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La politica europea relativa al conflitto mediorientale: scenari politico-strategici per il 2009 e potenziale ruolo dell Italia

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Academic year: 2022

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Centro Militare di Studi Strategici

Ricerca CeMiSS 2009 – R12

La politica europea relativa al conflitto

mediorientale: scenari politico-strategici per il 2009 e potenziale ruolo dell’Italia

Direttore della ricerca:

Dott. Diego BALIANI

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LA NASCITA DELLA POSIZIONE COMUNE EUROPEA SUL CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO ... 5

LA POSIZIONE DELL’ONU SUL CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO ... 6

La terza guerra arabo-israeliana e la risoluzione 242 (1967) ... 6

La quarta guerra arabo israeliana e la risoluzione UNSC 338 (1973) ... 8

LA NASCITA DELLA COOPERAZIONE POLITICA EUROPEA E IL CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO ... 9

LA RELAZIONE SPECIALE TRA ISRAELE E STATI UNITI TRA IL 1967-1991 E IL SUO IMPATTO SULL’EUROPA E SULL’ONU ... 11

Le relazioni tra Israele e le Nazioni Unite ... 12

L’alleanza speciale tra Stati Uniti ed Israele ... 12

L’Europa tra politiche estere nazionali e prove generali di “diplomazia comune” ... 13

LA POLITICA EUROPEA MEDIORIENTALE DURANTE IL PROCESSO DI OSLO ... 15

La conferenza di Madrid del 1991 ... 15

Gli accordi di Oslo e la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese ... 17

La nascita della Politica Estera e di Sicurezza Comune dell’Unione Europea (1993) ... 18

L’istituzione del Comitato di Collegamento ad hoc e il sostegno dell’UE al processo di pace ... 19

Le divergenze tra Stati Uniti ed UE all’interno del gruppo dei donatori ... 20

La politica europea in Medio Oriente degli anni ’90 e il fallimento dei negoziati di Oslo ... 21

Il Quartetto e la Roadmap ... 23

L’AZIONE DELL’UNIONE EUROPEA A SOSTEGNO DEL PROCESSO DI PACE ... 26

L’AZIONE EUROPEA A LIVELLO POLITICO ... 26

IL SOSTEGNO ECONOMICO DELL’UE AL PROCESSO DI PACE ... 27

Il sostegno economico ai Palestinesi... 27

La cooperazione europea con Israele ... 28

Implicazioni del sostegno economico europeo al processo di pace ... 29

LA COOPERAZIONE EUROPEA DI SICUREZZA A SOSTEGNO DEL PROCESSO DI PACE ... 29

Gli Stati Uniti alla guida della cooperazione di sicurezza internazionale ... 30

La nascita del COPP e il dispiegamento delle FSP ... 31

Il ruolo delle Nazioni Unite nell’assistenza di polizia ... 32

L’approccio europeo alla cooperazione di sicurezza ... 34

La nascita della Politica Europea di Sicurezza e Difesa ... 37

Le missioni PESD in Medio Oriente: EUPOL COPPS e EUBAM Rafah ... 38

L’IMPATTO DELLASCESA DI HAMAS SULLA POLITICA MEDIORIENTALE DELL’UE ... 44

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L’IMPATTO DELLASCESA DI HAMAS SULLA PESC ... 45

L’IMPATTO DELLASCESA DI HAMAS SUL SOSTEGNO ECONOMICO E DI SICUREZZA AL PROCESSO DI PACE ... 46

L’APPROCCIO STRATEGICO DELL’UE RISPETTO AL CONFLITTO MEDIORIENTALE ... 47

CONSIDERAZIONI SUL RUOLO DELL’ITALIA ... 51

RACCOMANDAZIONI PER IL DECISORE ITALIANO ... 52

APPENDICI ... 54

APPENDICE N.1: CRONOLOGIA SUCCINTA DEL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE ... 55

APPENDICE N.2: LE RISOLUZIONI ONU SUL CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO ... 60

La risoluzione UNSC 242 (1967), del 22 novembre 1967 ... 60

La risoluzione UNSC 338 (1973), del 22 ottobre 1973 ... 62

APPENDICE N.3:LA STRATEGIA DI SICUREZZA DELL’UNIONE EUROPEA ... 63

Un’Europa sicura in un mondo migliore – Strategia di sicurezza europea, Bruxelles, 12 dicembre 2003... 63

Rapporto sull’attuazione della Strategia di Sicurezza Europea – Fornire sicurezza in un mondo in evoluzione... 78

APPENDICE N.4:LA ROADMAP DEL 2003 ... 86

APPENDICE N.5:GLI ACCORDI SUL VALICO DI RAFAH (2005) ... 95

Accordi sottoscritti da Israele e dai Palestinesi sul movimento e sull’accesso da e per la Striscia di Gaza ... 95

Accordo sul movimento e sull’accesso ... 96

I principi concordati per il valico di Rafah ... 99

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AHLC Comitato di Collegamento ad hoc (in. Ad Hoc Liaison Committee) ANP Autorità Nazionale Palestinese (in. Palestinian National Authority o

PNA)

COPP Comitato di Coordinamento dell’Assistenza Internazionale alla Forza di Polizia Palestinese (in. Co-ordinating Committee of International Assistance to the Palestinain Police Force).

COPS Comitato Politico e di Sicurezza dell’UE CMUE Comitato Militare dell’UE

DoP Dichiarazione di Principi del 13 settembre 1993 (in. Declaration of Principles)

EUSR Rappresentante Speciale UE (in. European Union Special Representative)

IBRD Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (in.

International Bank for Reconstruction and Development)

LACC Comitato Locale di Coordinamento degli Aiuti (in. Local Aid Coordinating Committee)

FSP Forze di Sicurezza Palestinesi

PESC Politica Estera e di Sicurezza Comune (in. Common Foreign and Security Policy – CFSP)

PESD Politica Europea di Sicurezza e Difesa (in. European Sec urity and Defence Policy – ESDP)

PSA Agenzia di Sicurezza Preventiva palestinese (in. Preventive Security Agency)

SMUE Stato Maggiore dell’UE

UE Unione Europea (in. European Union)

UNSC Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (in. United Nations Security Council)

USSC Coordinatore di Sicurezza degli Stati Uniti (in. US Security Coordinator)

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La nascita della posizione comune europea sul conflitto arabo-israeliano

La cooperazione europea in materia di politica estera iniziò ad assumere forma nel periodo a cavallo tra la terza e la quarta guerra arabo-israeliana, avvenute rispettivamente nel 1967 e nel 1973, e sarà da questo influenzata in modo determinante sotto diversi punti di vista. In primo luogo, il conflitto arabo-israeliano diventerà uno dei temi ricorrenti della cooperazione europea in materia di politica estera; in secondo luogo, al di là dei risultati concreti ottenuti dall’iniziativa europea per la pace in Medio Oriente, il conflitto-arabo israeliano fornirà una delle prime occasioni per sviluppare e collaudare i meccanismi istituzionali della cooperazione in materia di politica estera all’interno della CEE (che poi sarà proseguita nell’UE); infine, il conflitto mediorientale, oltre ad essere una delle prime questioni di politica estera trattate dalla cooperazione politica europea, è anche una di quelle in cui i Paesi europei hanno elaborato una posizione comune coerente e duratura.

La cooperazione politica europea si sviluppò quindi nel periodo in cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) adottò le risoluzioni che ancor oggi forniscono i principi accettati dalla maggioranza della comunità internazionale quale base per la risoluzione del conflitto, ossia le risoluzioni 242 (1967) e la 338 (1973). L’approccio europeo ha posto fin dall’inizio le Nazioni Unite al vertice del sistema internazionale ed ha promosso il rispetto delle risoluzioni dell’UNSC – al quale in base alla Carta ONU spetta la responsabilità primaria per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale – e del diritto internazionale quale base per la soluzione giusta e duratura del conflitto arabo- israeliano.

In questo primo capitolo si ripercorreranno pertanto le tappe sia dello sviluppo della posizione comune europea a livello concettuale, sia dello sviluppo delle politiche europee di sostegno economico e di sicurezza alle parti del conflitto, in particolare ai Palestinesi.

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La posizione dell’ONU sul conflitto arabo-israeliano

La terza guerra arabo-israeliana e la risoluzione 242 (1967)

La risoluzione UNSC 242 (1967) fu adottata in conseguenza della terza guerra arabo- israeliana dell’estate del 1967, nota anche come “guerra dei sei giorni” (per il mondo arabo, al-naksah, “la sconfitta”). Nel corso del maggio 1967 il presidente egiziano Gamal

‘Abd al-Nasser aveva adottato una serie di decisioni ostili contro Israele: il 14 maggio aveva iniziato la mobilitazione delle forze armate egiziane nel Sinai e tra il 22 e il 23 maggio aveva decretato il blocco della navigazione attraverso lo stretto di Tirana, definendolo territorio egiziano. Tale decisione fu considerata un atto di guerra da parte di Israele il quale riteneva, al pari degli Stati uniti, che le acque dello stretto di Tirana (passaggio obbligato per la navi da e per il porto israeliano di Eliat) fossero mare internazionale. La guerra iniziò il 5 giugno 1967 con l’attacco aereo a sorpresa israeliano contro l’Egitto (che gli Israeliani definiscono “anticipatore”) e terminò il successivo 10 giugno, e secondo i resoconti contrappose ad Israele le forze militari di Egitto, Siria e Giordania, sostenute dalle ulteriori truppe inviate da Iraq, Algeria, Arabia Saudita, Sudan, Tunisia, Libia e Marocco. Il conflitto sarebbe stato deciso già nella prima giornata di scontri, nel corso del quale le forze aeree israeliane distrussero circa il 90% delle forze aree egiziane, circa il 70% di quelle siriane e quasi la totalità di quelle giordane: una volta conquistato il dominio dello spazio aereo, Israele ottenne una rapida vittoria anche sul terreno e dopo sei giorni la guerra era conclusa. Alla fine dello scontro, Israele aveva conquistato il controllo sui territori della penisola del Sinai (appartenente all’Egitto), delle alture del Golan (appartenenti alla Siria) e di una striscia di terra sulla frontiera Giordania (appartenente alla Giordania), oltre a quelli della Striscia di Gaza, alla Cisgiordania e a Gerusalemme orientale.

L’inequivocabile sconfitta degli eserciti arabi mutò radicalmente il significato politico del conflitto arabo-israeliano. Il presidente egiziano Nasser aveva condotto gli eserciti arabi alla guerra contro Israele con l’obiettivo di “eliminare dalle mappe geografiche” lo Stato sionista fondato nel 1948; dopo la guerra, gli Stati della Lega Araba riuniti a Khartum (Sudan, 29 agosto-1° settembre 1967) abbandonarono definitivamente l’obiettivo di distruggere Israele e si concentrarono piuttosto sulla restituzione dei territori

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perduti nel conflitto a favore di quest’ultimo. Il punto n. 3 della risoluzione di Khartum stabilì il passaggio dalla lotta militare a quella politica contro Israele laddove sanciva che gli Stati arabi “hanno concordato di unire i loro sforzi politici sul piano diplomatico e internazionale al fine di eliminare gli effetti dell’aggressione e di assicurare il ritiro delle forze israeliane ostili dalle terre arabe (corsivo aggiunto)”: come si diceva in precedenza, l’obiettivo non era più distruggere Israele ma eliminare gli effetti dell’aggressione, ossia l’occupazione dei territori arabi. Il punto n. 3 ribadiva anche i principi che sarebbero stati alla base dello sforzo politico arabo, i c.d. “tre no”, ossia “no alla pace con Israele, no al riconoscimento di Israele e no ai negoziati con esso” fintantoché non saranno riconosciuti e affermati con una accordo di pace i diritti dei Palestinesi sui territori occupati. Da quel momento in avanti, pertanto, gli Stati arabi accetteranno implicitamente l’esistenza di Israele come un dato di fatto, sebbene ancor oggi solo Egitto e Giordania hanno concesso anche il riconoscimento politico. Israele, dal canto suo, chiederà la firma di accordi di pace con gli Stati arabi, il loro riconoscimento politico e la garanzia della libertà di navigazione attraverso lo stretto di Tirana in cambio della restituzione dei territori occupati nel 1967, secondo la formula “terra in cambio della pace”.

Il principio “terra in cambio della pace” fu quindi adottato dalla risoluzione UNSC 242 (1697) del novembre 1967 e da quel momento in avanti fu il principio di riferimento delle varie iniziative lanciate con l’obiettivo di risolvere il conflitto arabo-israeliano, comprese quelle sostenute dai Paesi europei.

La risoluzione fu accettata ufficialmente da Israele, Egitto e Giordania poco dopo la sua adozione quale base per i negoziati di pace, mentre la Siria la accettò nel 1973. L’OLP, invece, rifiutò di accettare formalmente la risoluzione 242 fino al 15 novembre 1988, quando adottò la dichiarazione d’indipendenza palestinese ad Algeri, e anche allora il riconoscimento fu condizionato alla fondazione dello Stato palestinese. L’OLP accettò senza riserve la risoluzione 242 solo in conseguenza degli accordi di Oslo del 1993, con cui Israele e OLP si riconobbero reciprocamente.

La risoluzione 242, sebbene accettata da Israele e dal mondo arabo (ma non dai Palestinesi, almeno fino al 1993) come base per i negoziati di pace, presentava – e continua a presentare – delle ambiguità che furono evidenziate dalle parti del conflitto mediante l’adozione d’interpretazioni divergenti. Israele evidenziava che laddove la risoluzione chiedeva “il ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati nel recente

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conflitto”, essa non implicava necessariamente il ritiro da tutti i territori occupati, e tale interpretazione può essere intravista ancor oggi alla base della decisione israeliana di mantenere il controllo su Gerusalemme orientale e sugli insediamenti autorizzati in Cisgiordania. Tra il 1967 ed oggi, tale interpretazione ha comportato che alcuni territori occupati sono stati facilmente restituibili, come la penisola del Sinai; altri sono potenzialmente restituibili ma con maggiore difficoltà, come le alture del Golan e la Cisgiordania, tutt’ora sotto il controllo israeliano; altri ancora sembrano non cedibili dal punto di vista israeliano, come Gerusalemme orientale. Le motivazioni israeliane per il perdurare del controllo sui territori occupati nel 1967 sono di diverso tipo: nel caso delle alture del Golan, tolte alla Siria, esse sono considerate una zona strategica necessaria alla difesa di Israele (ma non vi è consenso in Israele sul punto), sono una fonte di acque fresche e soprattutto rappresentano un’area di insediamento a fini agricoli; nel caso della Cisgiordania, essa è considerata parte del territorio da parte della popolazione israeliana (tanto che gli israeliani la chiamano “Giudea e Samaria”), è fonte di acque fresche e contiene oltre 225.000 coloni sparsi in oltre 150 insediamenti; nel caso di Gerusalemme orientale, infine, essa è considerata dalla maggioranza degli israeliani come parte integrante e irrinunciabile della capitale dello Stato ebraico e i circa 200.000 residenti israeliani non sono considerati “coloni” dal governo israeliano.

Per contro, i Paesi arabi evidenziavano che laddove la risoluzione chiedeva “la cessazione di tutte le rivendicazioni o degli stati di belligeranza nonché il rispetto e il riconoscimento (…) degli Stati dell’area”, essa non implicava la firma di trattati di pace, tanto è vero che ad oggi gli unici Paesi arabi che hanno firmato trattati di pace con Israele sono l’Egitto e la Giordania, rispettivamente nel 1979 e nel 1994.

La quarta guerra arabo israeliana e la risoluzione UNSC 338 (1973)

Il 22 ottobre 1973 fu adottata dall’UNSC la seconda risoluzione di riferimento per i negoziati di pace in Medio Oriente: la risoluzione UNSC 338 (1973) ribadì infatti il principio

“terra in cambio della pace” della risoluzione 242 e “decise” l’avvio di negoziati di pace tra le parti. La situazione originatasi in seguito alla guerra del 1967 continuava infatti a protrarsi più o meno immutata, con Israele che continuava ad occupare i territori arabi conquistati. Nonostante la risoluzione 242 avesse enunciato il principio “terra in cambio della pace” quale pietra angolare dei negoziati di pace, i negoziati stessi non erano ancora

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iniziati. Nel 1971 il presidente egiziano Anwar Sadat cercò di sbloccare la situazione proponendo un accordo di pace in cambio del completo ritiro israeliano dai territori occupati, senza tuttavia ottenere risultati. A partire dal 1972 il presidente Sadat iniziò a proferire minacce di guerra contro Israele fino a che il 6 ottobre 1973 Egitto e Siria lanciarono un attacco a sorpresa contro Israele, dando il via alla quarta guerra arabo- israeliana, nota anche come guerra dello “Yom Kippur”. Egitto e Siria ottennero il sostegno militare da almeno dieci Stati arabi (Iraq, Arabia Saudita, Kuwait, Libia, Algeria, Tunisia, Sudan, Marocco, Libano e Giordania) e dai militanti palestinesi che erano giunti in Libano dopo la guerra del 1967 ma, esaurita la loro avanzata iniziale dei primi giorni, dal 15 ottobre iniziarono a subire la reazione israeliana con l’avvio dell’operazione “Abirey Lev”

(Cuore impavido) mirante ad attraversare il canale di Suez. Il 19 ottobre la comunità internazionale iniziò gli sforzi per porre termine al conflitto, il 22 ottobre fu adottata la risoluzione 338 (1973) e il 24 ottobre si fermarono i combattimenti nel momento in cui le IDF avevano circondato la Terza Armata egiziana e si preparavano ad attaccarla.

L’unico processo negoziale che in quegli anni fu intrapreso con successo fu quello tra Israele ed Egitto i quali, sotto l’impulso statunitense, firmarono gli accordi di Camp David (1978) e il tratta di pace (1979): in base alla formula “terra in cambio della pace”, Israele restituì la penisola del Sinai ed ottenne in cambio dall’Egitto l’accordo di pace, il riconoscimento e la normalizzazione delle relazioni politiche ed economiche.

La nascita della Cooperazione Politica Europea e il conflitto arabo- israeliano

Nel 1970, pochi anni dopo la guerra del 1967, i sei Paesi europei che allora aderivano alla CEE (Italia, Belgio, Francia, Germania Ovest, Lussemburgo, Paesi Bassi) avviarono le prime iniziative per l’istituzione di una diplomazia comune. Essi formarono un gruppo di lavoro di consiglieri politici dei rispettivi ministri degli Esteri, presieduto dal diplomatico belga Etienne Davignon, per studiare le possibilità di una cooperazione politica europea più stretta in vista dell’adesione di tre nuovi membri, ossia Regno Unito, Danimarca e Irlanda, avvenuta il 1° gennaio 1973 ed entrata pienamente in vigore il 1° gennaio 1978. Il gruppo di lavoro produsse il “rapporto Davignon” (chiamato anche “rapporto di Lussemburgo”) il quale fu approvato dal Consiglio dei Ministri CEE il 27 ottobre 1970:

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esso prevedeva la consultazione tra i sei Paesi CEE sulle questioni di politica estera e l’adozione di decisioni comuni, ma non menzionava la consultazione nei settori della difesa e della sicurezza esterna. Secondo il rapporto, l’obiettivo della consultazione era la formazione di un consenso tra i sei Paesi CEE sulle questioni internazionali mediante un meccanismo di consultazione periodica. Tale meccanismo prevedeva riunioni semestrali a livello di ministri degli Esteri e riunioni trimestrali a livello di consiglieri politici: i lavori preparatori delle riunioni ministeriali erano preparati da un gruppo di lavoro permanente. Il meccanismo prevedeva la consultazione della Commissione CEE per le materie di sua competenza, nonché la trasmissione degli esiti delle riunioni alla Commissione Affari Politici del Parlamento Europeo. Fu inoltre costituito un “gruppo diplomatico di collegamento” che doveva raccogliere le richieste di consultazione sui temi di politica estera da parte degli Stati membri della CEE.

Il rapporto Davignon avviò quindi le consultazioni dei Paesi CEE (prima sei, poi nove dal 1973) in materia di politica estera: il meccanismo di consultazione fu chiamato ufficialmente “Cooperazione Politica Europea” (CPE) in occasione del primo vertice a livello ministeriale dei sei Paesi CEE, svolto a Monaco il 19 novembre 1970.

La CPE, ovvero l’embrione di quella dal 1993 sarà chiamata “Politica Estera di Sicurezza Comune” (PESC) si stava quindi formando nel periodo successivo alla guerra del 1967 e di conseguenza il conflitto arabo-israeliano fu una delle prime questioni affrontate dalla nascente diplomazia comune europea. Da quel momento in avanti, il conflitto arabo- israeliano diventerà una delle questioni di politica estera su cui i Paesi della CEE prima e dell’UE poi riusciranno a trovare una posizione comune coerente e duratura nel tempo, almeno a livello di principio.

Il 6 novembre 1973 i nove Paesi della CEE adottarono la Dichiarazione comune di Copenaghen (Dichiarazione comune dei governi della Comunità Economica Europea sulla situazione nel Vicino Oriente), nella quale cominciarono a delineare i capisaldi della posizione comune europea. La dichiarazione fa riferimento alla Carta dell’ONU, la quale attribuisce all’UNSC la responsabilità primaria per la pace e la sicurezza internazionale, e di conseguenza sostiene che le parti del conflitto dovranno avviare negoziati nell’ambito delle Nazioni Unite e raggiungere un accordo secondo i principi stabiliti dalle risoluzioni UNSC 242 e 338. La dichiarazione comune indica inoltre i principi su cui, secondo i Paesi CEE, si dovrà fondare l’accordo di pace arabo-israeliani, ossia:

1) l’inammissibilità delle acquisizioni territoriali mediante l’uso della forza;

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2) la necessità che Israele ponga fine all’occupazione territoriale in atto dal conflitto del 1967;

3) il rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza di tutti gli Stati della regione nonché del loro diritto di vivere in pace all’interno di frontiere sicure e riconosciute;

4) il riconoscimento che, nell’ambito di una pace giusta e duratura, si dovrà tenere conto dei diritti legittimi dei Palestinesi.

I nove Paesi della CEE elaborarono ulteriormente la loro posizione comune nella Dichiarazione di Venezia del 13 giugno 1983 (Dichiarazione del Consiglio Europeo sul Medio Oriente). Partendo dal presupposto che “le relazioni tradizionali e l’interesse comune che legano l’Europa al Medio Oriente li obbliga a svolgere un ruolo speciale e oggigiorno richiedono loro di lavorare in modo concreto per la pace”, i nove Paesi della CEE richiamarono i principi indicati nella dichiarazione comune del 1973 e aggiunsero nuovi principi, quali:

1) il riconoscimento dell’esistenza del “popolo palestinese” e del suo diritto all’autodeterminazione;

2) lo status di Gerusalemme non deve essere modificato unilateralmente e ogni accordo sulla città dovrà garantire a tutti il libero accesso nei Luoghi Santi;

3) all’interno dei territori arabi occupati, gli insediamenti israeliani e qualsiasi trasferimento di popolazione o modificazione dei diritti immobiliari sono considerati illegali in base al diritto internazionale e devono quindi terminare.

La Cooperazione Politica Europea troverà finalmente una base giuridica con l’Atto Unico Europeo del 1986, il quale istituì la posizione di Segretario Generale della CPE posto sotto l’autorità della Presidenza del Consiglio UE.

La relazione speciale tra Israele e Stati Uniti tra il 1967-1991 e il suo

impatto sull’Europa e sull’ONU

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Le relazioni tra Israele e le Nazioni Unite

Nel periodo compreso tra il 1967 (l’anno dell’adozione della risoluzione 242) e il 1993 (l’anno degli accordi di Oslo) le relazioni tra Israele e le Nazioni Unite sono andate via via deteriorandosi. Le due risoluzioni avevano indicato i principi fondamentali dettati dalle Nazioni Unite per la soluzione del conflitto, ma già allora come oggi si poteva registrare una certa ostilità tra le Nazioni Unite ed Israele, laddove l’ONU accusava Israele per l’occupazione dei territori palestinesi, per la sua politica degli insediamenti (ritenuta contraria alla Quarta Convenzione di Ginevra del 1949) e per l’uso della forza contro i Palestinesi (che le Nazioni Unite hanno spesso definito eccessivo e in violazione delle norme internazionali) mentre Israele vedeva l’ONU come poco attenta alle esigenze di sicurezza israeliane ed eccessivamente sbilanciata a favore dei Palestinesi e del mondo arabo.

Il sentimento israeliano di ostilità verso le Nazioni Unite era rafforzato dall’esistenza di una maggioranza filo-araba in seno all’Assemblea Generale dell’ONU (UNGA) la quale promuoveva periodicamente risoluzioni di condanna contro Israele, peraltro legalmente non vincolanti. La maggioranza “ostile” in seno all’UNGA era controbilanciata in seno all’UNSC – l’unico organismo ONU che può adottare risoluzioni legalmente vincolanti per gli Stati membri – dal potere di veto degli Stati Uniti i quali, in virtù della loro alleanza

“speciale” con Israele, bloccavano in quella sede le risoluzioni anti-israeliane. Tale situazione spiega in parte sia la tradizionale ostilità israeliana verso l’ONU sia la tendenza di Israele a preferire che fossero gli Stati Uniti a guidare gli sforzi della comunità internazionale nel processo di pace arabo-israeliano.

L’alleanza speciale tra Stati Uniti ed Israele

Più in generale nel periodo compreso tra il 1967 e il 1989, nell’ambito della Guerra Fredda, Israele ha manifestato la tendenza a privilegiare l’influenza degli Stati Uniti in Medio Oriente a scapito sia dell’ONU sia dell’UE per almeno due di motivi.

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In primo luogo, durante la Guerra Fredda i due attori esterni principali del conflitto mediorientale erano gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, laddove anche i Paesi europei che storicamente avevano avuto un ruolo in Medio Oriente – come il Regno Unito, la Francia e la Germania – erano alleati ai primi e avevano perso l’influenza di cui godevano in passato nell’ambito della logica della contrapposizione tra blocchi e della necessità di allinearsi alla superpotenza di riferimento (gli USA). Nell’ambito di tale contrapposizione, gli Stati Uniti sostenevano Israele mentre l’Unione Sovietica sosteneva il mondo arabo e l’OLP. Israele comprendeva perfettamente che le decisioni strategiche relative al Medio Oriente erano adottate dai vertici politico-decisionali degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica e di conseguenza promuoveva il ruolo della superpotenza alleata.

In secondo luogo, tale preferenza derivava dall’affinità naturale tra Israele e gli Stati Uniti. Entrambi sono due società democratiche in cui il culto del pionierismo e il valore del pragmatismo politico sono elementi fondanti: nel caso di Israele, il pionierismo è uno stile di vita caro al sionismo ed è concretamente rappresentato dagli insediamenti, mentre il pragmatismo si manifesta nella tendenza ad affrontare concretamente le questioni decidendo caso per caso, trovando soluzioni che pur di tutelare la sicurezza israeliana potevano anche mettere temporaneamente in secondo piano le indicazioni dell’ONU. Gli Stati Uniti hanno sempre riconosciuto il carattere “speciale” dell’alleanza con Israele rispetto alle alleanze con gli altri Paesi mediorientali perché Israele è considerato l’unico Stato democratico della regione; pertanto gli Stati Uniti, anche di fronte agli eventuali abusi israeliani nei confronti dei Palestinesi, si sono eventualmente limitati alla critica verbale senza mettere concretamente in discussione l’alleanza speciale con Israele. Inoltre, abbiamo già detto cje gli Stati Uniti hanno sempre usato il loro potere di veto in seno all’UNSC per bloccare le risoluzioni anti-israeliane. Tale affinità trova espressione concreta nell’esistenza di potenti gruppi di pressione ebraici statunitensi capaci di influenzare il Congresso statunitense.

L’Europa tra politiche estere nazionali e prove generali di “diplomazia comune”

Alla luce della posizione comune elaborata dai Paesi della CEE in quel periodo – la quale affermava che il conflitto andava risolto nell’ambito e secondo i principi dell’ONU – si può

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quanto tale. Dal punto di vista israeliano, il coinvolgimento europeo nel conflitto presentava tre problemi: primo, la posizione comune europea era troppo appiattita sulle posizioni dell’ONU e di conseguenza troppo filo-araba; secondo, essa era troppo vincolata al testo delle norme internazionali per poter proporre soluzioni veramente efficaci all’atto pratico; terzo e più importante di tutto, la CEE non possedeva meccanismi decisionali adeguati a garantire l’attuazione concreta dei principi enunciati nella posizione comune europea. Quest’ultimo punto mette in evidenza la debolezza intrinseca della diplomazia comune europea, la quale prima ancora di poter proporre soluzioni concreti per i problemi esterni (ad es. il conflitto arabo-israeliano) doveva innanzitutto proporre soluzioni alle divergenze tra le politiche estere nazionali dei Paesi europei. In sostanza, la stessa adozione di una “posizione comune” europea a livello di principio era già di per sé un risultato difficile da ottenere.

La posizione comune europea dovette giocoforza nascere come la sintesi – o meglio il

“minimo comune denominatore” – delle politiche estere dei tre Paesi europei tradizionalmente coinvolti in Medio Oriente, ossia Germania Ovest, Francia e Regno Unito.

In quegli anni la Germania Ovest doveva scontare l’eredità del suo passato nazista e riabilitare la sua immagine internazionale: ciò la spingeva ad un sostegno “obbligato” nei confronti di Israele, al punto che da evitare qualsiasi critica palese contro le politiche israeliane. La Francia, invece, sosteneva pesantemente il capo dell’OLP, Yasser Arafat, ed era particolarmente sensibile alle posizioni e alle rivendicazioni arabe. Il Regno Unito (e anche l’Olanda) erano invece più sensibili alle tesi israeliane.

Al di là degli esiti modesti ottenuti nell’avanzare il processo di pace, il dato forse più rilevante è quindi che il conflitto arabo-israeliano fornì ai Paesi della CEE lo spunto per consultarsi e coordinarsi su un tema di politica estera e per adottare una posizione comune coerente che sarà poi mantenuta nel tempo. Come si è detto in precedenza, il conflitto permise l’elaborazione e il primo collaudo di una posizione comune europea in materia di politica estera.

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La politica europea mediorientale durante il processo di Oslo

La conferenza di Madrid del 1991

La fine della Guerra Fredda e la dissoluzione dell’Unione Sovietica tra il 1989 e il 1991 ebbero un impatto anche sul conflitto arabo-israeliano. Una volta venuta meno l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti diventarono l’attore esterno più influente sul conflitto mediorientale mentre il mondo arabo – e in particolare l’OLP – persero un sostegno importante. In aggiunta, all’inizio degli anni ’90 si registrò anche un peggioramento delle relazioni tra i Paesi arabi e l’OLP a causa del sostegno espresso da Yasser Arafat al regime iracheno di Saddam Hussein all’indomani dell’invasione il Kuwait dell’agosto 1990: per rappresaglia, il mondo arabo interruppe il sostegno economico e politico che fino a quel momento aveva fornito all’OLP di Arafat. Tutto ciò accadeva in momento particolarmente delicato a causa della recrudescenza della violenza tra Israeliani e Palestinesi conseguente allo scoppio della prima intifada nel 1987, la quale durerà fino al 1993.

Il fronte arabo si presentò così alla Conferenza di Madrid nel 1991 diviso e privo del contrappeso rappresentato dallo sponsor sovietico ad affrontare Israele, la cui alleanza con gli Stati Uniti godeva invece di ottima salute. Inoltre, in quegli anni l’Unione Sovietica stava adottando un approccio più conciliatorio sia verso Israele sia verso gli Stati Uniti.

La Conferenza di Madrid segnò l’inizio di una serie di negoziati di pace arabo-israeliani tutt’ora in corso d’opera e che peraltro continuano a non produrre risultati concreti. La conferenza fu co-promossa dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica e celebrata a Madrid tra il 30 ottobre e il 1° novembre 1991. Le delegazioni invitate a livello ministeriale comprendevano tre gruppi di partecipanti, ossia i co-promotori (Stati Uniti e Unione Sovietica), le parti nei negoziati di pace (Israele, Libano, Siria, Giordana e i Palestinesi, laddove quest’ultimi erano inseriti all’interno della delegazione giordana) e gli osservatori (la delegazione della CEE, la delegazione egiziana e il primo ministro spagnolo Felipe González, ospite della conferenza). La delegazione palestinese era composta da esponenti dei territori palestinesi estranei all’OLP, dato che Israele rifiutava formalmente di trattare con i membri di una organizzazione che riteneva “terroristica”, ma che comunque

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erano di fatto in contatto con l’OLP. Il “processo di Madrid” enunciato dalla lettera d’invito alla conferenza era strutturato in tre parti fondamentali ossia:

1) una conferenza plenaria la quale non aveva il potere di imporre soluzioni alle parti del conflitto arabo-israeliano, celebrata tra il 30 ottobre e il 1° novembre;

2) l’avvio il 3 novembre di quattro negoziati bilaterali e paralleli rispettivamente tra Israele e Giordania, Israele e Siria, Israele e Libano, e Israele e i Palestinesi, questi ultimi per l’istituzione di un’amministrazione autonoma palestinese provvisoria destinata a durare 5 anni, a cui sarebbe seguito un accordo sullo status permanente del conflitto;

3) negoziati multilaterali con il coinvolgimento anche degli Stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) su questioni di interesse regionale quali le risorse idriche, l’ambiente, il controllo degli armamenti, i rifugiati e lo sviluppo economico, effettivamente avviati nel gennaio 1992 a Mosca.

La novità più rilevante introdotta dal processo di Madrid rispetto alle iniziative del passato fu la formula dei negoziati bilaterali diretti tra Israele e i Paesi arabi, laddove in passato erano state utilizzate la formula di Rodi (negoziati indiretti mediante un mediatore, in cui Israele e Paesi arabi non avevano contatti diretti) o la formula della conferenza generale (in cui tutte le parti del conflitto partecipavano simultaneamente, ma finivano per prevalere le prese di posizione retoriche rispetto ai negoziati pragmatici sulle singole questioni). I negoziati multilaterali, il cui obiettivo era affrontare i problemi futuri del Medio Oriente, furono svolti fino al 2000 e successivamente furono abbandonati.

Dei quattro negoziati bilaterali avviati, solo quello tra Israele e Giordania si concluse con la firma di un accordo di pace nel 1994, il quale pose fine allo stato di guerra tra i due Stati e avviò la normalizzazione delle relazioni politiche ed economiche. Per quanto riguarda gli altri tre negoziati, solo quello tra Israele e i Palestinesi ha compiuto progressi, ma di fatto non ha ancora risolto il conflitto ed è attualmente in una fase di stallo.

In ogni caso, la formula di Madrid (negoziati bilaterali) rimane ancora quella di riferimento nei negoziati di pace arabo-israeliani. Lo sfaldamento del fronte arabo e l’avvio di negoziati bilaterali, nei quali Israele poteva meglio far valere la sua posizione di forza rispetto alla controparte, riflettevano la fine del sostegno sovietico alla causa araba e l’inizio di una nuova fase in cui l’Unione Sovietica prima e la Russia poi si avvicineranno sempre di più ad Israele, complice anche l’aumento dei membri della comunità di origine russa in Israele dopo il 1991 (attualmente di oltre 1 milioni di persone, ossia circa il 20% della popolazione israeliana totale, pari a circa 7.000.000 di persone). A testimonianza di questo

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nuovo approccio russo, nell’ottobre del 1991 l’Unione Sovietica (che nel gennaio 1992 diventò la Federazione Russa) ristabilì le relazioni diplomatiche con Israele, le quali erano state interrotte dai sovietici nel 1967.

Gli accordi di Oslo e la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese

I negoziati israelo-palestinesi furono avviati a Washington nel novembre 1991, subito dopo la fine della conferenza di Madrid, e coinvolsero Israele e una delegazione palestinese estranea all’OLP, la quale faceva de facto riferimento ai vertici dell’OLP a Tunisi. Dato che la delegazione palestinese non aveva la capacità di assumere impegni nei confronti degli Israeliani, i negoziati non fecero progressi. La situazione si sbloccò nel gennaio 1993, quando iniziarono una serie di incontri segreti tra una delegazione israeliana ed esponenti dell’OLP ad Oslo, i quali preparano le clausole degli accordi di Oslo. In queste sede vale la pena evidenziare due caratteristiche degli accordi di Oslo: la prima era che la disponibilità palestinese a negoziare derivava probabilmente dalla fine del sostegno sovietico; l’OLP era probabilmente consapevole che a quel punto le conveniva negoziare con Israele (la posizione di debolezza dell’OLP era testimoniata dal fatto che non era stata invitata a Madrid); la seconda è che la formula del negoziato bilaterale diretto avvantaggiava la controparte più forte, ossia Israele.

Gli accordi di Oslo furono preceduti da uno scambio di lettere del 9 settembre 1993 tra il capo dell’OLP Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhack Rabin. Nella lettera Arafat accettava le richieste israeliane in quanto (1) riconosceva il diritto di esistere di Israele, rinunciando così all’obiettivo della sua distruzione, (2) abbandonava l’uso del terrorismo e degli altri tipi di violenza contro Israele e assumeva l’impegno a controllare i miliziani palestinesi, (3) accettava formalmente, per la prima volta, le risoluzioni UNSC 242 e 338 e (4) accettava di avviare negoziati di pace con Israele. Il primo ministro Rabin nella sua lettera di risposta, alla luce degli impegni assunti da Arafat, riconosceva l’OLP quale rappresentante del popolo palestinese (così come avevano fatto gli Stati arabi nel vertice di Rabat del 1974) e accettava di negoziare con essa.

Il 13 settembre successivo, Israele e l’OLP firmarono la Dichiarazioni di Principi (DoP) la quale prevedeva l’istituzione di un’amministrazione palestinese provvisoria nella Striscia di Gaza e a Gerico per un periodo di cinque anni (fino al 1997), rimandando i negoziati sulle

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questioni fondamentali del conflitto (lo status di Gerusalemme, il diritto di ritorno dei rifugiati, gli insediamenti, la sicurezza e i confini) a negoziati successivi.

La nascita della Politica Estera e di Sicurezza Comune dell’Unione Europea (1993)

Mentre Israeliani e Palestinesi si avvicinavano ai negoziati segreti di Oslo, i Paesi europei si preparavano a loro volta a compiere un salto qualitativo nell’integrazione europea, che fino a quel momento aveva riguardato il livello commerciale ed economico sulla base di una approccio “funzionale” all’integrazione. In base a tale approccio, gli Stati dell’allora Comunità Economica Europea avevano aumentato la loro integrazione economica (soprattutto nel settore agricolo e commerciale) confidando che l’integrazione sarebbe

“debordata” in seguito in un’integrazione politica. Il 7 febbraio 1992 i 12 Paesi membri della CEE, tra cui l’Italia, firmarono il Trattato sull’Unione Europea (TUE) che trasformava la CEE in Comunità Europea (CE) e dava vita ad un’unione politica chiamata

“Unione Europea”, il quale entrò formalmente in vigore il 1° novembre 1993. La neonata Unione comprendeva tre pilastri, di cui il primo – la CE – di natura economica in cui l’integrazione era più spinta e prevedeva meccanismi decisionali comuni (come il voto a maggioranza qualificata che imponeva le decisioni UE agli Stati europei in minoranza), mentre gli altri due – la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e la cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale – si configuravano come meccanismi di cooperazione intergovernativi in cui le decisioni erano adottate all’unanimità. Ai fini della presente ricerca, lo sviluppo più importante era l’istituzione della PESC la quale istituzionalizzava per la prima volta la CPE sviluppatasi a partire dagli anni ’70.

La PESC nacque più o meno contestualmente con gli accordi di Oslo e il processo di pace israelo-palestinese lanciato ad Oslo divenne così uno dei suoi primi banchi di prova; allo stesso modo della CPE, la PESC si affiancava alla politica estera nazionale degli Stati europei coinvolti nel processo di pace, con il risultato che gli interessi nazionali europei non sempre confluivano in essa soprattutto per quanto riguardava la cooperazione in materia di sicurezza e intelligence.

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L’istituzione del Comitato di Collegamento ad hoc e il sostegno dell’UE al processo di pace

Gli accordi di Oslo ottennero il sostegno politico ed economico della comunità internazionale, e dell’UE in particolare. Il 1° ottobre 1993 i rappresentanti di oltre 40 Paesi donatori e istituzioni internazionali partecipano alla “Conferenza a sostegno della pace in Medio Oriente” (Conference to Support Peace in the Middle East) tenuta a Washington, la quale si concluse con due risultati rilevanti: dal punto di vista economico, furono promessi $2,4 miliardi in 5 anni a sostegno della nascente amministrazione autonoma palestinese e del processo di pace; dal punto di vista politico, fu nominato un comitato di coordinamento politico di alto livello nell’ambito dei negoziati multilaterali arabo-israeliani, il quale il 5 novembre fu annunciato al mondo con il nome di “Comitato di Collegamento ad hoc” o AHLC (Ad Hoc Liaison Committee).

Da quel momento in avanti, l’AHLC divenne il meccanismo dei donatori di più alto livello, una sorta di “comitato direttivo” responsabile per l’adozione degli indirizzi politici generali e delle politiche dei donatori a sostegno del processo di pace. Esso era composto dai principali donatori internazionali, tra cui gli Stati Uniti, la Russia, l’UE (nata formalmente il 1° novembre), il Giappone, il Canada, la Norvegia e l’Arabia Saudita, mentre la Banca Mondiale fungeva da segretariato. Vi partecipavano inoltre con il ruolo di

“membro associato” Israele, l’OLP, l’Egitto, la Giordania, la Tunisia e le Nazioni Unite.

Detto in altri termini, l’AHLC divenne il principale meccanismo di coordinamento del sostegno politico ed economico al processo di pace a cui partecipavano l’UE e – nell’ambito dell’UE – anche l’Italia.

La Conferenza di Washington del 1993 segnò un’intensificazione del sostegno economico del mondo occidentale ai Territori Palestinesi Occupati, trasformandoli in una delle aree del mondo a più alta intensità di aiuti pubblici stranieri. La comunità internazionale guidata dagli Stati Uniti sosteneva ufficialmente che l’aiuto economico era fondamentale perché (1) manifestava la sua volontà politica di sostenere il processo di pace israelo-palestinese, (2) in seguito alla guerra del Golfo, i Paesi arabi del Golfo avevano interrotto il sostegno economico all’OLP e lo avevano diretto ai movimenti islamisti, tra cui Hamas e (3) si riteneva che il miglioramento delle condizioni economiche dei Palestinesi avrebbe aumentato le possibilità di successo dell’esperimento di autogoverno palestinese inaugurato con gli accordi di Oslo.

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Considerato che al tempo il conflitto israelo-palestinese riguardava – e riguarda – un’area del mondo di dimensioni ridotte (poco più di 28.000 km2), abitata da circa 7,2 milioni di abitanti (oltre 5 milioni di Israeliani e 2,2 milioni di Palestinesi, oggi saliti rispettivamente a quasi 7 milioni e 3,9 milioni) e priva di risorse energetiche strategiche, ci si potrebbe chiedere il motivo di tanto interesse da parte della comunità internazionale verso di esso.

La spiegazione più convincente sembra essere che i Territori Palestinesi erano – e sono – aree in cui la fornitura di sostegno economico restituisce un enorme ritorno politico ai Paesi donatori in termini sia di immagine sia di coinvolgimento nella regione. Partendo da tale presupposto, va notato che l’aumento dell’interesse e del sostegno occidentale all’OLP giungeva in un momento (il 1993) in cui quest’ultima aveva perso sia il sostegno strategico sovietico (la Russia, erede dell’Unione Sovietica, si stava avvicinando ad Israele) sia il sostegno economico dei Paesi arabi. Questi ultimi infatti volevano punire Arafat per aver preso le parti del regime iracheno di Saddam Hussein, colpevole di aver invaso il Kuwait. In conseguenza del venire meno dei finanziamenti dal mondo arabo e del contestuale aumento dei finanziamenti dal mondo occidentale, l’OLP diventava fortemente dipendente dagli aiuti economici provenienti da un gruppo di Paesi donatori guidato dagli Stati Uniti e decisamente filo-israeliano. Ciò aumentava notevolmente il potere di influenza statunitense nei confronti dell’OLP e di conseguenza il potere degli Stati Uniti di spingere i Palestinesi a fare concessioni in vista dell’accordo di pace. Tale sviluppo aumentava ancor di più l’importanza degli Stati Uniti agli occhi di Israele, rafforzando una tendenza già emersa durante la Guerra Fredda, come evidenziato in precedenza.

Le divergenze tra Stati Uniti ed UE all’interno del gruppo dei donatori

Sin dal 1993, il rapporto tra Stati Uniti ed Unione Europea all’interno della comunità dei donatori sembra essere stato di rivalità reciproca, senza peraltro mettere in discussione l’Alleanza Transatlantica, a causa della volontà di entrambi di assumere la guida dell’aiuto internazionale ai Palestinesi, peraltro sulla base di motivazioni differenti.

Sembra che gli Stati Uniti nutrissero un forte senso di “paternità” nei confronti del processo di pace israelo-palestinese e, sebbene non potevano ignorare le rivendicazioni del principale sostenitore economico dei Palestinesi (ossia l’UE), cercavano comunque di mantenere la guida del processo. L’Unione Europea sembrava invece voler utilizzare il

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suo status di principale finanziatore dei Palestinesi al fine di ottenere il massimo vantaggio politico possibile in termini di immagine internazionale e di influenza sul processo di pace;

inoltre, come già evidenziato, il sostegno al processo di pace rappresentava un primo collaudo della PESC e l’eventuale conclusione dell’accordo di pace (in realtà mai firmato) poteva rappresentare un primo successo della politica estera comune.

Un primo conflitto riguardò la presidenza del neo-formato AHLC, in quanto sembra fosse ambita sia dagli Stati Uniti sia dall’UE. Dato che Stati Uniti ed Unione Europea si bloccavano reciprocamente le rispettive candidature, alla fine la presidenza fu attribuita alla Norvegia prima in via provvisoria e poi in via definitiva: la Norvegia sembrava rappresentare un compromesso accettabile per gli stati Uniti dato che era un Paese europeo esterno all’UE e decisamente filo-statunitense.

Un secondo conflitto riguardò l’organizzazione multilaterale che doveva coordinare le attività dei Paesi donatori a sostegno dei Palestinesi: gli Stati Uniti volevano affidare tale compito alla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (IBRD) mentre l’UE voleva che il ruolo guida spettasse all’ONU in quanto la Banca Mondiale (di cui l’IRBD è una delle cinque agenzie) era considerato troppo filo-statunitense. Questi conflitti emergeranno ad esempio nel 1994, quando la Francia ed altri Paesi UE chiesero la rimozione della presidenza norvegese o una co-presidenza Norvegia-UE dell’AHLC, al fine di aumentare l’influenza e la visibilità dell’UE nel processo di pace israelo-palestinese. La Francia lamentava che l’inerzia norvegese aveva permesso agli Stati Uniti e alla Banca Mondiale di assumere il ruolo di guida nella gestione del sostegno internazionale, mettendo in secondo piano l’Unione Europea.

La politica europea in Medio Oriente degli anni ’90 e il fallimento dei negoziati di Oslo

Gli accordi di Oslo del 1993 avevano previsto l’istituzione di una amministrazione autonoma palestinese provvisoria per durata di 5 anni, al termine della quale si sarebbe dovuto concludere nel 1999 un accordo sullo status permanente che risolvesse tutte le questioni fondamentali del conflitto (Gerusalemme, profughi palestinesi, confini, sicurezza e insediamenti, a cui andrebbe aggiunta anche la questione dello sfruttamento delle risorse idriche). Di conseguenza il 4 maggio Israele e OLP firmarono al Cairo l’ “Accordo sulla Striscia di Gaza e l’area di Gerico” e il 18 maggio successivo i Palestinesi assunsero

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presidente della Commissione Europea Manuel Morin avevano firmato a Tunisi due documenti che prevedevano il sostegno economico dell’UE sia alle forze di polizia palestinesi (10 milioni di ECU) sia alla preparazione delle elezioni palestinesi (1,8 milioni di ECU), che furono poi celebrate il 20 gennaio 1996: le elezioni del 1996 elessero sia il primo presidente palestinese (Yasser Arafat) sia il primo Consiglio Legislativo Palestinese (formato da 88 seggi, di cui 55 furono vinti da Fatah, la fazione maggioritaria dell’OLP guidata dallo stesso Arafat). Da quel momento e fino allo scoppio della seconda intifada nel 2000, l’UE e i suoi Paesi membri divennero il principale finanziatore economico dell’ANP. Verso la fine degli anni ’90, l’ottimismo generale che aveva permeato gli anni successivi agli accordi di Oslo era svanito e le relazioni israelo-palestinesi erano nuovamente deteriorate: nel 1999 si percepiva ormai che l’accordo sullo status permanente non sarebbe stato firmato secondo le scadenze previste e che l’autogoverno provvisorio palestinese sarebbe durato oltre i 5 anni inizialmente previsti. In questo periodo, i Paesi europei elaborarono ulteriormente la loro posizione comune in ambito PESC sul conflitto con la dichiarazione di Berlino del 24 marzo 1999, con la quale l’Unione Europea sostenne per la prima volta che “la creazione di uno Stato palestinese sovrano, pacifico, vitale e democratico fondato sugli accordi esistenti e sui negoziati è la migliore garanzia per la sicurezza di Israele e per l’accettazione di Israele come un partner paritario nella regione” (corsivo aggiunto). I Paesi UE introducevano così per la prima volta nel processo di pace il concetto che uno Stato palestinese “democratico” è lo collegavano direttamente alla sicurezza israeliana.

Il 19 giugno del 2000, pochi mesi prima dello scoppio della seconda intifada, il Consiglio Europeo riunito a Feira adottò la “Strategia Comune sulla regione del Mediterraneo” nella quale ribadì il ruolo attivo dell’UE nel raggiungimento di una soluzione giusta e duratura al conflitto arabo-israeliano. Il ruolo previsto per l’UE coinvolgeva quattro aspetti, ossia (1) mettere a disposizione delle parti del conflitto le proprie competenze, le proprie idee e i propri buoni uffici per agevolare la firma di accordi di pace bilaterali, (2) promuovere i progressi dei negoziati multilaterali lanciati a Madrid nel 1991, (3) una volta firmato l’accordo di pace complessivo, partecipare all’attuazione degli accordi di sicurezza tra le parti e (4) sostenere la cooperazione economica regionale e l’espansione dei commerci nella regione. In assenza di progressi dei negoziati bilaterali (Israele-Palestinesi, Israele- Siria e Israele-Libano) e si quelli multilaterali lanciati a Madrid nel 1991, la strategia europea sembra aver trovato attuazione soprattutto relativamente ai punti nn. 2 e 4.

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Il Quartetto e la Roadmap

Con l’avvio della seconda intifada (settembre 2000-marzo 2005), il processo di pace subì una nuova battuta d’arresto e lasciò spazio ad una nuova ondata di violenza tra Israeliani e Palestinesi che durò quasi 5 anni. In quegli anni, le prospettive di successo dei negoziati arabo-israeliani diventarono nulle e si registrò invece una regressione dell’esperimento dell’autogoverno palestinese ai livelli precedenti al 1993 causati da diversi fattori concomitanti.

Il primo fattore fu l’avvio della “guerra al terrore” da parte degli Stati Uniti in conseguenza degli attentati di New York dell’11 settembre 2001, che negli anni ’90 erano stati il principale agevolatore del processo di pace. L’Amministrazione di George W. Bush si pose alla guida di una campagna internazionale ideologica e militare contro il terrorismo internazionale promosso da al-Qa‘ida, il cui motto statunitense era “o si è con noi o si è contro di noi”. Nella concezione della “guerra al terrore” statunitense non vi era spazio per le guide politiche che sostenevano in qualsiasi modo il terrorismo: non era ammesso nemmeno il sostegno verbale o la compiacenza verso le motivazioni politiche alla base delle azioni terroristiche dirette contro gli Stati Uniti o i loro connazionali all’estero. Una delle vittime del nuovo approccio dell’Amministrazione Bush fu proprio Yasser Arafat, ossia la persona che negli accordi di Oslo del 1993 era stata riconosciuta quale partner nei negoziati di pace da parte del governo israeliano di Rabin. Con il discorso del 24 giugno 2002, l’allora presidente Bush esortò ufficialmente l’emergere di una nuova dirigenza politica palestinese che fosse estranea al terrorismo, rifiutando ogni ulteriore dialogo con Arafat e con la dirigenza palestinese in carica ritenuta responsabile. Dal punto di vista dell’Amministrazione Bush, Yasser Arafat si poneva evidentemente tra coloro che erano

“contro” gli Stati Uniti nella guerra al terrorismo.

Il secondo fattore, conseguenza diretta del primo, fu la politica israeliana nei confronti dei Palestinesi, la quale determinò tra il 2001 e il 2004 lo smantellamento delle infrastrutture dell’ANP nei Territori Palestinesi che erano state costruite a partire dal 1994 grazie anche ai finanziamenti europei. L’enfasi statunitense sulla guerra al terrore, il rifiuto del dialogo con Arafat perché ritenuto responsabile della nuova ondata di attacchi palestinesi contro Israele e il disimpegno statunitense dal processo di pace lasciarono carta bianca al governo israeliano nei confronti dei Palestinesi. Dopo il fallimento dei negoziati sulla

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Sharon tornò al potere nel 2001 ponendosi alla guida di un governo di unità nazionale insieme ai Laburisti. Il Likud aveva sempre propugnato una politica più intransigente contraria ad ulteriori concessioni nei confronti dei Palestinesi, un approccio simbolicamente rappresentato dalla passeggiata di Ariel Sharon nella spianata delle moschee la quale fece infuriare i Palestinesi e scatenò per reazione la seconda intifada.

Israele si trovò così ad affrontare la seconda intifada in una posizione di forza e senza ostacoli da parte degli Stati Uniti. Tra il 2001 e il 2004 Israele reagì all’intifada inviando le IDF nei Territori Palestinesi, le quali posero sotto assedio la sede del presidente Arafat (la Muqata) impedendogli di governare e smantellarono sistematicamente le istituzioni dell’ANP costruite nel decennio precedente. Detto in breve, l’azione israeliana azzerò buona parte dei progressi compiuti dai Palestinesi a partire dal 1993 nella costruzione dell’ANP.

Nel contesto generale di una recrudescenza del conflitto israelo-palestinese e del disimpegno statunitense dal processo di pace, l’Unione Europea fornì un nuovo e originale contributo di pensiero proponendo la formula dei “due Stati”, la quale prevede una soluzione finale basata su due Stati, uno israeliano e uno palestinese, conviventi l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza tra loro.

La formula dei due Stati sarà accettata anche dall’Amministrazione Bush e diventerà la pietra angolare degli sforzi per la pace del Quartetto per il Medio Oriente, ossia il gruppo formato nel 2002 da Unione Europea, Stati Uniti, Russia e Nazioni Unite per promuovere l’iniziativa di pace in Medio Oriente. La soluzione dei “due Stati” venne ufficialmente adottata dal Quartetto nella Roadmap dell’aprile 2003, la quale prevedeva una tabella di marcia per la firma dell’accordo di pace e l’istituzione di uno Stato Palestinese entro la fine del 2005, una scadenza che non fu poi rispettata. Nonostante ciò, il mancato rispetto delle scadenze previste non decretò la fine della Roadmap, la quale rimane tutt’ora il documento di riferimento degli sforzi di pace europei ed internazionali in Medio Oriente, sebbene con scadenza diverse da quelle inizialmente previste. Anzi, per ora senza una scadenza precisa per la firma dell’accordo di pace data l’ennesima fase di stallo del processo di pace in atto nel momento in cui scrivo.

La Roadmap prevedeva un processo in tre fasi in cui il passaggio da una fase alla successiva dipendeva dall’attuazione da parte di Israeliani e Palestinesi degli obblighi reciproci in essa previsti. La prima fase chiedeva agli Israeliani di congelare le attività di costruzione degli insediamenti e di evitare l’avvio di nuovi progetti di costruzione nei

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Territori Palestinesi; ai Palestinesi chiedeva la cessazione immediata della violenza anti- israeliana e lo smantellamento delle strutture palestinesi responsabili degli attacchi contro Israele, in particolare le milizie e i gruppi esterni alle Forze di Palestinesi previste dagli accordi di Oslo. La seconda fase prevedeva l’istituzione di uno Stato palestinese indipendente con attributi di sovranità e con frontiere provvisorie, fondato sulla nuova costituzione, quale fase transitoria verso una soluzione definitiva del conflitto. La terza e ultima fase si doveva concludere con la firma di un accordo di pace che risolvesse tutte le questioni fondamentali del conflitto (Gerusalemme, profughi palestinesi, insediamenti israeliani, confini, sicurezza e risorse idriche) e con la dichiarazione della nascita dello Stato palestinese. Mentre scrivo, la Roadmap continua a segnare la tabella di marcia degli sforzi di pace anche se con scadenza non definibili.

Qualche mese dopo l’adozione della Roadmap, l’UE ribadiva tanto l’importanza di giungere alla soluzione del conflitto arabo-israeliano quanto il suo impegno a tal fine nella Strategia di Sicurezza Europea, la quale recitava:

“La soluzione del conflitto arabo-israeliano è una priorità strategica per l’Europa.

Senza di essa, vi sono scarse probabilità di risolvere gli altri problemi del Medio Oriente.

L’Unione Europea deve rimanere coinvolta e pronta ad impegnare risorse fintantoché il problema non sarà risolto. La soluzione a due Stati – che l’Europa sostiene da tempo – è ormai largamente accettata. La sua attuazione richiederà uno sforzo unitario e cooperativo dell’Unione Europea, degli Stati Uniti, delle Nazioni Unite e della Russia, degli altri Paesi della regione, e soprattutto degli Israeliani e dei Palestinesi”.

La soluzione del conflitto diventò così un imperativo anche dal punto di vista della sicurezza europea. La sua importanza per le relazioni esterne e di sicurezza dell’UE fu ribadita nel marzo 2004 con il Rapporto provvisorio sulla “Partnership strategica UE nel Mediterraneo e in Medio Oriente” del Consiglio dell’UE. La Roadmap si concentra sul processo di pace israelo-palestinese, nell’apparente presupposto che la sua soluzione è necessaria per progredire anche nei negoziati di pace tra Israele e Siria e in quelli tra Israele e Libano.

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L’azione dell’Unione Europea a sostegno del processo di pace

Nella prima parte del lavoro si è cercato di ricostruire la posizione di principio dell’Unione Europea riguardo al conflitto arabo-israeliano, ripercorrendo le tappe della formazione della PESC. In questa seconda parte si cercherà di analizzare le azioni concrete che hanno sostenuto la posizione comune europeo elaborata in seno alla PESC.

L’azione europea a livello politico

La politica estera europea nei confronti del processo di pace è rappresentata dal Segretario Generale del Consiglio/Alto Rappresentante della Politica Estera e di Sicurezza Comune dell’UE, una carica istituita il 1° maggio 1999 con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam: dal 1999 essa è ricoperta da Javier Solana. L’Alto Rappresentante UE è il

“volto” e la “voce” della PESC e contribuisce ad elaborare la politica estera comune con Consiglio dei Ministri UE, l’organo decisionale dell’UE in materia di politica estera. Dal 1993 ad oggi l’UE ha adottato diverse posizioni comuni nell’ambito della PESC sulla base dei principi esposti in precedenza e nel 1996 ha istituito la carica di Rappresentante Speciale dell’Unione Europea per il processo di pace in Medio Oriente (European Union Special Representative, EUSR), inizialmente affidata a Miguél Angel Moratinos e dal 2003 all’Ambasciatore Marc Otte (nominato con l’azione comune 2003/537/CFSP del 21 luglio 2003 adottata dal Consiglio UE). La funzione del Rappresentante Speciale UE è stata quella di garantire la presenza e la visibilità dell’UE in Medio Oriente e promuovere l’azione politica europea esponendo le posizioni, le proposte e le garanzie europee alle parti coinvolte nel processo di pace mediorientale.

Un secondo settore di attività è stato quello del monitoraggio elettorale: gli osservatori dell’UE hanno monitorato sia le elezioni del 1996 sia quelle del 2005-2006.

L’azione UE in questi ambiti ha fornito un contributo al miglioramento degli standard del processo elettorale palestinese, ma non sembra essere stata particolarmente incisiva.

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Il sostegno economico dell’UE al processo di pace

Il sostegno economico ai Palestinesi

L’azione più consistente e visibile dell’UE è avvenuta in campo economico, se si pondera che l’UE e i suoi Stati membri sono nel complesso i principali finanziatori dei Palestinesi.

Storicamente, l’allora Comunità Economica Europea iniziò a finanziare i Palestinesi nel 1971 con fondi diretti all’UNRWA; a partire dal novembre del 1993, l’UE e i suoi Stati membri partecipano attivamente all’AHLC, il Comitato che coordina l’assistenza dei donatori internazionali verso i Palestinesi. Alcune stime indicano che tra il 1994 e il 2005 il totale del sostegno di bilancio erogato dall’UE e dai suoi singoli Stati membri all’ANP ammonterebbe ad almeno € 2.058 milioni mentre il sostegno all’UNRWA ammonterebbe a circa il 57% del bilancio dall’agenzia ONU. L’entità delle cifre risulta più evidente se si considera che l’aiuto internazionale dei donatori ai Palestinesi in qual periodo si aggirerebbe intorno ai € 3.100 milioni. Bisogna premettere che tali cifre sono probabilmente errate per difetto, dato che è molto difficile stabilire con esattezza l’entità degli aiuti internazionali ai Palestinesi dal 1994 ad oggi. Secondo le cifre comunicate dalla Commissione Europea, tra il 2000 e il 2008, l’UE avrebbe fornito assistenza al popolo palestinese per un totale di € 2.916,49 milioni: per il 2009 sono previsti aiuti per 439,9 milioni, che porterebbero il totale a € 3356,39 milioni. Sembra comunque indiscutibile che l’UE e i suoi Paesi membri sono stati il principale finanziatore dell’ANP e dei Palestinesi nel loro complesso.

L’assistenza internazionale ha seguito due canali principali, ossia il finanziamento diretto del bilancio dell’ANP (il c.d. sostegno al bilancio) e il finanziamento dei bisogni umanitari dei Palestinesi diretto all’UNRWA e alle ONG che assistono i Palestinesi, nonché ad altri canali privati.

Bisogna poi distinguere tra due periodi distinti: nella prima fase, che va dal 1994 al 2000, l’assistenza europea riguardava soprattutto aiuti allo sviluppo in generale; con lo scoppio della seconda intifada nel 2000, l’UE ha fornito soprattutto sostegno al bilancio dell’ANP.

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Va inoltre notato che nel periodo dell’intifada molte delle infrastrutture finanziate dalla UE sono state distrutte dall’azione israeliana.

La cooperazione europea con Israele

Le relazioni economiche con Israele sono sempre state su un piano diverso rispetto ai Palestinesi, dato che Israele è considerato uno Stato democratico avanzato sotto il profilo economico e tecnologico (sebbene fortemente sovvenzionata dagli Stati Uniti, soprattutto nel settore della difesa: per citare l’ultimo esempio, nel 2007 l’Amministrazione Bush si è impegnata a fornire ad Israele $ 3 miliardi l’anno per 10 anni). Le basi giuridiche per le relazioni tra Israele ed UE sono contenute nell’accordo di associazione firmato nel 1995, poi entrato in vigore nel 2000. Esso non è un semplice accordo di libero scambio dato che prevede oltre alla la libera circolazione delle merci e dei capitali anche un dialogo politico regolare, l’intensificazione della cooperazione economica, tecnica, scientifica e sociale e la promozione della cooperazione in tutti gli altri settori di interesse comune. Israele partecipa inoltre al Partenariato Euro-Mediterraneo sin dalla sua istituzione, avvenuta anch’essa nel 1995. A partire dal novembre del 2003 Israele ha inoltre reagito positivamente alla sua inclusione nell’area d’applicazione geografica della Politica di Vicinato Europea (European Neighbourhood Policy o ENP) – la quale prevede l’instaurazione di una relazione privilegiata con l’UE per quei Paesi che ne condividono i valori di democrazia, rispetto dei diritti umani, Stato di diritto, buongoverno, economia di mercato e sviluppo sostenibile – ed ha dimostrato interesse a migliorare le proprie relazioni con l’UE; nel 2004, Israele e la Commissione Europea hanno firmato l’accordo che prevede la partecipazione israeliana al programma satellitare “Galileo”.

Nonostante l’impostazione quasi paritaria delle relazioni tra UE ed Israele, nel 2007 Israele per la prima volta ha avuto accesso a € 14 milioni di fondi UE in tre anni (fino al 2010) nell’ambito della Politica di Vicinato al fine di allineare le imprese e la legislazione israeliane agli standard europei.

Più in generale, l’UE è il principale partner economico di Israele dato che l’interscambio totale UE-Israele è stato di almeno € 25 miliardi nel 2008. Dal punto di vista dell’UE-27 (espressione che indica tutti i 27 Paesi UE), nel 2008 Israele era al 27°

posto nella scala dei principali partner commerciali con lo 0,9% dell’interscambio totale UE-27 (pari ad oltre € 2.861 miliardi). Dal punto di vista israeliano, l’UE-27 è il primo

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partner commerciale di Israele nel mondo dato che l’interscambio con l’UE-27 ha rappresentato tra il 29% e il 32% dell’interscambio totale israeliano con il mondo nel 2008 (pari a oltre € 85 miliardi).

Implicazioni del sostegno economico europeo al processo di pace

Le situazioni descritte nei paragrafi precedenti evidenziano che le relazioni economiche dell’UE con le controparti del conflitto israelo-palestinese sono decisamente differenziate.

Nel caso delle relazioni economiche tra l’UE e i Palestinesi, esse sono caratterizzate dal sostegno UE ai Palestinesi sia sottoforma di sostegno di bilancio a favore delle le istituzioni dell’l’ANP sia sottoforma di aiuti umanitari alla popolazione palestinese. Peraltro, la circostanza che l’UE è il principale finanziatore della causa palestinese le fornisce un potenziale di influenza rilevante nei confronti della dirigenza palestinese storicamente al potere, vale a dire la guida politica di Fatah.

Nel caso delle relazioni economiche tra l’UE e Israele, Israele non dipende dal sostegno economico europeo. È però vero che a livello economico l’Europa è molto importante per Israele, molto più di quanto Israele stesso lo sia per l’Europa: sembra sensato sostenere che Israele è interessato ad accedere all’enorme mercato europeo molto più di quanto l’Europa sia interessata ad accedere al piccolo, seppure avanzato, mercato israeliano.

Questa situazione suggerisce che l’Europa possiede un potenziale d’influenza economica anche nei confronti di Israele, sebbene in modo diverso rispetto ai Palestinesi.

Va rilevato che nonostante il preponderante ruolo economico europeo rispetto agli altri attori del Quartetto (Stati Uniti, Russia e ONU), dal 1994 ad oggi l’UE non ha mai svolto un ruolo decisivo a livello politico, rimanendo in secondo piano rispetto alla guida statunitense degli sforzi internazionali di pace.

La cooperazione europea di sicurezza a sostegno del processo di pace

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