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10 ANNI DI WIRED ITALIA

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Academic year: 2022

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10 ANNI DI WIRED ITALIA

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Dieci anni fa arrivava in Italia un giornale che da queste parti non si era mai visto. Aveva un nome che non tutti sapevano pronunciare: vired, uired, uaired . In questi dieci anni Wired non ha raccontato il futuro ma ha aiutato

a costruirlo. Tutti i giorni.

Nel presente

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EMILIO

BILLI

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DARIO TONANI

R ACCONTATO DA

Foto: MARK RICHARDS

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Con i suoi personal supercomputer ha conquistato la Silicon Valley, dove è stato eletto miglior

imprenditore emergente. Hardware che permetteranno all'A.I. di diventare realtà:

la fantascienza non è mai stata così vicina

Il papà

delle macchine elastiche

EMILIO B ILLI Perugino, 46enne, ingegnere, ha fondato insieme alla moglie l’azienda A3Cube, che produce supercomputer

“scalabili” e ha sedi a Novara e San Jose. Con il boom dell’intelligenza artificiale, la richiesta di potenza di calcolo è aumentata negli ultimi anni e quello che sembrava un business morto è tornato in auge

DARIO TONANI Milanese, laureato alla Bocconi in Economia politica, ha scelto di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura.

Giornalista professionista, appassionato di science fiction, noir, horror e thriller, ha pubblicato diversi romanzi (tra cui, Infect@, Toxic@ e la saga Mondo9), oltre a un centinaio di racconti.

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supercomputer?

Sono gli stupidi più veloci del mondo».

Non ha esitazioni nel suo giudizio affettuosamente tranchant Emilio Billi, classe ’72, perugino di nascita ma novarese d’adozione, ingegnere nucleare, una dozzina di brevetti all’attivo, considerato uno dei migliori architetti di sistemi complessi oggi sul mercato. Tanto da essersi aggiudicato nel 2017, nella Silicon Valley, il titolo di

«Miglior imprenditore emergente dell’anno», assegnatogli dalla rivista The Technology Headlines.

A tutti gli effetti, Billi è il papà di quelle che lui stesso definisce, con un suggestivo contrasto di opposti, «macchine elastiche»;

per noi comuni mortali, «personal supercomputer». Meglio, mostri in scala ridotta, capaci di fare in modo più mirato e a costi accessibili quello che in origine svolgevano pachidermi come Cray, Blue Gene dell’Ibm o i datacenter di Google, appannaggio solo di un’élite di persone, come centri di ricerca e università, che necessitavano di enormi e velocissime capacità computazionali e di elaborazione dei dati. Per raccontarci le sue intuizioni e la sua avventura imprenditoriale, ci accoglie con la moglie, Antonella Rubicco, ceo della sua azienda, la A3Cube, nella sede da poco impiantata in Italia proprio all’interno della centrale idroelettrica Guido Davide Orlandi

di Galliate, centro di 15mila anime nel novarese, che ha dato i natali a un grande asso del volante degli anni ’30, Achille Varzi.

Il luogo è incantevole, le sponde del Naviglio Langosco scendono verso l’impianto ammantate di neve, l’acqua color ardesia scorre lenta, con il rumore della cascata che fa da unico sottofondo sonoro. «Energia a chilometro zero», ci spiega Billi con orgoglio,guidandoci lungo i corridoi della vecchia struttura, oggi suggestivo esempio

di archeologia industriale

ultracentenaria (è stata costruita nel 1903): gli uffici, minimalisti, sono al piano inferiore, a cavallo del fiume, e dalle loro finestre si può quasi toccare il pelo dell’acqua.

All’inizio del corridoio che dà sulle postazioni di lavoro, vediamo un tavolo da ping-pong. Un indizio, il secondo dopo l’amaca nel bosco («per rilassarsi e pensare»),

che riporta a quella googliness tanto in voga Oltreoceano tra chi lavora nel campo dell’informatica

di frontiera.Su una scrivania, c’è persino un binocolo: «Abbiamo anche sei cigni; quattro da questa parte e due dall’altra», racconta Vittorio Rebecchi, con i Billi fin dal 1999, sviluppatore software che confessa di usarlo per guardare le loro evoluzioni e distrarre gli occhi dallo schermo del pc. Ma soprattutto c’è Walter, un simpaticissimo cocker blu roano sordo dalla nascita, che ci fa una gran festa saltando su e giù dalle sedie.

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È

È

in questa calma bucolica, in pieno Parco del Ticino, che il genio dei supercomputer sta allestendo il suo eremo: una decina di scrivanie che conta di portare a 25 entro fine anno, tutte occupate da ingegneri e matematici puri, con qualche informatico e l’inseparabile moglie Antonella, una laurea in Scienze biologiche e una capacità comunicativa dirompente, che fa la spola tra qui e San Jose, cuore della Silicon Valley, in California dove si trovano gli headquarters (e il business che conta) dell’azienda. Si sono conosciuti, nel 1992, al liceo scientifico, lui al quinto anno, lei al quarto. Tutto, confessano, è cominciato però quattro anni dopo, nel 1996, in gelateria.

Era un mondo tecnologicamente lontano anni luce da quello di oggi: niente smartphone, niente tablet, niente wi-fi; internet col contagocce, lenta e costosa; sui computer più evoluti (memoria massima 4 Mb e scheda video da 512 kb) si affacciavano i primi processori Pentium, e Windows 95 stava lentamente soppiantando Windows 3.11. Di porte usb neanche a parlarne, al massimo i pc più smart avevano il lettore cd. Stop.

Emilio, studente d’ingegneria nucleare, era appena tornato da una delle sue lezioni di calcolo, in cui gli avevano parlato dei supercalcolatori, del più mastodontico e famoso di tutti, il Cray. Da qui l’idea, semplice e al contempo geniale, di costruire “qualcosa” che garantis- se le stesse potenzialità e performance di quei mastodonti, senza averne i costi proibitivi (18-20 milioni di dollari di oggi), perché non realizzato con hardware proprietario, ma con componenti standard. E quindi potenzialmente in grado di rivolgersi a una platea più estesa di medio/piccole realtà imprenditoriali, come banche, ospedali, compagnie di assicurazione, marchi della grande distribuzione, stazioni meteo.

«In fondo», esordisce Billi, «qualsiasi computer è composto solo da due elementi: dati e operazioni logico-matematiche. Quello su cui noi possiamo agire per creare dispositivi più veloci o addirittura nuove macchine computazionali è come rendiamo disponibili i dati e come svolgiamo le operazioni su di essi, nulla più».

«In questa “riduzione in scala” dovevamo però risolvere una serie di problemi», s’inserisce la Rubicco. «Dal raffreddamento dei componenti, brevetto per il quale Emilio ha vinto anche un premio, al contenimento delle dimensioni dei sistemi facendo in modo di spingerli comunque al massimo delle performance. Il tutto adottando hardware standard, che non era stato pensato per questo tipo d’impiego, e quindi reinventandone la… destinazione d’uso».

Da Novara alla Silicon Valley

sabato, nella sede a cavallo del Langosco non c’è nessuno, la calma è totale. Consegno agli ospiti il mio piccolo cadeau: è la stampata del celebre racconto I nove miliardi di nomi di Dio, scritto da Arthur C. Clarke nel 1953 e vincitore del massimo premio della fantascienza, l’Hugo. In una manciata di pagine parla di un supercomputer consegnato a un monastero di monaci tibetani, impegnati da qualcosa come 300 anni a compilare una lista con tutti i possibili nomi di Dio: permutazioni di nove lettere di un alfabeto di loro invenzione.

E, insomma, desiderosi, con la tecnologia disponibile in Occidente, di stringere i tempi. Non spoilero il finale, ma siamo decisamente in tema…

Torniamo agli “ingredienti” di cui è composto un computer (dati e operazioni logico-mate- matiche) e chiediamo qual è stata l’intuizione successiva, sulla quale si è poi innestata l’attività di A3Cube.

«A un certo punto dell’evoluzione informatica ci si è resi conto di avere a disposizione un’enorme quantità di dati e che da essi si potevano ricavare un numero incredibile d’infor- mazioni utili per gli impieghi più disparati. Tutto il nostro sapere risiede unicamente nella

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correlazione tra dati: lo è la storia stessa, intesa come disciplina di studio che ricostruisce gli eventi raccogliendo, analizzando e relazionando pazientemente milioni d’informazioni provenienti da fonti diverse; lo è la diagnosi medica, che è l’arte di mettere in correlazione i sintomi con il loro significato e quindi con i possibili rimedi. Ma lo stesso discorso vale se vogliamo capire se un titolo di borsa salirà o scenderà, oppure se un edificio sarà in grado di resistere a una scossa sismica. Le potenzialità di una macchina in grado di analizzare tutte le relazioni esistenti che stanno alla base di un evento ci aprono scenari straordinari: potremmo scoprire nuove cure, captare con anticipo l’insorgere di una crisi finanziaria, prevedere un crimine prima che avvenga…».

No, no, aspetti, questa è materia mia: e le confesso che l’ho già sentita, ma è un film di fan- tascienza di Steven Spielberg, Minority Report, tratto da un racconto di uno degli scrittori più geniali e visionari del genere, Philip K. Dick… «Non è fantascienza, mi creda», s’illumina Billi, con uno dei suoi rari sorrisi in grado di mostrare tutta la passione che anima il suo lavoro.

«Oggi esistono software capaci di prevedere una rapina prima che questa avvenga, semplice- mente incrociando tra loro una mole mostruosa di reperti, testimonianze e dati investigativi.

Non ci crederà ma il più famoso si chiama KeyCrime ed è stato sviluppato da un italiano, Mario Venturi, assistente capo per quattordici anni alla Questura di Milano, e funziona proprio sulla base di una capacità di calcolo e di correlazione che solo un sistema in grado di autoaffinarsi e imparare può garantire...».

E qui veniamo alle eccellenze italiane, di cui Emilio Billi nel suo campo è esponente di pri- missima linea, arrivando a farsi conoscere e apprezzare là dove, in California, l’avanguardia della tecnologia è orizzonte del presente quotidiano. Non di solo design, moda, belle automobi- li e buon cibo vive il Belpaese: italiano, dell’Olivetti, fu nel 1957 il primo computer a transistor anziché a valvole, come pure il primo personal computer a lettore di schede magnetiche (sorta di floppy disk ante litteram), ma anche il primo linguaggio di programmazione per personal pc a portata di tutti. Eccellenze spesso dimenticate, attribuite ad altri o rimaste nell’ombra perché conosciute solo dagli addetti ai lavori.

A3Cube nasce nel 2012, ma affonda le radici in una sua storia che parte da molto più lontano, quando i Billi-Rubicco erano solo una giovane coppia di menti brillanti e di belle speranze. «Per finanziare le nostre ricerche, fa- cevamo assistenza informatica, mettevamo fisicamente le mani nei pc, pren- devamo confidenza con la loro architettura. Per un cliente di Vercelli, che peraltro non ci pagò mai, fummo i primi a far dialogare tra loro un pc e un Mac. Poi siamo passati alle consulenze sulle reti lavorando per aziende in Piemonte e Lombardia».

La prima vera svolta arriva nel 2005; dopo anni di studio e sperimenta- zione sul raffreddamento dei componenti, schede madri, cpu e sistemi d’in- terconnessione hardware e software, ecco materializzarsi SC-12, il primo personal supercomputer della coppia, il sogno che si trasforma in realtà. Ma soprattutto che potrebbe diventarlo per un mercato (e un business) che co- mincia a confrontarsi con i big data. Tutto, dall’intuizione originaria alle menti che ci hanno lavorato, dalla tecnologia alla produzione, è italiano, per cui l’obiettivo è cercare fondi per l’industrializzazione e la commercializ- zazione nel Belpaese. Ma l’esperienza non va a buon fine e i Billi decidono di sondare le potenzialità delle loro idee facendo la spola tra l’Italia e la Cali- fornia; Emilio Billi viene chiamato in qualità di consulente per diversi grandi marchi, si fa conoscere, fa crescere la sua reputazione dando il suo brillante

NELL A PAGINA A DESTR A PHILCO 212 ANNO 1962 PREZ ZO 1.800.000 $

Le foto che illustrano questo articolo fanno parte del progetto Core Memory, che ritrae i computer esposti al Computer History Museum della Silicon Valley. Il Philco 212 fu il primo calcolatore realizzato dall’azienda statunitense Philco e venne utilizzato dal Norad (Comando di difesa aerospaziale del Nord America). Il design si ispirava a quello del computer sperimentale Transac-2000 e la capacità di calcolo era di 2,5 milioni di addizioni al secondo.

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contributo in campi di applicazione che vanno dai grossi sistemi di rete Cisco, fino alla Xbox della Microsoft; inventa i connettori per segnali ad alta velocità. Ottiene brevetti su brevetti, animato da una passione per il suo lavoro che gli conquista subito la stima e la fiducia di chi lavora con lui.

Cosa fa una “macchina elastica”?

a strada del successo sembra imboccata definitivamente, ma il genio italiano costru- isce hardware innovativo in una terra, la Silicon Valley, che sta scommettendo tutto sul software e le app per cellulari. Il business dell’immediato futuro è focalizzato tutto o quasi sulla telefonia mobile e il modo per rendere gli smartphone sempre più smart.

L’epoca d’oro dei supercomputer sembra tramontata, un ricordo un po’ nostalgico degli anni

’70. Antonella sorride: «E pensare che Emilio ha avuto il suo primo e unico smartphone lo scorso anno come regalo di Natale. Lo ha voluto però solo con una sim dati e non telefonica, e lo usa più che altro per scattare fotografie». Tocca a Emilio accennare un sorriso, per nulla in imbarazzo. «E anche per il fisso», rincara la moglie, «ho dovuto insistere tre anni perché ne avesse uno sulla sua scrivania in ufficio, dato che anche con il collega nella postazione di fronte preferiva comunicare via email».

Walter, il cocker blu roano, se la ride pure lui, saltella, cerca coccole, ma si mette subito calmo. Anche il cane, mi spiegano, è una creatura speciale. No, niente test di Turing per sta- bilire la sua sordità dalla nascita, «è stato Emilio a scoprire l’handicap: è bastato che cadesse un grosso volume dalla libreria di casa e che Walter, addormentato, non battesse ciglio perché lo portassimo dal veterinario, che ha subito constatato il problema. Forse anche per questo siamo inseparabili: ha già fatto una decina di voli transcontinentali dall’Europa alla California standosene per nove ore buono buono ai miei piedi, in cabina, come Emotional Support Animal, uno status che gli è riconosciuto da una card che di fatto gli apre le porte di ristoranti, cinema, teatri, supermercati, aerei, treni. Insomma, ovunque vadano i suoi padroni…».

Gli scenari della tecnologia, dicevamo: sì, cambiano in fretta, continuamente, con sviluppi talvolta imprevedibili, repentini; l’implementazione della rete 3G mette in pochissimo tempo tutti di fronte al problema di gestire un flusso di dati assolutamente inimmaginabile anche solo qualche anno prima. Cambia un’era, se ne apre un’altra: quella dell’intelligenza artificiale.

La fantascienza è dietro la porta, e i supercomputer rientrano dalla fine- stra. Gli occhi di Billi s’illuminano: «Sono gli strumenti che permettono all’IA di diventare realtà», spiega. «Per noi è facile apprendere come distinguere un cane da un gatto semplicemente perché al nostro interno abbiamo il com- puter più potente al mondo, e non intendo il più veloce a svolgere operazioni aritmetiche elementari, quelle non servono. Ma a lavorare su milioni di dati logici (immagini, ricordi, eventi memorizzati, che noi chiamiamo esperien- za) e a metterli in relazione tra loro in modo da imparare in fretta. Per una macchina vale lo stesso principio. Il limite sono le risorse computazionali che possiamo mettere in gioco e di conseguenza l’imitazione dei modelli che possiamo utilizzare. Apprendere richiede uno sforzo di calcolo enorme, al contrario di metter in atto ciò che si è appreso, operazione tutto sommato semplicissima. La vera sfida sta quindi in come insegnare a una macchina a risolvere un problema in maniera consona senza impiegare anni per farlo».

nell a paGIna a sInIstR a MIT/RAYTHEON APOLLO GUIDANCE COMPUTER annO

1965 pReZ ZO 250.000 $

Sviluppato nei laboratori del Mit di Boston e prodotto dall’azienda americana Raytheon, è un prototipo del computer che la Nasa ha poi utilizzato per guidare il modulo di comando delle navicelle Apollo dall’orbita terrestre a quella della Luna e ritorno. Ha anche gestito i movimenti del modulo lunare: durante le delicate fasi dell’atterraggio poteva essere soppiantato dai comandi di guida manuale degli astronauti.

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Già, come? «Oggi una rete sofisticata che lavori sul principio dell’IA può contare su circa 10mila neuroni. Un cervello umano ne ha miliardi, tra gli 80 e i 100, con altrettante interconnessioni sinaptiche». Questo significa che Hall 9000 di 2001: Odissea nello spazio è stato anticipato da Clarke di quanto? Trenta, cinquant’anni? Cento?

Tengo il dubbio per me, mentre Billi spiega: «L’intelligenza artificiale non si programma, si addestra. Faccia conto d’insegnare a un bambino molto piccolo a riconoscere gli oggetti del mondo che lo circonda, partendo ovviamente dai più semplici. Ci vuole una pazienza infinita, che rapportata a una macchina in modalità di apprendimento significa una sequela smisurata di operazioni routinarie, di “sì, giusto”, ”no, sbagliato”. Una procedura essenzialmente visiva.

Oggi per insegnare a una macchina a riconoscere una banale tazzina occorrono qualcosa come due milioni di immagini, circa 53 giorni di lavoro. Il punto è far capire a un’IA che una tazzina rimane tale anche se è capovolta. Con una delle nostre macchine ci vogliono 15 minuti. Adde- strare una rete neuronale con 50mila frame richiede 10 minuti, il nostro supercomputer non va oltre i cinque secondi, in pratica impara in real time».

Straordinario. Ma allora il concetto è: «Provi a spiegare a uno studente dei primi anni del liceo classico che cosa fa un vostro supercomputer. E perché potrebbe essere utile anche a lui». «Noi siamo abituati ai computer di casa che sono oggetti finiti in sé, su cui al massimo si possono aggiungere funzionalità installando app. I computer di A3Cube sono “oggetti” co- struiti con la stessa logica dei mattoncini Lego: cioè mettendo insieme centinaia di macchine simili, collegate tra loro in modo da crearne una sola capace di sommare tutte le potenzialità dei singoli elementi che la compongono in termini di velocità di accesso ai dati, capacità di archiviazione e di compiere operazioni. Molto più facile di quanto si possa pensare, non crede?».

Imparare a riconoscere il mondo

er decenni la fantascienza, sia scritta sia cinematografica, ci ha consegnato un’idea di supercomputer molto “miope”, ansiogena e persino un po’ naïf: un cervellone che potesse replicare l’uomo fino ad aspirare a rimpiazzarlo (quando non addirittura a combatterlo) o quantomeno a rispondere alle grandi domande filosofiche a cui una singola mente non saprebbe dare risposta semplicemente perché non ha tutti i tasselli per una valu- tazione obiettiva e completa. Con l’IA invece…

Billi confessa di non avere granché tempo libero oggi per leggere fantascienza, ma ammette di essere cresciuto con la fascinazione per le leggi della robotica di Isaac Asimov. Attenti però a non confondere robot e intelligenza artificiale: i primi si programmano, la seconda si addestra.

Anche se il celebre scrittore di origine russa precorreva i tempi mischiando i due concetti, come stanno facendo i costruttori di robot di ultima generazione.

«L’IA non è altro che un gioco dell’imitazione basato su modelli statistici più o meno com- plessi. Più è alta la capacità di calcolo maggiori sono le possibilità d’implementare modelli sofisticati. Le macchine non potranno mai essere né buone né cattive, rimarranno oggetti che emulano comportamenti intelligenti, pur non essendo minimamente intelligenti…».

E qui torniamo al concetto da cui eravamo partiti, espresso e circostanziato però in tutta la sua luce: «I supercomputer sono gli stupidi più veloci del mondo». La fantascienza aleggia ormai su ogni parola, per cui mi lancio: «Mi permetta un accostamento azzardato: nello scri- vere un romanzo, di science fiction ma anche di qualsiasi altro genere, si devono far convivere solida idea di base, bella scrittura e trama forte; in un supercomputer di A3Cube quanto conta l’intuizione, quanto la funzionalità e la modularità dei singoli componenti e quanto l’archi- tettura nel suo complesso?». Billi non ha dubbi. «La trama, o se vogliamo l’architettura, è

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I supercomputer di

A3Cube sono costruiti con la stessa logica

dei mattoncini Lego:

cioè mettendo insieme centinaia di macchine simili, collegate tra loro in modo da crearne una sola capace di sommare tutte le potenzialità dei singoli elementi che la

compongono, in termini di

velocità di accesso ai dati,

capacità di archiviazione

e di compiere operazioni

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fondamentale, conta più di ogni singolo componente. Mi passi il concetto, ma tutto il resto è noia. Dalla trama deriva la modularità, ma derivano anche le capacità operative dei sin- goli componenti. Le faccio un esempio pratico: immaginiamo di avere un processore che ci permette di eseguire una data operazione in un minuto. L’idea più intuitiva, quantomeno a un profano, è che se aggiungo un secondo processore la stessa funzione potrà essere svolta nella metà del tempo, cioè in mezzo minuto. Ma questo non succede se l’architettura non è pensata per fornire questa funzionalità, cioè per far dialogare tra loro i due processori. Per cui se il software non conterrà le istruzioni necessarie perché condividano le loro memorie e lavorino insieme in modo coerente, il risultato sarà sempre ottenuto in un minuto, anche se i processori sono due».

Il tema dell’architettura di un supercomputer ha solo introdotto in modo vago il fattore tempo, legandolo alla velocità di dialogo tra i diversi componenti di una rete. In realtà, le

“macchine elastiche” che costruisce A3Cube non operano come quella consegnata ai monaci tibetani del racconto di Clarke; non hanno tutto il tempo del mondo per risolvere una funzio- ne specifica, devono dare la soluzione migliore correlandola a una finestra temporale utile. E questo nonostante la mole immensa di dati da elaborare.

Billi ci fa tre esempi illuminanti: 1) se devo prevedere le condizioni meteorologiche di do- podomani devo farlo in un lasso di tempo che rientri appunto nella “previsione” e non nella cronaca di un evento passato; 2) se devo sviluppare una diagnosi che porti a una cura di un malato grave, occorre che lo faccia prima che il quadro clinico cambi radicalmente ed evitando che il mio intervento diventi tardivo; 3) se devo organizzare un salvataggio in montagna in condizioni meteo critiche, occorre trovare una finestra sicura per l’intervento in quota, in modo da minimizzare i rischi sia per i soccorritori sia per la persona da recuperare.

Walter ci guarda con occhioni supplici; sono ore che chiacchieriamo amabilmente di concet- ti affascinanti. Non abbiamo smesso neppure a pranzo, neanche durante i brevi trasferimenti in macchina per e dal ristorante: Alan Turing, il papà dell’intelligenza artificiale, l’obsolescenza programmata, il concetto di cloud, il fatto che viviamo nell’era dell’informazione e ai posteri ri- schiamo di non lasciare informazioni, le chiavette usb che si deteriorano con un semplice shock termico, le email che in un futuro non molto lontano non saranno più leggibili da nessun pc.

Tra noi un entusiasmo contagiante. Walter ricomincia a saltare, vorrebbe farsi una corsa nella neve. È il terzo di una dinastia di cocker che, ci spiega Antonella, hanno finito per dare i nomi ad alcuni importanti prodotti di A3Cube: Kira, il primo, un sistema venduto al Dipar- timento della difesa americano; Ronniee (con due “e”), la scheda di connessione basata su Pci Express. Qualcosa di analogo alle razze di tori per le supercar della Lamborghini.

Come sarà il supercomputer del 2049, l’anno del nuovo Blade Runner? Si è fatto tardi, è ora di mettersi sulla via di casa. Ma torneremo. Promesso!

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GRANDI SCRITTORI

raccontano GRANDI ECCELLENZE ITALIANE

Leonardo da vinci alessio figalli

stefano boeri

Alberto Mantovani Enrico Bartolini dallara

elena ferrante Fabiola Gianotti beatrice venezi emilio billi

maurizio cattelan Ácub

PAOLO GIORDANO LICIA TROISI

MARCO BACCI ANDREA VITALI

SIMONETTA AGNELLO HORNBY PAOLO VERZONE

FRANCESCO PICCOLO MASSIMO TEMPORELLI MICHELA MURGIA

DARIO TONANI

GIACOMO PAPI

GIUSEPPE GENNA

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— FA B I O L A G I A N O T T I

La scienza è universale e unificante. Per questo motivo, anche se non

può risolvere direttamente conflitti geopolitici, può

contribuire ad abbattere

le barriere e a seminare

granelli di pace

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