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Annali di storia

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Academic year: 2021

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ANNALI DI STORIA DELLE UNIVERSITÀ ITALIANE

Comitato di direzione: Gian Paolo Brizzi, Antonello Mattone, Andrea Romano.

Comitato di redazione: Elena Brambilla (Università di Milano), Marco Cavina (Università di Bologna), Romano Paolo Coppini (Università di Pisa), Piero Del Negro (Emerito, Università di Padova), Peter Denley (Queen Mary University, London), Hilde de Ridder Symoens (Universiteit Gent), Maria Gigliola di Renzo Villata (Università di Milano), Maria Rosa Di Simone (Università di Roma “Tor Vergata”), Mordechai Feingold (California Institute of Technology, Pasadena), Roberto Greci (Università di Parma), Paul F. Grendler (University of Toronto), Alba Lazzaretto (Università di Padova), David Lines (University of Warwick), Daniele Menozzi (Scuola Normale Superiore di Pisa), Mauro Moretti (Università per Stranieri di Siena), Paolo Nardi (Università di Siena), Luigi Pepe (Università di Ferrara), Mariano Peset (Universidad de Valencia), Marina Roggero (Università di Torino), Roberto Sani (Università di Macerata), Gert Schubring (Universität Bielefeld), Elisa Signori (Università di Pavia), Andrea Silvestri (Politecnico di Milano), Jacques Verger (Université Paris Sorbonne-Paris IV).

Comitato dei consulenti editoriali: Girolamo Arnaldi (Emerito, Università di Roma “La Sapienza”), Patrizia Castelli (Università di Ferrara), Maria Luisa Chirico (Seconda Università di Napoli), Rosanna Cioffi (Seconda Università di Napoli), Ester De Fort (Università di Torino), Gianfranco Fioravanti (Università di Pisa), Giuseppina Fois (Università di Sassari), Gianfranco Liberati (Università di Bari), Regina Lupi (Università di Perugia), Italo Mannelli (Emerito, Scuola Normale Superiore di Pisa), Angelo Massafra (Università di Bari), Aldo Mazzacane (Università di Napoli “Federico II”), Paolo Mazzarello (Università di Pavia), Simona Negruzzo (Università Cattolica del Sacro Cuore –Brescia), Daniela Novarese (Università di Messina), Giuliano Pancaldi (Università di Bologna), Lorenzo Paolini (Università di Bologna), Marco Paolino (Università della Tuscia – Viterbo), Maurizio Ridolfi (Università della Tuscia – Viterbo), Achille Marzio Romani (Università Commerciale “Luigi Bocconi”), Maurizio Sangalli (Università per Stranieri di Siena), Ornella Selvafolta (Politecnico di Milano), Andrea Tabarroni (Università di Udine), Elio Tavilla (Università di Modena e Reggio Emilia), Andrea Tilatti (Università di Udine), Francesco Totaro (Università di Macerata), Francesco Traniello (Università di Torino), Ferdinando Treggiari (Università di Perugia), Gian Maria Varanini (Università di Verona).

Gli «Annali di storia delle università italiane» sono una pubblicazione periodica a caden- za annuale. Gli «Annali» si propongono come punto di incontro, di discussione e di informazione per quanti, pur nella diversità degli approcci storiografici e nella moltepli- cità dei settori disciplinari di appartenenza, si occupano di temi relativi alla storia delle università italiane.

La rivista è espressione del “Centro Interuniversitario per la Storia delle Università Italiane” (CISUI), cui aderiscono attualmente gli atenei di Bari, Bologna, Ferrara, Macerata, Messina, Milano “Luigi Bocconi”, Milano Politecnico, Milano Statale, Modena e Reggio Emilia, Napoli “Seconda Università”, Padova, Parma, Pavia, Perugia, Pisa, Pisa

“Scuola Normale Superiore”, Roma “Tor Vergata”, Sassari, Siena “Università per Stranieri”, Torino, Verona, Università della Tuscia (Viterbo).

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Redazione: Ilaria Maggiulli

Direttore responsabile: Gian Paolo Brizzi

Autorizzazione del Tribunale Civile di Bologna n. 6815 del 5/6/98

I testi pubblicati sono preventivamente valutati dai curatori indicati, per ciascun nume- ro, dal Comitato di redazione e dal Comitato dei consulenti editoriali. I testi sono altresì sottoposti al doppio giudizio in forma anonima di esperti interni ed esterni (double-blind peer review). Il modulo per la peer review è disponibile on-line all’indirizzo www.cisui.

unibo.it/home.htm. Gli articoli pubblicati in questa rivista sono catalogati negli indici sotto elencati.

«Annali di storia delle università italiane» uses a double-blind peer review system, which means that manuscript author(s)do not know who the reviewers are, and the reviewers do not know the names of the author(s). It is covered by the following abstracting/indexing services:

Acnp - Catalogo italiano dei periodici Aida - Articoli italiani di periodici accademici

Bibliografia storica italiana EBSCO Publishing - Historical Abstract

EIO - Editoria italiana online

Il CISUI ha la propria sede presso l’Università di Bologna:

Centro interuniversitario per la storia delle università italiane Via Galliera 3

40121 Bologna

tel. +39+051224113; fax +39+0512086160

e-mail: cisui.redazione@unibo.it; indirizzo internet: www.cisui.unibo.it/

Corrispondenza redazionale: «Annali di storia delle università italiane», CP 82, 40134 Bologna 22

Abbonamenti e acquisti: CLUEB, via Marsala 31, 40126 Bologna

Copyright: tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qual- siasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non espressamente autorizzata dalla Redazione della rivista.

© 2014 CLUEB, via Marsala 31, 40126 Bologna e CISUI, via Galliera 3, 40121 Bologna

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Annali di storia

delle università italiane

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Annali di storia delle università italiane 18/2014

I

NDICE

7 STUDI

9 FERDINANDOTREGGIARI, L’Università degli Studi di Perugia

13 ATTILIOBARTOLILANGELI, All’origine dello Studio: politica e cultura della città 25 PAOLONARDI, Le origini delle Università di Perugia e Siena: spunti per una com-

parazione

33 FERDINANDOTREGGIARI, «Doctoratus est dignitas»: la lezione di Bartolo

45 SIRIOMARIAPOMANTE, Il sepolcro del giureconsulto Angelo Perigli: nuovi ap- porti per la storia della scultura del Quattrocento a Perugia

59 GIULIARUINA, Il primo secolo dell’insegnamento medico a Perugia: maestro An- tonio di Uguccio da Scarperia

75 CÉCILECABY, Les discours de laudibus theologie de l’Augustin Ambrogio Massa- ri pour le Studium de Pérouse

91 ALBERTOGROHMANN, L’impatto dell’università nella struttura urbana di Perugia 101 SIMONEBARTOLONI, I registri delle lauree

115 DANIELESINI-STEFANIAZUCCHINI, Il finanziamento pubblico dello Studio perugi- no nella documentazione della Camera apostolica (secoli XV-XVI)

139 ANNAALBERTI, Fonti inedite di archivio per la storia dello Studium Perusinum (secc. XV-XVI)

151 LAURATEZA, Glorie dinastiche e perugine nel Iustitiae Sacellum di Guglielmo Pontano

167 LAURAMARCONI, Gli studenti marchigiani nell’archivio del Collegio studentesco della Sapienza Nuova di Perugia

185 REGINALUPI, L’Università di Perugia in età moderna: una dialettica tra Stato e cor- porazioni urbane

195 MARIA ALESSANDRA PANZANELLI FRATONI, La Biblioteca antica dell’Università di Perugia, Sala del Dottorato e altre collezioni speciali. Appendice a cura di MONICAFIORE, Il Fondo Vanni

221 VITTORIVOCOMPARATO, Il diritto di natura a Perugia tra la Repubblica romana e l’Unità

243 LETIZIAGIOVAGNONI, Le scienze naturali: gli agronomi e l’università tra rivolu- zione e Restaurazione

251 MANUELVAQUEROPIÑEIRO, Da ‘Libera’ a ‘Regia’: aspetti patrimoniali dell’Univer- sità di Perugia (1862-1925)

269 FRANCOBOZZI, Scuola, università, circoli culturali nella costruzione dell’identità nazionale: il caso di Perugia

287 ENRICOMENESTÒ, Appunti di storia della storiografia dell’Università di Perugia 293 MARCOMENZENGHI, Onomasticon: una banca dati prosopografica per la storia

dell’Università di Perugia

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299 FONTI

301 MARIAROSADISIMONE, L’Unità d’Italia e l’insegnamento del diritto pubblico al- l’Università di Roma

313 ILARIAMAGGIULLI, «Li scolari per il più vivono, et vestono à guisa di soldati, con grande licenza...»: 1564, un episodio di violenza studentesca a Bologna

327 MARIATERESAGUERRINI, L’Accademia degli Impazienti: un esperimento nella Bologna di fine Seicento

341 ANDREAUBRIZSYSAVOIA, 500 anni fa iniziava l’insegnamento della Botanica s.l.

all’Università ‘La Sapienza’ di Roma 355 ARCHIVI,BIBLIOTECHE,MUSEI

357 MATTIAFLAMIGNI, La serie Professori universitari epurati (1944-46) presso l’Ar- chivio Centrale dello Stato. Uno studio

363 SCHEDE E BIBLIOGRAFIA

365 150 anni di cultura politecnica da Milano a Lecco: architettura, industria, territorio, a cura di ADELECARLABURATTI-ORNELLASELVAFOLTA, Milano, Politecnico di Milano - Il Sole 24 ore, 2013 (GIORGIOPEDROCCO), p. 365; La Babel etudiante: la Cité internationale universitaire de Paris (1920-1950), sous la direction de DZOVINARKÉVONIANet GUILLAUMETRONCHET, preface de RO-

BERFRANK, mise en perspective de VICTORKARADY, Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2013 (MARCOMARIGLIANO), p. 366; GIANPAOLOBRIZZI, Rettori in camicia nera, studenti parti- giani, Bologna, Bononia University Press, 2014 (MATTIAFLAMIGNI), p. 368; ALBERTOCADOPPI, Lo studio di Ranuccio. La rifondazione dell’Università di Parma nel 1600; con un inedito elen- co di laureati dal 1527 al 1646, Parma, Grafiche Step, 2013 (GIANPAOLOBRIZZI), p. 369; Car- lo Pucci tra scienza e impegno civile, a cura di ALESSANDROFIGÀTALAMANCA-LUIGIPEPE, Bolo- gna, Unione Matematica Italiana, 2014 (MARIATERESABORGATO), p. 370; Dall’Università di To- rino all’Italiaunita: contributi dei docenti al Risorgimento e all’Unità , a cura di CLARASILVIAROE-

RO, Torino, Deputazione subalpina di storia patria, 2013 (FRANCESCASOFIA), p. 371; ILEANADEL

BAGNO, Theatrum justitiae. Atti di un’accademia giuridica nella Napoli del tardo Settecento, Battipaglia, Laveglia & Carlone, 2010 (MARIATERESAGUERRINI), p. 372; ENRICOFLAIANI, L’Uni- versità di Roma dal 1824 al 1852. Docenti, programmi ed esami tra le riforme di Leone XII e quelle di Pio IX, Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 2012 (GIANPAOLOBRIZZI), p.

372; LUCIANOGARGAN, Dante, la sua biblioteca e lo Studio di Bologna, Roma-Padova, Antenore, 2014 (MARCOVEGLIA), p. 373; Giovanni Poleni tra Venezia e Padova, a cura di PIERODELNE-

GRO, Venezia, Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, 2013 (ALESSANDRAFIOCCA), p. 374; UM-

BERTOLATORRACA, Lo studio del greco a Napoli nel Settecento, Napoli, Giannini, 2012 (CAMIL-

LONERI), p. 379; Lauree. Università e gradi accademici in Italia nel medioevo e nella prima età moderna, a cura di ANNAESPOSITO-UMBERTOLONGO, Bologna, CLUEB, 2013 (RAFAELRAMIS- BARCELÓ), p. 381; PAOLOMAZZARELLO, L’erba della regina. Storia di un decotto miracoloso, To- rino, Bollati Boringhieri, 2013 (ARIANEDRÖSCHER), p. 382; La medicina veterinaria unitaria (1861-2011), editor ANTONIOPUGLIESE, Brescia, Fondazione Iniziative Zooprofilattiche e Zoo- tecniche, 2014 (ALBAVEGGETTI), p. 383; La memoria dell’Università . Le fonti orali per la storia dell’Università degli studi di Trento (1962-1972), a cura di GIOVANNIAGOSTINI-ANDREAGIORGI- LEONARDOMINEO, Bologna, Il Mulino, 2014 (MATTIAFLAMIGNI), p. 385; ENZAPELLERITI, ‘Italy in transition’. La vicenda degli Allied Military Professors negli Atenei siciliani fra emergenza e defascistizzazione, Acireale, Bonanno, 2013 (MATTIAFLAMIGNI), p. 385; PAOLOPRODI, Universi- tà dentro e fuori, Bologna, Il Mulino, 2013 (SABINOCASSESE; ANTONELLOMATTONE; MARCELLO

VERGA), p. 387; GIOVANNISALI, Medicina veterinaria: una lunga storia. Idee, personaggi, eventi, illustrata da RENATOVERMI, Brescia, Fondazione Iniziative Zooprofilattiche e Zootecniche, 2013 (ALBAVEGGETTI), p. 392; Santi patroni e Università in Europa, a cura di PATRIZIACASTELLI-RO-

BERTOGRECI, Bologna, CLUEB, 2013 (RAFAELRAMIS-BARCELÓ), p. 393; ANDRÉWEIL, Ricordi di apprendistato. Vita di un matematico, trad. e cura di CLAUDIOBARTOCCI, Roma, Castelvecchi, 2013 (LUIGIPEPE), p. 395.

399 Bibliografia corrente e retrospettiva 413 NOTIZIARIO

415 Convegni, seminari, incontri di studio 428 Attività e progetti

432 Riviste e notiziari di storia delle università

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Studi

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L’U

NIVERSITÀ DEGLI

S

TUDI DI

P

ERUGIA

Presentazione

L

a catena delle delibere del Comune di Perugia mirate, tra XIII e XIV secolo, alla provvista di doctores che garantissero alla città gli insegnamenti del diritto e delle arti liberali, «ut civitas Perusii sa- pientia valeat elucere et in ea Studium habeatur» – come si legge nello Statuto del 1285, allorché si volle garantire in città una pubblica lettura del diritto giustinianeo –, documenta la volontà che il Comune di Popolo impegnò nella promozione degli studi superiori e nell’istituzione dello Studium, necessario alla formazione di una classe di intellettuali che des- se espressione alle istanze politiche e culturali della città. Con il ricono- scimento di Studium generale in qualibet facultate, concesso nel 1308 da papa Clemente V e con i privilegi di addottorare in diritto civile e cano- nico (1318) e in arti e medicina (1321), concessi da papa Giovanni XXII, a cui seguirono nel 1355 gli analoghi riconoscimenti ottenuti dall’impe- ratore Carlo IV, l’Università perugina uscì dai confini dell’istituzione co- munale per collocarsi nell’ambito, illimitato, delle autorità universali.

La fondazione dello Studio generale e la concessione della licentia ubique docendi segnarono l’avvio di una fase di crescente prestigio del- l’Università umbra, già nel corso del Trecento palcoscenico di maestri, la cui fama giunse a togliere all’Alma Mater alcuni dei suoi primati, come quello nelle scienze giuridiche, grazie alla formidabile sequenza di giu- risti (Iacopo da Belviso, Cino da Pistoia, Bartolo da Sassoferrato, Baldo, Pietro e Angelo degli Ubaldi) che in quel secolo ebbero cattedra a Perugia.

Nell’età moderna l’Università visse fasi legate alle vicende politiche della città, caduta prima nelle mani dei signori e poi definitivamente sog- giogata al potere del pontefice, che assunse sempre più diretta vigilanza sullo Studio a mezzo dei suoi legati e governatori. Questa seconda fase, che durerà fino all’annessione dell’ex-provincia pontificia al Regno sa- baudo (1860), fu segnata nel 1625 dalla riforma di papa Urbano VIII, che cancellò ogni residuo del passato medievale dello Studium. In questo pe- riodo, a mantenere saldo il rapporto dell’università con la città provvide il corpo dei dottori, sempre più organico al mondo cittadino e sempre più ‘cittadino’ esso stesso. Forte del controllo degli esami di dottorato ed articolato nei suoi potenti collegia, il corpo dottorale durante l’antico re- gime assunse la direzione dello Studio, condividendo le sue prerogative con il vescovo e il delegato del governo centrale.

Nei secoli del dominio pontificio l’ateneo dà di sé un’immagine di de- cadenza. L’elenco, diviso per secoli, dal XIV al XVIII, dei nomi dei giuri- sti più famosi dell’Università di Perugia incisi sulla lastra di marmo fatta preparare nel 1890 in occasione della visita a Perugia del re Umberto I e

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ancora oggi infissa in una parete al piano terra dell’ateneo, testimonia nei secoli XVII e XVIII la parabola discendente del suo originario presti- gio. Soffocati dal conservatorismo culturale del governo clericale e dal- la resistenza dei collegi dottorali e dei ceti aristocratici cittadini, i tenta- tivi di riforma settecenteschi non riuscirono a frenarne il declino. Ne sca- pitarono le scienze, come attesta, per quelle naturali e la medicina, la vi- cenda accademica e politica di Annibale Mariotti (1738-1801), «direttore degli studi» e riformatore dell’università nel biennio giacobino (1798-99), che finì i suoi giorni da perseguitato.

Al successivo decennio di ripresa dell’autorità papale, durato fino al 1809, seguì il quinquennio del dominio napoleonico, che uniformò l’or- dinamento dell’ateneo a quello delle università francesi, annullando le prerogative dei collegi dottorali e decretando la chiusura dei tre collegi studenteschi cittadini: la Sapienza Vecchia (la cui fondazione risaliva agli anni Sessanta del Trecento), la Nuova e la Bartolina. Il periodo napoleo- nico lascerà non poche tracce nel cinquantennio della nuova restaura- zione pontificia: tra queste, la nuova sede dell’ateneo. «Nomade» nei pri- mi due secoli di vita, quando le sue aule erano disseminate nei più sva- riati luoghi della città, con le campane del Duomo e del Comune a scan- dire l’inizio e la fine di ogni lezione per gli studenti provenienti da ogni parte d’Italia e d’Europa, lo Studium aveva avuto solo a fine Quattrocen- to la sua degna sede nel palazzo del Sopramuro, al centro della città, ove era rimasto per tre secoli. Durante il governo napoleonico aveva traslo- cato (1810) nel nuovo grande fabbricato (Palazzo Murena) costruito nel 1740 per ospitare i monaci olivetani dopo la rovina del loro originario con- vento di Monte Morcino. Destinato al nuovo uso, l’ex monastero è an- cora oggi sede centrale dell’ateneo.

Le riforme introdotte nel 1824 da Leone XII furono nel segno dell’ul- teriore centralizzazione del potere sull’università, ora sottoposta all’au- torità del vescovo cancelliere e del rettore di diretta nomina pontificia, con forte limitazione del potere dei collegi dottorali. Il nuovo assetto sa- rà scosso dai moti liberali del 1831 e dai turbolenti mesi della Repubbli- ca romana (1848-49), che determinarono la chiusura temporanea dello Studio. Nell’ultimo periodo di dominio pontificio l’ambiente accademico non rimase però insensibile ai fermenti di innovazione che animavano il mondo scientifico, in particolare nel campo della medicina, degli studi di agraria e di quelli di diritto.

L’insurrezione del giugno 1859, avvenuta quando vescovo cancelliere era Gioacchino Pecci, futuro Leone XIII, vide la significativa partecipazio- ne degli universitari. Tra i primi provvedimenti presi dopo il suo insedia- mento, Gioacchino Napoleone Pepoli, commissario straordinario incari- cato di portare l’Umbria all’annessione al Regno sabaudo, sottrasse al ve- scovo l’autorità sull’ateneo, a cui assegnò lo status di università «libera», riaffidandone l’amministrazione al Comune. Questa trasformazione, che pareva evocare il ritorno alle gloriose origini, provocò in realtà il declas- samento dell’ateneo, emarginato dal processo nazionale di riorganizza- zione delle sedi universitarie e povero di risorse finanziarie, che i bilanci dell’amministrazione municipale non riuscivano ad alimentare. La sua sal- vezza, legata alla prospettiva della regificazione, giunse solo nel 1925.

Durante il ventennio fascista l’ateneo del rettore Paolo Orano si gua- dagnò i favori politici e il sostegno economico del regime, omaggiando gerarchi e ministri ed istituendo la ‘Facoltà fascista di scienze politiche’, destinata a formare i quadri e i funzionari del nascente «Stato nuovo»

mussoliniano.

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Il secondo dopoguerra fu segnato dal trentennio del rettorato di Giu- seppe Ermini, inteso a congiungere il rilancio dell’istituzione al prestigio della sua tradizione secolare. L’Università visse in questi decenni la fase di maggiore espansione delle sue strutture e dei suoi corsi, con nume- rose sedi e ben undici Facoltà, oggi trasformate in sedici Dipartimenti.

I venti saggi di storia dell’Università di Perugia, qui contenuti, proseguo- no e rinverdiscono la solida tradizione storiografica, che a datare alme- no dalla prima grande monografia di Vincenzo Bini (1816), si è dedicata a ricostruire le vicende istituzionali, le cattedre e i protagonisti dei sette secoli di vita dell’ateneo umbro. Le biografie del Vermiglioli, le ricerche documentarie di Adamo Rossi, gli studi di Guido Padelletti, i saggi e le si- stemazioni archivistiche di Oscar Scalvanti (ma, risalendo nei secoli, la storiografia erudita dei Pellini, Oldoini, O. Lancellotti, Tassi) hanno pre- parato il terreno alla monumentale Storia dell’Università di Perugia (1971) di Giuseppe Ermini, che ha inserito la messe dei dati in un dise- gno storico razionale e articolato, offrendo un profilo mirabile e finora insuperato dell’Università perugina dal medioevo all’età contemporanea.

Le ricerche dell’ultimo decennio, propiziate in particolare da Carla Frova e dal compianto Roberto Abbondanza –al cui ricordo gli studi qui pubblicati sono dedicati –, hanno apportato nuovi ed importanti contri- buti storiografici, materializzati nelle monografie (sette, ad oggi) delle due collane editoriali della Deputazione di storia patria per l’Umbria de- dicate alla storia dello Studium Perusinum; nei cataloghi delle mostre (Doctores excellentissimi, 2003; Maestri, insegnamenti e libri a Perugia, 2009); negli atti dei convegni occasionati dal VII centenario della fonda- zione dell’ateneo (Dalle università delle ‘nationes’ all’università per l’Eu- ropa, 2008, alcuni dei quali qui ricompresi) e dai centenari dei suoi mae- stri (Baldo degli Ubaldi, 2000; Bartolo da Sassoferrato, 2013); nell’im- presa dell’Onomasticon, il repertorio prosopografico digitale dei maestri e degli studenti dell’Università di Perugia varato nel 2008 e nel quale con- fluiranno i frutti delle ricerche venture, che si spera altrettanto prodighe delle passate.

FERDINANDOTREGGIARI

(Università di Perugia) ferdinando.treggiari@unipg.it

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A

LL

ORIGINE DELLO

S

TUDIO

:

POLITICA E CULTURA DELLA CITTÀ

L

a storia politica di Perugia è tutta nel segno della fedeltà al roma- no pontefice. Perugia è guelfa, segue la parte della Chiesa, fa par- te del dominio temporale della Sede apostolica: da sempre, dai tem- pi del Corridoio bizantino, ma non sempre. Il Comune, anzitutto, nasce – come tutti i Comuni di città italiani – dal Regnum, cioè riferendosi al- l’imperatore e re: è del 1186 il diploma con cui Enrico VI riconobbe alla città il consolato e il comitato. Dodici anni dopo, nel 1198, Perugia fu una delle prime città a toccare con mano il programma di papa Innocenzo III volto al recupero delle terre della Chiesa, e si adeguò volentieri. Ma quel- la scelta non fu esente da momenti di crisi. Il più grave coincise con la guerra italiana di Federico II. In quel decennio di fuoco, 1240-1250, Pe- rugia le passò tutte: prima un breve prevalere della pars militum impe- riale, un assedio da parte delle truppe pontificie, il ritorno al governo del- la parte papale; poi, nel 1246, una durissima sconfitta ad opera di Foli- gno e degli imperiali, che la ridusse ai minimi termini. Ma già nel 1248 Perugia dava chiari segni di ripresa; e attinse il massimo quando Inno- cenzo IV, di ritorno da Lione, dopo i trionfali passaggi per la sua Genova e per Milano, prima di rientrare a Roma si fermò per un anno e mezzo nella città. Fu a Perugia, per quei diciotto mesi capitale delle terre della Chiesa oltre che centro della cristianità, che il papa riannodò i fili della sua politica italiana. Immediato risultato per la città, la rivincita su Foligno nel 1253-54.

Di lì a poco il Comune si regge a popolo, e i popolari sono guelfi; qual- che irrequietezza dei milites filoimperiali, che smettono dopo il 1266. Il seguito è abbastanza noto, ovvero facilmente immaginabile: un Comune che fa la sua politica e un papato che, quando quello esagera, lancia sco- muniche, invia legazioni corrucciate, pretende omaggi. Normale ammi- nistrazione. Si è discusso assai, in passato, circa la natura della relazione tra le città della Chiesa, in primis Perugia, e la Chiesa stessa. Una di- scussione datata, che non è bene resuscitare. Certo è che la questione si giocava sui rapporti di forza: e Perugia fu città non forte, ma fortissima.

Una breve panoramica.

Il XII secolo e l’inizio del XIII Perugia lo spese soprattutto per con- quistare il suo comitato, coincidente con l’episcopato. Gran parte delle

‘sottomissioni’ di quel periodo è volta a rinforzarne i bordi e a neutraliz- zare –appunto sottomettendole, non eliminandole –le potenze signorili, laiche ed ecclesiastiche, che sussistevano all’interno di esso. Ma non mancarono le espansioni al di là del comitato, due soprattutto: prima la conquista del Lago, poi quella del Tevere. L’impossessamento del Trasi- meno e del Chiugi, cioè dell’ampia striscia di terra al di là del lago fino alle Chiane, può dirsi concluso entro il 1196, con la sottomissione di Ca- Attilio Bartoli Langeli

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stiglione del Lago. Tipicissimo esempio, quest’operazione, del rapporto tra una città e il riferimento superiore, allora l’Impero: con la sua avanzata Perugia aveva trasgredito una delle condizioni sancite dal diploma di En- rico VI del 1186; fulmini dell’imperatore; poi una sentenza conclusiva, che riconosceva a Perugia le sue nuove terre in cambio dell’esborso di una sonora penalità. Tutta duecentesca è l’altra operazione, la conquista del Tevere. Per Perugia impadronirsi del Tevere e della fascia al di là del fiume era un passo breve spazialmente ma lungo politicamente, perché il Tevere segnava il confine tra il Patrimonio e l’intoccabile (almeno per Roma) Ducato di Spoleto. Ecco così, oltre al controllo di Nocera e Assi- si e quindi di un buon tratto della Flaminia, quella che può definirsi la politica dei ponti messa in atto da Perugia: la lunga collana dei ponti pe- rugini, da Umbertide a nord fino a Deruta (Pontenuovo) a sud, irrobu- stita dall’impianto di nuovi castelli, come quelli di Castrum Grifonis (og- gi Brufa) e di Torgiano.

Con questa duplice spinta, verso la Toscana e verso il Ducato, Peru- gia non solo allargava il suo comitato storico, ma si affermava come po- tenza regionale. La sua area d’influenza e di dominio politico, la sua for- tia come si diceva, essa la costruì per via militare e diplomatica, sfrut- tando le occasioni e facendosi scudo della fedeltà alla Chiesa: la fortia di Perugia significava, questo dicevano i patti, un rafforzamento della par- te papale. Se con Città di Castello e con i centri della fascia appenninica verso la Marca la consueta altalena di accordi e conflitti stabiliva co- munque una presenza robusta; se verso ovest, bloccata da Siena, la città spingeva in direzione di Chiusi, i nemici veri furono le due città vicine imperiali per eccellenza, Gubbio e Foligno: con queste era in gioco, ap- punto, il segno papale del quadro regionale, e l’accanimento reciproco non ebbe mai pace.

La prima metà del Trecento è il periodo dell’espansione dello stato pe- rugino ben oltre i confini che esso aveva raggiunto nel secolo preceden- te. Si pensi che intorno al 1350 il dominio di Perugia si spingeva nelle Marche fino a Cagli e Arcevia, nel Ducato fino a Spoleto e Sangemini, e soprattutto ben dentro la Toscana: arrivava, da ovest a nord, a Chiusi e Montepulciano, a Foiano della Chiana e Monte San Savino, a Castiglione Aretino (poi e oggi Castiglion Fiorentino), a Sansepolcro e Pieve Santo Stefano; e Arezzo era nel mirino. Un vero e proprio stato regionale, com- prendente, si noti, ben otto città, pari per estensione e potenza ai mag- giori della Penisola. Aveva buona ragione, al di là del patriottismo, Bar- tolo da Sassoferrato nel De regimine civitatis a classificare Perugia fra le città «in primo gradu magnitudinis»1.

(Mi piace infiorare questa sintesi sulla storia di Perugia, centrata sul- la seconda metà del Duecento, con brani di Bartolo, il massimo laudator della sua città di adozione, e dedicare solo a lui il minimo apparato di no- te che correda questo testo. Bartolo scrive poco dopo la metà del XIV secolo e pare non cogliere, o non voler cogliere, i segni della crisi. Guar- da perciò, consapevole o no, all’indietro, alla Perugia di prima –insom- ma è un laudator temporis acti –, e può servire come prospettiva ex post sul periodo che c’interessa).

L’espansione di Perugia nella Toscana, in particolare, significava l’in- cunearsi di una civitas Ecclesiae in pieno Regno, nel territorio di storica pertinenza imperiale. Chiamata a risponderne dall’imperatore Carlo IV di Boemia nel 1355, la città mandò un’ambasceria coi fiocchi: tra gli amba- sciatori era Bartolo, che ne uscì bene anche sotto il profilo personale.

Anziché difendersi, Perugia colse al volo l’occasione: chiese e ottenne

1De regimine civitatis, ed. DIEGOQUAGLIONI, Politica e diritto nel Trecento italiano. Il «De tyranno» di Bartolo da Sassoferrato (1 3 1 4 - 1 3 5 7 ) con l’edizione critica dei trattati «De guelphis et gebellinis», «De regimine civitatis»

e «De tyranno», Firenze, Olschki, 1983, p. 162- 164. Ringrazio Ferdinando Treggiari, poiché a lui si devono queste puntuali referenze.

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2Parole che si trovano in numerosi luoghi del- l’opera bartoliana, per i quali cfr. FRANCESCO

ERCOLE, Da Bartolo all’Althusio. Saggi sulla storia del diritto pubblico del rinascimento ita- liano, Firenze, Vallecchi, 1929, p. 70-118 e PIE-

TROCOSTA, Iurisdictio. Semanticadel potere po- litico nella giuspubblicistica medievale (1 1 0 0 - 1 4 3 3 ), Milano, Giuffrè, 1969 (rist. 2002), spec.

p. 253-260.

dall’imperatore la concessione del vicariato su quelle terre del Regno che aveva occupato con la forza. Il vicariato era la forma giuridica dell’inqua- dramento (meglio che della subordinazione) di una potenza locale nel- l’orbita di una delle due sovranità universali. Perugia lo chiese all’Impe- ro, rompendo con la sua sovranità storica di riferimento. Nulla chiese al papa, nonostante la pressione sempre più ostile dell’Albornoz: possede- re le sue terre per vicariato apostolico, se mai una cosa del genere fosse venuta in mente a qualcuno, avrebbe significato il suicidio politico della città. Consegnandosi all’imperatore (quanto solo ai suoi dominii toscani, beninteso), la città ricevette da lui molti privilegi, e in particolare il rico- noscimento dello Studium generale.

Il flirt con Carlo IV durò poco: nel 1369 egli revocò il vicariato, ossia delegittimò le conquiste toscane e riconsegnò la città alla giurisdizione romana (o meglio avignonese). Perugia aveva perso la sua scommessa.

La Sede apostolica si scatenò: un mese dopo contro la città fu commina- ta la scomunica e lanciata la crociata. Tempo un anno o poco più, e il 23 novembre 1370 Perugia dovette firmare con Urbano V la cosiddetta Pa- ce di Bologna, dandosi ad ius et proprietatem della Chiesa. Era la fine tan- to dell’espansione extraterritoriale quanto della libertà stessa dello sta- to perugino. Bartolo nel frattempo era morto, ma aveva consegnato alla storia, imperiture e intatte, le famose definizioni di Perugia come «civi- tas superiorem non recognoscens» e «civitas sibi princeps»2.

L’articolazione sociale di una città comunale intorno, diciamo, alla metà del Duecento è, detta molto sommariamente, questa: ai vertici, a giocar- si il predominio, i nobili e il popolo; in basso, gli altri. Banale cliché sto- riografico, ricordando i Magnati e popolani di Salvemini. Il termine ma- gnati, mangnates o magni, non è usato a Perugia: qui si parla di milites e di equites, poiché l’identità nobiliare è data dal fare la guerra, in partico- lare dal combattere a cavallo. Nella lista di proscrizione degli apparte- nenti all’aristocrazia del 1333, il Libro rosso, costoro sono definiti «de pro- le militari». Altre caratteristiche dei milites che affondano nel tempo: este- se proprietà terriere nel contado, non di rado incastellate e sedi di dirit- ti signorili; il monopolio della cultura giuridica e dell’esercizio della giu- stizia; la fedeltà al re, cioè (in Italia) all’imperatore, sorgente vicina o lon- tana dei loro poteri; la stretta colleganza con gli enti ecclesiastici e reli- giosi tradizionali, abbazie e canoniche. La controparte, sempre ragio- nando di cittadini politicamente attivi, è popolo: sono coloro che campa- no del loro lavoro, più o meno lucroso; in cima il cosiddetto popolo gras- so, banchieri (allora cambiatori) e mercanti; poi il popolo minuto, arti- giani e bottegai. Nelle prime due classi, nobiltà e popolo grasso, pesca l’al- to clero. A stare larghi, in tutto avrà partecipato più o meno attivamente alla vita politica un quinto della popolazione urbana maschile adulta (che sarebbe già molto); avanzano, quanto alla città, il proletariato cioè i lavo- ranti e il sottoproletariato. Per non parlare della campagna e dei conta- dini.

A Perugia l’equilibrio, o meglio il conflitto e l’affrontamento, delle due parti fondamentali, aristocrazia e popolo, ha una svolta decisiva in quello stesso decennio federiciano al quale si accennava. Anzi in un gior- no preciso di quel decennio, il 31 marzo 1246, quando nella piana tra Fo- ligno e Spello si affrontarono in campo aperto le truppe papali e imperiali, di Perugia e di Foligno. Quel giorno i milites di Perugia fallirono vergo- gnosamente nella loro specialità, il combattimento a cavallo. Lo raccon- tano in molti, ma lo racconta specialmente Bonifacio da Verona nell’Eu-

1 . Il diploma dell’imperatore Carlo IV col privilegium Studii generalis (Pisa, 1 9 maggio 1 3 5 5 ). Perugia, Ar- chivio di Stato, Archivio storico del Comune di Perugia, Diplomatico, perg. 2 5 1 .

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listea, di cui riparleremo: non un testimone diretto, ma un poeta di pro- fessione che scrive poco meno di cinquant’anni dopo sotto dettatura, per così dire, dei dirigenti perugini di allora. È questa l’unica sconfitta di Pe- rugia narrata nell’Eulistea, e un motivo c’è: tutto il racconto «sembra vo- ler cancellare ogni residuo di prestigio della classe magnatizia del co- mune», ed «è condotto in modo tale da riversare ogni responsabilità sui nobili e cavalieri». Così scriveva Anna Imelde Galletti nel 1970, aggiun- gendo: «Se qualcuno avesse potuto risollevare le sorti della battaglia, sa- rebbe stato il popolo, sarebbero stati i pedites: non i cavalieri, presentati come prima causa di tutto».

Quella sconfitta, quella strage di pedites lasciati alla mercé dei nemi- ci dall’ignominiosa fuga dei cavalieri «terga vertentes», fu il colpo defi- nitivo alla pretesa, anzi al diritto dei nobili di comandare la città. Nacque allora il governo di Popolo (con la maiuscola), anche se i suoi effetti si fe- cero sentire qualche anno dopo: nel 1255, con l’istituzione del capitano del popolo; e soprattutto nel 1260, con gli Ordinamenta populi. Gli Ordi- namenta perugini sono un manifesto di legislazione antimagnatizia che non ha uguali per chiarezza d’impostazione repressiva dei modi di pre- senza pubblica dei milites e per precocità: Siena ci arriverà nel 1277, Bo- logna nel 1282 con gli Ordinamenti sacrati, Firenze nel 1293 con gli Or- dinamenti di giustizia di Giano della Bella. Ma fare graduatorie è ri- schioso, ogni città ha dinamiche sue proprie.

La costruzione del Comune di Popolo fu un’operazione politica di grande accortezza, portata avanti –almeno apparentemente –senza vio- lenza e senza superare grandi dissensi. Quel governo, il governo di Po- polo, la Repubblica delle Arti come la chiama John Grundman, segna la storia di Perugia per un buon secolo. Un secolo diviso a metà. La prima metà, fino agli inizi del Trecento, vede un fitto succedersi di cambiamenti, ritocchi istituzionali, cambi di maggioranze; li ha studiati il medesimo Grundman, in maniera talmente analitica che alla fine si perde il filo. Il fat- to è che governo di Popolo significa un sistema politico mobilissimo, mai fermo, che si rimodella anno dopo anno a misura delle esigenze di fatto, della componente popolare che emerge, della caduta in disgrazia di un clan o di una corporazione. L’impressione dal di fuori per così dire, ossia senza farsi travolgere dalla valanga documentaria, è invece quella di una società e di uno stato in piena salute. Col Trecento le cose cambiano. Da un lato si assesta l’ordinamento istituzionale, con la creazione del Priorato (1303). Dall’altro, tutto comincia a scricchiolare, col prevalere dei rap- presentanti del popolo minuto all’interno del governo popolare, col rie- mergere della durezza delle fazioni (ecco i Raspanti e i Beccherini, i po- polari e i nobili divenuti appunto fazioni) e soprattutto con la crisi eco- nomica e demografica –primo segnale, la sequenza impressionante del- le carestie primo-trecentesche: 1300, 1302, 1316, 1328, 1340, 1346. Ma della crisi sembrerà non accorgersi Bartolo, quando nel proemio del De fluminibus, innamorato della sua città di adozione, canta «montem illum laudabilem [...], in quo est felis Perusina civitas situata»; una città, sé- guita Bartolo, «bene habitata, edifitiis multis et pulcris ornata, fructifera valde et delectabilis viridiaria»3.

Quest’immagine idilliaca della città e dello stato si attaglia, meglio che alla situazione nella quale scriveva Bartolo, alla situazione degli ulti- mi quarant’anni del Duecento. Grundman intitola efficacemente il suo capitolo dedicato agli anni 1263-1281 Augusta Perusia. È proprio l’età d’oro di Perugia –e non solo di Perugia naturalmente, ma delle città ita- liane più floride e ambiziose. Lo stato di salute della città e del territorio

3Tiberiadis (De alluvione), ed. OSVALDOCA-

VALLAR, in appendice a ID., River of Law: Bar- tolus’s Tiberiadis (De alluvione), in A Renais- sance of Conflicts. Visions and Revisions of Law and Society in Italy and Spain, ed. by JOHNA.

MARINO-THOMASKUHEN, Toronto, Centre for Reformation and Renaissance Studies, 2004, p. 84.

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circostante incentiva la classe di governo a pensare in grande; cosa che essa fa con un’intensità e una capacità di programmazione stupefacenti.

In questa fase, per esempio, si attua quella ‘politica dei ponti’ che dicevo, e si procede nella difficile impresa della coniazione di una moneta. Ma si guarda soprattutto alla città.

Città che viene rifatta e ripensata. Si procede a grandi opere edilizie, come la sostruzione del Sopramuro; l’acquedotto; il rifacimento del vec- chio palatium communis e, subito dopo, l’apertura del cantiere del pala- tium novum populi (futuro Palazzo dei Priori); l’ampliamento della cinta muraria; la mattonatura della piazza e delle vie regali; la costruzione di San Bevignate prima e di Sant’Ercolano poi, due chiese di Comune o per meglio dire di Popolo.

Città che viene abbellita. Basti citare, quanto ai monumenti pubblici, le due fontane della Piazza grande, quella «in capite platee» (la cosiddetta Fontana maggiore, eretta nel 1278) e quella «in pede platee» (la Fontana di Arnolfo, finita nel 1283 e poi smontata); alle quali seguì, allo scadere del secolo, la decorazione della Sala dei Notari (perduti invece gli affre- schi del palatium communis, che dovevano essere grandiosi data l’enor- mità del compenso ai pittori); alla quale seguì, ben dentro il Trecento, il portale del Palazzo.

Quello che colpisce in tutte queste intraprese è l’impegno collettivo e concorde: per quante divisioni attraversassero il corpo cittadino, le scel- te della classe politica mobilitavano tutte le energie della città. Alcune opere richiesero tempo, ma altre furono compiute in un baleno: alludo specialmente all’acquedotto e al suo coronamento monumentale, la Fon- tana Maggiore. Dell’acquedotto –un’opera più di prestigio che effettiva- mente necessaria –si era cominciato a parlare nel 1254; qualche tentati- vo andato a vuoto, poi l’opera languiva. Nel febbraio 1277 il Comune de- cide di farlo, finalmente; chiama le migliori maestranze e i migliori inge- gneri d’Italia, indice un prestito forzoso tra tutti i cittadini e i comitatini (restituito nove anni dopo), e nel giro di un anno la cosa era fatta. Quan- to alla Fonte di piazza, recentemente Bruno Toscano ha detto parole sag- gissime sui tempi del facimento di quel capolavoro, calcolandolo, in ba- se a fatti meramente tecnici, in cinque-sei anni: poiché l’opera fu conclu- sa, se non il 13 febbraio 1278, quando «venne l’acqua de Monte Paccia- no e’lla fonte de la piaçça de Peroscia» (così l’anonimo cronista), sicura- mente entro quell’anno, poiché la Fontana stessa ‘si data’ al 1278, la com- missione a fra Bevignate e ai Pisani dovrebbe risalire, secondo Toscano, al 1272 o 1273. La documentazione spinge in un’altra direzione, verso cioè l’ipotesi che tutto, fin dalla progettazione, sia iniziato nell’agosto del 1277, in prossimità della conclusione dei lavori dell’acquedotto: il che si- gnifica, al massimo, un anno e poco più. Una città come la Perugia di al- lora, nemmeno sappiamo immaginarne la capacità operativa e organiz- zativa. Bisogna rassegnarsi all’idea che il Comune di fine Duecento era in grado di fare miracoli –e i miracoli, si sa, non sono alla portata degli storici.

Un altro aspetto meno appariscente ma altrettanto significativo sta nella documentazione del Comune di Popolo. Quegli anni portano a per- fezione una prassi di governo ordinata ed efficace, visibile soprattutto dall’incremento vistoso delle registrazioni scritte e dalla regolata con- servazione di esse. Si può allora menzionare un altro monumento della città, di genesi ben più lenta della fulminea Fontana: la Libradel 1285, os- sia l’elenco di tutti i soggetti fiscali della città, distinti per rione e parroc- chia, per ciascuno dei quali viene indicato il valore complessivo del pa-

2 . La statua di Agusta Perusia nella Fontana Maggiore.

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trimonio, la libra appunto: conclusione di una vicenda iniziata cin- quant’anni prima, poiché l’origine della Libra è nella Petra iustitiae del 1234. In quel libro hai, nella scrittura limpida e rotonda del notaio Bovi- cello Vitelli –e dal 1986, ancora più chiaramente, nella bella edizione che ne diede Alberto Grohmann –censiti 5.690 capifamiglia: non si va molto lontani dal vero, con tutte le cautele necessarie in questi calcoli, se s’im- magina una popolazione urbana tra i 25 e i 28.000 abitanti.

Ultimo tassello, lo Studium, anch’esso creatura del dinamismo popola- re. Qui entriamo nel tema della politica culturale; se già non ci siamo ben dentro, vero essendo che l’assetto urbano, il decoro della città, il buon go- verno sono fatti decisamente di cultura.

Ai fini della propria dignità culturale, il Comune di Popolo aveva molte risorse al suo interno, all’interno cioè della tradizione culturale intrinseca ad ogni città italiana. Una tradizione culturale che per i secoli addietro –in assenza di quelle storie e laudes di città che si trovano in altri centri italia- ni, ma pure di quell’indicatore che è una produzione documentaria vesco- vile di alto profilo, quale si era avuta per esempio ad Arezzo – possiamo soltanto immaginare, emanante con tutta probabilità da una scuola catte- drale d’arti liberali e di diritto, com’era tipico delle città vescovili.

Poco male. Nel periodo che c’interessa, Perugia ha al suo interno al- meno tre categorie di cittadini provviste di un’attrezzatura culturale fun- zionale alle esigenze della città: giudici, notai, religiosi (mancano all’ap- pello, per quel che se ne sa, i mercanti, altrove primattori). Le dispongo in ordine inverso alla rispettiva importanza, in relazione naturalmente al- l’argomento.

I religiosi. Si parla dei religiosi dei novi ordines, degli Ordini mendican- ti. I chierici e i monaci –leggi, a Perugia: il capitolo della cattedrale e il monastero di S. Pietro –sono all’opposizione, anche se ogni tanto il Co- mune li chiamò a prestare consulenze. Sono i frati domenicani, france- scani, agostiniani, serviti, fors’anche i carmelitani ad essere in sintonia con la cultura politica di Popolo. In particolare i primi, i frati predicatori di S. Domenico. Il rapporto privilegiato tra la città e i domenicani si vede da subito, nel 1234, quando la consegna del locus di Santo Stefano in Ca- stellare ai frati venuti da Bologna, da parte del podestà Ramberto Gisle- ri bolognese, dà luogo a una cerimonia grandiosa; e da molti altri fatti successivi, che sarebbe troppo lungo dire. Ma si vede dalla stessa con- sistenza della chiesa, una sorta di poderosa fortezza urbana. I domeni- cani, insieme con i francescani ma più di loro, operano in maniera conti- nuata e autorevole come consulenti del Comune, nelle materie più di- verse. A Perugia entrambi gli Ordini maggiori avevano istituito negli an- ni Sessanta del XIII secolo Studi provinciali di teologia e di arti, il che si- gnificava per la città la presenza di biblioteche rilevanti e prestigiose, frui- bili direttamente o indirettamente dalla cittadinanza colta. Le due comu- nità sono chiamate fin dall’inizio a collaborare al progetto dello Studium, affiancando i magistrati cittadini nella scelta dei maestri per le pubbliche letture e garantendo allo Studio medesimo l’insegnamento della teolo- gia, quest’ultimo svolto o con l’assunzione formale di cattedre (sempre af- fidate a maestri mendicanti) o supplendo con le proprie scuole conven- tuali. Giocava in questa affinità elettiva la decisa vocazione intellettuale dei frati Predicatori, visibile fra l’altro dagli stessi profili personali di mol- ti dei religiosi perugini. Una vocazione certamente alimentata anche dai frati Minori, ma con gli imbarazzi e le resistenze che si sanno: se un in-

3 . Una pagina della Libra del 1 2 8 5 . Perugia, Archivio di Stato, Archivio storico del Comune di Perugia, Li- bra, 1 , c. 7 8 v.

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tervento dottrinale lo Studium di Perugia dovrà presto compiere, sarà nel 1324, quando papa Giovanni XXII lo coinvolse nell’appoggio alla sua posizione avversa alla conclamata povertà dei francescani (fra l’altro ri- badita solennemente proprio a Perugia due anni prima); e i teologi do- menicani non si fecero pregare.

I notai, quelli che scrivono la città. I notai cittadini sono specialisti sia di gramaticae dictamen sia di diritto: non c’è dubbio esistere a Perugia una scuola di notariato, erede delle vecchie scuole cattedrali d’arti liberali. Il loro rapporto, divenuto ‘necessario’, con le istituzioni locali li sollecita a sperimentare nuovi modelli documentari e a partecipare attivamente al- l’elaborazione della coscienza politica della città. Forti di questa attrez- zatura culturale e sensibilità istituzionale, i notai diventano risorsa civile.

La combinazione di cultura letteraria e di cultura giuridica li fa capaci di realizzare sia documentariamente che letterariamente la libertas e l’honor cittadini. Al di là della competenza specifica, professionale, quella di ‘far documenti’, di produrre scritture autentiche, i notai migliori sono i pro- tagonisti della cultura scritta urbana, delle pratiche di testualità collega- te alla città e al governo dei cittadini.

Notaio è il dictator, l’estensore delle epistole comunali, detto anche cancellarius o scriba, antecedente duecentesco del cancelliere-umanista alla Coluccio Salutati: l’ufficio epistolare è l’espressione di vertice del nesso tra cultura documentaria e cultura retorica. Accanto ai vari Bru- netto fiorentino e Rolandino padovano, fa la sua figura Bovicello perugi- no, un personaggio à la page per merito prima di Roberto Abbondanza e poi di Sonia Merli. Abbondanza, in particolare, fece conoscere le sue let- tere d’inizio 1277 per avere da un collega milanese, che era stato tempo prima a Perugia come notaio del podestà, quel che gli mancava dell’Ovi- dio maggiore. A cosa gli serviva? Non certo per scrivere documenti, ma per scrivere altre cose. Suoi infatti sono i brevi componimenti in versi che aprono lo Statuto del Comune del 1276 (poi riprodotto e maltrattato in quello del 1279) e lo Statuto del Popolo del 1280 (tràdito da un testi- mone del 1315): due piccole laudes civitatis versificate. Forse fu lui, co- munque dovette essere un notaio a ‘dettare’ l’iscrizione in versi della Fon- tana Maggiore incisa sapientissimamente dai Pisani, un’altra laus civita- tis attraverso l’esaltazione del suo monumento e degli autori di esso:

esempio massimo dell’epigrafia pubblica in versi, un genere che anno- vera tra i suoi autori tanti anonimi notai e dettatori (per esempio un Pier delle Vigne). Forse fu lui, Bovicello, comunque fu certamente un notaio colui che verso il 1280 scrisse gli ‘annali podestarili’ della città, quelli che vanno sotto il nome di Annali e cronaca di Perugia dopo l’edizione di Francesco Ugolini; li scrisse in latino, ovviamente; è di un tempo suc- cessivo la traduzione in volgare; ed è segno dei tempi che cambiano an- che il fatto che le ultime annotazioni, dopo il 1327, sono vergate in mer- cantesca, non nella cancelleresca dei notai.

Un inciso per dire di un altro segno dei tempi che cambiano. Intor- no al 1293, vivente ancora Bovicello, al Comune venne in mente di as- soldare Bonifacio da Verona, un «magister in versificando» che girava le corti d’Italia prestandosi a elogiare in versi il potente di turno. Gli com- missionò un poema epico in esametri virgiliani che cantasse la gloria di Perugia, o meglio del Popolo di Perugia. Gli affiancò alcuni consulenti, che gli suggerissero che cosa doveva raccontare: almeno due nomi so- no sicuri, quelli di Guido della Corgna e di Tribaldo Fortis, due giudici e iuris civilis professores eminentissimi. Venne fuori l’Eulistea, una sor-

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ta di Eneide dello stato perugino. Se è lecito dirlo, fu un completo falli- mento. Il poema è altrettanto significativo nel suo contenuto che brutto;

se ne accorsero gli stessi committenti, che ne fecero sì realizzare un li- bro di lusso da custodire nel thesaurus del Comune ma ben presto lo di- menticarono e lo persero; chiesero allo stesso Bonifacio, per renderla meno indigeribile, di ridurre l’Eulistea in prosa, e ne venne una versio- ne – sempre in latino – ancor più brutta, se possibile, dell’originale in versi. L’arduo poema e la sua riduzione prosastica sono, per finire, con- segnati oggi a due manoscritti brutti e mutili. Segno dei tempi, si dice- va: affidandosi a un mestierante senza alcun rapporto con essa, la Città rinunciava a parlare in prima persona. Come aveva fatto fino ad allora at- traverso personaggi, come il notaio e cancelliere Bovicello, capaci ap- punto di farla parlare, di esprimere direttamente la cultura e la memo- ria civica.

A parte le punte di eccellenza, il notariato urbano nel suo complesso è un corpo professionale assai esteso. Le matricole trecentesche del col- legio fanno ammontare il numero dei notai di Perugia a poco meno di cinquecento. È chiaro che un simile ordine di grandezza significa forti differenze e dislivelli, benché attutiti da una netta coscienza di ceto oltre che dall’iscrizione all’organismo collegiale. Ma il numero in sé significa qualcosa. La gran quantità di notai dipende da due fattori: il notevole svi- luppo dell’amministrazione comunale, che nel XIV secolo impegnava ogni anno, a rotazione, un centinaio di essi; e, quanto al rapporto con la clientela privata (e intendi sì gli individui, ma anche i soggetti collettivi, vecchi e nuovi), la crescita torrentizia delle esigenze di documentazio- ne. La duttilità dell’instrumentum notarile, sperimentata vigorosamente nella prima età comunale, fu tale che si finì col documentare qualsiasi co- sa, ogni minimo movimento con qualche profilo giuridico. Il rogito di ma- no del notaio, così, divenne un elemento strutturale e strutturante del- l’ordine e delle relazioni sociali, portandovi un’immissione continua di giuridicità. Era davvero una società fondata sul diritto, e lo era in primo luogo perché fondata sulla presenza pulviscolare del notaio.

I giudici. Chi fossero costoro è manifestato da un’adiuncta al capitolo 86 dello statuto del Comune di Perugia del 1279: «qui in scolis studuerit quinque annis», vi si dice a proposito dell’eleggibile all’ufficio di giudice comunale. Lo dico per chiarire le idee a me stesso, nel momento in cui assumo come riferimento il bel libro di Sara Menzinger, Giuristi e politi- ca nei Comuni di Popolo del 2005, un terzo del quale è riservato a Peru- gia (gli altri terzi, a Siena e a Bologna). Il discorso va un poco approfon- dito, perché l’attivazione di uno studium cittadino di diritto fu un obietti- vo perseguito convintamente dal Comune popolare nella seconda metà del Duecento.

Menzinger ha schedato, dalle fonti comunali tardoduecentesche, 76 giudici. Il dato sincronico, più realistico, viene dal numero dei giuristi partecipanti ai consilia sapientum di cui oltre: il massimo delle presenze attestate di giudici si ha nelle adunanze del 14 marzo 1276 e del 7 e 11 maggio 1277, alle quali parteciparono rispettivamente 35, 23 e 25 giuri- sti. Quasi tutti sono designati, nei verbali di queste adunanze, come sa- pientes iuris. Di alcuni di essi, la metà o poco meno, è dichiarata una for- mazione universitaria, portando essi il titolo di doctor legum; a due, Gui- do della Corgna e Tribaldo Fortis –quelli stessi che ho appena menzio- nato come consulenti di Bonifacio da Verona –è attribuito il titolo di iu- ris civilis professor, al secondo anche quello di doctor decretorum.

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