiché ci è dato modo di assistere «all’esplosione della cultura nell’intero ambito

sociale», Archetti conclude che «[…] tutto nella vita sociale è diventato culturale e così si rafforza il legame fra il luogo e il senso di identità personale e locale. […] Le immagini spaziali, liberate da ogni radicamento [ad esempio, la dipendenza dalle funzioni sociali], diventano un mezzo per descrivere le forze della determinazione sociale, con l’affermazione di una ideologia politica che vede il luogo, con le relative qualità estetiche, come base adeguata per l’azione sociale»47.

Se prima lo spazio si riduceva a un mero quadro estetico del mondo – nella fattispecie a un dato concreto associato all’ambiente naturale che, al di fuori della storia, finiva

44

Cfr. in proposito R.CESERANI, Raccontare il postmoderno, Boringhieri, Torino 1997, pp. 80-90. 45

M.ARCHETTI, op. cit., p. 26. 46

Va precisato che lo spazio non è mai stato assente nel tempo e non può essere concepito se non in rapporto al suo fluire, per cui l’accresciuta valorizzazione del senso spaziale per opera delle scienze umanistiche non scalza di fatto il ruolo rivestito dalla temporalità in rapporto ai quadri cognitivi ed esperienziali tanto del singolo quanto di quei nuclei collettivi che stanno a fondamento

di ogni apparato sociale: «Di una separazione dello spazio dal tempo non è possibile parlare. La percezione e la rappresentazione dello spazio è anche precisamente la percezione e la

rappresentazione del tempo, in modo tale che già a questo livello di considerazione, lo spazio e il tempo interagiscono strettamente e costituiscono, l’uno per l’altro, le reciproche condizioni di

possibilità e, insieme, una condizione di possibilità complessa dell’esperienza in genere. […] Lo spazio e il tempo non sono due concetti indipendenti o due entità autonome, rinviano l’uno

all’altro in una relazione dove appare la loro mutua implicazione. […] Lo spazio e il tempo sono connessi e interrelati nel mezzo della stessa esperienza, e non esiste realtà che vi si produca [ivi compresa anche quella contemporanea], che non li coinvolga entrambi direttamente» (ivi, pp. 28-29). Di impronta analoga, ma mirate al commento dei principali esiti dello spatial turn, sono le considerazioni di Soja in «Taking Space Personally», in B. Warf – S. Arias, op. cit., pp. 11-35. 47

(14)

nondimeno per esaurirsi in una visione tassonomica della realtà – con la profonda ridefinizione dei metodi di ricerca compaiono prospezioni tese alla lettura dello spazio nella sua dimensione antropica, come un eteroclito agglomerato di segni che rinviano alle relazioni indogene ed esogene delle società, ai loro modi di sfruttare l’ambiente terrestre e depositarvi le proprie tracce, sulla base di un’interconnessione tra cultura e natura che si diversifica a seconda delle forme di organizzazione che gli stessi sistemi sociali sono riusciti diacronicamente a impostare nello spazio48.

In letteratura le mappe teoriche che rendono conto in maniera più esplicita del processo di attribuzione di valore al dato topologico si dispongono tutte intorno a precise tematiche, che hanno imposto questioni relative al macrotema spaziale in senso lato, al significato e alle funzioni dello spazio inteso come sistema di elementi fisici e antropici tra loro interagenti, o altrimenti allo studio delle stratificazioni letterarie dello spazio referenziale – aspetto questo con cui viene segnato l’approdo alla contemporaneità dell’interrogazione disciplinare promossa dalla geocritica.

Il concetto di spazio permea ad esempio l’intero progetto teorico di Michel Foucault, i cui scritti, fin dagli anni ’60, offrono ragione della relazione esistente tra l’organizzazione spaziale e le logiche che governano l’universo socio-culturale. Lo spazio, per come lo intende il filosofo, è la metafora del potere e allo stesso tempo un suo contenitore, perché soltanto dai luoghi destinati alla sorveglianza, al controllo e alla repressione del desiderio possono mobilitarsi le forze della determinazione individuale:

Destituendo radicalmente ogni “dato” del carattere di necessità, Foucault delinea uno spazio specifico ad ogni dispositivo di assoggettamento […], la cui mappa è cartografata enucleando analiticamente, ma sintetizzandone l’unicità storica, le formazioni discorsive e non discorsive che le danno vita. In questo senso, il doppio uso della categoria di spazio – come categoria archeologico-epistemica in relazione alla definizione del rapporto sapere/potere da un lato, e come obiettivo stesso da sottoporre a disamina nell’ambito dei suoi punti di applicazione (nell’urbanistica, nell’architettura degli apparati clinici e carcerari) dall’altro – è al tempo stesso imbricato su di sé per stagliarsi come luogo della contingenza pura, rintracciando pertanto in esso […] l’eterotopia e l’eterocronia, che aprono a quell’altrimenti come possibile

illogicum, come contingenza differente perché articola su di sé un diverso montaggio del

rapporto triadico sapere/potere/sé (soggettivazione e cura di sé)49.

Dalla storicizzazione del concetto di spazio Foucault deduce che, nella contemporaneità, il passaggio dalla localizzazione (lo spazio gerarchizzato dell’epoca medievale) all’estensione (l’apertura a spazi infiniti, segnata dalla scoperta di Galilei che lo stato di quiete di un oggetto situato nello spazio non coincide altro che con il movimento

48

Questa è per esempio la prospettiva alla luce della quale alcuni filoni delle scienze geografiche hanno ponderato le proprie ricerche (cfr. infra).

49

Così Simone Vaccaro commenta l’excursus programmatico del filosofo in Spazi altri: i luoghi

(15)

rallentato all’infinito di quello stesso oggetto) lascia il campo alla delocalizzazione, definita sulla scorta delle «relazioni di prossimità tra punti o elementi»50.

A ogni modo la presa d’atto che la nostra è l’epoca in cui lo spazio si fa dispersivo e, nel rinviare a posizioni multiple e irriducibili, impermeabile a qualsiasi tentativo di formalizzazione in termini univoci, non impedisce a Foucault di condensare le proprie riflessioni su quei luoghi che «hanno la curiosa proprietà di essere in relazione con tutti gli altri luoghi, ma con una modalità che consente loro di sospendere, neutralizzare e invertire l’insieme dei rapporti che sono da loro stessi delineati, riflessi e rispecchiati»51.

Gli spazi che contraddicono tutti gli altri luoghi si suddividono in due grandi tipologie: le utopie, che designano ambienti privi di un’effettiva localizzazione («[s]i tratta della società stessa perfezionata, oppure del contrario della società stessa ma, in ogni caso, queste utopie costituiscono degli spazi fondamentalmente ed essenzialmente irreali»), e le

eterotopie, dei contro-luoghi in cui ogni spazio può essere riprodotto o sovvertito («[sono]

una sorta di luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto possano essere effettivamente localizzabili»)52. Già ne Les paroles et les choses (1966) Foucault contrasta utopie ed eterotopie, scrivendo:

Le utopie consolano: se infatti non hanno luogo reale si schiudono tuttavia in uno spazio meraviglioso e liscio; aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi facili anche se il loro accesso è chimerico. Le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la “sintassi” e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa “tenere insieme” [...] le parole e le cose. È per questo che le utopie consentono le favole e i discorsi: si collocano nel rettifilo del linguaggio, nella dimensione fondamentale della fabula; le eterotopie (come quelle che troviamo tanto frequentemente in Borges) inaridiscono il discorso, bloccano le parole su se stesse, contestano, fin dalla sua radice, ogni possibilità di grammatica, dipanano i miti e rendono sterile il lirismo delle frasi53.

Le eterotopie sono prodotte in ogni cultura, e sebbene non posseggano un carattere assoluto possono essere ripartite in due categorie: le eterotopie della crisi, cui rimandano tutti quei «luoghi privilegiati o sacri o interdetti, riservati agli individui […] in stato di crisi», e le eterotopie di deviazione, storicamente sostituitesi alle prime e raggruppanti «quegli individui il cui comportamento appare deviante in rapporto alla media e alle norme imposte»54.

50

M.FOUCAULT, «Spazi altri», in S. Vaccaro, op. cit., pp. 19-32, qui p. 21. 51

Ivi, p. 23. 52

Ivi, p. 24. 53

M. FOUCAULT, Le parole e le cose: un’archeologia delle scienze umane, tr. it. a cura di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1985 [1966], pp. 7-8. Corsivi nel testo.

54

(16)

Nella loro peculiare rilevanza teorico-politica, il vocabolario e la prospettiva di Foucault, e soprattutto le sue riflessioni sulle eterotopie, hanno mobilitato approfondimenti da parte di studiosi afferenti a settori disciplinari tra i più diversi – geografi, sociologi e urbanisti, per citarne alcuni –, nell’ambito dei quali sono state variamente elaborate le descrizioni lasciateci dal filosofo sulla produzione dei soggetti nella loro spazializzazione55.

Un sondaggio relativo alla natura delle indagini su Foucault e lo spazio permette, infatti, di verificare che la spendibilità dei “materiali foucaultiani” supera facilmente il tracciato duplice delle utopie e delle eterotopie per incrociare sovente la dimensione del governo, o meglio ancora «la ridefinizione delle relazioni di potere in termini di governo, come capacità di ‹strutturare il campo di azione possibile degli altri›»56.

Parallelamente, spiegano Laura Cremonesi e Orazio Irrera, «la nozione di “governamentalità” contribuisce a mettere in evidenza la spazialità delle tecniche di governo e la forza produttiva – innanzitutto produttiva di spazialità – esercitata da ogni relazione di potere»57, come tra l’altro risulta manifesto all’interno dei contesti (quelli postcoloniali ne sono un esempio) in cui spazi e tempi differenti convivono gli uni accanto agli altri, sovrapponendosi, o ancor più spesso scontrandosi.

Sensibile alla lezione di Foucault, anche Michel De Certeau si fa interprete dell’inderogabile capacità dei soggetti di interagire con le forme con cui si esprime l’autorità, ma nell’individuazione dei meccanismi di coercizione situati strategicamente nella società preferisce focalizzare la propria indagine sulle pratiche poste a fondamento di una cultura, riesumando i modelli di comportamento caratteristici degli utenti58.

Rispetto a Foucault, quello che interessa De Certeau è evidenziare «l’aspetto semiotico e antropologico inscritto nella fruizione dei beni e degli spazi sociali», che prima di lui era restato spesso subordinato a criteri distintivi capaci di circoscrivere l’identità dei consumatori in modo del tutto aprioristico, senza cioè ammettere «la possibilità di usi diversi e quindi significati differenti dello stesso prodotto»59.

55

Cfr. L.CREMONESI –O.IRRERA – D.LORENZINI et al., «Introduzione», Materiali foucaultiani, 1(1), 2012, pp. 9-15, qui p. 10. Per approfondimenti in merito alla rilevanza e all’efficacia del paradigma spaziale in Foucault rinviamo ai contributi che compongono il primo numero della rivista qui sopra menzionata, le cui pagine sono interamente consultabili all’indirizzo <http://issuu.com/materialifoucaultiani/docs/vol.1-n.1>.

56

L.CREMONESI –O.IRRERA – D.LORENZINI, op. cit., p. 11. Corsivi nel testo. 57

Ivi, p. 10. 58

Cfr. M. DE CERTEAU, L’invenzione del quotidiano, tr. it. a cura di M. Baccianini, Edizioni Lavoro, Roma 2010 [1980], p. 6.

59

C. DEMARIA, «Consumo produttivo», in M. Cometa – R. Coglitore – F. Mazzara (a cura di), Dizionario degli studi culturali, Meltemi, Roma 2004, pp. 106-14, qui p. 108.

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Un’analisi così concepita compare per esempio in Pierre Bourdieu, che studia le pratiche quotidiane di consumo come gesti con cui, negli spazi condivisi da gruppi o categorie sociali, vengono scanditi i processi di identificazione e differenziazione culturale: il consumo è, in questi termini, una pratica finalizzata all’espressione del senso dell’identità di classe, che raggiunge il suo massimo livello compatibilmente con «la diversità imposta dalla divisione del lavoro fra i sessi, le età, le occupazioni»60.

Nell’indagine dei meccanismi della vita e degli atti di consumo ripetitivi dei quali essa è intessuta, De Certeau si concentra invece sulla logica operativa – le «tattiche silenziose e sottili» – cui fa quotidianamente ricorso il consumatore per contravvenire, anche soltanto in modo impercettibile, alle imposizioni dell’apparato produttivo61

. Entro le intricate maglie del tessuto sociale

[i]l coinvolgimento del soggetto diminuisce parallelamente al[l’] […] espansione tecnocratica [dei sistemi tecnici]. Sempre più sottomesso e sempre meno partecipe di questi grandi sistemi, l’individuo se ne distacca senza però poterne uscire, e non gli resta che giocare d’astuzia, escogitare stratagemmi, scoprire, nella megalopoli elettronica e informatizzata, l’«arte» dei cacciatori di frodo e dei contadini di un tempo. L’atomizzazione del tessuto sociale conferisce oggi una pertinenza politica alla questione del soggetto. Come dimostrano, sintomaticamente, le azioni puntuali e le attività locali, fino ai movimenti ecologisti che attestano tuttavia una volontà prioritaria di gestire collettivamente i rapporti con l’ambiente. Questi modi di riappropriazione del sistema esistente, che esprimono la creatività dei consumatori, mirano a

rigenerare forme di socialità deteriorate e utilizzano tecniche di riciclo in cui si possono

riconoscere le procedure delle pratiche quotidiane62.

L’invenzione del quotidiano spetta a forme di “bracconaggio” che includono le pratiche più disparate – dalla lettura dei testi ai percorsi urbani di podisti e voyeurs solitari – e investono tutti gli spazi nei quali gli individui espletano le proprie ritualità giornaliere, appropriandosi degli oggetti che ne fanno parte e affrontando le autorità che vi sono inscritte.

L’aspetto più influente di questa antropologia del quotidiano è da ricercare con ogni

probabilità nella distinzione operata da De Certeau tra i concetti di strategia e tattica. Il proprio delle strategie, che riguardano i giochi di forza delle istituzioni, è di

«presuppo[rre] un luogo che può essere circoscritto […] e fungere dunque da base a una gestione dei rapporti con un’esteriorità distinta»63; all’opposto, le tattiche non hanno

60

M.ARCHETTI, op. cit., p. 56. 61

Il consumo, da intendersi come insieme di operazioni (pratiche quotidiane) per mezzo della quali la cultura viene interpretata e prodotta, è stato il riferimento analitico centrale di ricerche su cui si sono concentrate varie discipline e prospettive critiche, che includono – oltre all’antropologia del quotidiano di De Certeau – la sociologia dei consumi e dei processi culturali di Jean Baudrillard e del già menzionato Bourdieu (cfr. C.DEMARIA, op. cit., p. 106).

62

M.DE CERTEAU, op. cit., pp. 21-22. Corsivi nel testo. 63

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fondamenti né frontiere, e prive come sono di basi proprie, creano degli spazi negli ambienti già definiti dalle strategie. I calcoli tattici, specifica l’autore:

ha[nno] come luogo solo quello dell’altro. Si insinua[no], in modo frammentario, senza coglierlo nella sua interezza, senza poterlo tenere a distanza. Non dispon[gono] di una base su cui capitalizzare i [loro] vantaggi, prepararsi a espandersi e garantire un’indipendenza in rapporto alle circostanze. […] in virtù del suo non luogo, la tattica dipende dal tempo, pronta a «cogliere al volo» possibili vantaggi. Ma ciò che guadagna non lo tesaurizza. Deve giocare continuamente con gli eventi per trasformarli in «occasioni». Senza posa, il debole deve trar partito da forze che gli sono estranee64.

La dimensione spaziale del consumo acquista una maggiore importanza in corrispondenza della discussione sulle tattiche degli utenti: esse, infatti, definiscono modelli topografici e traiettorie, mettono in contatto tra loro territori altrimenti separati, e in generale coadiuvano «la modificazione del senso del luogo, che conduce gli spazi fisici a separarsi dalle comunità, e queste a creare nuovi spazi, più o meno virtuali, di consumo»65.

Anche la città, con i suoi infiniti punti di intersezione, diventa il luogo in cui gli abitanti esplicano una grande quantità di «pratiche minute» e sconosciute allo «spazio ‹geometrico› o ‹geografico› delle costruzioni visive, panottiche o teoriche»66. È nel groviglio di strade cui le moderne tecniche urbanistiche cercano di conferire un’impostazione utilitaria e razionalizzante, che ha propriamente luogo quell’insieme di procedure – variegate, scaltre, persistenti – attraverso le quali si moltiplicano a dismisura poteri sconosciuti alle corporazioni e agli enti istituzionali, forze «senza identità leggibile, senza presa identificabile né trasparenza razionale – e dunque impossibili da gestire»67.

Abitare la città significa concepire lo spazio percorso quotidianamente come se si trattasse di una sorta di mappa enunciazionale (è qui che De Certeau riconosce in modo

64

Ibidem. 65

C.DEMARIA, op. cit., p. 113. 66

M.DE CERTEAU, op. cit., p. 146. 67

Ivi, p. 148. L’osservazione delle tattiche che sfuggono ai sistemi di regolazione del potere tecnocratico si pone in relazione diretta con gli studi sugli strumenti della società disciplinare compiuti da Foucault in Surveiller et punir (1975). De Certeau tiene tuttavia a precisare che «questa via [è] anche il rovesciamento dell’analisi […] compiuta da Foucault. Egli l’ha spostata verso i dispositivi e le procedure tecniche […] capaci […] di trasformare una molteplicità umana in una società ‹disciplinare› e di gestire, differenziare, classificare, gerarchizzare tutte le devianze riguardanti l’apprendimento, la salute, la giustizia, l’esercito o il lavoro. ‹Queste astuzie spesso minute della disciplina› […] traggono la loro efficacia da un rapporto fra alcune procedure e lo spazio che ridistribuiscono per trasformarlo in un ‹operatore›. Ma […] [n]ell’attuale congiuntura caratterizzata dalla contraddizione fra modalità collettiva della gestione e modalità individuale della riappropriazione, [gli usi dello spazio sono] una questione non […] meno essenziale, se si ammette che […] ordiscono in effetti le condizioni determinanti della vita sociale» (M. DE

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esplicito il debito nei confronti della teoria sugli speech acts di John Searle), vale a dire come se il reticolato urbano fosse un tracciato manifesto/una lingua di cui il pedone/locutore si appropria mediante l’attuazione di tattiche deambulatorie che gli consentono di eludere il controllo previsto da chi si è reso responsabile della sua pianificazione68.

I passanti, ideatori inconsapevoli di disegni e pratiche organizzatrici, finiscono quindi per emettere «enunciazioni pedonali» diverse e variabili, che si distinguono tanto negli stili e nelle forme, quanto nel tipo di retorica di volta in volta dispiegata:

Lo spazio […] trattato e rivoltato attraverso le pratiche si trasforma in singolarità ingrandite e in isolotti separati. E attraverso ingrandimenti [operati dalle sineddochi, con cui si ingrandiscono i dettagli dello spazio minimizzando al contempo l’insieme], rimpicciolimenti e frammentazioni [realizzati con asindeti ed ellissi, che elidono elementi del continuum spaziale], ad opera della retorica, si crea un fraseggio spaziale di tipo antologico (composto di citazioni giustapposte) ed ellittico (fatto di vuoti, lapsus e allusioni). Al sistema tecnologico di uno spazio coerente e totalizzatore, «legato» e simultaneo, le figure podistiche sostituiscono percorsi che hanno la struttura del mito, qualora per mito s’intenda un discorso relativo al luogo/non-luogo […] dell’esistenza concreta, […] una storia allusiva e frammentaria i cui vuoti s’incastrano con le pratiche sociali che essa simbolizza69.

Lo spazio, che abbiamo visto essere immancabilmente regimentato e definito dal punto di vista sociale e culturale, rappresenta la marcatura costante di ogni esperienza, e il suo uso antropico (lo spazio è un «luogo praticato» dall’uomo, ci dice De Certeau) permette alla soggettività di esprimersi, sottraendosi agli ingannevoli livellamenti imposti da urbanisti, funzionari e politici70.

Per Henri Lefebvre l’ottundimento della natura «differenziale» di una società in realtà dinamica e multiforme può essere impedito solo tramite il riscatto dalla funzione che il quotidiano ricopre nel capitalismo, dove esso serve esclusivamente a riprodurre le caratteristiche imposte alla collettività da parte della classe dominante.

L’abitudine, con la sua temporalità inautentica perché disancorata dalla Storia, si riduce di fatto alla perpetuazione di rapporti sociali dati: costituendosi come una sorta di deposito sotterraneo internamente al quale si sedimentano gli strumenti omologanti e le menzogne del potere, gli atti consuetudinari della vita quotidiana erigono una barriera che trattiene l’inventiva individuale dall’esprimersi in modo autonomo.

Nell’operazione di analisi dei meccanismi strumentali al potere capitalistico Lefebvre dedica un’attenzione specifica alla dimensione sociale dello spazio, in altre parole alla dimensione in cui esso si costituisce come un insieme di relazioni tra soggetti che, attuando 68 Cfr. ivi, p. 151. 69 Ivi, p. 157. 70 Cfr. ivi, p. 323.

(20)

pratiche di consumo e produzione, si adeguano ai mutamenti cui il sistema spaziale può incorrere71. Nell’accezione che il critico marxista gli assegna, «[l]o spazio (sociale) è un prodotto (sociale)»72 contenente «oggetti molto diversi tra loro, naturali e sociali, reti e linee, canali di scambi materiali e informazione. […] Questi oggetti non sono soltanto delle cose, ma anche delle relazioni»73.

La teoria dello spazio trova la sua formulazione più cogente e lucida nelle pagine de

La production de l’espace (1974), dove Lefebvre cerca di introdurre le categorie spaziali in

un apparato speculativo sul quale – e questo, come abbiamo osservato in precedenza, non soltanto in materia di studi sociologicamente orientati – è stato in primis il tempo a poter vantare una forte e vasta incidenza.

Da grande anticipatore delle questioni che negli anni successivi avrebbero permeato gli orizzonti critici della geografia umanistica (cfr. infra), Lefebvre rintraccia nello spazio la manifestazione più cogente delle relazioni sociali, assunto questo che giustifica il passaggio dalla disamina del medium spaziale come contenitore neutro e sostanzialmente ininfluente a quella del medium spaziale come mezzo attivo e obiettivo nella lotta per la riproduzione dei rapporti di produzione74.

Per circoscrivere lo spazio sociale, Lefebvre muove dal campo fisico (la natura, il cosmo), mentale (la logica e le astrazioni formali) e sociale (il consorzio degli individui, che esplicano la propria attorialità sociale tramite la creazione di uno spazio dotato di determinate forme produttive e riproduttive), allargando le proprie ricognizioni a diversi settori del sapere – dalle discipline di più recente fondazione come la sociologia, l’ecologia, la linguistica fino a quelle di solida tradizione, come la matematica e la fisica – nella convinzione che lo spazio sia un fenomeno «non ‹riducibile› a una sola disciplina

71

Nella Critica della vita quotidiana (Critique de la vie quotidienne I: introduction, 1947; Critique

de la vie quotidienne II: fondements d’une sociologie de la quotidienneté, 1962; Critique de la vie quotidienne III: de la modernité au modernisme, 1981) l’interesse maturato da Lefebvre per la

sociologia urbana andrà progressivamente focalizzandosi sulla disamina della graduale tecnologizzazione e burocratizzazione della società postbellica. A partire dal secondo volume della trilogia, infatti, il filosofo spiegherà il livellamento delle irriducibili contraddizioni dello spazio sociale con la preminenza acquisita dalle discipline che, come l’urbanistica, si occupano della pianificazione e della gestione del territorio.

72

H.LEFEBVRE, La produzione dello spazio, tr. it., Moizzi, Milano 1978 [1974], vol. 1, p. 48. Tutte le citazioni saranno tratte dalla presente edizione.

73

Ivi, p. 95. Per un commento mirato alla nozione di spazio come «creazione attiva» di reti di relazioni sociali, cfr. inoltre: P. HUBBARD – R. KITCHIN – B. BARTLEY et. al., Thinking Geographically. Space, Theory and Contemporary Human Geography, Continuum, London-New

York 2002, pp. 280-81. 74

Come evidenzia l’autore, è difatti «evidente che la transizione da un modo di produzione ad un altro […] è effetto di contraddizioni nei rapporti sociali di produzione, che non possono non inscriversi nello spazio, sconvolgendolo» (H.LEFEBVRE, La produzione dello spazio, cit., p. 66).

(21)

(che tra l’altro proprio perché ridotta e riduttiva serve al capitalismo e al neocapitalismo), [né] a sole forze economiche e produttive perché contenenti altre realtà dell’uomo»75.

Lo spazio oggettivo-fisico e quello soggettivo-mentale entrano nello spazio sociale

attraverso una «doppia illusione», che «dissimula [la] verità dello spazio (sociale)»76: la prima è l’illusione della trasparenza, che si ha in uno spazio «intelligibile» e aperto

all’azione umana senza alcuna resistenza («[l]a comprensione otterrebbe di far passare, senza ostacoli insormontabili, l’oggetto recepito dalle zone oscure alle zone illuminate»)77; la seconda è l’illusione realistica o dell’opacità, ovvero la visione che riduce il “reale” a nozioni materiali e naturali, rendendo in tal modo invisibile – e di conseguenza inconoscibile – l’immaginario («[n]el corso di ogni lettura, l’immaginario e il simbolico, il paesaggio, l’orizzonte che limita il percorso del lettore, sono illusoriamente considerati ‹reali›, perché i caratteri veri del testo […] sfuggono all’incoscienza dei ‹naifs› [sic]»)78.

Queste due illusioni, vicine rispettivamente all’idealismo e al materialismo,

non si combattono alla maniera dei sistemi filosofici, che si chiudono come corazze e cercano di distruggersi. Ognuna delle due illusioni contiene l’altra e la sostiene. Il passaggio, l’oscillazione intermittente dall’una all’altra, ha dunque la stessa importanza di ognuna delle due, considerate separatamente. I simbolismi derivati dalla natura offuscano quella chiarezza razionale che l’Occidente ricava dalla sua storia, da un conquistato dominio sulla natura. L’apparente traslucidità, catturata da oscure forze storiche e politiche in declino (lo Stato, la nazionalità) ritrova certe immagini derivate dalla terra e dalla natura, dalla paternità, dalla maternità. Il razionale si naturalizza, e la natura si ricopre di nostalgie che sostituiscono la ragione79.

Nelle società precapitalistiche lo spazio sociale contiene i rapporti di riproduzione

sociale (quelli bio-fisiologici tra sessi ed età, che sono ben esemplificati

dall’organizzazione della famiglia), e i rapporti di produzione (la divisione e l’organizzazione del lavoro), ma con l’avvento del capitalismo – e in special modo del neo-capitalismo – questo schema evolve su tre piani resi interdipendenti dallo spazio, che contiene le riproduzioni simboliche delle suddette relazioni per mantenerle in uno stato di coesistenza e coesione: la riproduzione biologica (la famiglia), la riproduzione della

forza-lavoro (la classe operaia) e la riproduzione dei rapporti sociali di produzione (i rapporti

che stanno alla base della società capitalistica)80.

75

Queste sono le parole con cui Leonardo Ricci commenta l’opera di Lefebvre nell’edizione italiana di riferimento (ivi, p. 13).

76 Ivi, p. 49. 77 Ivi, p. 50. 78 Ivi, p. 51. 79 Ivi, p. 52. 80 Cfr. ivi, pp. 53-54.

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