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Supplemento n.9 a «Illuminazioni» (ISSN: X), n. 53, luglio-settembre Silvia Pitzalis IL CONTINUUM DELL EMERGENZA

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Silvia Pitzalis

IL CONTINUUM DELL’EMERGENZA

CRITICITÀ STRUTTURALI E MUTAMENTI NEL SISTEMA DI

ACCOGLIENZA PRIMA E DURANTE LA PANDEMIA DA COVID-19

ABSTRACT. Con il seguente contributo si intendono presentare alcune riflessioni - indubbiamente preliminari e alle quali dovrebbero seguire ulteriori approfondimenti etnografici - sugli effetti che il frame dell’emergenza ha avuto sul sistema di accoglienza. Attraverso un excursus storico teso a mostrarne gli sviluppi dagli anni novanta ad oggi e una particolare attenzione emica alle esperienze delle lavoratrici e dei lavoratori dell’accoglienza, verrà messo in luce il fatto che, in questo contesto, gli effetti della crisi organizzativa legata alla pandemia da Covid-19 risultino in un more of the same per un contesto di politiche e pratiche già incentrato su principi

emergenziali. Solo riflettendo in modo critico sul continuum dell’emergenza sarà possibile oltrepassare le criticità e le impasse insite nel sistema di accoglienza.

Key words: emergenza, sistema di asilo e di accoglienza, Covid-19, lavoro sociale

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ABSTRACT. The following contribution is intended to present some reflections - undoubtedly preliminary and to be followed by further ethnographic studies - on the effects that the frame of the emergency has determined on the asylum and reception system. Through an historical excursus aimed at showing its development since the Nineties and a particular attention to the experiences of the reception workers, it will be highlighted that, in this context, the effects of the crisis caused by the Covid-19 outbreak are, actuality, the outcome of policies and practices already grounded in an emergency approach. Only by reflecting critically on the continuum of the emergency will it be possible to overcome the critical issues and impasses inherent in the asylum and reception system.

Key words: emergency, asylum and reception system, Covid-19, social work

Introduzione

Con il termine ‘emergenza’ si intende, generalmente, una situazione di gravità che scaturisce dal verificarsi di uno o più eventi improvvisi ed eccezionali che irrompendo nel ‘quotidiano’ di una società e sospendendone la normalità, ne sconvolgono il funzionamento. Numerosi/e autori/autrici hanno messo in evidenza – al contempo – la capacità delle emergenze di rivelare le criticità e le contraddizioni

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insite nel sistema sociale in cui si manifesta, fino a quel momento celate (Fassin, Pandolfi 2010; Barrios 2020; Saitta 2020).

Negli ultimi decenni, gli argomenti della necessità e dell’urgenza hanno trasformato le emergenze in una modalità ordinaria e diffusa di governance statale.

Questo ha favorito un aumento dell’arbitrarietà riguardo a decisioni da prendere

‘velocemente’ per gestire situazioni concrete e contingenti, celando, dietro l’apparente neutralità di strumenti tecnici, finalità politiche che influenzano profondamente la struttura delle relazioni sociali e della comunità politica (Cuono, Gargiulo 2017).

L’intento di questo contributo è quello di mostrare il continuum dell’emergenza insito nel sistema di accoglienza, attraverso una prospettiva emica, ossia dal punto di vista dei lavoratori e delle lavoratrici di questo settore. Nella prima parte si ripercorrerà l’evoluzione storica del sistema, mentre nella seconda parte verranno esplorate le contraddizioni e le criticità acuite dalla pandemia da Covid-19, già presenti nell’apparato.

Le riflessioni presentate in questo contributo si basano su un’esperienza lavorativa ed etnografica nel sistema di accoglienza bolognese: da agosto del 2016 a settembre del 2018 come antropologa e operatrice nell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati; successivamente, tra ottobre 2018 e marzo 2020, come assegnista di ricerca

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presso l’Università di Urbino, Carlo Bo1, con un progetto teso alla comprensione dell’iter legale di richiesta di protezione internazionale dal punto di vista delle/degli operatrici/operatori del diritto. Le riflessioni qui contenute afferiscono quindi agli elementi emersi dalle ricerche appena menzionate, integrate da sei interviste effettuate durante il periodo di lockdown con operatori/operatrici dell’accoglienza2.

1. Il sistema di accoglienza in Italia

Il sistema di asilo in Italia è stato oggetto di continui mutamenti, legati a una più ampia trasformazione del quadro europeo ed extraeuropeo relativo alle normative e alle politiche migratorie. Il suo sviluppo è stato caratterizzato da un approccio marcatamente emergenziale e securitario, che ha prodotto politiche provvisorie e carenti (Bona, Marchetti 2017). L’impianto giuridico e la conseguente esigibilità dei diritti per le persone che richiedono protezione risultano, tutt’oggi, frammentati,

1 La ricerca fa parte del progetto ‘Migrazioni e migranti in Italia’, finanziato dalla Fondazione ALSOS. Cfr. https://www.fondazionealsos.org/it/dettaglio-progetto/esiti-commissariali-e-sentenze- giudiziarie-in-italia-pratiche-sociali-e-filtri-istituzionali-1/5c76d0ed679e040643bacbbf . Ultima consultazione 28/09/2020.

2 Le interviste sono state svolte via skype tra aprile e maggio 2020. Per garantire una maggiore riservatezza delle/degli interlocutrici/interlocutori si ometterà in questo testo qualsiasi riferimento a persone e contesti specifici.

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stratificati e incoerenti (Sorgoni 2011; Marchetti 2014; Sanò, Spada 2018), rafforzando l’idea delle migrazioni come una ‘emergenza permanente’ (Campesi 2011).

Queste ambiguità del sistema giuridico di riferimento hanno fortemente influenzato le politiche attuative, plasmando nel corso del tempo un sistema di accoglienza precario e provvisorio, sempre lontano dal raggiungimento degli standard minimi di qualità. È possibile distinguere due modalità di gestione dell’accoglienza, animate da due ‘filosofie’ distinte e spesso in contrasto tra loro (Marchetti 2016). Si tratta, per un verso, di un modello emergenziale costituito da grandi strutture a gestione ministeriale/prefettizia, basato prevalentemente sul controllo e la separazione fisico- sociale degli/delle ‘accolti/e’; per un altro, di un modello integrato e diffuso nel territorio, gestito da enti locali che rispondono a un ‘Servizio Centrale’, composto da piccole strutture e finalizzato all’integrazione, tramite il coinvolgimento delle realtà locali.

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1.1 La gestione emergenziale: grandi strutture dove confinare e controllare l’

‘eccedenza’

Dal punto di vista del governo centrale l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati si è sempre caratterizzata secondo una «politica dei campi» (Marchetti 2016, p. 124) fortemente incentrata sul controllo e il confinamento dei corpi (Pinelli 2014).

L’episodio dello Stadio di Bari, dove nell’agosto del 1991 vennero rinchiusi circa diecimila albanesi approdati sulle coste pugliesi, rappresenta un passo decisivo nell’istituzionalizzazione escludente che ha caratterizzato l’atteggiamento politico e sociale verso gli approdi di persone in fuga (Ravenda 2011), in linea di continuità con la gestione delle persone migranti mediante l’encampment (Harrell-Bond, Verdirame 2005). Ci si riferisce a un processo socio-politico di segregazione intenzionale e duratura dei rifugiati e dei richiedenti asilo (Pinelli 2014) nato inizialmente nel sud del mondo e ben presto sviluppatasi in Europa, che combina la dimensione umanitaria con quella securitaria (Fassin 2007; Turner 2015).

A partire dall’incremento degli sbarchi dei primi anni novanta prese vita il Decreto Legislativo n. 451 del 1995, poi convertito nella legge n. 563 dello stesso anno (c.d

‘legge Puglia’) (Petrović 2016), il quale istituzionalizzò la detenzione amministrativa delle persone giunte sulle coste italiane e istituì tre Centri a grande capienza (oltre

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100 posti ciascuno), collocati nelle immediate vicinanze dei luoghi di approdo (Brindisi, Lecce, Otranto) (Campesi 2015; Marchetti 2016), con una forte impostazione di tipo emergenziale e concentrazionaria (Rahola 2003; Ravenda 2011).

Questa esperienza venne riprodotta nella prassi amministrativa e normativa degli anni successivi, con l’istituzione di diverse tipologie di centri (la cui classificazione è molto difficile data l’eterogeneità della loro evoluzione) basati su un meccanismo di selezione, classificazione e discriminazione che distingue tra ‘falsi/e’ e ‘autentici/che’

rifugiati/e (Campesi 2017). I primi sono destinati alla reclusione in centri per l’espulsione: Centri di Identificazione ed Espulsione-CIE; diventati successivamente Centri di Permanenza e Rimpatrio (CPR)3; i secondi governativi: Centro di Primo Soccorso e Accoglienza (CPSA); Centro di Accoglienza (CDA), Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA), Centro di Accoglienza Straordinaria (CAS), e Hotspot.

Questi centri simboleggiano il più alto esempio dell’approccio emergenziale all’accoglienza e della sua continuità storica: le persone sono ‘ospitate’ in grandi strutture isolate, spesso in condizioni di sovraffollamento, con una accoglienza limitata all’assistenzialismo e al soddisfacimento dei bisogni minimi. Gli/le

‘indesiderabili’ (Agier 2011) sono segregate in questi luoghi, tramite una gestione

3 Cfr. G. Campesi, The Reinvention of Immigration Detention in Italy in the Aftermath of the

“Refugee Crisis”: A Study of Parliamentary Records (2013–2018), “Refugee Survey Quarterly”, 2020, 0, pp. 1–23.

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autarchica che riduce il contatto con l’esterno (Pinelli 2014; Sanò 2018), evitando la fuoriuscita di questa ‘umanità in eccesso’ (Arendt 2004). Il centro viene costruito come ‘unico spazio di esistenza’, senza alcun supporto nella creazione di contatti e scambi con il territorio, evidenziando la volontà da parte governativa di considerare la permanenza di queste persone eccezionale e temporanea.

1.2 Il sistema decentrato: tra sfide, criticità e discontinuità

Il sistema di accoglienza implementato dagli anni novanta presentava gravi criticità riguardo sia all’effettiva capacità delle strutture sia alla qualità delle forme di accoglienza (Bona, Marchetti 2017). In reazione a questa situazione, a partire dal 1992, la società civile cominciò a sviluppare alcune azioni che col tempo si strutturarono dal basso in una rete informale che puntava al coinvolgimento di realtà ed enti locali. Con il riconoscimento ufficiale di queste iniziative, l’entrata in vigore della Convenzione di Dublino (1997) e l’aumento degli approdi in conseguenza dell’inasprirsi della crisi del Kosovo, nel 1999 prese avvio il progetto ‘Azione Comune’ (AC)4. Con tale progetto si intendeva creare una rete di servizi territoriali

4 Fondato sull’art. 20 del d.lgs. 286/1998.

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per i richiedenti asilo, gestita da realtà ed enti locali, andando oltre un’accoglienza emergenziale e materiale attraverso la promozione di percorsi che facilitassero l’integrazione delle persone accolte nel tessuto sociale (Marchetti 2016; Bona Marchetti 2017). Nell’aprile del 2000, per dare seguito al progetto AC, il Ministero dell’Interno, UNHCR e l’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI) diedero vita al ‘Programma Nazionale Asilo’ (PNA), trasformato con la legge n. 189 del 30 luglio 2002 (cd. legge ‘Bossi-Fini’) nel ‘Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati’ (SPRAR).

Sebbene l’idea dello SPRAR come perno del sistema di accoglienza sia stata confermata nell’intesa raggiunta il 10 luglio 2014 in sede di Conferenza unificata (Governo, Regioni, Enti Locali), ad oggi il sistema ex-SPRAR (ora SIPROIMI - Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) risulta ancora caratterizzato da forte frammentarietà, sia dal punto di vista delle fonti di finanziamento sia per quanto riguarda la sua presenza e la sua diffusione sul territorio nazionale (Marchetti 2014, 2016)5.

5 Secondo i dati nel Ministero dell’Interno al 15.09.2019 su un totale di 100.363 presenze nel sistema di accoglienza, il 75% (75. 277) era ospitato in ‘centri di accoglienza’; il 24% (24.674) nei SIPROIMI. Nello stesso periodo dell’anno 2020, su un totale di 83.300 presenze, il 70,2%

(58.536) è accolto nei ‘centri di accoglienza’, il 29,2% (24.359) nel SIPROIMI. Secondo i dati presentati dal ‘Servizio centrale’ a luglio 2020 erano attivi in tutta Italia 795 progetti che coinvolgono 681 locali, con 30,688 posti finanziati, suddivisi tra ordinari (26.237), vulnerabili (673) e minori stranieri non accompagnati (MSNA) (3.795).

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Tra il 2011 – con l’avanzare della cosiddetta ‘Emergenza Nord-Africa’ – e il 2014 – con l’implementazione delle operazioni di soccorso Mare Nostrum – gli approdi crescono ulteriormente e le (poche) strutture SPRAR presenti sul territorio non riescono a soddisfare la richiesta di accoglienza. Per rispondere a questa urgenza vengono adottati diversi sistemi paralleli e straordinari, prevalentemente a gestione ministeriale e prefettizia (Campesi 2015; Pinelli 2017, 2018).

Con Decreto Legislativo 142/2015, art. 11 si diffondono i Centri di accoglienza straordinaria (CAS), gestiti sia da enti profit che non profit su affidamento diretto delle prefetture. Concepiti inizialmente come strutture temporanee, l’accoglienza in questi centri è divenuta col tempo tutt’altro che straordinaria (Marchetti 2014, 2016;

Pinelli 2017), naturalizzando ulteriormente il frame emergenziale.

Tuttavia, fino alla fine del 2018 queste strutture si diversificavano in base all’attitudine degli enti gestori, ma anche alle risorse assegnate dai territori ai servizi specifici. Così, si sono sviluppate due tipologie differenti di strutturazione dell’accoglienza. Nella maggior parte dei casi, sono stati utilizzati grandi centri ricavati da vecchi hotel, bed & breakfast, agriturismi e case coloniche; nei casi più virtuosi, sebbene meno numerosi, sono stati impiegati piccoli appartamenti ‘diffusi e integrati’ sul territorio.

Malgrado le difficoltà economiche e la strutturale mancanza di risorse assegnate alla gestione del sistema di accoglienza, negli ultimi anni, alcune realtà, avevano

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tentato di strutturare il CAS sul modello SPRAR seguendo il principio dell’‘accoglienza integrata e diffusa’, evitando la concentrazione massiva dei richiedenti in strutture sovraffollate e promuovendo una, seppur minima, integrazione delle persone accolte nei territori ospitanti, tramite il coinvolgimento delle realtà locali. Come vedremo nel prossimo paragrafo, questo tipo di accoglienza con il

‘Decreto Sicurezza’ è stata fortemente ridotta, favorendo, invece, le strutture a grande capienza. Il risultato di questo processo è chiaramente esposto durante un’intervista a una coordinatrice dell’accoglienza diffusa del bolognese, la quale afferma: «Hanno ucciso l’accoglienza diffusa, quella dei piccoli centri pensati sul modello SPRAR. Il lavoro di anni di fatica e comprimessi è stato spazzato via in un paio di mesi, perché?

Per ragioni populiste di propaganda politica giocata sulla pelle degli ultimi6

2. I mutamenti del Decreto ‘Sicurezza’ e le ripercussioni sul sistema di accoglienza

Il disegno di riforma del sistema d’asilo e di accoglienza voluto e attuato dal Governo Conte 1 (e tutt’ora in vigore durante l’attuale Governo Conte 2), poggia

6 Intervista del 23 marzo 2019.

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principalmente su due provvedimenti: il Decreto legislativo n.113/2018 (c.d Decreto Salvini/Decreto Sicurezza) – entrato in vigore il 5 ottobre 2018 e convertito con modifiche in Legge il 1 dicembre 2018 n.1327 – e l’ultimo ‘Schema di capitolato’8’, rilasciato dal Dipartimento per le Libertà civili e l'Immigrazione il 18 dicembre 2018.

Ai fini di questo contributo, è importante sottolineare tre significativi mutamenti imposti da questi provvedimenti, con ripercussioni significative sulla situazione attuale. In primis l’eliminazione, sancita dalla legge 132/2018, del permesso di soggiorno per motivi umanitari, già presente nel Testo Unico sull’immigrazione del 1998, che costitutiva un’alternativa per persone che, pur non rientrando nei criteri della protezione internazionale, presentavano caratteristiche di vulnerabilità. La sua eliminazione ha provocato l’aumento degli esiti negativi riguardo ai riconoscimenti, incrementando il numero di persone sprovviste di un valido titolo di soggiorno (Fabini et al. 2019). Secondo alcune stime dell’ISPI entro la fine del 2020 circa 70.000 persone diventeranno ‘irregolari’ a causa dell’abolizione della protezione umanitaria (Villa 2018), le quali «si sono viste costrette ad abbandonare, da un giorno all’altro, percorsi iniziati da anni e a riversarsi letteralmente in strada […] Senza la

7 Cfr. https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/10/04/18G00140/sg. Ultima consultazione 22/09/2020.

8Cfr.https://www.interno.gov.it/it/amministrazione-trasparente/bandi-gara-e-contratti/schema- capitolato-gara-appalto-fornitura-beni-e-servizi-relativo-alla-gestione-e-funzionamento-dei- centri-prima-accoglienza . Ultima consultazione 22/09/2020.

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possibilità di proseguire un percorso di integrazione, queste persone rese irregolari e invisibili, saranno più soggette all’esclusione e alla marginalità sociale9».

Inoltre, il Decreto ha fortemente ridimensionato il sistema SPRAR, trasformandolo in SIPROIMI e riducendone la capacità numerica di accoglienza: oltre ai titolari di protezione internazionale e ai minori stranieri non accompagnati (MNA), possono accedervi i titolari di permessi di soggiorno per cure mediche, per calamità, per casi speciali (vittima di tratta, di violenza domestica, di grave sfruttamento lavorativo), per atti di particolare valore civile. Il SIPROIMI è precluso ai richiedenti asilo (numericamente superiori), i quali mantengono il diritto all’accoglienza nei CAS.

Questa esclusione, aggravata dalla preclusione dei richiedenti asilo all’iscrizione anagrafica e ai servizi da essa dipendenti (infra Sanò, Gargiulo 2020,), da un lato affievolisce «l’unico sistema ordinario della seconda accoglienza (ex-SPRAR) che, nonostante alcuni casi problematici […], è l’unica opzione […] capace di garantire certi standard di tutela dei diritti; dall’altro, impone una progressiva normalizzazione degli strumenti emergenziali dell’accoglienza straordinaria» (Ibidem, p. 8).

Il Nuovo Capitolato risulta in linea di continuità con l’approccio sovra decritto, privilegiando soluzioni provvisorie e assistenzialiste, economicamente più sostenibili, basate sull’urgenza e legittimate dall’emergenza. Se precedentemente i bandi prevedevano un massimo di 35 euro pro-die e pro-capite, il Nuovo Capitolato ha

9 Intervista ad un operatore sociale del 23 gennaio 2019.

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ridotto la quota a una cifra pari a 25.25 euro pro-die e pro-capite per centri da 51 a 300 posti, 26,35 euro per i centri fino a 50 posti, 21.35 per le strutture composte da singole unità abitative10.

Il forte ridimensionamento del budget ha determinato la riduzione dei servizi offerti, con un significativo taglio soprattutto di quelli dedicati al potenziamento dell’integrazione delle persone accolte: i corsi di lingua italiano, il sostegno psicologico, l’accompagnamento ai servizi sanitari, l’assistenza legale, la mediazione culturale, l’orientamento al lavoro e il supporto nella ricerca di corsi di formazione.

Con il Decreto Sicurezza e il Nuovo Capitolato il sistema di accoglienza si è ulteriormente caratterizzato secondo la logica emergenziale: con la destrutturazione dello SPRAR, il CAS, ancora più che in precedenza, ha assunto il ruolo di dispositivo ordinario dell’accoglienza dei richiedenti asilo, ribadendo la volontà delle politiche per la gestione dell’accoglienza di legittimare un sistema di ‘emergenza costante’

(Bigo 2007).

Il sistema di accoglienza nel contesto Bolognese è stato caratterizzato, nei diversi anni, da numerose trasformazioni. Se il comune di Bologna dal 2004 fa parte della rete SPRAR, a partire dal 2015 l’accoglienza in questo contesto ha conosciuto

10 Per un approfondimento si vedano: il rapporto presentato da In Migrazione e Oxfam, Invece si può, https://inmigrazione.it/it/dossier/invece-si-puo.; il report di Action Aid e Openpolis, La sicurezza dell’esclusione, https://www.actionaid.it/informati/pubblicazioni/la-sicurezza- dellesclusione; il report di Amnesty International Italia, I sommersi dell’accoglienza, https://www.amnesty.it/decreti-insicurezza-le-vittime/. Ultima consultazione 22/09/2020.

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una forte implementazione del sistema CAS11. Malgrado ciò, a settembre del 2017 è stata avviata, tramite un accordo tra Comuni ed enti gestori, la ‘sprarizzazione’

dell’accoglienza, che ha previsto la conversione in SPRAR di buona parte delle strutture; per i CAS rimasti tali si è puntato sull’ ‘accoglienza integrata e diffusa’, dismettendo pian piano le grandi strutture ancora presenti. Si è delineato, così, il

‘modello Bologna’ dell’accoglienza, costituito in buona parte da strutture SPRAR, in controtendenza rispetto al resto del territorio, aperti anche ai richiedenti asilo e caratterizzato da un forte potenziamento dell’ ‘accoglienza diffusa’12.

Le azioni virtuose intraprese dalle realtà bolognesi sono state vanificate dall’entrata in vigore del Decreto Sicurezza e dall’attuazione delle normative previste del Nuovo Capitolato. Il taglio ai finanziamenti per le strutture CAS, la conseguente

11 Secondo i dati diffusi in un documento elaborato dalla Prefettura e dal comune di Bologna, al 31/05/2016 nell’area metropolitana del Capoluogo erano presenti 64 strutture CAS per un totale di 930 posti (dei quali 374 solo nella città di Bologna); le strutture SPRAR erano 15 per (MSNA), con un 98 posti, e 15 per adulti, con 198 posti. L’area comprende la città di Bologna, il distretto della Pianura Est, il distretto della Pianura Ovest, il distretto di Imola, il distretto di Porretta Terme, il distretto di San Lazzaro e quello di Casalecchio di Reno. Dati reperiti alla pagina web: http://www.comune.bologna.it/news/accoglienza-rifugiati-tutti-i-dati-del-sistema- bolognese. Ultima consultazione 23/07/2020.

12 Al 31/7/2018, nell’area metropolitana i CAS erano 75, con 1.159 posti; le strutture per MSNA fuori dal sistema SPRAR (finanziate dal fondo FAMI) erano 12, con 132 posti. Gli SPRAR sono aumentanti, arrivando a 125 strutture: 107 per adulti, con 753 posti (di cui 33 per persone vulnerabili distribuite in 8 strutture) e 18 per MSNA, con 156 posti. Dati reperiti sulla pagina web https://www.bolognacares.it/dati/. Ultima consultazione 23/9/2020.

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decisione di alcuni enti gestori di non partecipare ai nuovi bandi –lasciando spazio a cooperative esterne e improvvisate – così come l’esclusione dei richiedenti asilo dai progetti SPRAR e l’aumento della proporzione tra operatori e beneficiari13 hanno fortemente influito sul lavoro nell’ accoglienza sia a livello quantitativo che qualitativo. Gli enti gestori, infatti, hanno dovuto ripensare il proprio organico in termini di professionalità, demansionando figure che con gli anni avevano acquisito competenze specifiche (tutor lavorativi, insegnanti di L2, operatori dell’integrazione), le cui prestazioni non sono più previste da bando. In conseguenza di ciò sono stati attuati numerosi tagli al personale, prevalentemente con il mancato rinnovo dei contratti, come testimoniato da una coordinatrice durante un’intervista:

Noi non abbiamo potuto rinnovare molti contratti perdendo figure che negli anni avevano acquisito competenze specifiche, come operatori con un profilo psicologico con i quali stavamo attuando progetti interni di presa in carico o insegnanti di italiano qualificati, con certificati e anni di pratica […] Ora dove andranno a finire queste figure? Perché in questo nuovo tipo di accoglienza, pensato come parcheggio delle

13 Secondo il già citato rapporto di Amnesty International, il Nuovo Capitolato ha dimezzato la presenza nelle strutture CAS degli operatori, passando da un rapporto tra operatore/beneficiari di 2/50 a 1/50.

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persone accolte e dove il ruolo del lavoratore è solo quello di secondino, non c’è più posto per loro14.

Questo processo di ridimensionamento ha comportato un carico di lavoro ulteriore per le/gli operatrici/operatori rimaste/i, al quale non è corrisposto però un adeguamento orario.

Questa situazione di grave precarizzazione dell’accoglienza diffusa è stata ulteriormente acuita dalla trasformazione dell’‘Hub Mattei’, attuata malgrado le azioni di protesta della società civile15. Questa struttura da centro di ‘smistamento’ – funzione che svolgeva fin dal 2015, ospitando, per brevi periodi, persone richiedenti asilo in attesa di ricollocamento in strutture più piccole tra i CAS e gli SPRAR – è stata convertita in ‘Centro governativo di accoglienza’, sotto la responsabilità della Prefettura. Su ordine di quest’ultima la maggior parte delle persone accolte nei CAS ad ‘accoglienza diffusa’ del territorio bolognese è stata trasferita nel ‘nuovo Centro’, favorendo, in linea con le disposizioni del Nuovo capitolato, «la concentrazione

14 Intervista del 15 marzo del 2019.

15 Per un approfondimento si vedano gli articoli: https://www.radiocittadelcapo.it/archives/bologna- chiude-hub-via-mattei-centro-accoglienza-migranti-presidio-prefetto-avvocati-diretta-204395/ ; https://www.lenius.it/conseguenze-decreto-sicurezza/ . Ultima consultazione 23/7/2020.

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massiva dei richiedenti in un’unica struttura sovrappopolata e la loro ghettizzazione in un’area periferica, senza nessun servizio per l’integrazione16».

3. Il lavoro nell’accoglienza durante la pandemia da Covid-19: alcune riflessioni conclusive.

Con il manifestarsi della pandemia le criticità già insite nel sistema di accoglienza bolognese sono emerse con prevedibile veemenza, provocando il palesarsi di

‘un’emergenza nell’emergenza’. In primis le condizioni di sovraffollamento delle nuove strutture hanno provocato un maggiore rischio di esposizione al contagio sia per le persone accolte che per i/le lavoratori/lavoratrici. Infatti, in alcune strutture, per via di una gestione di stampo emergenziale-concentrazionaria, con il passare del tempo sono emersi alcuni casi di positività al virus, per quanto asintomatici. Il manifestarsi dell’emergenza Covid-19 nelle strutture, dunque, sembra essere stata la prevedibile conseguenza delle scelte e delle decisioni politiche prese durante il governo Conte 1, come testimonia un’operatrice durante un’intervista:

16 Intervista a un’operatrice dell’accoglienza diffusa CAS del 25 novembre 2019.

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Sicuramente quello che abbiamo adesso, dopo il Decreto Salvini, è peggio di prima perché i servizi sono ridotti, ci sono situazioni di affollamento e anche il Covid ha accentuato queste difficoltà, perché ci siamo trovati a gestire grandi strutture con molte persone […]. Il Covid in realtà ha messo in luce tutte le debolezze del Nuovo Capitolato17.

Se, in generale, le criticità insite nel ruolo dell’operatore/operatrice dell’accoglienza sono pesantemente influenzate dalle ambivalenti rappresentazioni sociali della migrazione prodotte dalla politica e dai media (Ciabarri 2015), la fase del lockdown ha messo in luce il ruolo giocato dalle immagini stigmatizzanti che hanno prevalso nel discorso pubblico sul ruolo dell’ ‘untore/untrice’ (Infra Spada).

Infatti, la generica stigmatizzazione, soprattutto nella prima fase, di coloro che andavano a lavorare e che venivano considerati veicoli del contagio e responsabili della diffusione del virus, ha assunto aspetti peculiari, come racconta un’operatrice durante un’intervista:

Almeno fino a fine aprile io ero l’untrice, perché non solo uscivo per andare a lavorare, visto che la nostra attività è stata considerata come un lavoro essenziale, ma

17 Intervista del 15.5.2020.

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andavo ad aiutare i ‘neri’, altro tipo di untori che portano il virus! […] Tutto questo è stato molto stressante, cioè non solo io faccio un lavoro senza il quale ci sarebbero molti più disagi, ma devo anche sentirmi rimproverata per quello che faccio e perché lo faccio con quelle persone specifiche! […] Alla fine siamo diventati, sia noi che i beneficiari, dei capri espiatori. Questo fatto di essere colpevolizzati è stata una sensazione che abbiamo condiviso molto e ci ha sicuramente avvicinati, non fisicamente, ovviamente!18

Se a prevalere nel mondo dell’accoglienza sono demotivanti contratti a breve- medio termine, con poche tutele e inquadramenti inadeguati rispetto alle mansioni svolte (Altìn et al. 2017; Riccio, Tarabusi 2018), queste caratteristiche durante la pandemia si sono manifestate in tutta la loro gravità:

Ci sono un sacco di lavoratori che hanno contratti atipici come i co.co.co, le lettere di incarico, contratti commerciali, trovandosi nella condizione di dover andare a lavorare con questi contratti di merda, con zero tutele in caso di malattia. […] E questo con l’emergenza Covid è venuto a galla. Questa precarietà ha delle

18 Intervista del 16.4.2020.

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ripercussioni sul servizio offerto perché uno dice: “Cazzo, è un lavoro stressante, sono sempre a rischio burn out, devo fare molto più di quello che mi viene richiesto da contratto, sono sempre sul filo del rasoio che ogni mese mi devo preoccupare come devo andare avanti”, alla fine non so come la gente va a lavorare in struttura.

Questi tipi di contratto sono demotivatati, però hai anche le mani legate: in questa emergenza, se hai solo questo contratto co.co.co, cosa fai ti metti a cercare un altro lavoro?!19.

La precarietà di questi contratti ha permesso di sospendere i diritti delle operatrici e degli operatori durante la fase del lockdown: con la riduzione dei servizi, dovuta al confinamento e alla riduzione degli spostamenti, molti enti gestori hanno deciso di rientrare nella spesa ricorrendo alla cassa integrazione e nei casi più eclatanti alle ferie forzate di alcuni/e lavoratrici/lavoratori.

Sebbene il lavoro nell’accoglienza fosse inizialmente contraddistinto da un certo grado di impreparazione e composto da operatori/operatrici spesso improvvisati/e (Barberis, Boccagni 2017; Riccio 2016), con il tempo questa professione si è strutturata in uno scenario complesso di ruoli e mansioni, composto prevalentemente da persone giovani, con un alto grado di formazione e molta vocazione personale

19 Intervista del 30.4.2020.

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(Altìn, Sanò 2017). Nonostante questa specializzazione delle varie professioni, formate prevalentemente on the job (Barberis 2010), il ruolo dell’operatore/operatrice non ha mai avuto una definizione ufficiale e precisa, lasciando un alto grado di discrezionalità ai diversi enti gestori, sia per quanto riguarda l’inquadramento dei contratti, sia per quanto riguarda la chiarezza dei ruoli.

Durante la pandemia sono emersi due sentimenti differenti rispetto alla percezione del lavoro nell’accoglienza che si configurano come le due facce di una stessa medaglia. La pandemia, da un lato, ha accentuato tra le/i lavoratrici/ lavoratori dell’accoglienza la percezione dello scarso prestigio attribuito alle loro professioni (Biffi 2017). Come riportato da un operatore, durante la prima fase del lockdown le azioni e gli interventi suggeriti dalle/dagli operatrici/operatori, sulla base delle loro conoscenze e competenze, non sono stati presi in considerazione dai vertici decisionali. Così, sono state calate dall’alto misure inefficaci e generiche che hanno tenuto poco conto delle specificità delle persone accolte, soprattutto riguardo ai casi più vulnerabili:

Sia per il Comune, che per la ASL, che per le forze dell’ordine l’operatore sociale è una figura non professionale, non so come dire […] le nostre valutazioni professionali sono state considerate delle lamentele di gente che non aveva voglia di lavorare, di gente che stava sempre dalla parte di queste persone, troppo emotivi […]

(23)

Invece le valutazioni professionali che abbiamo fatto con il senno di poi erano azzeccatissime e in linea con gli interventi richiesti previsti dalla legge che solo con molto ritardo sono stati messi in campo20.

Dall’altro però, paradossalmente, durante la fase del lockdown, a detta delle/degli interlocutrici/interlocutori, improvvisamente, quello che prima veniva considerato come un lavoro di poco conto, è diventato di vitale importanza. In una fase delicata come quella del confinamento, ai lavoratori e alle lavoratrici è stato richiesto un più alto grado di ‘sacrificabilità’21, esigendo che si recassero a lavoro anche a rischio della propria salute per tenere in vita –con i pochi strumenti a disposizione – un’occupazione basata prevalentemente sulla prossimità e le relazioni, e per risolvere, quasi in autonomia, situazioni critiche, inevitabilmente emerse durate la fase del lockdown (infra Marabello):

Questa emergenza ha messo in luce un problema: il nostro lavoro è sempre stato precarizzato, ma anche un po' non tenuto in conto nel dovuto modo, mentre adesso è

20 Intervista del 01.5.2020.

21 Cfr. B. Palumbo, Durante, in A. Guigoni, R. Ferrari, a cura di, Pandemia 2202. La vita quotidiana in Italia con il Covid-19, M&J Publishing House, pp. 60-62.

(24)

uscito fuori che è un lavoro importante. Quindi si sono ritrovati il vaso di pandora, con delle persone che mantengono un servizio che per te è importante, ma che prima avevi sottovalutato. E quindi ci sono persone che svolgono un lavoro importante in condizioni contrattuali pessime e in molti casi non hanno molte tutele. Si potrebbe partire da questa emergenza per chiedere e pretendere maggiori tutele22.

Partendo dunque da una profonda riflessione sulle criticità e i problemi insiti nel settore lavorativo dell’accoglienza e acuiti dall’emergenza Covid-19, sarebbe possibile non solo ripensare le modalità contrattuali di questa categoria di lavoratori/lavoratrici, ma anche ristrutturare il sistema di accoglienza abbandonando il frame emergenziale finora prevalso. Questo approccio dovrebbe essere attuato in favore di un’organizzazione più efficacie del lavoro in grado, da un lato di offrire alle persone accolte servizi di migliore qualità, dall’altro di avviare un processo di profonda riqualificazione di questo lavoro, in termini di riconoscimento professionale, di maggiori tutele e di diritti. Un auspicio sembra essere condiviso da tutte/i gli/le interlocutori/interlocutrici: «Speriamo cambi qualcosa perché, cazzo, se non ci ha insegnato niente sto Covid, allora vuol dire che veramente siamo destinati al fallimento in questo Paese23».

22 Intervista del 27.4.2020.

23 Intervista del 25.4.2020.

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