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LA BAIA DI SINES

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Academic year: 2021

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Politecnico di Milano

Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle Costruzioni

Corso di Laurea Magistrale in Architettura

Relatore:

Prof. Sergio Boidi

Correlatore:

Arch. Beatrice Quetti

LA BAIA DI SINES

Tesi di laurea di:

Sofia Speroni

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Indice: Abstract

STORIA DI SINES La vila e il termo Fondazione della vila La vila di Sines Il termo Il castello Il porto

La nuova politica economica Note

POETICA DEL PROGETTO Luce

Materia e materiale

Senza luce non c’è nulla Tipi di luce

Di fronte alle rovine Memoria

Ricerca dell’essenza Segno, luogo, riflessione Legami tra luce e rovine PROGETTO

Analisi e strategia progettuale Nuovo Porto

Auditorium

Piscine e attracco turistico

11 13 14 15 17 20 22 26 32 34 37 39 41 43 45 51 53 59 63 67 73 75 101 11 119

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6 Indice delle immagini:

fig 1. Mappa del promontorio di Sines

Estratto della Carta della Costa del Governo di Sines, 1790, Fonte: IGP, CA 282

fig 2. Maglia urbana con identificazione di chiese, strade e fonti, eremo di Senhora das Salas, São Sebastião e Sant’Antonio. Nella legenda si leggono 298 case e 15 crollate e ricostruite. Fonte: MC, Alexandre Massai, 1621

fig 3. Pianta della Vila di Sines

Disegno di João Gabriel Dechermont, 1790 Fonte: IGP, CA 415

fig 4. Sezione e vista interna della fortezza di Sines, 1770 Fonte: DIE/GEAEM, 3567 / V-3-31-43

fig 5. Foto del muro del castello dal lato ovest

fig 6. Pianta e progetto della calheta de Sines disegnato da Gabriel de Chermont, 1790

Fonte: IGP, CA 348

fig 7.8. Baia e Calheta di Sines

Fonte: cartolina illustrata: edizione J. Bruno Edit. Phot

fig 9. Cisterna di Yerebatan Saray, foto interna, Istambul

fig 10. Foto di dettaglio delle residenze di Chandigarh, nuovo piano urbanistico di Le Corbusier

fig 11. Foto di un dettaglio del Convento Sainte-Marie de La Tourette, Le Corbusier

fig 12. “The only sun/light in japanese architecture, lethe catastrophe point”, the art of memory collection

fig 13. Foto di dettaglio dell’oculo della cappella di Bruder Klaus, Peter Zumthor

fig 14. Church Of Light, Ibaraki, Tadao Ando

fig 15. Museu Paula Rego, Eduardo Souto de Moura, Cascais

fig 16. Terme del Foro di Pompei. Calidarium maschile

fig 17. Portico dell’abazia di Thoronet

fig 18. Foto di un porticato in Sicilia

fig 19. Pieter Saenredam, Interior of the Buurkerk at Utrecht

fig 20. Narbonne shadow and light, incisione 16 18 19 23 25 28 31 40 40 42 42 43 44 44 46 46 47 47 48

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fig 21. Foto della facciata interna laterale Cappella di Ronchamp du Haut

fig 22. Giovanni Battista Piranesi, Avanzi del tempio del Dio Canopo a Villa Adriana, 1761

fig 23. William Turner, Tintern Abbey, 1795, olio su tela, Londra, British Museum

fig 24. Convento do Carmo, Lisbona, ph. Tiburzi

fig 25. Convento do Carmo, Lisbona, ph. Fidalgo

fig 26. Foto di Cabo Espichel, Portogallo

fig 27. Antro della sibilla, stio archeologico di Cuma

fig 28. Incisione del Tempio di Mercurio a Baia, Napoli

fig 29. Foto attuale delTempio di Mercurio a Baia, Napoli

fig 30. Tempio di Diana, sito archeologico di Baia

fig 31. Settore di Sosandra, sito archeologico di Baia

fig 32. Altra veduta interna della Villa di Mecenate in Tivoli, Piranesi

fig 33. Tempio di Edfu, Egitto

fig 34. Tempio di Angkor Wat, Cambogia

fig 35. Tempio di Giove a Baalbek, Libano

fig 36. Resti del tempio del dio Canope, Villa Adriana a Tivoli, ph. Gabriele Basilico

fig 37. Dettaglio pagine interne Domus 548 / luglio 1975. Vista dell’ospedale Ayub, L. Khan

fig 38. Dettaglio pagine interne Domus 548 / luglio 1975. Vista 1 dell’edificio delle mense, L. Khan

fig 39. Dettaglio pagine interne Domus 548 / luglio 1975. Vista dell’edificio delle mense, L. Khan

fig 40. Dettaglio pagine interne Domus 548 / luglio 1975. Vista 2 dell’edificio delle mense, L. Khan

fig 41. Museo de Arte Kimbell, Louis Kahn, Ph. Parker

fig 42. Laura and Brady in the Shadow of Our House, Abelardo Morell,1994 48 52 52 54 54 56 56 58 58 60 60 61 62 62 64 64 68 68 70 70 71 99

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Indice degli elaborati grafici:

ANALISI E STRATEGIA PROGETTUALE Contesto

Evoluzione del territorio Localizzazione

Uso del suolo

Antico asse: Rua Direita Attuale asse

Nuovi assi Fruizioni

Analisi cromatica Analisi dei Layers

75 77 78 81 83 85 87 89 90 94 96

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NUOVO PORTO Viste d’atmosfera Vista assonometrica

Planivolimetrico e prospetto territoriale 1:500 Pianta livello piazza e sezione 1:200

Pianta livello porto e sezione 1:200 Pianta e sezione di dettaglio 1:100 AUDITORIUM

Planivolimetrico e prospetto territoriale 1:500 Piante e sezioni 1:200

Viste d’atmosfera

PISCINE E ATTRACCO TURISTICO

Planivolimetrico e prospetto territoriale 1:500 Piante e sezioni 1:200 101 102 105 106 107 108 109 111 112 114 117 119 120 122

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Il progetto di tesi riportato in seguito è frutto di un lavoro cominciato in Portogallo, nell’atelier del Professor Francisco Aires Mateus.

L’area presa in esame è la città di Sines, situata a poche centinaia di chilometri da Lisbona.

Una città controversa, che negli ultimi trent’anni ha puntato il suo sviluppo sull’industria portuale, ma anche terra natale di Vasco da Gama e quindi strettamente legata a storia e tradizione.

La ricerca che verrà proposta di seguito si focalizza sull’analisi della baia centrale della città, fulcro della vita cittadina, ma specchio di una realtà in espansione non controllata.

Con la volontà di ricucire la città in tre dei suoi punti nevralgici, questa tesi cerca attraverso interventi architettonici mirati di ripristinare un legame con la sua storia e la sua dimensione umana.

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La baia di Sines, città portoghese a poche centinaia di chilometri a sud di Lisbona, costituì sopra vari punti di vista un punto importante lungo la linea di costa tra la foce del fiume Sado e il capo di São Vicente. Essa possiede innegabili attributi che attirarono popolazioni: buoni fondali, adatti all’accoglimento di di imbarcazioni, protezione dai venti del quadrante nord e margini con alte scarpate che facilitano la difesa dai pericoli provenienti dal mare. Sebbene vulnerabile quando i venti soffiano da sud e soggetta agli attacchi dei corsari, le sue qualità favorirono lo sviluppo di comunità strettamente legate alla pesca, così come ad attività commerciali. Nella baia esistono ancora tracce di antiche attività umane, risalenti all’epoca romana, dove la pesca1 e le industrie saline rappresentavano il

ruolo centrale. Molto vicino sorgeva il conosciuto oppidum di Santiago do Cacém, di cui Sines sarebbe una sorta di gateway per i collegamenti commerciali con l’estero. Un poco più a sud anche la Ilha do Pessegueiro2 ha

rappresentato, in epoca romana, un significativo punto per l’industria e il commercio.

Sines, inqunato finis terrae, diventò un luogo propizio a ierofanie3. Il culto della Vergine, manifestato poi nella

Chiesa di Nossa Senhora das Salas, ha in realtà origine in antichi culti pre-cristiani. Nel periodo visigoto Sines ebbe un ruolo speciale come luogo sacro, così come testimoniano alcune incisioni rinvenute in una chiesa4 che

provengono da un santuario pluriconfessionale dal nome di “Igreja do Corvo”5.

I primi reperti scritti su Sines risalgono al 11906 in cui i

crociati nord europei già parlavano del potenziale di questa baia che, protetta dai venti provenienti da nord-ovest, permetteva un buon ancoraggio delle imbarcazioni. Per quanto riguarda l’assestamento umano, si tratta di un luogo naturalmente relazionato con le attività marittime, ma molto modesto7, motivo per cui in questi reperti

vengono menzionate le caratteristiche geografiche, non una popolazione o il castello. Nella penisola sud-ovest la popolazione si era in buona parte ritirata verso l’entroterra, lasciando il litorale, in una caratteristica organizzazione territoriale che si osserva nell’epoca della Riconquista.

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Quindi Sines non sarebbe stato propriamente un territorio deserto, ma uno spazio poco organizzato, forse con un’occupazione stagionale, determinata dalle vicissitudini belliche.

Terminata la Riconquista, a metà del XIII secolo, la fascia litorale dell’Alentejo8 diventa uno spazio di scarso e sparso

popolamento, con rare popolazioni che non sempre avevano la forza di riappropriarsi del territorio.

La vila e il termo

Nella terminologia medievale “vila” e “termo” rappresentavano rispettivamente l’agglomerato di popolazione che funzionava come sede della cellula municipale, e lo spazio rurale che ha coinvolto e contenuto, normalmente, alcuni villaggi, eremi, aree forestali, pascoli, zone di coltivazione di cereali, di vigne e alberi da frutto.

Fondazione della vila

Il XVIII e XIV secolo videro da nord a sud del Portogallo la fondazione e l’ampliamento di innumerevoli popolazioni lungo il litorale promuovendo la fondazione di vilas novas 9,

corrispondenti ai “bastides” dell’Europa Occidentale. Per metà del XIV secolo il villaggio di Sines, la cui baia era favorevole alle attività di pesca e di commercio marittimo, ebbe una significativa crescita, nonostante alcuni gravi inconvenienti, sia sul piano della sicurezza, sia sul piano della produzione agricola. Quindi, gli uomini più facoltosi, nonché gli unici con potere politico in quest’area, sollecitarono il Re D. Pedro I a concedere l’autonomia dalla vicina Santiago do Cacém, a patto della costruzione di un sistema di muraglie difensive. Il 24 Novembre del 1362, quindi, Siens diventò vila, con giurisdizione separata da Santiago do Cacém10. Lo stesso Re proclamò anche

i comuni di Lagos (1361) e Cascais (1364), in questa politica di incremento del commercio marittimo e di riorganizzazione della costa.

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e dei confini non fu tuttavia pacifica; molti abitanti di Santiago si sentirono privati di buona parte dei loro possedimenti, tra terreni agricoli e pascoli.

Dopo due anni di trattative e lotte tra gli abitanti dei due villaggi il municipio di Sines stabilizzò i suoi confini che rimasero intatti per più di un secolo. Tuttavia la stessa logica che aveva portato all’origine della comunità di Sines produsse la sua disgregazione nella fine del ‘400, con la separazione di Vila Nova de Milfontes (1486) e di Colos (1499), riducendosi ad una piccola unità amministrativa di appena 200 km quadrati.

fig1.Mappa del promontorio di Sines Estratto della Carta della Costa del Governo di Sines, 1790 Fonte: IGP, CA 282

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La vila di Sines

Sines è situata in una parte di costa alta del litorale e si trova nella logica mediterranea della scelta dei siti naturalmente difensivi. Non a caso il villaggio iniziò a svilupparsi attorno alla cerchia difensiva inglobando i primitivi insediamenti; e senza dubbio questo fenomeno anticipò o coincidette con un periodo di significativo dinamismo e di crescita del XV secolo. Le piante di Sines di inizio XVIII secolo mostrano il suo impianto tardo medievale con una rete urbana che si sviluppa da nascente verso ponente con un layout di strada geometrico fatto di isolati lunghi e stretti.

Questa regolarità era nota ai forestieri più attenti. Alla fine del XVIII secolo un viandante spagnolo scriveva “Sines consta de seis calles tiradas a cordel, comò las de Grandola levante-oeste” 11.

Il tracciato regolare nell’urbanistica medievale si prende come soluzione a problemi concreti, coma la colonizzazione rapida e la maggior facilità nella divisione dei terreni.

Nella sua maglia difficilmente si incontra uno spazio che si possa chiamare piazza, per questo l’isolato tra Rua do Cácere e Rua da Cadea è più corto e lascia nell’intersezione con le vie uno spazio adibito a piazza.

La parte della città ad est della Travessa do Norte12

era un’area che già appariva senza designazione toponomastica nelle piante di inizio XVII secolo e che poi diventò una zona dallo sviluppo più tardivo e socialmente meno “nobile”.

Subito dopo la vila, si trovava il Rossio: spazio di apertura o campo che aveva la funzione di punto di accesso per la città, di incontro e di scambio (poteva essercene più di uno) di cui si è sempre scritto nei documenti, ma di cui le mappe non hanno mai parlato. Non lontano, vicino alla strada per Santiago do Cacém, si trovava la forca, dove venivano giustiziati i criminali. Al contrario della gogna, che si ergeva all’interno del villaggio, le forche erano all’esterno, ma in punti ben visibili, solitamente su una piccola collinetta, a manifesto della giustizia.

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le dimensioni, che per le funzioni simboliche a cui erano associati, che per i materiali con cui erano costruiti. L’impianto del castello condizionò, con la propria posizione, l’agglomerato urbano, “spingendolo” verso nord-ovest. Oltre a questo, il castello finì anche per evitare che la città si espandesse nella direzione in cui si trovava.

La Rua Direita13 era l’asse centrale e strutturante e

occupava nella gerarchia delle strade un ruolo di comando dell’espansione est-ovest. Questa via era direzionata in parallelo al mare e collegava a ovest la Ribeira14 e

l’eremo di Nossa Senhora das Salas; la crescita in questa direzione si affacciava, tuttavia, con difficoltà su banchi di sabbia che coprivano il promontorio e che la rendevano difficilmente agibile nei momenti particolarmente ventosi. Sul lato est, lungo la Rua Direita affluivano le principali strade in entrata e uscita dalla vila.

L’aspetto affusolato degli isolati si deve a questa tipologia di crescita. Questo asse stradale era anche uno spazio economico e di socialità: lì si trovavano i principali stabilimenti commerciali, ci si relazionava con più frequenza

fig 2 .Maglia urbana con identificazione di chiese, strade e fonti, eremo di Senhora das Salas, São Sebastião e Sant’Antonio. Nella legenda si leggono 298 case e 15 crollate e ricostruite.

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e si trovavano le strutture di accoglienza per le persone in arrivo da fuori città.

La Rua da Praça, invece, era il principale asse longitudinale e legava due spazi importanti della vila: la piazza e il suo spazio aperto dove si trova la chiesa Matriz, con la chiesa dell’ospedale di Santo Spirito. L’uscita da questa strada verso nord portava ad un’area periferica ad utilizzo agricolo, mentre verso sud conduceva alla Praia Grande15. La piazza

in cui questa strada si apriva era, ed è tuttora, una piazza religiosa, dove si trovavano concentrate la Chiesa Matriz e la Chiesa do Espirito Santo e da Misericórdia; con la presenza di chiese, la prossimità al Castello e la vicinanza al mare e la discesa alla spiaggia, non poteva non essere un luogo speciale, definito appunto “punto quente”16.

La Chiesa Matriz era naturalmente l’edificio più noto, anche se, costruito sopra una chiesa primitiva, non si può parlare di un edificio di grande qualità in quanto sorgendo dissociata dalla via principale, si distacca dalla maglia d’occupazione; situazione che ha a che fare con la storia d’occupazione del sito.

fig 3. Pianta della Vila di Sines Disegno di João Gabriel Dechermont, 1790

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Di fronte alla chiesa, verso ovest, si trovava l’Hospital do Espirito Santo, con annessa cappella; si tratterebbe di un’istituzione medievale che non aveva scopi sanitari, come oggi lo intenderemmo, bensì basico albergo per viandanti, poveri e tutti coloro che necessitavano di assistenza.

La Chiesa di Misericórdia è data a metà del XVI secolo. Nel 1585 il Re autorizzò la sua costruzione a partire da quella vecchia cappella dell’ospitale.

Il termo

Se, con la fondazione, il concilio di Sines si equipaggiò di un termo con un’area significativo, dove esistevano alcuni nuclei di una certa importanza, come Cercal e Colos, a partire dalla dine del XV secolo quest’area si ridusse ad una fascia lungo il litorale, tra la ribeira da Sancha e la scarpata di Queimado, con circa 200 Kmq, confini molto simili agli odierni.

All’inizio del XVI secolo, il territorio era costellato di eremi, la maggior parte dei quali in prossimità della vila, devota a Nossa Senhora, o a vari santi: a Nossa Senhora das Salas. antico santuario marittimo, che la tradizione racconta sia stata edificata da D. Vataça, principessa greca, che data la devozione degli abitanti della vila, in particolare della gente del mare, venne rifatta, non senza polemica, da Vasco da Gama nel 1529; quella di São Pedro, costruita per iniziativa del commendatore D. Louis de Noronha, e aiutata dalle elemosine del popolo; quella di São Sebastião, costruita dal concilio, vicino alla strada per il Campo d’Orique; e quella si São Geraldo, a sud della vila, fatta erigere da Vasco da Gama17.

Gli eremi di Santa Comba, e Senhora dos Remédios, più lontani, stavano più legati alla popolazione rurale.

Quella di São Bartolomeu era l’eremo più grande, costruito vicino al mare, a circa 3 km a nord dalla vila; la devzione di questo santo, molto attiva nell’età media, era caratteristica nelle aree di pascolo.

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di Junqueira, era relazionata ai frati di São Paulo da Serra de Ossa.

La ribeira di Junqueira, dove furono recuperate le ossa in un monumento megalitico, che si pensava fossero le reliquie di São Tropes, ha un ruolo speciale, assieme a Senhora das Salas, per la geografia sacra. D. Teotónio di Bragança, nel 1591, inviò qui una missione per recuperare le spoglie del santo che furono rubate dalla Cattedrale di évora.

Senza dilungarci troppo in racconti popolari, possiamo però evidenziare la somiglianza tra gli altri luoghi marittimi, come São Vicente, che probabilmente appartengono alla stessa area ideologica, con radici in antichi miti orientali (egiziano ed ebraico).

Ricordiamo che nel 1190, un crociato a capo della III Crociata riferì di una vila, di epoca pagana, nel monte dove nasce l’area della Junqueira, e che non lontano già esisteva un castello detto Muntaga. Sempre in prossimità della vila, a sud, esisteva un piccolo convento francescano, costruito vicino alla costa nel 1504, a partire, secondo

tradizione, dai resti di un eremo di Sant António, fondata da un naufrago devoto.

La preferenza alla prossimità dell’oceano - in quanto luogo teofanico - molte volte si dimostra in questi eremi, come segnale di comunione con la natura, e ne spiega in parte la scelta. Questi eremi, alcuni di grande rilevanza religiosa locale, conferirono densità territoriali al termo, contribuendo ad una certa vivacità sociale della popolazione, che poi vi instauravano centri fisici di riunione. Comunque, nessuna di esse, nemmeno quelle più vicine al centro, diedero origine a nuove parrocchie, come invece era solito ad accadere dopo il Concilio di Trento18.

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Il castello

Nell’epoca del passaggio di Sines a vila, il mare continuava ad essere fonte incessante di pericolo. Per questo bisognava fortificare il sito che oltre alle necessità difensive era anche imperativo di affermazione di autonomia e simbolo di potere.

“Fare vila” significa edificare una cerchia difensiva, le nuove vilas medievali erano generalmente dotate di una struttura difensiva che garantiva l’efficacia della politica terrestre e marittima. Quando i nobili di Sines richiedettero l’autonomia a Santiago do Cacém, argomentarono che avevano cominciato la costruzione di un “muro” che volevano concludere; e fu attorno alla costruzione di questa muraglia che si giocò buona parte delle decisioni sulla questione dei limiti del termo.

Il castello non fu affatto semplice: nel 1423, più di sei decadi dopo la fondazione del concilio, ancora non era conclusa, essendo la sua popolazione considerata esigua per le necessità di difesa.

Nel 1424, tuttavia, la supplica del procuratore del popolo, fece sì che le richieste di conclusione vennero accettate e il castello iniziò ad avere funzione di rifugio per gli abitanti in caso di attacco.

Costituito basicamente da una alcáçova19 e da una

fortezza gotica che fungeva da recinto. La dimensione dell’area recintata, di circa 5000 mq, non permetteva di alberare molto; di certo la sua costruzione si effettua in un periodo in cui la popolazione stava crescendo e già occupava un’area dimensionalmente troppo grande per essere racchiusa tutta20. Il perimetro recintato poteva

servire come rifugio in caso di assalto nemico, ma le sue mura e soprattutto la sua torre, avevano principalmente una funzione simbolica. La torre, essendo residenza del sindaco e avendo una forte presenza visiva, rappresentava il potere che era esercitato direttamente nella vita della vila. Un trattato portoghese del secolo XVIII esplicava che nelle fortificazioni moderne i castelli medievali giocavano un ruolo importante perché suscitavano soggezione e quindi obbedienza agli abitanti.

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fig 4. Sezione e vista interna della fortezza di Sines, 1770 Fonte: DIE/GEAEM, 3567 / V-3-31-43

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Verso la fine del XV secolo, il sindaco e commendatore e Estêvão da Gama che abitava nel castello, fece lavori significativi, ma non lo “rimodernizò”, ovvero non adattò il castello alle armi da fuoco, nonostante si trovasse in un periodo in cui le fortificazioni iniziano ad essere adattate alle nuove armi. I primi progetti - non realizzati - di trasformare il castello in vera “macchina da guerra”, con i complimenti di artiglieria in cima ai baluardi e le installazioni per garantire maggiore autonomia, furono ad opera dell’ingegnere Alexandre Massai e vengono datati solo ad inizio del XVII secolo. L’adattamento del castello alle nuove esigenze belliche finì per essere solo parziale con la creazione di una piattaforma esteriore ad un livello più basso, dove si installò una batteria in direzione oceano, destinata a coprire la baia. La sua artiglieria risultava, però, installata ad una quota eccessivamente alta, facendo perdere efficacia al tiro. L’adattamento di una cerchia medievale a fortificazione moderna non era facile e, soprattutto in questo caso, la vicinanza della vila, e in particolare della Chiesa Matriz, impediva la costruzione di fossi e baluardi.

Il forte di Nossa Senhora das Salas, disegnato dall’ingegnere João Rodrigues Mouro, fu realizzato nel1680 per proteggere la baia dall’accesso di nemici, e avrebbe incrociato il fuoco con un’altra piattaforma posta su un pontile, che non fu mai realizzata.

Negli anni si è ebbero diverse difficoltà nel mantenere in buono stato la conservazione dei muri, specialmente dopo il terremoto del 1755, quando si rilevarono diversi danni che vennero riparati molto tempo dopo, ma senza significative alterazioni. Nel XVIII secolo, quindi, il castello continuava ad avere l’aspetto di una cerchia medievale, fatto insolito data la posizione lungo la frontiera marittima, da sempre riscontrata come zona delicata e suscettibile ad attacchi.

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Ad inizio XVII secolo, reperti scritti testimoniano di quanto il mare abbondava di sardine, sgombri e tonni, e la pesca iniziò a rivestire una dimensione aziendale, con due stabilimenti, uno del popolo della vila, e un altro degli abitanti di Setúbal, il che è rivelatore dell’evoluzione del settore peschiero.

In seguito però, nel 1544, iniziò a notarsi scarsità di alcune specie marine, o per lo meno questo fu il pretesto per una proibizione, che bandiva l’utilizzo di un certo tipo di reti per la pesca di sardine.

Nel 1758, Constantino Botelho de Lacerda Lobo, scriveva che nella costa alentejana esistevano ancora alcuni villaggi di pescatori, anche se “ridotti alla maggior decadenza possibile”.

Serve spiegare storicamente la posizione di Lobo: in un epoca in cui il Portogallo importava baccalà, i cui prezzi erano in ascensione, quello che si pretendeva di trovare era una soluzione che facesse superare il deficit alimentare; sostituire il baccalà con la sardina portoghese era uno dei suoi obiettivi.

Il porto

La qualità marittima di Sines, a metà del XIV secolo, stava nell’origine del suo nuovo statuto di vila. Lungo la costa a sud di Nazaré, i porti di pesca più importanti sorsero a partire dai piccoli nuclei di rifugi dei pescatori, già situati in punti protetti: gli esempi più chiari sono quelli di Peniche, Cascais, Sesimbra e Sines.

Pesca e commercio marittimo costituirono, come già visto in precedenza, due dei pilastri sui quali, sin dall’antichità, si fonda la fortuna di Sines e sopra i quali crebbe la sua importanza. Nonostante la pesca fosse un’attività sussidiaria in relazione all’agricoltura, essa assunse presto un ruolo di grande importanza. Nel 1517, i pescatori stipularono una fratellanza, alla quale aderirono tutti, o quasi, essendo ormai una categoria numerosa e ben radicalizzata nella società di siniense, in quanto diventata la fetta più consistente dell’encomio di reddito; le attività marittime erano arrivate a costituire una parte importante e fondamentale dell’economia del luogo.

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A partire da ciò si iniziò a pensare ad una commercializzazione del pescato verso aree più lontane e quindi alla necessità di avere uno spazio adibito alla salatura del pesce catturato21.

Da lì a poco, il piccolo rifugio naturale, formato da un banco di pietra e sabbia, nel lato est della baia, costituì il “porto”, dove si stazionavano le imbarcazioni e si faceva carico e scarico; che presentava però diversi ostacoli, non ultimo il fatto che non permetteva di ormeggiare più di 10-12 piccole barche.

Nelle prime rappresentazioni cartografiche, l’area costiera appariva come un piccolo borgo, con il suo rifugio dei pescatori e l’eremo di Nossa Senhora das Salas22.

Nel 1602, la popolazione, approfittando della campagna di opere di ingegneria idraulica, fece petizione al re perché la calheta venisse ampliata, così da poter ormeggiare fino a 60 barche, tra piccole e grandi, giustificandola con svariate argomentazioni, dal miglioramento delle condizioni di sicurezza, all’aumento di rendimento e la comodità di usufrutto diretto della comunità di Campo de Orique,

che poteva passare a ritirare il pesce direttamente e più comodamente.

Durante i primi due decenni del XVII secolo, la calheta fu oggetto di opere di rinnovamento, su progetto dell’ingegnere Leonardo Turriano, e successivamente dell’ingegnere Alexandre Massai, che si occupò della direzione dei lavori per quasi vent’anni. Al di là dei problemi, delle restrizioni e delle alterazioni al progetto, si trattò del primo grande lavoro di ingegneria idraulica realizzato nella calheta23.

La calheta rappresentò una bella preoccupazione per i responsabili locali per lungo tempo. Nella prima metà del XVIII secolo, la Camera Municipale di Sines mandò a procedere il suo desilting, con metodi piuttosto artigianali, che poi veniva tendenzialmente colmata con i sedimenti. Nell’ultimo decennio del XVIII secolo venne proposto il pagamento di una tassa all’uscita di ogni barca mercantile dal porto, al fine di finanziare i lavori, sostenendo l’enorme utilità di essi per il commercio marittimo.

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fig 6. Pianta e progetto della calheta de Sines disegnato da Gabriel de Chermont, 1790 Fonte: IGP, CA, 348

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Un altro spazio marittimo, la Praia Grande, giocò un ruolo complementare alla calheta, data la sua grandezza si prestava ad attività di ausilio, come lo stendere le reti da pesca e non ultimo la costruzione di barche come le caravelle, non frequenti in Sines, ma che lì avevano la possibilità di trovare mano d’opera capaci in questo genere di lavoro.

D’altro canto era un sito avvantaggiato perché lì si poteva trovare materiale più economico perché quando si parla di trasporto di prodotti in grande quantità, il metodo via mare non ha concorrenti, in termini di prezzo, velocità e sicurezza. L’area produttiva dei flussi commerciali del porto di Sines e del suo hinterland, era costituita in primo luogo, naturalmente, proprio dal termo di Sines e di Santiago do Cacém, e il suo raggio di influenza si allargava sino alle zone più isolate, cioè fino a Campo d’Ourique24, con cui

aveva un collegamento viario per Santiago, Cercal e Colos, e sebbene variando nel tempo e nelle tipologie di prodotti, si trattava sempre di importazione ed esportazione. Nel periodo tardo medievale e in epoca moderna, il principale

porto di arrivo dei prodotti locali era il porto di Lisbona dal quale poi partivano navi destinate al Nord Europa, ma nel primo terzo del XVI secolo, ci furono alcuni cambiamenti nelle rotte commerciali verso l’Andalusia che fecero sì che buona parte di questo commercio si realizzasse a partire dai porti dell’Algarve25.

Le prime notizie su Sines, in quanto porto esportatore, si datano nella seconda metà del XVI secolo, pochi anni dopo la fondazione della vila. Si tratta di una conosciuta carta di pedaggio del porto di Lisbona, datata 1377, che si riferisce a Sines in quanto porto di origine di cereali, vino e miele.

Uno dei principali prodotti di esportazione per tutto il XVIII secolo, il carbone, era soprattutto destinato a Lisbona, la grande città, che crescendo ne era sempre più bisognosa. La calheta di Porto Covo, uno dei terminali portali di Sines, si trasformò in uno dei punti di uscita del combustibile, se non, probabilmente, il principale. Di fatto, però, il carbone non faceva buona compagnia agli altri prodotti, dato lo spazio che occupava e la polvere che rilasciava.

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Dall’altro lato Sines riceveva via mare gran parte dei beni di cui necessitava (stoffe, sale…); e proprio il sale, che arrivava da Setúbal, era uno dei beni più importanti per la conservazione degli alimenti.

Oltre alla pesca e al commercio marittimo, il mare aveva suscitato un nuovo interesse relazionato alla terapia e al tempo libero. I bagni di mare cominciarono a divulgarsi assieme ai nuovi concetti naturalisti applicati alla medicina. Alla fine del XVIII secolo D. Frei Manuel scelse Sines per riposare e recuperare salute grazie all’aria del mare, e fu proprio lui uno dei primi rappresentanti dell’élite che in breve affluì a Sines per i suoi “bagni salati”.

Contemporaneamente nacque una nuova forma di guardare il paesaggio attraverso un’estetica del sublime; il “territorio del vuoto, fino al non detto, va, a partire da qui, ad esercitare un fascino crescente” sul saggio viaggiatore e su una fascia sempre più ampia di popolazione.

Durante il suo primo secolo di esistenza, quindi, Sines fu caratterizzata da una situazione geografica periferica nel vasto territorio del concilio, rivestendo al suo interno un

ruolo centrale sia a livello demografico che economico. Le costruzioni portuali e quelle militari, lungo il fronte oceanico, si radicalizzarono nella realtà locale e dato l’importante ruolo nella comunità scrissero la storia di Sines. Il porto marittimo, di pesca e commerciale, configurò profondamente il carattere della vila, in particolare modo quello della popolazione, e parallelamente anche il settore militare influenzò fortemente la sua esistenza: nel castello, costruito per la difesa contro le invasioni corsare, finì per installarsi una piazza d’armi che comprendeva le fortificazioni del litorale alentejano.

Verso la fine del XVII secolo si avvicinava una nuova era: l’Antico Regime iniziava ad agonizzare, anche se lentamente, il liberalismo iniziò a prendere piede in tutto il Portogallo e si iniziarono a leggere i primi segni della rivoluzione industriale, iniziando un nuovo ciclo economico e sociale, nel quale il porto e il mare giocavano il ruolo centrale.

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fig 8. Calheta di Sines Fonte: cartolina illustrata: edizione J. Bruno Edit. Phot fig 7. Baia di Sines

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La nuova politica economica

All’inizio della seconda metà del XX secolo, l’agricoltura occupava circa il 50% della popolazione attiva di un pae-se il cui sviluppo si stava rivelando tardivamente, rispetto alle altre città europee. Negli anni ’50 le industrie maggior-mente sviluppate erano quelle del ramo tessile, alimentare e della ceramica. Le condizioni economiche, industriali, e l’arretramento dell’agricoltura cominciarono a manifestarsi in forma più intensa in tutto il paese, e solo negli anni ’50-’60 si cominciò ad attuare una strategia politica che di-mostrava, in forma effettiva, la coscienza di questa realtà. Il modello di crescita applicato, basato su un orientamen-to interno, si rivelò obsoleorientamen-to, contribuendo attivamente all’aggravamento della situazione commerciale, in quan-to l’esportazione dei prodotti imputava un lucro residuo. Le fragilità del paese, del suo sviluppo industriale, così come dello scarso indice di esportazioni, cominciarono a suscitare critiche da parte delle organizzazioni internazio-nali, quali il Banco Mondiale e la OCDE. In questo modo si prese coscienza della necessità della definizione di un nuovo modello di economia portoghese, nel quale fosse

imprescindibile la definizione di strategie capaci di appros-simare il paese al grande mercato europeo, basata su fattori come la concorrenza internazionale e il vantaggio competitivo. Questa coscienza culmina con l’adesione del Portogallo alla EFTA (European Free Trade Association) nel 1959 ed è evidentemente esplicito nei piani di organizza-zione politica ed economica del paese che mostrano un modello di sviluppo. In questo contesto, a partire dall’idea di creare un’area concentrata di industrie base (localizzata attorno ad un porto dotato di condizioni favorevoli all’an-coraggio di grandi navi e vicino ad un centro urbano do-tato di servizi) ha origine, negli anni ’60, quella che venne chiamata Primavera Marcelista; in risposta agli obbiettivi di implementazione della politica, questa fu la prima iniziativa presa dallo stato in questo senso. Questo entusiasmo in-dustriale si collocava al di là di una necessità di applicazio-ne della nuova politica economica, istituendosi come uno strumento o un tentativo di ristabilire le simmetrie regionali dai quali era legato il modello di sviluppo. La definizione di questo progetto sviluppò non solo studi per la

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delineazio-ne e localizzaziodelineazio-ne di un’area concentrata di un’industria base (con raffineria, industria petrolchimica e metallurgica, e con servizi d’appoggio necessari come una centrale termoelettrica e un terminale minerale) ma anche studi di capacità raffinare le capacità energetiche o di sviluppare strumenti di promozione all’investimento. L’evoluzione tec-nologica del trasporto marittimo comincia a disegnare una tendenza all’aumento della capacità del trasporto navale, il che implica un aumento delle dimensioni e, inevitabil-mente, l’adattamento dei porti alle sue infrastrutture. Oltre a questo si registra un’alterazione dei sistemi di trasporto che passano, a partire dagli anni ’60, a stabilirsi in una for-ma più integrata, nell’Europa Occidentale, facendo emer-gere un sistema di reti internazionali basato non solo sulla relazione dinamica tra i vari mezzi di trasporto, ma anche nello sfruttamento di nuovi e innovativi sistemi di traspor-to come le pipeline (oleodotti, gasdotti e altri). Parallela-mente ai motivi di applicazione dei nuovi disegni politici ed economici, nazionali ed europei, si riconoscono i limiti del porto di Setubal e Lisbona, per quanto concerne la

rice-zione di grandi navi e date le caratteristiche morfologiche della costa di Sines l’interesse si sposta lungo quel tratto di costa. La costruzione di un pontile minerario in stretta relazione con le cave di pirites e marmo dell’Alentejo, con il suo calibro si collocava come elemento capace di lan-ciare lo sviluppo del Basso Alentejo, che all’epoca era una delle regioni più obsolete del paese. Da qui in poi partì un processo che vide nascere lungo la costa di Sines nu-merose installazioni portuali sia di carattere industriale che commerciale, oltre che per le caratteristiche morfologiche della costa, anche per la strategica posizione della città che incrocia le rotte commerciali marittime dell’Europa con l’Africa, e l’America del Sud. Nacque così un nuovo punto di vista verso il mare, che sostituì il vecchio porto di pesca con un congiunto strategico che culminò con la costru-zione di nuovi pontili, vie rapide di comunicazioni, ferrovie e altre infrastrutture che se da un lato incrementarono lo sfruttamento delle risorse marine, dall’altro tagliarono quel rapporto viscerale che l’uomo aveva sempre mantenuto con il mare, i suoi ritmi e le sue tradizioni.

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1 L’abbondanza di pescato è da associare al fenomeno di

upwelling; ovvero quando le acque di profondità, ricche di nutrienti, salgono in superficie.

2 Isola del pescatore.

3 Nel senso di miracolose manifestazioni di divinità. 4 Oggi le incisioni sono conservate nel Museo di Sines. 5 Chiesa del Corvo.

6 In questo periodo di riconquiste, il territorio di Sines era già considerato di appartenenza al Re del Portogallo.

7 I dati archeologici riguardanti il Castello appuntano “una fase di grande declino, forse addirittura di completo abbandono, che riguardò il periodo mussulmano”.

8 L’Alentejo, letteralmente “Oltretago”, è una regione del

Portogallo, che comprende la totalità dei distretti di Portalegre, Évora e Beja e parte dei distretti di Setúbal e di Santarém.

Confina con le regioni di Lisbona e Centro a nord, con la Spagna (Estremadura e Andalusia) a est, con l’Algarve a sud e con l’Oceano Atlantico a ovest.

9 Nuovi villaggi.

10 Questo documento fu esposto per la prima volta da Pedro

ed Acevedo nel 1921, divulgato da Arnaldo Soleade nel 1973 e pubblicato, assieme al diploma complementare del 1364, da A.H. de Oliveira Marques nel 1984.

11 Sines ha sei strade disegnate con la riga, come quelle di Grandola da est a ovest.

12 La Traversa Nord, assieme alla Rua da Praça -via della

piazza-, sono le arterie in direzione Nord.

13 La “Strada Dritta”, molto comune negli assetti urbani

medievali, non aveva ovviamente nulla a che vedere con un tracciato rettilineo, ma con l’idea di un legame il più diretto possibile tra due importanti poli di occupazione urbana. Corrispondeva alla Grand’ Rue, che attraversava le piccole città francesi.

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14 Importante spazio in cui si trovava la vita marittima di Sines (ovvero la parte sud del promontorio).

15 Oggi Praia Vasco da Gama. 16 Punto caldo

17 Area posta solitamente all’entrata delle vilas avente funzione di “barriera” da guerre e malattie.

18 Il Concilio di Trento favoriva la densificazione della rete parrocchiale.

19 Torre e residenza dell’ sindaco (chiamato alcaide)

20 Fonti archeologiche, reperite da Carlos Tavares da Silva e Joaquina Soares, confermano la cronologia qui raccontata, non solo della costruzione, ma anche dei successivi lavori (Silva e Soares, 1998)

21 Frequente metodo di conservazione della sardina portoghese e di altri tipi di pescato

22 Nel XVIII secolo gran parte dei “rifugi” dei pescatori erano inventariati nei beni della Camera Municipale. Nel XIX secolo iniziarono ad installarsi anche alcune industrie.

23 Designazione di piccola insenatura, baia o cala.

24 Territorio che abbracciava parte del litorale alentejano e la fascia sud dell’Alentejo.

25 Regione a sud del Portogallo che confina a nord con l’Alentejo e a est con l’Andalusia (regione meridionale della Spagna).

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fig 9. Cisterna di Yerebatan Saray, foto interna, Istambul fig 10. Foto di dettaglio delle residenze di Chandigarh, nuovo piano urbanistico di Le Corbusier

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Materia e materiale

“Quando, infine, un architetto scopre che la luce è il cardine dell’architettura, solo allora inizia a capire qualcosa, a essere un vero architetto. La luce non è un’entità vaga, diffusa, che si dà per certa perchè è sempre presente. Il sole non sorge invano per tutti e tutti i giorni. Al contrario la luce, con o senza teoria corpuscolare, è qualcosa di concreto, preciso, continuo, certo. È materia misurabile e quantificabile, come ben sanno i fisici ma sembrano ignorare gli architetti.”

Davide Turri

L’architettura si è sviluppata nel corso della storia grazie a due elementi primigeni: luce e gravità. Se la lotta per vincere, piegare la gravità si realizza in un dialogo che genera I’architettura, la ricerca della luce e la relazione che con essa si instaura sono i fattori che portano tale dialogo ai livelli più sublimi.

Si scopre allora, che la luce è in verità la sola in grado di vincere la gravità.

Così, quando I’architetto riesce a ingannare il sole, la luce, perforando lo spazio creato da strutture più o meno massicce, fa sì che tale spazio fluttui, leviti. Santa Sofía, il Pantheon o Ronchamp sono prove tangibili di questa condizione.

Potremmo quindi dire che la chiave risiede nella comprensione profonda della luce come materia, come materiale.

Il primo materiale della creazione, il più eterno e universale, diventa così l’elemento centrale della costruzione, della creazione dello spazio, nel senso più moderno del termine.

“L’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce”

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42 fig 11. Foto di un dettaglio del Convento Sainte-Marie de La Tourette,

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Senza luce non c’è nulla

Campo Baeza propone l’assioma “Architectura sine luce nulla architectura est” intendendo dire che niente e nessuna architettura è possibile senza luce. Senza di essa sarebbe esclusivamente una mera costruzione, mancherebbe un materiale imprescindibile.

“Se mi si domandassero dei consigli su come distruggere I’architettura, suggerirei di chiudere I’anello del Pantheon o di coprire le vetrate che rischiarano la cappella di Sainte Marie de la Tourette.” Se nel convento de La Tourette un frate domenicano appena arrivato, aIla ricerca di una maggiore concentrazione, chiudesse le vetrate e le aperture, scarse di numero ma precise, più che concentrato, diverrebbe tenebroso. La robusta costruzione non cambierebbe, e nemmeno la libera composizione, nessuno nei dintorni ci farebbe caso o, comunque, non subito, ma è sicuro che chiudendo I’anello del Pantheon e le aperture della cappella a La Tourette avremmo posto fine alI’architettura, e con essa alla sua storia.

fig 13. Foto di dettaglio dell’oculo della cappella di Bruder Klaus, Peter Zumthor

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Tipi di luce

Esistono molti tipi di luce: a seconda della direzione la luce può essere orizzontale, verticale, diagonale; in base aIIa qualità, possiamo distinguere la luce solida da quella dif-fusa. Nell’antichità, i nostri antenati non erano in grado di far penetrare la luce dall’alto (quella definita luce verticale) poichè, perforando il soffitto, insieme ad essa sarebbero entrati anche acqua, vento, freddo e neve; si dice che solo gli dei, immortali, osarono tanto nel Pantheon e Adria-no, in loro onore e di sua maAdria-no, innalzò quell’edificio subli-me. Nel corso della storia, dunque, la luce è sempre stata orizzontale, ottenuta, com’era logico, perforando orizzon-talmente il piano verticale, ossia i muri. Come i raggi del sole cadono su di noi diagonalmente, così gran parte del-la storia dell’architettura può essere letta come il tentativo di trasformare la luce orizzontale o diagonale in luce che sembrasse verticale. Lo stesso vale per il Gotico, che va visto non solo come il desiderio di creare una maggiore quantità di luce ma, fondamentalmente, di ottenere una

luce qualitativamente più verticale, in questo caso diago-nale. In ugual modo, molti degli interventi del Barocco sulla luce vanno considerati come il tentativo, grazie aIl’ausilio di ingegnosi meccanismi, di convertire la luce orizzontale in luce che sembrasse, e talvolta lo fosse di riflesso, verticale, ancor più verticale di quanto non fosse riuscito al Gotico. Il magnifico “trasparente” barocco creato da Narciso Tomè nella cattedrale gotica di Toledo rappresenta una lezione magistrale. Il tipo di luce - orizzontale, verticale o diagona-le - dipende dalla posizione del sodiagona-le rispetto ai piani che creano gli spazi. La luce orizzontale è prodotta dai raggi solari che penetrano attraverso aperture del piano vertica-le. Quella verticale si produce quando entra da aperture praticate nel piano orizzontale superiore. La luce diagonale attraversa sia il piano orizzontale che quello verticale. Si comprende quindi il motivo per cui non sia stato possibiie creare luce verticale in spazi climaticamente controllati fino aIl’apparizione del piano di vetro di grandi dimensioni, e uno dei cardini del Movimento Moderno, dell’architettura contemporanea, risiede proprio nel trattamento della luce.

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Come Edison, che avrebbe poi inventato la luce elettrica, Bernini, sommo maestro della luce, inventò quel metodo tanto semplice quanto geniale: utilizzando varie fonti visibili di luce, creava prima un ambiente di base con luce diffusa, omogenea, proveniente generalmente da nord, che illuminava e rischiarava lo spazio, e dopo averlo centrato geometricamente con le forme irrompeva in un punto concreto, occultando la fonte agli occhi dello spettatore, con un raggio di luce solida (luce gettata) che diventava protagonista dello spazio. Il contrasto tra i due tipi di luce, produceva, creando una furiosa tensione, un effetto architettonico di altissima qualità.

La luce, oltre a distinguersi per categorie e sfumature, non permette gli eccessi. Mescolare diversi tipi di luce in uno stesso spazio, annulla la possibile qualitá del risultato. La combinazione adeguata di vari tipi di luce permette infinite possibilità in architettura, e Gian Lorenzo Bernini, Le Corbusier, Antemio di Tralle, Alvar Aalto eTadao Ando lo sapevano bene.

In definitiva la luce è la ragion d’essere dell’architettura.

La Storia dell’architettura è ricerca, comprensione e dominio della luce.

Nel Romanico per il dialogo tra le ombre dei muri e la luce solida che vi penetra come un coltello, nel Gotico per un’esaltazione della luce che avvampa gli incredibili spazi con fiamme ascendenti, nel Barocco per quell’alchimia di luce dove, sulla saggia mescolanza delle luci diffuse, irrompe un raggio forte, capace di produrre ineffabili vibrazioni, ed infine, nel Movimento Moderno con l’abbattuti dei muri, che non è altro che un’inondazione di luce che ancora cerchiamo di controllare.

L’approfondimento e la riflessione sulla luce e sulle sue infinite sfumature dovrebbero essere I’asse centrale dell’architettura del futuro. Se le intuizioni di Joseph Paxton e i successi di John Soane sono stati il preludio aIIe scoperte di Le Corbusier e aIIe ricerche di Tadao Ando, il cammino è tuttavia ancora molto lungo. La luce è il Tema. Inizia così un percorso che cerca di far sentire il ritmo del tempo che regola la natura, armonizzando gli spazi con la luce e temperandoli con il cammino del sole.

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52 fig 22. Giovanni Battista Piranesi, Avanzi del tempio del Dio Canopo a

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Memoria

“Contemplare una rovina non è fare un viaggio nella storia, ma vivere l’esperienza del tempo, del tempo puro. Nel suo essere passato la storia è troppo ricca, troppo multipla e troppo profonda per essere ridotta ad un pez-zetto di pietra che la spieghi, un oggetto perduto e poi recuperato da un archeologo che cerca le relazioni spa-zio-temporali.

Nel suo essere presente il tempo è l’emozione dell’ordine estetico.”

Marc Augé

La rovina è un prodotto della decadenza, ma anche la materializzazione della reminiscenza, dove la questione del suo abbandono e del permanere nello spazio e nel tempo, sono fattori complementari.

Questa immagine di declino osservata, tanto in templi quanto in fortezze, costituì una relazione intrinseca tra la spiritualità, la meditazione e la contemplazione, in cui l’atmosfera lì creata esplora e dimostra nozioni di sacro e profano, spazio scenico e memoria architettonica. La rovina costituì, simultaneamente, la distruzione dell’uomo e degli effetti di natura.

“ […] è il fascino della rovina che genera l’apprezzamento

del lavoro dell’uomo in quanto prodotto della natura.” “La rovina di un edificio significa che quando l’opera d’arte sta per finire, altre forze e forme, come la natura, cresco-no; la rovina continua a vivere anche fuori dall’arte, e la natura, dal suo canto, vive in essa, facendo sorgere un nuovo vuoto, una caratteristica unitaria.”

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Per Simmel la rovina architettonica possiede due linguaggi comuni: lo svanire del lavoro artistico dell’architetto e l’accrescere di altre forze e forme. In questo modo, l’arte continua ad essere presente nella rovina e l’uomo diventa complice della natura.

La rovina completa la natura e diventa inospitale al tempo e alla storia perchè il paesaggio della rovina riproduce un passato incerto, ricco di trasformazioni e temporalità. La memoria è una specie di cerniera tra identità individuale e identità collettiva ed è molte volte considerata non necessaria, per questo, la percezione individuale necessita una azione di riflessione, perché senza memoria non esiste oggetto di riflessione, e quindi non si può avere un’identità cosciente.

La rovina trasmette quindi serenità e pace, e questo incanto deriva proprio dai suoi resti, che siano rovine come i fori rimani o che siano semplici pietre difficili da identificare.

Per Ruskin, invece, l’architettura è il principale veicolo di identificazione e preservazione della memoria,

affermandosi come rappresentante dell’umanità e della reminiscenza. La memoria dipende quindi dal passato, come se la sua dinamica assomigliasse ad un rituale; un rituale di riattivazione di questo passato. In questo modo i contenuti inerenti alla memoria stabiliscono un’identità, determinando così un’azione dell’individuo.

“È in quanto centralizzazione e protezione di questa influenza sacra, che l’architettura deve essere considerata, per noi, con un pensiero più serio. Possiamo vivere senza di essa e possiamo idolatrarla, ma non possiamo ricordare senza di lei.”

Ruskin

In “The Lamp of Memory” l’autore esplora il ruolo dell’architettura nella società, sostenendo che l’architettura debba riflettere la cultura del tempo in cui è costruita, difendendo gli edifici che devono essere costruiti per resistere al tempo e che devono essere decorati in accordo con le esigenze storiche e culturali.

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“Le rovine, recuperate o no, sono, in un determinato tem-po, luogo e monumento, una sorta di sintesi o di compro-messo: costituiscono l’oggetto di un’informazione docu-mentata e si inscrivono in uno scenario che indissociabile […] di modo che, paradossalmente, si costituisca un pun-to di arrivo che risponde alle aspettative del visitapun-tore, con un’immagine già formata e che sia anche un punto di vista a partire dalla scoperta di un altro paesaggio, di un altro spettacolo.”

Andreas Huyssen

Dal canto suo, Andreas Huyssen, invece, indirizza la questione della memoria e della storia relazionandosi all’architettura e sostenendo che l’individuo viva in una profonda alterazione della concezione di tempo, e che oggi sembriamo soffrire di un’ipertrofia della memoria, che è uno degli argomenti misteriosi che pensiamo di avere sotto controllo, ma che appena cerchiamo di definire si sgretola eludendo ogni tentativo di comprensione, che sia culturale, sociale o scientifico.

Ma la rovina non resiste eternamente al tempo, se non viene preservata in qualche maniera.

È un’architettura corrotta e trasformatrice dove la dicotomia spazio/tempo è presente: spazio in quanto fattore identitario e tempo in quanto decadenza lineare inevitabile.

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Ricerca dell’essenza

La rovina è un elemento situato tra spazio e tempo. È si-nonimo di memoria, per le trasformazioni che subisce nel tempo e per la permanenza dei suoi elementi, ed è in co-stante mutamento e sgretolamento. Si potrebbe dire che la rovina crea la forma presente di una vita passata ed i suoi contenuti non appartengono quindi a questa vita spe-cifica, ma al passato che l’ha creata con la sua essenza. Le arcate sono un metodo costruttivo che resiste e per-dura nel tempo, uno dei pochi elementi costruttivi esistenti dell’architettura militare che ancora si mantengono intatti. In questo modo, fortificazioni e arcate sono elementi che si completano e trasmettono ambienti per la meditazione, grazie alla loro mutabilità e presenza nel territorio, arrivando a trasformarsi in rovine.

Le rovine esistono per effetto di chi le ammira: con il pas-sare del tempo e la perdita della sua funzionalità, quel-lo che riesce a comprendere delle rovine è una specie di tempo esteriore alla storia, al quale l’individuo che la

contempla è sensibile, come se questo tempo aiutasse a comprendere la permanenza che ne verrà.

L’edificio della Calheta di Sines, edificato nel XVIII secolo aveva una relazione stretta con l’acqua, essendo il primo ridisegno della linea di costa della baia per garantire l’at-tracca o alle barche da pesca e commerciali; per questo ricopriva un ruolo importante nel legame tra terra e mare. Le rovine incrementano nella natura qualcosa che non è storia ma che ha a che fare con il tempo.

ToYo Ito afferma che non c’è paesaggio senza sguardo, senza la coscienza di un paesaggio. Il paesaggio delle rovine, che non riproduce integralmente nessun passato e che, dal punto di vista intellettuale, allude ad una molte-plicità di passati, in qualche maniera, è doppiamente me-tonimico, perché propone allo sguardo la doppia evidenza di una funzione perduta e di un’attualità ormai inopportuna. La rovina è un fenomeno trasformatore dell’architettura, dovendo essere visto come supporto, non come un me-todo concluso. È un continuum che si relaziona e si inter-seca con il presente, preservando la memoria, generando

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un fascino e una seduzione per i frammenti del passato. I resti dell’architettura sussistono per conferire piacere vi-suale in quanto esercizio concettuale, dove i dati del pre-sente, dell’attualità e della continuità, evocano il passato e l’essenza dell’architettura stessa. La rovina diventa così una ricostruzione presente dell’architettura passata, un segno, un luogo di riflessione, un fenomeno che rivela le nostre luci e le nostre ombre.

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Segno, luogo, riflessione

L’architettura è l’unica arte in cui la grande lotta tra volontà dello spirito e necessità delle questioni della natura produ-cono una reale tranquillità: quella in cui l’anima, nella sua costante lotta, e la natura, sono in equilibrio.

La rovina si può tradurre come una volontà immateriale di legare la natura all’edificio e può essere equiparata ad un’opera con una pura affermazione della sottrazione delle parti, dato che proprio queste parti (distrutte o scomparse) si prestano ad essere trasformate dall’invasione della natu-ra. In parallelo però, alcune rovine romane, pur posseden-do quella seduzione essenziale di qualcosa di perduto, nel tempo e nello spazio, non sono state vittime della natura che se ne appropria gradualmente, bensì dalla distruzione dell’uomo, perdendo così anche la loro vera essenza. “[…] non c’è niente di meglio che la forza della natura per

cominciare l’opera dell’uomo.”

Il vero fascino della rovina non è solo la capacità di mu-tamento, la capacità di adattarsi al tempo, ma anche, ed

essenzialmente, la forma di un opera umana intesa an-ch’essa come prodotto della natura. Essa ha la capacità di “costruire” un’interpretazione del presente, costituendo fascino del suo valore estetico.

Le rovine, in quanto oggetti lasciati all’abbandono dall’uo-mo al loro proprio destino, alle intemperie e alle insidie della natura, hanno la capacità di acquisire una vocazione indipendente dalla funzione iniziale per la quale sono state progettate, e finiscono per essere architetture che si sco-prono non solo con lo sguardo, ma anche il tatto e l’olfatto, sviluppando così un lato più sensoriale e cognitivo dell’in-dividuo. Non è solo l’aspetto esterno che rivela la sua vera essenza e la percezione, ma anche l’interno, il suo vuoto, tanto temporale quanto spaziale.

La luce e l’ombra, la geometria dello spazio, il pensiero, sono fattori che troviamo facilmente in un’architettura fuori dal tempo, ma in costante mutazione fisica. I templi ripor-tati sono spazi sacri che, nonostante i secoli che li sepa-rano e nonostante i differenti linguaggi architettonici, riflet-tono l’idea di un sistema influenzato e alterato dal tempo.

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fig 35. Tempio di Giove a Baalbek, Libano fig 36. Resti del tempio del dio Canope, Villa Adriana a Tivoli, ph. Gabriele Basilico

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La rovina, anche se è un fenomeno di trasformazione dell’oggetto, è una forma di comprensione della sua strut-tura originale; ovvero, un edificio trasformato in rovina, rap-presenta una densità silenziosa nello spazio, fa “sparire” alcuni elementi nello spazio e nel tempo, facendo della struttura architettonica, ovvero la parte più percettiva, il suo limite.

Guardando e toccando una rovina ne percepiamo la vera essenza, comprendiamo meglio la sua organizzazione e l’atmosfera dei diversi spazi, contempliamo il paesaggio che la circonda in un’altra forma, più intima e intrinseca. La rovina può determinare così una forza fenomenologica dello spazio, una specie di monumento sublime sia per il suo simbolismo che per la scenografia romantica che crea; una scenografia sublime che riproduce e conserva l’architettura.

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68 fig 37. Dettaglio pagine interne Domus 548 / luglio 1975.

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Quando lo si costruisce un edificio è ancora libero dal servire, il suo spirito è elevato, la natura non lo invade, neppure uno stelo d’erba può crescere sul suolo che occupa.

Quando un edificio invece è completo, in funzione, sembra voglia parlare dell’avventura del suo farsi, ma la storia che racconta è di scarso interesse. Quando l’uso si esaurisce, invece, e la costruzione diventa una rovina, ritorna ad essere percepibile la meraviglia del suo inizio.

Strettamente legato a questo è il concetto che la luce sia fonte di ogni presenza e la materia sia luce consunta. Ciò che la luce crea, proietta un’ombra e l’ombra appartiene alla luce; infatti percepiamo la presenza di una soglia, che separa la luce dal silenzio, che porta dal silenzio alla luce, immersa in un’atmosfera ispirata, dove il desiderio di essere e di esprimersi rasenta il possibile. La roccia, il vento, il corso d’acqua sono fonti di ispirazione. Sia in natura che nell’arte la forma è ciò che rende riconoscibile un intero costituito di parti inseparabili, basti pensare ad ogni granello di sabbia che nella spiaggia ha

un colore, una forma, una posizione e un peso naturale e partecipa ad un continuo gioco di equilibri governato solo dalle leggi della natura.

Ciò che l’uomo crea deve rispondere alle leggi della natura ed è determinato da regole scelte; la natura, invece, crea senza l’uomo, ma ciò che l’uomo crea, la natura non può produrlo senza l’uomo.

Negli interni ciò che è meraviglioso è l’atmosfera che la luce conferisce allo spazio. La struttura da forma alla luce. Una colonna accanto all’altra porta la luce nell’intervallo creando un susseguirsi ritmico di ombra e luce.

All’inizio l’erigere un muro era questione di protezione, ma nel creare un ambiente le aperture sono fondamentali. Anche una stanza pensata per essere buia ha bisogno di almeno una fessura di luce per comunicare la sua oscu-rità.

Nelle opere di tanti architetti, che già in passato hanno affrontato questi temi, risulta evidente come i due concetti di luce e rovina, o se vogliamo di memoria, siano stretta-mente legati.

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70 fig 39. Dettaglio pagine interne Domus 548 / luglio 1975.

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Si pensi all’opera di Louis Kahn e a quanto per lui la grandezza romana abbia riempito la mente.

In molti suoi progetti la luce zenitale è accompagnata dal revival di elementi romani come la volta, che gli ha consentito di creare grandi altezze, senza però mai dimenticarsi della scala umana.

“Tutta la materia è luce… È la luce che, quando termina di essere luce, diventa materia.”

L.Kahn

Così nei progetti che seguono si crecherà di riproporre questi concetti di rovine e luce in un’interpretazione moderna di un’architettura che oltre alla sua essenza affondi le radici nelle origini, nella memoria e quindi nella tradizione storica di un luogo che sembra averne perso i contatti.

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76 Contesto CONTESTO porto lisbona SINES

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porto

lisbona SINES

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Evoluzione del territorio

1790 1960 1988 2005

EVOLUZIONE DEL PAESAGGIO

1790 1960 1988 2005

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Localizzazione

cammino romano ferrovia

strade ad alta percorrenza pipeline

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Uso del territorio

limite del perimetro urbano zona naturale

zona forestale zona agricola zona marittima centro storico

a.1 centro città (‘60) a.2 zona fluviale (secolo XVI)

b.1 zona a nord della strada forestale (’80/’90) b.2 area portuale di Sines (‘80/’90)

b.3 quartiere norton de matos (’80/’90) b.4 quartiere marittimo (‘60/’70) b.5 quartiere operaio (’60/’70) b.6 quartiere di deposito (’60/’70)

b.7 zona a norde della via judice fialho (’60/’70/’80) b.8 zona a ovest della strada della costa nord (’90) c. quartiere das percebeiras (‘80)

d.1 quartiere 1° maggio (’70/’80)

d.2 quartiere soeiro pereira gomes (’70/’80) d.3 cinta degli uccelli (’80)

d.4 area nascente della città (’70/’80) e.1 quartiere di san pedro (‘90) e.2 area nord (’70)

f. zona di industria leggera (’90) g.1 zona di espansione sud (secolo XXI) g.2 monte chaos

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a.2 a.1 c. b.5 b.1 b.2 b.3 b.4 b.6 b.7 b.8 d.1 d.2 d.3 d.4 e.1 e.2 f. g.2 g.1

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Antico asse: Rua Direita

I fase II fase III fase IV fase

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90 15 12 18 21 24 3 6 9 C E N T R O D ’ A R T E D I S I N E S C H I E S A M A T R I Z P O R T O D I P E S C A C A S T E L L O P O L O S C O L A S T I C O 15 12 18 21 24 3 6 9 C E N T R O D ’ A R T E D I S I N E S CH IE SA MA T R IZ P O R T O D I P E S C A C A S T E L L O P O L O S C O L A S T I C O Fruizioni

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15 12 18 21 24 3 6 9 C E N T R O D ’ A R T E D I S I N E S C H I E S A M A T R I Z P O R T O D I P E S C A C A S T E L L O P O L O S C O L A S T I C O

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Il territorio della penisola di Sines è un territorio controverso, che ha visto nella storia una rapida evoluzione morfologica dettata dallo sviluppo dell’industria portuale che negli anni ’70 ne ha modificato la sua conformazione.

Abbiamo già visto come storicamente il potenziale di quest’area abbia spinto all’insediamento nella baia centrale, oggi intitolata a Vasco da Gama, per la protezione dai venti che essa riceve dal promontorio occidentale.

Lo sviluppo industriale ha portato poi alla nascita di infrastrutture portuali ai margini di questo centro storico, escludendolo dal processo di industrializzazione che molto rapidamente ha investito tutta la costa della città di Sines.

Oggi la baia Vasco da Gama è vista come una piccola eccezione di urbanità in un contesto ormai completamente ceduto alle industrie.

Sebbene questo punto di costa, che misura poco più di mezzo chilometro, rappresenti qualcosa di estremamente prezioso per la comunità di Sines, è evidente che il suo potenziale non sia sfruttato appieno.

Da questa osservazione nasce l’idea generale dell’intervento, che rispetto ad una realtà che punta tutto su tecnologia e lo sviluppo, vuole porsi dalla parte dell’uomo, intervenendo per migliorare tutta la Baia Vasco da Gama, cercando di riallacciare, tramite interventi mirati, quel legame che da sempre l’uomo ha stretto con il mare, la natura e i suoi ritmi.

Così si sono identificati tre punti critici, nonché quelli con il maggior potenziale, ovvero il piccolo porto di pesca, l’ascensore e l’attracco turistico.

L’analisi per immagini che è stata svolta si è resa fondamentale per l’osservazione della conformazione di questa parte di territorio che si può schematizzare in quattro fasce: spiaggia, strada, falesia e città, e che presenta dunque uno sviluppo per sovrapposizione di layers orizzontali. Le scelte di intervento sono tutte molto radicali e prevedono non solo la creazione di un nuovi edifici che prendono il posto di attuali strutture ormai obsolete, ma anche il ridisegno della “linea di costa” con un linguaggio generale coerente in tutti i tre interventi.

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Figura

fig 2 .Maglia urbana con identificazione di chiese, strade e fonti, eremo               di Senhora das Salas, São Sebastião e Sant’Antonio
fig 3. Pianta della Vila di Sines            Disegno di João Gabriel Dechermont, 1790
fig 4. Sezione e vista interna della fortezza di Sines, 1770           Fonte: DIE/GEAEM, 3567 / V-3-31-43
fig 5. Foto del muro del castello dal lato ovest
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