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L'Indice dei libri del mese - A.09 (1992) n.05, maggio

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(1)

Marco Belpoliti

1 poliziotti di Flann O'Brien

Lucia Borghese

Paolo Monelli

Cartoline di Franz Marc

e lettere di Else Lasker-Schùler

Dario Puccini

Le memorie di Buhuel

Vittorio Foa

Alexander Stille: ebrei italiani

nella tormenta

Franco Ferraresi

Diario americano

Lina Bolzoni

Paolo Rossi: oblio e memoria

Rossella Sleiter

Follia e poetica dei giardini

f i

-li Libro del Mese

Vincenzo Consolo

Nottetempo casa per casa

recensito da Silvio Perrella

(2)

RECENSORE

TITOLO

H Libro del Mese

4 Silvio Perrella Vincenzo Consolo Nottetempo casa per casa

Intervista

Il suddetto e i parrucconi, colloquio con Vincenzo Consolo

Narratori italiani

5 Massimo Onofri Gesualdo Bufalino Calende greche

7 Dario Voltolini Maurizio Maggiani Felice alla guerra

Sergio Peni ... „„ Luig» Malerba Le Pietre Volanti

Letteratura

m

8

Romano Luperini Cesare Segre Intrecci di voci

Luca Clerici Nicola Ghiglione Finestre. Poesie edite e inedite (1939-1988)

9 Giorgio Bertone Enrico Testa Simulazione di parlato. Fenomeni dell'oralità

nelle novelle del Quattro-Cinquecento

10 Marco Belpoliti Flann O' Brien Il terzo poliziotto

11 Gianfranco Giovannone Franco Marucci (a cura di) Il Vittorianesimo

12 Lucia Borghese Franz Marc, Else Lasker-Schiller Lettere al cavaliere azzurro

Elisabetta Covini Ingeborg Bachmann Il sorriso della sfinge

13

Letture

ìussùf ovvero il Doge di Locamo, di Paolo Monelli

15 Lia Wainstein Anna Achmatova La corsa del tempo. Liriche e poemi

16 Giulia Poggi Octavio Paz Sor Juana Inés de la Cruz o le insidie della fede

José Manuel Martin Moràn Luis Landero Giochi tardivi

17 Ugo Serani José Saramago Una terra chiamata Alentejo

18 Michel David Roberto Speziale Bagliacca Crescere corvi. Psicoanalisi di "Madame

Bo-vary" e "Re Lear"

19

Libri per bambini

Eliana Bouchard Bianca Pitzorno Ascolta il mio cuore

Fernando Rotondo Gianni Rodari Il ragioniere a dondolo, e altri

20

• Cinema

m

Guido Fink Emanuela Martini Storia del cinema inglese

Dario Puccini t } Luis Buhuel Dei miei sospiri estremi

22

Fabbrica del Libro

m

Torchi, grilli e altre schegge,, di Luca Rastello e Sonia Vittozzi

25

Inserto Schede

m

RECENSORE

AUTORE

TITOLO

Novità marzo

Silvio Guarnieri

SENZA I CONFORTI DELLA RELIGIONE Mario Tronti C O N LE SPALLE AL FUTURO Friedrich Engels LA SITUAZIONE DELLA CLASSE OPERAIA IN INGHILTERRA John Locke

TRATTATO SUL GOVERNO

A cura di Lia Formigari

I

Editori I Riuniti

i l l B l M I l i l i l f t ' l l l l l l l l ì

Bruno Cartosio

A N N I INQUIETI

Società media ideologie negli Stati Uniti da Truman a Kennedy

Michel Crouzet

STENDHAL IL SIGNOR ME STESSO

2a edizione

D'Antonio, Lunghini, Rodano , Vaccarino LA CRITICA IN ECONOMIA Su Claudio Napoleoni Paolo Corsini Gianfranco Porta AVVERSI AL REGIME Silvia Albertazzi BUGIE SINCERE Narratori e narrazioni 1970-1990 AA. W . TRA SIMBOLISMO E AVANGUARDIE

Studi dedicati a Ferruccio Masini

A mag Antonio Gramsci CROCE E GENTILE Antonio Gramsci DANTE E M A N Z O N I Antonio Gramsci FOLCLORE E SENSO COMUNE Antonio Gramsci PIRANDELLO IBSEN E IL TEATRO Raymond Williams

IL POPOLO DELLE

MONTAGNE NERE

Romanzo

(3)

RECENSORE

AUTORE

TITOLO

Il romanzo fantastico di un grande studioso. Una saga attraverso i millenni

I Grandi pp. 416

41

Libri di Testo

Giuseppe Pucci Andrea Carandini Storie della terra

42

• Arte

Adriano Prosperi Maurizio Ghelardi La scoperta del Rinascimento

Albano Biondi Adolfo Venturi Memorie autobiografiche

Storia e Politica

m

44 Marino Zabbia Bernard Guenée Storia e cultura storica nell'occidente medievale

Filippo Gentiloni Pier Cesare Bori Tolstoj. Oltre la letteratura

Leone Tolstoj Il Regno di Dio è con voi

Tolstoj verde. Il Primo Gradino e altri scritti

45 Cristina Mossetti Daniel Roche Il linguaggio della moda

Massimo Vallerani Mario Ascheri Diritto medievale e moderno

46 Vittorio Foa Alexander Stille Uno su mille

47

Inedito

Tre soluzioni. Testamento politico, di Nicu-Aurei Steinhardt

49 Laura Balbo Stefano Rodotà Repertorio di fine secolo

50

Letture

Diario americano, di Franco Ferraresi

Filosofia e Scienze

m

52 Lina Bolzoni Paolo Rossi Il passato, la memoria, l'oblìo

Stefano Zecchi Franco Restaino Storia dell'estetica moderna

53 Gabriele Usberti Marco Santambrogio (a cura di) Introduzione alla filosofìa analitica del linguaggio

55 Marco Sassoè Gerald M. Edelman Il presente ricordato

57 Simona Argentieri Judith M. Hugues Judith M. Hugues La Psicoanalisi e la teoria delle relazioni og-gettuali

58

Giardini

m

Rossella Sleiter Ch. Moore, W. Mitchell, W. Turnbull jr. La poetica dei giardini

Liber

m

59 Un'allegoria politica di Volker Braun, di Anna Chiarloni

Ifigenia in libertà, di Volker Braun

61 Biblioteca Europea

62 Un Rimbaud molto vistoso, di Jean-Baptiste Goureau

63

Lettere

RECENSORE

AUTORE

TITOLO

I

Editori I Riuniti

Novità aprile Rudolf Arnheim PARABOLA DELLA LUCE SOLARE

Arte e matematica, Italia e Giappone. Al di là delle estetiche

Giovanni Macchia

LA SCUOIA DEI SENTIMENTI

Passioni e ragione nel teatro del Grand Siècle

Jean-Luc Godard

INTRODUZIONE ALLA VERA STORIA DEL CINEMA

Gli amori del più amato tra i registi

Domenico Losurdo

HEGEL E LA LIBERTA' DEI MODERNI

Un nuovo Hegel già discusso in tutta Europa Enrico Ghidetti ITALO SVEVO Josef Macek IL RINASCIMENTO ITALIANO

Prefazione di Eugenio Garin

Roberto Longhi

CARAVAGGIO A cura di Giovanni Previtali

Il più famoso tra i libri del grande maestro

Edoardo Sanguineti

DANTE

REAZIONARIO

Agostino Lombardo

PER UNA CRITICA IMPERFETTA

P.M. Sweezy C.Bettelheim

IL SOCIALISMO IRREALIZZATO

Michele Ciliberto

(4)

M A G G I O 1 9 9 2 - N . 5, P A G . 4

Il Libro del Mese

Tra etica e barocco

di Silvio Perrella

VINCENZO CONSOLO, Nottetempo casa per casa, Mondadori, Milano 1992, pp. 175, Lit 28.000.

Accidenti com'è difficile raccon-tare il nuovo libro di Vincenzo Con-solo. Lo leggi una prima volta, in bozze, e ti sembra, più che un libro, una raccolta di pagine, alcune così belle da poter essere paragonate ai mosaici della cattedrale di Cefalù. Poi lo rileggi, incartato nella raffina-ta confezione editoriale, la donna col turbante e la candela sulla sovracco-perta, uno dei passi chiave estrapola-to e riportaestrapola-to al posestrapola-to della solita fo-tografia, nella quarta di copertina, e hai paura che Consolo abbia avuto voglia di blandire il pubblico, co-struendo uno di quei libri definiti qualche tempo fa best seller di quali-tà. Per di più tutti sembrano sapere che questo libro è predestinato a vin-cere il premio Strega (Marco Lodoli porge, dalla colonne di "Repubbli-ca", degli ironici auguri); e "L'Indi-ce" ha deciso di sceglierlo come libro del mese, affidandolo, chissà perché, proprio a me, senza sapere che sono nato a Palermo, dunque non lontano da Sant'Agata di Militello, paese di Consolo. E allora?

Allora mi pare che questo libro porti con sé una buona dose di equi-voci, non ultimo quello della sua "politicità". Molti amici, ad esem-pio quelli di "Linead'Ombra", dopo

Lunaria e Retablo (è vero che ci sono state anche Le pietre di Pantalica, ma molti l'hanno visto soprattutto come un libro-laboratorio), si aspettano da Consolo qualcos'altro, qualcosa che faccia maggiore frizione con la real-tà. Per di più, questo è il primo libro dello scrittore siciliano che viene

R - A - R - A

I S T I T U T O E D I T O R I A L E DI B I B L I O F I L I A E R E P R I N T S

Bossi - Nogueira

Storia dell'elmetto italiano Presentazione

del Gen. Franco Angioni 2 1 , 5 x 3 0 , 5

pp. 116

75 ili. b/n e a colori f.t. L. 7 5 . 0 0 0

Giorgio Rochat

L'esercito italiano in pace e in guerra.

Studi di Storia militare 1 7 x 2 4

pp. 386 32 ili. b/n f.t. L. 4 8 . 0 0 0

Agente per la Lombardia: Russano Cav. Giovanni via Gaetano Strambio, 4 2 0 1 3 3 - Milano Tel. 0 2 7 3 8 0 7 8 9 Fax 02 7 0 1 0 7 2 0 4 Agente per il Lazio: R Libri s.r.l.

Via Sforza Pallavicini, 11 00191 Roma Tel. e Fax 0 6 6 8 7 7 5 0 7 V i a R e z i a , 4 - 2 0 1 3 5 M i l a n o T e l . 0 2 5 4 5 5 1 9 4 5 4 5 2 1 5 4 F a x 0 2 5 4 5 8 6 3 9 • M R A R A - ISTITUTO EDITORIALE B B DI BIBLIOFILIA E REPRINTS f a p a r t e d e l g r u p p o SUMMA EDITORI S.r.l. di M i l a n o

pubblicato dopo la morte di Leonar-do Sciascia, il quale, come si sa, era, insieme a Lucio Piccolo, uno dei suoi interlocutori più importanti. E mi sbaglierò, ma in Nottetempo casa per

casa c'è un passo nel quale è probabil-mente rimasto intrappolato proprio un dialogo con Sciascia: "Eh, la pen-na... Hai il dono della penna!" gli

di-quest'impressione, perché credo che

Nottetempo casa per casa sia il suo li-bro più autobiografico, dentro il qua-le convivono qua-le pulsioni più distanti, quelle pulsioni ben rappresentate nella sua vita dagli antipodi letterari di Sciascia e di Piccolo.

Come il barone Mandralisca nel

Sorriso dell'ignoto marinaio, Petro

nei grumi dell'ossidiana, cosparge 0 foglio di polvere, di cenere, un sof-fio, e si rivela il nulla, l'assenza d'o-gni segno, rivela l'impotenza, l'inca-pacità di dire, di raccontare la vita, il patimento". Ma ha già sperimentato che può giungere "a un limite, a una soglia estrema. Ove gli era dato anco-ra d'arrestarsi, ritornare indietro, di

Intervista

Il suddetto e i parrucconi

D. Lei, Consolo, è uno scrittore appartato, che ha pubblicato pochi libri, dedicando ad ognuno di essi molti anni di lavoro. Come ve-de, come giudica il mondo della letteratura di oggi e i suoi meccanismi editoriali?

R. Diciamo letteratura, ma dobbiamo inten-dere narrativa, romanzo o racconto. Ché la poe-sia, imperturbata e ignorata, procede sempre più nella sua sacra lontananza, nel suo infernale Eli-so o nel suo celeste Olimpo. Procede, lei figlia della Memoria, verso l'oblìo, in questo nostro presente immenso dell'estrema frontiera del pro-fitto. Presente che ha mutato ogni valore in mer-ce, ogni espressione in assoluta, squallida comu-nicazione. Il romanzo sta morendo o è già morto (no, non è il ritornello avanguardistico) e mai co-me oggi si sono prodotti tanti romanzi, mai se ne sono consumati così tanti. E ognuno d'essi è im-bonito come capo d'opera, come sommo frutto della più autentica letteratura, ognuno è imposto come indispensabile all'esistenza o quanto meno alla permanenza nello stato sociale in cui ci si è posti. Produce così, l'industria, come avviene per ogni altra merce, il romanzo per le masse, tristi e misere imitazioni d'altri tipi di moderne narra-zioni, giornalistiche o televisive, e il romanzo di lusso per l'élite, riproposte di vecchie, già sepolte squisitezze letterarie, neorondismi di professori pensionati o neomanierismi di anemici o brufo-losi scolaretti. I quali, professori e scolari, frene-tici cottimisti, solitari e alienati lavoratori a do-micilio, sono obbligati a produrre sempre più af-fannosamente per essere sempre più presenti

nel-l'affollata e vociferante borsa dei "titoli", sempre disponibili nel modesto mercatino riona-le o nelriona-le grandi fiere internazionali; sono

obbli-gati a calcare pateticamente ribalte, a cavalcare tigri, a urlare, farsi inverecondi finanche nelle finte, recitate ritrosie. Chi in questa sede è

invita-to a confessarsi dichiara allora che, dotainvita-to di una forte inclinazione a delinquere, ha cercato, fin

da quando ha mosso i primi passi nel territorio letterario, di violare le leggi oppressive della co-municazione e del mercato. Ha scritto poco e in un modo in cui la comunicazione era ridotta al minimo necessario, spostando proditoriamente la sua scrittura verso l'espressione, la forma in-congrua e irritante della poesia, praticando un linguaggio che fa a pugni, stride fortemente con il codice linguistico stabilito dal potere; s'è tenuto sempre igienicamente lontano dalle accademie, dalle consorterie, dalle massonerie, dai gruppi d'ogni sorta, d'avanguardia o retroguardia. Tutti questi delitti hanno fatto sì che i tutori del-l'ordine lo punissero, che i gendarmi lo tenessero sotto controllo come elemento antisociale. Così a ogni rara uscita, a ogni nuovo libro del suddet-to, i parrucconi, i piazzisti della merce, isterica-mente si scompongono, cominciano a urlare: "È siciliano, non scrive in italiano, è barocco, è oscuro, è pesante come una cassata, le sue narra-zioni non sono filate, fruibili: ma chi crede di es-sere, ma come si permette?"

D. Che cosa pensa dei giovani narratori, ai quali oggi si spalancano le porte delle case edi-trici?

R. Non farei distinzione fra scrittori giovani e scrittori maturi o vecchi. La distinzione si può fare tra scrittori veri e scrittori falsi. I giovani poi

che oggi si trovano a praticare il mestiere di scri-vere, terribilmente minacciati come sono, mi

fanno molta pena. (a.p.)

ceva Cicco Paolo — " E tu della paro-la" — "Parlo sì, e quel che dico sva-nisce come il fumo..." — "Sai ragio-nare" — "Forse... Ma immaginare è meglio..." — "Io mi perdo nell'in-canto. Mi pare d'esser fuori, estra-neo, di camminare sopra le mura dal-la Rocca, di precipitare...".

Chi interloquisce con Cicco Pao-lo, nel libro è chiamato Petro: nel suo documento d'identità è scritto: "Marano Petro figlio di Giuseppe e di fu Granata Salvatrice, nato il di-ciotto febbraio millenovecentouno a Cefalù cittadinanza italiana residen-te a Cefalù contrada Santa Barbara celibe insegnante". C'è scritto così, nel suo documento, ma più volte, voltando le pagine di quest'opera, si ha l'impressione che potrebbe esserci scritto: "Vincenzo Consolo (Sant'Agata di Militello, 1933) vive a Milano. Ha esordito nel 1963 con

La ferita dell'aprile, ma si è piena-mente rivelato con II sorriso

dell'igno-to marinaio. I suoi libri più recenti sono Lunaria, 1985, Retablo, 1987 e

Le pietre di Pantalica, 1988". Si ha

Marano è un cefalutano che non di-sdegna l'impegno politico, ma gli preferisce l'esercizio della scrittura, il quale, "ritrovata la calma, trovate le parole, il tono, la cadenza... sciolto il grumo dentro... Avrebbe dato ra-gione, nome a tutto quel dolore". Quel dolore che "sembrò'a Petro sorto non solamente dalla madre troppo presto assente, dal padre ma-linconico, piagato, da Serafina torpi-da, di pietra, da Lucia che sola e or-gogliosa se n'andava per altra strada, ma da qualcosa che aveva preceduto la sua, la nascita degli altri. Era così per lui, per la famiglia o pure per ogni uomo, per ogni casa? Di questo luo-go, di questa terra in cui era caduto a vivere, di ogni terra?". E un dolore storico o metafisico, questo che de-scrive Petro? Credo che non lo sap-pia nemmeno lui; quel che invece sa, è che la scrittura può aiutarlo a inter-rogarsi, per farlo chiaro, quel dolore, illimpidirlo. Ma non è una strada fa-cile e spesso gli accadrà di intingere "la penna nell'inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava,

tenere vivo nella notte il lume, nella bufera". Arrivato a quel punto sa di potersi aggrappare "alle parole, ai nomi di cose vere, visibili, concre-te"; sa di poterle scandire a voce al-ta.

Ecco, a una prima lettura di

Notte-tempo casa per casa è difficile non no-tare la furia ghiacciata che Consolo mette nel nominare le cose e soprat-tutto i luoghi del suo scenario, una furia non dissimile da quella di un Georges Perec, fatta di enumerazio-ni continue, scarti ritmici, calchi sti-listici rubati a un vasto arsenale lette-rario. Rinominandolo, Petro Marano e Consolo vogliono "ricreare il mon-do". E qui c'è il Consolo di sempre, il Consolo insieme antropologo e ar-cheologo delle parole, che non è dif-ficile immaginare mentre compulsa vocabolari e carte toponomastiche; il Consolo che in una cartolibreria di provincia attrae l'attenzione di Lu-cio Piccolo per i libri che porta con sé: l'Almanacco perpetuo, la Guida

del monte Pellegrino, Patti e la storia del suo vescovado; il Consolo che

tra-scrive o s'inventa le scritte dei ribelli in un carcere a forma di chiocciola, come Sciascia era andato a recupera-re le frasi incise sui muri dei sotterra-nei di palazzo Chiaramente, il palaz-zo dell'Inquisizione, in Morte

dell'In-quisitore.

Ma in Nottetempo casa per casa c'è anche — ne è già spia significativa il titolo — un desiderio di racconto fluente che fa a pugni con la solita narratività sussultoria di Consolo. Perché, a pensarci, in lui convivono quasi da sempre due tipi di organiz-zazione sintattica della scrittura: a li-vello architettonico i suoi libri sono costruiti in modo paratattico:

Reta-blo è l'esplicitazione più chiara di

questo; nella costruzione delle frasi, prevale invece l'ipotassi, con fre-quenti scarti di velocità, dovuti, co-me ha visto Cesare Segre, più che al plurilinguismo, alla plurivocità dei suoi racconti. In questo caso gli scar-ti sono meno frequenscar-ti rispetto, ad esempio, al Sorriso dell'ignoto

mari-naio, che pure per molti aspetti costi-tuisce il sostrato di Nottetempo, tan-to che al "dottan-to barone" Mandrali-sca viene concesso un intenso scorcio rievocativo.

L'altra voce del libro, l'altro per-sonaggio, tra i tanti che fanno da contorno, è Aleister Crowley, de-scritto come "un uomo maestoso, giacca d'alpagà sopra brache vario-pinte, calzari traforati alla fratesca, il cranio raso tranne una ciocca che co-me corno o fiamma gli si rizzava al colmo della fronte". A sentire quel che afferma in un'intervista, sareb-bero ormai almeno vent'anni che Consolo si è messo sulle tracce di questo Crowley, personaggio, come vari altri nel libro, davvero esistito, profeta di una religione satanica e fondatore dell'abbazia di Théleme, che la frequentazione del libro dei Yi

King spinge a Cefalù verso la fine de-gli anni venti. La parte dedicata a Crowley non è certo la migliore: la descrizione dei suoi riti satanici, cui partecipano anche don Cecé, una ricatura dannunziana, e Janu, un ca-praro, amico d'infanzia di Petro, inutilmente innamorato di sua sorel-la Lucia, è farraginosa e strapiena di nomi difficili da decifrare. Anche in Crowley, però, Consolo nasconde una parte di se stesso; perché anche in lui c'è la stessa tendenza a slacciar-si dalla razionalità, a usare le parole solo per i loro suoni, prescindendo dai loro referenti.

"In questa zona incerta, in questa luce labile, nel sommesso luccichio di quell'oro, è possibile ancora la scan-sione, l'ordine, il racconto? E possi-bile dire dei segni, dei colori, dei bui e dei lucori, dei grumi e degli strati, delle apparenze deboli, delle forme che oscillano all'ellisse, si stagliano a distanza, palpitano, svaniscono?". Come vedete, come neve che scende lenta, in questo libro fioccano i punti interrogativi, ma, è strano, quella che potrebbe sembrare una metadi-scorsività del libro nel suo farsi, è in-vece meditazione generale, che sem-bra prescindere da esso. Come se al-l'origine di quest'opera ci fosse una spaccatura, un qualcosa di non ri-componibile. Si tratterà forse della Sicilia, quella che, come l'India per Rushdie, è diventata una patria im-maginaria? "Sentiva d'essere legato a quel paese — si legge doppiamente in Nottetempo: nel libro e in quarta di copertina —, pieno di vita storia tra-me segni monutra-menti. Ma pieno so-prattutto, piena la sua gente, della

(5)

M A G G I O 1 9 9 2 - N . 5, P A G . 5

Narratori italiani

Bufalino nel l'è sii lio del le paro! le

di Massimo Onofri

<

capacità d'intendere e sostenere il vero, d'essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri. Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo fra gli uomini e il tempo, la real-tà, che una smania, un assillo genera-le, spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell'insania". E la "bufera immota", il "terremoto fer-mo": è, con assonanza gaddiana, la "disarmonia mostruosa".

È dunque quella descritta da que-ste immagini la cellula generativa di

Nottetempo? Non saprei davvero di-re, anche se mi rimane la sensazione che in queste possibili mise en abime ci sia un che di troppo detto, come una eccessiva programmaticità. Biso-gna ritornare a Petro è alle sue pas-seggiate palermitane |o cefalutane perché il libro si muovà e riprenda re-spiro narrativo e poetito: e in queste zone i lettori troveranno due o tre af-freschi di scene corali davvero me-morabili, da scandire ad alta voce, dove è concentrata la sapienza dei cantari e dei pupari siciliani.

Il fatto è però che, giustamente, l'aspetto etico della sua letteratura sta molto a cuore a Consolo; e si può intuire come il suo richiamo si sia fat-to più forte dopo la scomparsa di Sciascia. E illuminante un paragone con un altro scrittore siciliano, Ge-sualdo Bufalino: se quest'ultimo ha rinunciato a priori alla possibilità di una sua parola pubblica che non sia quella letteraria, Consolo invece sen-te fortissima la necessità di una pre-senza etica. L'ulteriore verifica si è avuta con la diversa reazione avuta dai due scrittori nei confronti del-l'assassinio di Salvo Lima: il primo, intervistato, ha scrollato le spalle de-solato; il secondo ha sentito il biso-gno di intervenire a tambur battente sul "Corriere", finendo proprio per parlare di Sciascia. E se qualche anno fa Consolo affermava, supponendo una scelta linguistica \ analoga: "Scrittori come me e Buffino prati-camente scrivono in yiddish", ades-so per lui lo scrittore di Comiades-so "pra-tica una letteratura squisita", nella quale regna "l'ambiguità delle scrit-ture estetizzanti". L'ombra di Scia-scia insomma li divide e sarebbe utile un raffronto meno superficiale tra i due, proprio per mettere in luce la di-versa concezione della Storia che li distanzia e la comune e originaria scelta letteraria, in entrambi cosi ra-dicalmente diversa da Sciascia.

Mi rimangono ancora molte cose da dire su Nottetempo: ad esempio, mi sarebbe piaciuto raccogliere quel-l'annotazione di Rushdie, al quale "pare interessante che molti dei maggiori scrittori della letteratura europea si accostino a questo tema della 'bonifica', del recupero del pas-sato, reinventandolo per i propri sco-pi. Questo è un po' come dire che molti scrittori, in tutta Europa, sem-brano avere una sorta di progetto storico". Mi sarebbe piaciuto com-misurare questa tendenza al libro di Consolo. Ci sarà un'altra occasione. Prima di chiudere, però, devo fare un'annotazione personalissima, che deriva dal mio essere, sia pure della diaspora, un siciliano: non mi sarei affezionato a questo libro, come ho finito per fare, se non fossero state evocate la pomelia, una pianta tipica di Palermo, che altrove non attecchi-sce (ma mia madre, palermitana fe-delissima, sia pure solo per qualche mese, è riuscita a farla fiorire a Mila-no) e la targa Florio: dell'una e del-l'altra cosa ho ricordi cui il libro ha fornito maggiore forza. La letteratu-ra serve anche a questo.

GESUALDO BUFALINO, Colende

gre-che, Bompiani, Milano 1992, pp.

236, Lit 29.000.

La vicenda editoriale di questo li-bro è nota. Stampato in edizione vata nel 1990, e scritto dunque pri-ma dell'anopri-malo e divertito giallo

Qui prò quo, recava questo avviso nel

capitoletto della Postilla riservato ai lettori: "l'autore ha preferito per queste sue ultime o penultime carte un destino di samizdat sotterraneo. Non per spirito di diserzione, né per disprezzo della Corte, né per regalar-si lo stemma d'un suicidio regalar-simbolico; ma allo scopo di conciliare un recente bisogno d'ascolto con l'antico desi-derio di silenzio e d'intimità. Per cui, mentre sinora l'uso della scrittura co-me balsamo o sale delle sue ferite pri-vate non gl'impediva di esibirla in pubblico per vanagloria o denaro, ve-nute meno queste due ragioni, prefe-risce dare alle stampe, delle pagine che precedono, solo 100 copie non venali, destinate alle 99 persone più amabili del suo carnet d'indirizzi. Con l'imperiosa preghiera che nessu-no gliene scriva o ne scriva, ma cia-scuno le legga, se vuole, e le conservi in ricordo". Il patto fu violato, se ne parlò, l'innocenza dell'autore non fu creduta da alcuni, la sua discrezione mise in sospetto certi altri. Di qui, la decisione di pubblicare per l'intera moltitudine dei lettori, con

l'inten-zione di "rimettersi in riga sotto le savie, forse sante, bandiere della so-cietà letteraria e così esibirsi fino alla fine". Dorma sonni tranquilli il va-riantista; poche sono, infatti, le cor-rezioni: un titolo di capitolo mutato (da La cesura pentemimera a Carcere

d'invenzione), qualche aggiunta e omissione, di cui le più massicce, ci

pare, nella Postilla. Ma senza che ciò possa inficiare, o solo complicare, il discorso critico.

Il romanzo (se di romanzo si trat-ta), dopo un Curriculum in forma di sonetto, racconta ventuno momenti della vita di un uomo, equamente di-visi in quattro sezioni, se si eccettua l'isolato istante prenatale che annun-cia il parto. Conviene, per arrivare subito ad uno dei nuclei del libro, muovere proprio da un passo della nuova Postilla che, sia detto inciden-talmente, testimonia uno dei tanti interventi sulle ragioni (le non ragio-ni) dello scrivere, sul senso (il non senso) della letteratura, che Bufalino ha sempre inserito nelle sue pagine. In esso si legge: "Calende greche' si dice, com'è noto, di giorni impossibi-li, che mai saranno. Qui vale giorni che non furono mai o furono altri-menti, e che l'autore via via inventa, sviluppando la parabola d'una vita immaginaria... La biografia (l'auto-biografia?) d'un fantasma, insomma. Le cui vicende — stereotipe, esan-gui, imitabili — vengano

contraffat-te con tanto zelo da apparire più spesso favole che memorie: testimo-nianze corrotte al servizio di un'ipo-tesi di romanzo...". Un'indicazione, come si vede bene, quasi perentoria nell'evidenziare come in tale roman-zo il protagonista sia "un eroe multi-plo e indivisibile", per quanto nato dal contrabbando di leggende

priva-te.

Eppure, come taluni hanno nota-to, non può non stingere in queste pagine un sospetto di autobiografi-smo, spinto talvolta agli eccessi e persino sfrontato. Lo scrittore, infat-ti, con programmatica malizia, s'in-dustria non poco nel sottendere coin-cidenze tra la propria vita e quella immaginaria di chi dice "io". Non è difficile segnalarne qualcuna: come l'autore, anche il protagonista nasce agli inizi degli anni venti; quando lo vediamo muoversi nel paese natale, non possiamo non intrawedere la fa-volosa toponomastica di Comiso, co-sì come ci apparve in Museo d'ombre 0 in altre prose d'occasione; simil-mente allo scrittore, vediamo l'eroe-io, malato di tisi, soggiornare alla Rocca, l'ostello-sanatorio di Diceria

dell'untore, il fulminante romanzo d'esordio; la Modica dei primi anni cinquanta del protagonista ormai professore è quella in cui insegnò lo stesso Bufalino, in uno scenario che abbiamo già conosciuto con Argo il

cieco; e si potrebbe continuare. Perché tutto questo? Ci pare che tale enfatizzazione di alcuni dati di vita reale voglia sortire nel lettore, ed in effetti sortisca, un esito di azze-ramento della stessa autobiografia. L'ostentata esibizione di sé, insom-ma, sembra voglia tradursi in un ef-fetto di straniamento: quasi che sol-tanto nel segno di un'assoluta impu-dicizia sia possibile approdare al gra-do zero della vita, attingere alla nuda esistenza del personaggio-uomo. Nella convinzione che, al capolinea del romanzo contemporaneo, questa nuda esistenza non possa che vestire 1 panni di un eroe prosaico e feriale, un egolatra sempre in bilico fra ne-vrosi ed infelicità, capace solo di mo-desta nequizia e tiepidi slanci.

Questo, infatti, pare un dato sa-liente del romanzo: che il protagoni-sta, fra spasmi stupori e malinconie, viva ogni sua vicenda come per alle-stire un agile prontuario della disillu-sione e del disincanto; un itinerarium

mentis che abbia per traguardo un'euforica disperazione; un tratta-tello pedagogico che ravvisi nel vive-re una didattica del morivive-re. "Che vi-taa m'aspetta, che giorni migliori o peggiori di questo che vedo scorrer-mi addosso, né so dire se è perdita, se è guadagno, se m'ha arricchito e di che, se m'ha spogliato e di che?", si

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Nuova indagine sui lettori dell'"Indice"

Sono trascorsi otto anni dalla fondazione dell"'Indice" e due anni dall'insediamento di una nuova direzione che ha curato la continuità di linea della rivista. I risultati fin qui ottenuti in termini di diffusione e di sviluppo premiano il lavoro da noi condotto. Una formula, pur riuscita, si può tuttavia sempre migliorare: e desideriamo che ciò avvenga in stretto rapporto con voi.

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LA SICUREZZA

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M A G G I O 1992 - N . 5, P A G . 7

Narratori italiani

<3

chiede allo zenit della maturità l'eroe-io, come un'eco senza risposta che amplifica e complica l'interroga-tivo paterno di pochi anni prima: "cosa vuoi fare della tua vita?". Ma della sua vita, tra frodi di parole, pol-luzioni del cuore, sperperi di seme, il protagonista sa soltanto disfarsi, sgo-mitolandola fino a perderne ogni ca-po. Incalzato, senza speranza, dalla forbice del tempo.

Abbiamo detto frodi di parole: "No, non c'è cosa che mi lusinghi gli spiriti quanto un amalgama di senso e suono dentro la tazza di poche silla-be d'oro. Gremire me ne sento come una vela di vento, una voliera di voli. Ne ronzo, ne stormisco, ne sibi-lo...". Ecco il punto: le parole ("i miei soldatini di piombo, il disperato giocattolo della mia vita"), conse-gnandolo sin dalla più tenera età a passioni vicarie e cartacee, hanno aperto nel personaggio-uomo una fe-rita non rimarginabile. Le parole, in-somma, nel mentre gli offrivano la luce cruda e crudele di una verità, di una musica alcinesca, lo strappavano per sempre alla pietosa illusione di un mondo coeso e compatto, di ger-ghi complici e di abitudini oneste. L'impostura del verbum, è solo que-sta la spiegazione che si potrebbe op-porre alla straziata domanda della madre, e che pare fungere da muto controcanto alle peripezie del prota-gonista: "Figlio, che cosa abbiamo noi che a te manca? O che cosa ci manca che tu possiedi? Perché dege-neri tanto dal nostro costume e t'in-venti sempre nuove ragioni d'infeli-cità? La felicità esiste, credimi. Io e tuo padre siamo stati felici". E la "troppo vincibile armada" delle pa-role a sospingere il personaggio-uo-mo, e con lui lo scrittore, in una con-dizione di irrevocabile esilio, troppo lontano da quell'Eden rusticano, che, in quasi tutte le opere di Bufali-no, pare rappresentare l'unico e per-duto paradiso di irriflessa felicità.

Non si dimentichi, però, che que-sto mito rusticano convive a fianco di una scaltrezza tardo-novecente-sca, in suggestivo concorso con essa. Nunzio Zago, in una monografia del 1987, ha mostrato assai efficacemen te che l'iperletterarietà di Bufalino non può essere scambiata per epigo-nismo decadente. Si guardi alla sua opera, callida e ironica, scettica ed empia a tratti, squadernandola per intero. Una frenesia sperimentale, una strenua manipolazione sembra attraversarla tutta: Diceria

dell'unto-re viene accompagnata da maliziose, didascaliche "istruzioni per l'uso"; in Argo il cieco la narrazione si rompe spesso in divertiti "a parte" rivolti al lettore; nei racconti de L'uomo

inva-so si arriva addirittura ad esiti di ri-scrittura, resurrezioni di personaggi storici letterari o del folclore, tra pa-rodia e palinodia; ne Le menzogne

della notte, incentrate sull'ultima notte di quattro condannati a morte, viene poi recuperata una cornice boccaccianà che, alla fine, risulta più importante delle stesse storie che ad-diziona. Con Colende greche arrivia-mo all'apice di questa operazione. Lo scrittore, per cominciare, vi tenta una scommessa di stile che involge generi diversi: la semplice narrazio-ne, il racconto (Felicità del bambino

punito, recuperato da L'uomo

inva-so), il teatro (Ramanzina a una

seggio-la vuota), l'epistolario (Posta del

cuo-re), l'aforisma (Pensieri, aspettando il

turno in anticamera), la poesia (il so-netto introduttivo), il saggio-elzevi-ro (Fratello ragno, sorelle mosche). Non pago, riferendosi al protagoni-sta, confonde ulteriormente le carte con l'uso dei primi tra pronomi per-sonali. Per non dire dell'autocitazio-ne e dei rimandi intertestuali alle sue

stesse opere: con l'introduzione di la-certi strappati a Diceria ed Argo il

cie-co, riservandosi, per di più, "il dirit-to di emendamenti futuri, in omag-gio a un progetto d'incompiutezza infinita".

Questi tratti sembrerebbero collo-care Bufalino sulla linea eccentrica, ma robusta, della letteratura siciliana coeva: quella dei coriandoli di Pizzu-to (sopravvalutaPizzu-to, ci pare, da Conti-ni), delle esplosioni romanzesche di Angelo Fiore, in ordine ad un'incon-sueta desolazione ontologica, del ma-gniloquente e ciclopico D'Arrigo,

delle follie cosmogoniche di Bonavi-ri, delle oltranze carnali e stilistiche di un certo Consolo. Ma non bisogna confondere le acque. Bufalino tenta una strada tutta sua, incielando la lingua con tutte le piaghe della vita., Dunque: scrittore di cose o di paro-le? Scrittore di parole e febbricitan-te, ma per troppa misericordia. Bufa-lino non ha niente a che spartire con le ingegneresche e rivoluzionarie in-cautele di una neoavanguardia pe-renne. Egli sembra levare l'arco della scrittura, come l'arciere, per colpire con un'ardita parabola un bersaglio lontano e rasoterra. Le parole gli si sgranano sempre come le perle di un rosario, talvolta sontuoso. Il rosario di un "cristianesimo ateo e treman-te" che non ha mai smarrito la pietà per le convulsioni e gli sgomenti del personaggio-uomo.

Monologo

esteriore

di Dario Voltolini

MAURIZIO MAGGIANI, Felice alla guer-ra, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 159, Lit 23.000.

Leggendo le bozze del libro avevo trovato a pagina 116, nota 2,

l'e-spressione "magnesia misurata aro-matic", che nella versione definitiva ritrovo corretta in "magnesia bisura-ta aromatic". Sospetbisura-tavo che si trat-tasse di un errore, ma sospettavo pu-re che fosse una delle innumepu-revoli invenzioni di Màggiani, il quale ha la capacità rara di ghermire al vivere quotidiano (chi non dice o non ha sentito dire "magnesia misurata" o "fermacia" o "accellerare"?) i tic e le sfasature che ne rivelano il caratte-re e di trasferirli sulla pagina con grande naturalezza. Sarebbe stata, a dire il vero, un'invenzione un po' ri-cercata, parodistica e gratuita, men-tre Maggiani è invece schietto, autoi-ronico ed essenziale.

Essenziale lo è in un modo decisa-mente originale. Maggiani infatti si concede la massima libertà nelle scel-te lessicali e sintattiche, mescolando insieme registri dialettali, colti, po-polari, toni rammemorativi e refe-renziali, periodi di massima accelera-zione sintattica e dimessi frammenti anche tipograficamente isolati. Te-nere compatto un materiale così

va-rio senza perdere per strada la pro-pria narrazione, da un lato, e il letto-re dall'altro, è un compito anche tec-nicamente difficile, cui Maggiani non si è sottratto e che ha anzi svolto ottimamente.

L'essenzialità della narrazione di-pende da una scelta tematica e non stilistica: la guerra del Golfo e il col-po della strega che piega in due Feli-ce mentre cura la propria ortensia ap-partengono alla vita di Felice in uguale misura e identiche sono la sua inadeguatezza e la sua impotenza nei loro confronti. Maggiani riesce a non

perdere nulla dell'assoluta, drastica incommensurabilità tra i due fatti proprio mentre li riconduce entram-bi ad essere equivalenti in quanto contenuti della vita quotidiana di una persona.

La guerra ed il mal di schiena non sono che un esempio della più gene-rale trasposizione degli avvenimenti sul piano di una fenomenologia del-l'esistenza che ha il pregio di non es-sere artificiosa in nulla. Probabil-mente nasce da questa cifra di since-rità scarna e secca la simpatia che si ha per questo libro, per il suo lin-guaggio, per Felice e persino per l'au-tore, come se per una volta si fosse giustificati a fare un po' di confusio-ne tra le distinzioni della narratolo-gia e a dimenticare che la prosa del recensore deve essere il più possibile bisurata.

Quotidianità: la prima parte della narrazione scandita al ritmo giorna-liero di un bollettino del tempo, che è insieme bollettino di guerra e diario personale. Questa struttura del te-sto, semplice e lineare, permette alle

improvvise fughe nella fantastiche-ria, nel ricordo e nella descrizione bozzettistica, di mantenere una di-mensione equilibrata. In tal modo Maggiani evita le digressioni senza fine, di provenienza surrealistica, che spesso si incontrano negli scritto-ri italiani contemporanei. Qui l'in-serzione di diversi livelli di realtà sul-l'impianto diaristico è rapida, talvol-ta fulminea: "Mi è passatalvol-ta per la te-sta una sensazione storpia ma chiara: mi sento in territorio iracheno, mi facciano fuori e non se ne parli più. Per me, dopo la millenovecentoot-tantesima missione aerea, mi do per vinto". Oppure: " T i chiederei, Ani-ta, di lasciarmi andare. Ma non sei tu che m'incateni; che sei quella che m'hai sempre lasciato andare se è per questo. E piuttosto qualcosa che ho, quel canarino che tiro su nel tepido incavo del core. Ciu ciù.. ciu ciù... ciu ciù. Copriti Felice, ascolta il lan-guore, accogli l'enorme beneficio che ne viene da ogni intima assenza, as-sumi da questa finestra tutta la me-lanconia del mondo vasto e lontano. Questa sera per rincasare sono passa-to da via dello Zampino".

Variazioni di voce narrante, di de-stinatario esplicito, di ritmo prosodi-co si prosodi-combinano tra loro ottenendo spesso il risultato di avvicinare la scrittura al discorso parlato sponta-neo. La simulazione del parlato ri-chiede allo scrittore tecniche molto sottili, ma anche di inventarne di nuove. Qual è allora l'invenzione di Maggiani? Io, anziché stanarla e dis-sezionarla con strumenti narratologi-ci che non possiedo, provo almeno a darle un nome: monologo esteriore.

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PROBLEMI APERTI

CARLO FUSARO G U I D A A L L E R I F O R M E I S T I T U Z I O N A L I pp. 2 8 2 - L . 25.000 Introduzione di Augusto Barbera

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pp. 272 - L. 25.000 Un libro nel cuore di un nostro

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In cerca del padre

di Sergio Peni

LUIGI MALERBA, Le Pietre Volanti, Rizzoli, Milano 1992, pp. 2 7 2 , Lit 2 8 . 0 0 0 .

I destini individuali non sono mai esenti da in-volontari contagi di famiglia. Si plasmano spesso inconsciamente sulle debolezze di chi ci ha pre-ceduti, e la ricerca di un'identità diversa signifi-ca, forse, la fuga da un destino in cui rifiutiamo di riconoscerci.

Ovidio Romer, il grande pittore protagonista del nuovo romanzo di Malerba, ha dedicato la sua vita a scavarsi una nicchia tappezzata di di-versità, risultando infine estraneo anche agli oc-chi del mondo. Alle soglie del Secondo Millen-nio — in una introduzione metaforico-fanta-scientifica presto accantonata — l'anziano arti-sta si apparta nell'ovattata protezione di una Svizzera immune da festeggiamenti storici per ri-percorrere, in un quaderno d'appunti, il proprio passato. La storicità dell'evento — due mesi allo scoccare del 2000 — si perde presto in una galop-pata autobiografica che fa tornare a galla epoche e luoghi persi negli anni.

Fin dalla remota giovinezza la vita di Ovidio, ai tempi del fascismo, sembra condizionata dalla sfrenata passione per la pittura e dalle assenze — che sfociano nella scomparsa definitiva — di un padre che non sarà mai raggiunto. Come si va scoprendo nell'incalzare degli avvenimenti, l'esi-stenza del futuro pittore è infatti votata al mi-glioramento ossessivo della propria arte, i cui soggetti hanno le sembianze solenni, eteme ed enigmatiche delle rocce e dei corpi inanimati; co-sì come l'altra ossessione, relativa al destino

pa-terno — una falsa morte in Egitto, a Luxor, una più concreta e banale chiusura dei conti con la vita a Vancouver, in una tomba sotto falso nome — sembra comunque condizionare ogni tipo di rapporto umano dell'artista, che l'autore imma-gina sempre più famoso e apprezzato, in Italia e all'estero. In chiusura di romanzo, dopo una se-rie di eventi che hanno chiarito, se non lo scopo dei suoi soggetti pittorici, almeno l'atto finale dell'esistenza patema, Ovidio Romer s'incontra con il fratellastro Vittorio, che ha diviso gli ulti-mi anni canadesi del padre, e, per un attimo, ognuno dei due vede riflessi nell'altro due mo-menti particolari della vita del genitore. Come a dire, il destino non è mai un fatto esclusivamente personale.

Decollato come un testo simbolico sul millen-nio che muore, il libro di Malerba rincorre inve-ce una viinve-cenda privata gestita con sapiente abili-tà narrativa, rivelandosi alla fine il romanzo di una ricerca umana e artistica del tutto esente dai turbamenti del nostro secolo, che filtrano a fati-ca nell'assoluto narcisismo del protagonista. Ri-sulta quindi in parte gratuito — o comunque non ben giustificato — il preambolo proiettato nell'imminente futuro, mentre si seguono con piacere le vicende del narrante, tra viaggi, mo-stre, esotici incontri amorosi e rivelazioni. Ro-manzo in parte interlocutorio di un narratore che ha il coraggio e la capacità di cambiar pelle ad ogni nuova prova, Le Pietre Volanti ci ricorda

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| D E I L I B R I D E L M E S E |

MAGGIO 1992 - N: 5, PAG. 8

Polifonia e Novecento letterario

di Romano Luperini

CESARE SEGRE, Intrecci di voci. La

polifonia nella letteratura del Nove-cento, Einaudi, Torino 1991, pp.

160, Lit 22.000.

L'ultimo libro di Cesare Segre presenta, come molti dei suoi, un doppio interesse: teorico e critico. Accoppia riflessioni sullo statuto ro-manzesco, e anche — in misura quantitativamente minore ma quali-tativamente non meno significativa — su quello poetico, alla loro appli-cazione su campioni desunti soprat-tutto dalla letteratura novecentesca italiana (due le eccezioni: Belli e Màrquez). Si offre dunque — anche nel sottotitolo, d'altronde — come un contributo alla contemporaneisti-ca, e sotto tale profilo qui verrà pre-valentemente considerato.

Sul piano teorico, tre mi sembrano i motivi chiave del libro: a) l'attra-versamento delle nozioni bachtinia-ne di polifonia, plurivocità, pluridi-scorsività di universi linguistici, so-ciologici e ideologici diversi, dialogi-smo; b) la distinzione fra enunciatore e Iocutore; c) le conseguenze che, dall'intreccio di a) e b), derivano nel-l'analisi non solo del romanzo ma della poesia e del teatro (nei casi, qui, di Belli e di Pirandello). Noto di pas-sata che il punto a) ha uno sviluppo più ampio e rilievo anche autonomo, mentre il punto b) è visto prevalente-mente in rapporto a c).

Per quanto riguarda a), la novità dell'approccio segriano e il suo inte-resse anche in chiave storiografica (penso ovviamente alla storiografia del Novecento letterario) sono dovu-ti alle correlazioni qui suggerite fra analisi testuale, ideologia dell'auto-re, rapporto di quest'ultimo con la società e alle omologie fra testo e contesto storico che se ne potrebbero trarre. Segre traccia.una breve storia del romanzo polifonico da Gadda a Consolo che può essere di grande au-silio a una storicizzazione di fenome-ni letterari recenti o persino recentis-simi. La nozione di polifonia cessa di essere una generica caratteristica co-mune del genere romanzesco e di-venta preciso criterio distintivo (sino ad apparire di fatto inutilizzabile "per intere epoche e gruppi di te-sti"). Si scopre così che il grande

mo-dello polifonico di Gadda (le cui teo-rizzazioni sul genere romanzesco so-no sorprendentemente simili a quelle bachtiniane) è restato quasi isolato e che anche i suoi "nipotini" sono sta:

ti sì, magari, espressionisti e, talora, plurivoci, ma quasi mai polifonici (solo Signorina Rosina di Pizzuto sa-rebbe "notevolmente polifonico", mentre per Consolo, il più vicino ai grande lombardo, Segre parla sem-pre di plurivocità, senza usare mai il termine "polifonia"). Il fatto è che la

do gradi diversi di identificazione con essi e anche — come appare chia-ro dal caso di Gadda — un atteggia-mento ideologico capace di giudicare un sistema di rapporti sociali (e infat-ti Gadda "nel dare vita a un organi-smo polifonico romanzesco, sottoli-nea gli sfasamenti tra la società reale e un modello tutto mentale che non è nemmeno espresso, ma vagamente intravisto"). Gli scrittori sperimen-tali successivi non sembrano capaci di tale sprofondamento e di tale

giu-è il loro intreccio, mentre il tono del-la narrazione e il punto di vista resta-no moresta-nodici, costanti, unitari riflet-tendo dall'interno un mondo chiuso e autosufficiente, totalmente impos-sibilitato ad aprirsi alla pluridiscorsi-vità di universi linguistici, sociologi-ci e ideologisociologi-ci diversi dal proprio e a farli reagire con quello diverso, di un narratore (o, tanto meno, di un auto-re) a esso estraneo; viceversa, Mastro

don Gesualdo è un romanzo ricca-mente polifonico, in cui la voce

nar-Poesia, poeti, poesie

Una lingua difficile

di Luca Clerici

N I C O L A G H I G L I O N E , Finestre. Poesie edite e ine-dite (1939-1988), a cura di Francesco De Nico-la, De Ferrari, Genova 1991, pp. 271, Lit 35.000.

"Genova antica, con la stecca alla persiana / all'insù, usa a dannare gente di lettere ' ': in alcuni componimenti Nicola Ghiglione denuncia il si-lenzio nel quale la sua Liguria lo ha avvolto, in versi che esprimono un complesso rapporto con la città, vissuto dolorosamente per tutta la vita fra una pacificazione memoriale che trova nei

quartieri amati di Genova e nel paese di Mignà-nego due costanti correlativi oggettivi, e il peren-ne antagonismo con un ambiente culturale re-frattario e chiuso: "E penso a te città ch'io vol-li... ma non ebbi amore". Poeta sconosciuto in patria, dunque, ma radicato nella sua terra ("Ge-nova ha un grande poeta, ma quasi nessuno se ne accorge ' ', ebbe a dichiarare Caproni quando ven-ne assegnato a Ghiglioven-ne il premio Chiavari,

ag-giungendo subito: "E forse questo sarebbe stato il mio destino, se non mi fossi trasferito a Ro-ma ' '), non sorprende che il nome di Nicola Ghi-glione sia circolato pochissimo oltre il risvolto di Levante della provincia genovese, il solo luogo che ne ha incoraggiato il lavoro e onorata la me-moria.

Certo, la sua è una poesia "difficile", per nul-la consonul-latoria, aliena da quelnul-la facile melodio-sità musicale individuata dal direttore del "Seco-lo XIX", Umberto V. Cavassa, in una recensio-ne alla raccolta meno sconosciuta di Ghigliorecensio-ne, i

Canti civili dell'esordio riproposti nel 1967,

co-me consona al suo gusto e a quello della ricca borghesia genovese che nel quotidiano si ricono-sceva. Una Genova sorda e insieme gelosa custo-de di questa "clancusto-destinità": solo il 7 per cento

dei 170 testi poetici pubblicati da Ghiglione in riviste e quotidiani fu stampato fuori provincia, e

scrittura polifonica presuppone "uno sforzo d'immersione nel reale, e nella realtà sociale", un'interpreta-zione-degli atti dei personaggi

secon-N O

dizio, o forse, più semplicemente,

non possono praticarli più. E infatti Segre può concludere su questo pun-to il suo discorso osservando che le strade aperte davanti al romanzo at-tuale non sembrano essere né quelle dell'espressionismo né quelle della polifonia.

Si può dissentire o concordare su questa previsione, ma non sottrarsi agli interrogativi che essa suscita, re-lativi alle ragioni sociali e ideologiche del tramonto o, comunque, della pre-carietà della polifonia. Per esempio: quanto incide sulle forme attuali del-la narratività l'attuale condizione co-siddetta postmoderna, ove l'infittirsi dei messaggi e delle voci non diventa tuttavia effettiva dialogicità né favo-risce, tanto meno, l'immersione cri-tica dell'autore nella realtà sociale?

In tale prospettiva sarebbe forse da approfondire la distinzione fra plurivocità e polifonia (non presente in Bachtin, ma in Segre implicita — e qualche volta, nel saggio su Belli, per esempio, anche esplicita — senza peraltro essere mai affrontata diret-tamente). Essa può avere un suo ri-lievo teorico generale, ma può servi-re anche nell'ambito dell'analisi cri-tica della produzione narrativa (e forse non solo narrativa) dell'ultimo trentennio.

Sul piano teorico, essa può essere utile ai fini di una tipologia del ro-manzo moderno: per esempio, I

Ma-lavoglia sono, a mio avviso, un ro-manzo plurivoco ma non polifonico perché le voci che vi si alternano so-no numerosissime e vario e fittissimo

rante interferisce e si contamina, proprio nelle parti diegetiche, con le voci dei personaggi, ne fa sentire le inflessioni, la provenienza sociale e le diverse culture, mantenendo non-dimeno caratteri di parziale autosuf-ficienza e identificabilità. Per quan-to concerne l'applicabilità critica di tale distinzione alla produzione nar-rativa attuale e dunque in sede di sto-ricizzazione storiografica del presen-te, la difficoltà che incontra oggi la pratica della polifonia va assai proba-bilmente posta in relazione al proces-so di omologazione proces-sociale in atto: lo scorrimento vorticoso di immagini e di voci ne impedisce il controllo e la rielaborazione (anche parodistica) e favorisce la loro semplice giustappo-sizione o accostamento sulla pagina (è il pastiche postmoderno, non più orientato in senso ironico o polemi-co, descritto da Jameson).

Da tale punto di vista, non sembra un caso che lo scrittore odierno più vicino a Gadda (nonostante alcune concessioni al manierismo puntual-mente registrate da Segre), Consolo, sia anche chiaramente schierato in senso etico-politico. Ma la tendenza principale oggi — dai romanzi di Eco a Vassalli — è piuttosto alla plurivo-cità che alla polifonia.

Per quanto riguarda i punti b) e c), il contributo di Segre all'analisi del teatro pirandelliano fornisce un'im-portante acquisizione: si registra una nuova vitale tensione interna nella trilogia del "teatro nel teatro", quel-la fra confessione (monologo, prima persona) e narrazione 'terza

perso-na). Sarebbe assai fruttuoso farla reagire con le osservazioni di Szondi sul teatro pirandelliano, ed è un pec-cato che Segre non si impegni anche su questo frónte (delle posizioni teo-riche generali di Szondi egli si era pe-raltro occupato in Teatro e romanzo, Einaudi, 1984). Come è noto, Szon-di rimprovera al Pirandello Szon-di Sei

per-sonaggi in cerca d'autore di non essere approdato al teatro epico e narrativo e di essersi fermato a metà strada nel-la dissoluzione del dramma, di cui pure attesta, ormai, l'impossibilità. Ho invece l'impressione — e il sag-gio di Segre indirettamente ne con-ferma la validità — che Pirandello intenda piuttosto mettere in discus-sione la "consistenza" di qualunque struttura formale, e cioè tanto di quella tradizionale (fondata sul dia-logo) quanto di quella narrativa (do-ve prevale la terza persona), estra-niando l'una con l'altra e aprendo campi sempre nuovi di contraddizio-ne interna. Insomma, l'alternanza di cui parla Segre fra il momento in cui i soggetti parlano e si confessano

(sog-getti parlanti) e quello in cui essi ventano oggetti rappresentati dal di-scorso altrui diventa mutua deco-struzione, adducendo nuovi argo-menti contro l'ipotesi limitativa di Szondi.

Nella poesia, poi, soprattutto quando essa presuppone la recitazio-ne e dunque è impostata teatralmen-te, come nel caso di Belli, la differen-za fra enunciatore e Iocutore o, nella fattispecie, fra "Belli emittente" e "Belli Iocutore" serve a mettere in causa il modello unico di poesia pla-smato sul genere lirico (in cui ITO che autocomunica, o IO implicito, "è parzialmente uguale a quello che prende l'iniziativa della comunica-zione a T U " , laddove nella poesia più vicina alla teatralità ITO emit-tente e ITO implicito sono del tutto diversi), modello che, come è noto, ha condizionato anche il pensiero di Bachtin, secondo il quale la parola poetica resta immune dalla bivocità e da qualsiasi possibilità di interdiscor-sività. La conclusione è che in Belli "c'è plurivocità senza polifonia": nei suoi sonetti, infatti, la "moltepli-cità sociale è presa in esame da un punto di vista costante".

Si tratta di considerazioni che non valgono solo per Belli e che mi sem-brano assai attuali. La giovane poesia (quella del cosiddetto Gruppo 93 e in particolare del settore che fa capo al-la rivista "Baldus" e ai nomi di Bai-no, Cepollaro e Voce) gioca molte delle sue carte appunto sulla diffe-renza fra ITO emittente e ITO impli-cito e dunque sulla teatralità della re-citazione, sulla distanza fra testo scritto e sua manifestazione orale, nonché sulla plurivocità e sulla inter-discorsività della scrittura (percorsa infatti da toni, voci, lacerti diversi e anche assai lontani fra loro), appunto in funzione di una messa in causa del modello lirico dominante (e con un recupero consapevole, a livello di poetica, della lezione di Bachtin, ma spostata dal romanzo alla poesia). E una riprova, qualora ce ne fosse an-cora bisogno, di come la ricerca teo-rica più avanzata sia sempre, anche inconsapevolmente, in qualche sin-tonia con quella artistica più nuova e originale.

E r a a n c o r a t r o p p o p r e s t o r i p r e s e a s u o n a r e , ina in p e r p a r l a r e (li g u e r r a , c h e s o r d i n a , e la v o c e di un d ' a l t r o n d e non e r a

B B H

^ L S E ^ L

b i a n c o s e n z a struneppure una guerra m e l i l o a l'iato c o -ma una semplice ri- ^ H S ^ K H N U m i n c i ò c a n t a r e ,

i m i t a n d o la \ o r e di un n e r o : PI case. bellione di selvaggi.

E r a t r o p p o p r e s t o per parlare dell'Im-p e r o , e l ' o r c h e s t r a

please, gel otti from lieve tonight...

Lidia Jorge

LA COSTA

DEI SUSSURRI

(9)

riNDICF

• • D E I L I B R I D E L M E S E Ì B I

MAGGIO 1992 - N. 5, PAG. 9

Oralità scritta e parlata ^

di Giorgio Bertone

ENRICO TESTA, Simulazione di parla-to. Fenomeni dell'oralità nelle novelle del Quattro-Cinquecento, Accademia della Crusca, Firenze 1991, Lit 40.000.

Pare che un'insistita, a volte persi-no ansiosa ricerca dell'oralità — a più livelli, certo, e in differenti cam-pi e con differenti mezzi — pervada i tempi d'oggi, tra modernità e post-modernità (si accolga o meno la defi-nizione di postmoderno avanzata da Barilli, sulla scorta di Ong, proprio a partire dalla nuova oralità elettroni-ca, che caratterizzerebbe il "post", in raffronto col mondo gutenber-ghiano, "moderno" e basta).

Mai la critica letteraria è stata tan-to sensibile nel cogliere la voce, anzi le diverse voci che parlano nel testo, i tanti "io" limitrofi che dicono e nar-rano (Genette), le risonanze della dialogicità interna (Bachtin), il bru-sio (Barthes), la grana della parola riecheggiante. Al punto che qualcu-no comincia a buttar acqua sul fuoco delle passioni derridiane e barthesia-ne per l'oralità come espressiobarthesia-ne del "corporale", sostenendo come Hen-ry Meschonnic (ancora inedito in Italia) la non coincidenza di oralità e parlato.

Se molti storici poi s'immergono nelle testimonianze orali, non pochi scrittori, per via di stile e/o di figure e temi, corteggiano in varie declina-zioni l'oralità. Tre esempi-lampo: il rinvenimento di un'affabulazione nomade come nuovo destino diaspo-rico nel Narratore ambulante di Var-gas Llosa; la stilizzazione dei modi orali della fiaba in Harun e il mare

delle storie di Salman Rushdie; e, da noi, la ricerca della residua oralità su-perstite in un'Italia postindustriale devastata in Gianni Celati.

Una premessa tanto generale e co-sì sommariamente abbozzata, a un li-bro, pur innovativo nei risultati e nel metodo, che nasce sotto il motto cru-scante "Il più bel fiore ne coglie" e denuncia dunque la sua genesi acca-demica e l'impianto specialistico e tecnicistico, per di più compatta-mente centrato sulla novella italiana del Quattro e Cinquecento, come quello di Testa, mi pare discretamen-te giustificata dallo sdiscretamen-tesso autore che, mentre analizza quegli esempla-ri con affilata attrezzatura linguisti-ca, non perde di vista uno solo di quei nomi che sull'oralità hanno im-perniato più o meno recentemente una riflessione più ampia, antropolo-gica in senso lato. Già la bibliografia d'avvio, con un'escursione che va da Auerbach a Zumthor — e non per puro gusto catalogico —, è un sagget-to rivelasagget-tore della specola da cui chi fa la ricerca traguarda i suoi campio-ni; prezioso, poi, per chiunque desi-deri possedere un quadro planetario dell'argomento. All'elenco

aggiunge-rei un solo titolo, del resto ben noto, non perché sia indispensabile a una simile ricerca — lo sono ben di più i saggi di Corti e Segre di cui Testa si nutre —, ma perché resta un punto di rilevamento ineludibile per chi si pone al centro dell'orizzonte cultura-le e teorico in questione, cultura-le

Conside-razioni sull'opera di Leskov di Ben-jamin.

Con tali premesse s'intendono pu-re le ragioni dell'opzione di Testa per quei due secoli: esattamente quelli a

cavallo, in Italia, della fissazione del-la norma linguistica e dei "generi", più o meno parallela all'avvento e ai primi decisivi sviluppi della stampa (e conseguente passaggio della scrit-tura dalla chirografia alla tipografia, con tutti gli effetti che Ong e altri hanno spiegato). Con puntualità la simulazione del parlato nei dialoghi diretti, in ispecie delle persone "bas-se", si distribuisce in un prima e un dopo di radicale differenza, sia che si

analizzino i fenomeni fono-morfolo-gici, lessicali e retorici (cap. I: Le

ciance del volgo), sia che — dentro il

gap tra voce narrante e voce del per-sonaggio (cioè tra diegesi e mimesis, o, nei termini più aggiornati di Ge-nette, tra racconto e dialogo) — si passino in rassegna i verba dicendi, che introducono la battuta del perso-naggio o quelli che la commentano, oppure le interiezioni e la deissi, che nel complesso sono tra i fenomeni più vistosi e caratterizzanti delle

pa-role incorniciate tra virgolette (cap. II: Dal testo di personaggi al testo di

narratore), sia che si setacci, sempre del "parlato-scritto" (Nencioni), la sintassi, la segmentazione, i fenome-ni di enfasi e ridondanza, ellissi, uso del "che" polivalente, ecc. (cap. Ili:

Il respiro della voce), sia che, infine, come vien fatto spesso e passim, si controllino i debiti sempre più o me-no presenti in ogni me-novelliere col pro-totesto del Decameron.

Nel Quattrocento (dai Motti e

fa-cezie del Piovano Arlotto alla Novella

del Grasso legnaiuolo passando per Masuccio e altri) la disponibilità ver-so la parola dei perver-sonaggi è, in gene-re, ben più aperta e elastica; e con-sente un "parlare alla dimestica" (l'espressione è nelle prediche di san Bernardino da Siena) che significa possibilità di rappresentare non sol-tanto la parlata "rustica" ma anche una parlata media confidenziale, esente da grossi interventi retorici. E

il prodotto, insomma, di un instabile equilibrio tra osservazione dei mo-delli di scrittura e ascolto delle lingue sociali. Nel Cinquecento l'oralità scritta (soprattutto nei toscani dal Grazzini al Firenzuola; le differenze coi settentrionali, Bandello in testa, emergono abbastanza marcate) si amplia e articola, anche per la mag-gior complessità della tecnica dialo-gica (e l'influsso del teatro), ma im-mancabilmente viene sottoposta a

una codificazione stilistica. Gli arti-fici dell'oralità si moltiplicano e si complicano. La simulazione si orga-nizza. Per cui, che so, il dato perso-naggio plebeo "deve" dire quella in-teriezione esclamativa, magari recu-perata dal corrispondente personag-gio-archetipo del Decameron.

Infine: l'autore è sempre un colo-nizzatore della "realtà", anche di quella linguistica. Ma c'è colono e co-lono. Per quanto realista voglia esse-re, lo scrittoesse-re, parlando di una mela, non potrà mai spiaccicarla sul foglio per metterla sotto gli occhi del desti-natario. Ciò può fare col linguaggio; o almeno ci prova. In ogni tempo lo scrittore ha potuto tentare, col di-scorso diretto, di lasciare entrare il reale medesimo per la porta delle pa-role. Ma anche questa è una simula-zione, forse la suprema: almeno per noi. Disposti, oggi, a credere solo nella letterarietà e nell'artificio (ma anche nella verità che vi è celata), proprio in quel punto, su quella so-glia, siamo in agguato per sorprende-re le astuzie dell'autosorprende-re, lo spessosorprende-re del testo e dell'insieme di un "gene-re" in una stagione.

E Enrico Testa impegna una capa-cità rara 'di rendere espliciti tutti i suggerimenti e le suggestioni con-temporanee, con cui — grazie anche al reagente non accessorio della scrit-tura sua, neoaccademicamente ele-gante e sottile — risale alle matrici delle nostre forme del raccontare (non senza, a tratti, espliciti accenni al presente). E dà conto, in conclu-sione, del divario tra la situazione di fluidità linguistica pretipografica del Quattrocento e l'oralità normalizza-ta, controllata totalmente dalla scrit-tura, di un Cinquecento che aveva imparato presto dal Bembo a esser "" buon colono, anzi signore perfetto, e a esorcizzare la parola socialmente inquieta e in fondo indesiderata del personaggio plebeo.

Con sorprendenti inclusioni: all'a-nalisi morfologica e sintàttica le Sei

giornate dell'Aretino risultano meno "plebee" e meno trasgressive — e più bembesche — di quanto non sia parso alle letture passate.

Poiché l'intelligente articolazione e le competenze di questo studio fan-no sorgere il dubbio se si tratti di un'indagine sul parlato e la sua simu-lazione nei novellieri rinascimentali, che apra un nuovo filone di ricerche, oppure di un esame delle tecniche elaborate teoricamente dalla lingui-stica per esaminare il parlato lettera-rio, originalmente verificate sul cam-po, a tutti gli interessati sarebbe sta-to utile un indice finale dei nomi e delle opere, sì, ma soprattutto dei fe-nomeni (deissi, olofrastico, ecc.).

Poesia Croata

Collana " Poeti del Mondo "

Marin Franicevic

1

S E T E D E L L A P I E T R A

cura e traduzione

Elena Banfichi Di Santo

La VaUisa - Bari

"...La Croazia ha nutrito generazioni di poeti e scrittori. Crogiolo di civiltà e tradizioni ha prodotto opere la cui essenza è vicina all'anima Italiana. La Puglia ha un rapporto privilegiato con la Dalmazia. Le poesie di parecchi autori contempora-nei circolano nel nostro Paese, per la solerzia di nuovi valenti traduttori.

Con "Sete della pietra" di Marin Franicevic', Elena Banfichi DI Santo ag-giunge un prezioso contributo alla cono-scenza della letteratura Croata. I versi del poeta dalmato tracciano oltre mezzo seco-lo di storia, e racchiudono umori e sensa-zioni che la traduttrice ha saputo cogliere dalle varie raccolte e trasferire nella versione Italiana.

L'atmosfera è suggestiva e familiare, n lettore ritrova elementi mediterranei che lo rimandano all'origine e al senso stesso della poesia. Franicevic' compie un

lungo viaggio (attraverso la luce e l'om-bra), durante 11 quale la penna annota 1

"pensieri bizzarri". Egli è solo al cospetto del tempo e della natura. Tutto concorre alla maturazione dell 'Io: 11 sacro e 11 profa-no; le pietre, 1 vigneti, 1 frutti succosi, 11 rumore del mare..."

"...Il linguaggio, lmmagnlflco e oomu-nlcatlvo, rivela un autore energloo, che si rigenera attingendo all'amore per 11 luogo natio.

Elena Banfichi DI Santo, conterranea del poeta, ha aggiunto alla traduzione la devozione per 11 Maestro e l'affetto per la sua Isola Hvar. Ne è derivata una versione scorrevole e appropriata che non passerà Inosservata. "Sete della pietra" è un'ope-ra compatta che giunge a proposito nell ' In-teressante dibattito tra la poesia del Mez-zogiorno d'Italia e la produzione poetica

Croata. " A.S.

«

sulla settantina di contributi critici disponibili ad oggi — in massima parte recensioni soprattut-to giornalistiche —, più della metà si leggono an-cora una volta all'ombra della lanterna.

Ecco, oggi, importante e opportuna, l'ampia silloge Finestre curata da Francesco De Nicola:

190 testi in buona parte irreperibili, dispersi o inediti, rivelano un percorso letterario lucido e articolato in diverse raccolte ordinate dal poeta in vista di una pubblicazione purtroppo solo po-stuma. L'introduzione di De Nicola chiarisce in

senso documentario le tappe dell'attività poetica di Ghiglione (mettendo soprattutto ordine circa gli anni della formatione e dell'esordio), e gli ap-parati affiancano una dettagliata bibliografia delle opere a quella critica. Finestre è un libro

che per la sua esaustività panoramica si rivolge a chiunque non conosca Ghiglione, senza perciò escludere coloro che ne hanno seguito l'attività letteraria fino ad oggi, ma insieme sollecita un bilancio critico complessivo perché mette a no-stra disposizione informazioni filologiche, stato d'aggiornamento degli studi, quantità e varietà di testi.

Nove raccolte e due sezioni di belle "poesie sparse" a testimonianza di una vicenda comples-sa, e di numerosissimi esiti convincenti, allineati lungo la storia di una duplice ispirazione, comi-co-realistica, basso-corporea e creaturale, e di un

sobrissimo ripiegamento interiore sempre tratte-nuto al di sotto della soglia dell'elegiaco tramite l'adozione di registri di ascendenza ermetica e postermetica. Così, all'impegno civile e pubblico della prima raccolta — componimenti d'indole gnomico-narrativa e di ampio respiro in cui la vis

polemica aggiorna il ribellismo scapigliato attin-gendo alle esperienze delle avanguardie storiche, con particolare riguardo all'espressionismo an-che pittorico — , si alternano opere più affabil-mente rivolte al lettore secondo formule non di rado epigrammatiche in cui trova voce tanto il pensare la propria poesia quanto la dimensione privata di quegli stessi temi condensati con vio-lenza d'immaginazione nel poemetto corale

Canti civili. Non di rado, però, la vena

anarcoi-de e libertaria, con i moduli espressivi ad essa congeniali, convive assieme a quella riflessiva e pacata della memoria, espressa — è naturale — in toni meno gridati e in enunciati sintatticamen-te più consequenziali. Allo ssintatticamen-tesso modo, un lessi-co crudo e realistilessi-co ed uno astrattamente simbo-lico si alternano o si affiancano, mentre, in alcu-ne occasioni, icastiche immagini cifrate alcu-ne mani-festano la suggestiva condensazione.

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