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Capitolo 2 – CENNI STORICI SULLA SCUOLA ITALIANA DAGLI ANNI 60 AD OGGI

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Capitolo 2 – CENNI STORICI SULLA SCUOLA ITALIANA DAGLI ANNI 60 AD OGGI

Agli inizi degli anni ‘60 la scuola di base, (che va dalla scuola dell’ infanzia alla scuola media), si trova immersa in svariati problemi: dal semplice riordino dell’organico, alla formazione dei docenti, al rapporto con la scuola privata.1

Il boom economico, dal 1958 in poi (al quale si accompagnano numerosi cambiamenti sia a livello sociale sia a livello politico-economico), porta con sé un forte aumento della domanda d’istruzione e di conseguenza, l’ approntamento da parte del Governo del “Piano per lo sviluppo della scuola nel decennio 1959-1969” (piano Fanfani) che però, avversato dai laici e dalla sinistra, si arena alla Camera dei deputati per rimanere lettera morta.

Il 31 dicembre 1962 abbiamo

“ […] il varo di quella che molti studiosi considerano la riforma scolastica più importante di questo dopoguerra, e una delle più rilevanti in tutta la storia della scuola italiana.” 2

1

 Cfr G.Genovesi , Storia della scuola in Italia dal Settecento ad oggi, Laterza, Bari, 1998, p 188, 189

(2)

E’ la legge n. 1859, che, come previsto dall’art. 34 della Costituzione, istituisce la scuola media statale unica come scuola di completamento dell’obbligo scolastico, impartito obbligatoriamente e gratuitamente per almeno otto anni. L’istituzione della nuova scuola media unica è una virata importante verso un sistema scolastico più democratico. Il carattere di unicità spazzava via qualsiasi altro tipo di scuola secondaria inferiore, mentre quello secondario eliminava una volta per tutte il dibattito sulla post-elementare. Era inoltre gratuita e obbligatoria per tutti gli appartenenti alla fascia di età compresa tra gli undici e i quattordici anni.3 La scuola media:

“[…] era anche il momento delle scelte per il futuro, una svolta fondamentale nella vita del giovane [...]. 4

Nessuna disciplina avrebbe potuto condizionare, nella nuova scuola media unica, le scelte successive dello studente riguardanti il suo eventuale proseguimento degli studi. Il latino, soprattutto per la necessità, a livello politico, di ottenere l’assenso alla legge della parte moderata della Democrazia Cristiana,

3 Cfr G.Cives (a cura di) , La scuola italiana dall’unità ai nostri giorni, La Nuova Italia, Scandicci, (Firenze), 1990, p 140

(3)

venne inserito, come “elementari conoscenze”, nel programma di italiano della seconda classe e come disciplina facoltativa nella terza. Questo tipo di compromesso comportava comunque la creazione di una elìte predestinata ai livelli più alti degli studi

successivi5. Bisogna arrivare al 1977, quando una delle

modifiche alla legge del 1962, abolisce definitivamente il latino dalla scuola media.6

La nascita della nuova scuola media è stata l’esito di un travaglio molto lungo e pieno di discussioni, un cammino tormentato che sarà il medesimo di tutte le riforme portate in Parlamento. Due decreti ministeriali fissarono, in seguito, programmi ed orari della nuova scuola media e le modalità di svolgimento degli esami (rispettivamente: D.L. 24 aprile 1963 e 15 ottobre 1965 ). In entrambi vi si trovavano novità che si mantenevano sullo stesso binario della riforma, sia aspetti anacronistici, come le applicazioni tecniche diverse per maschi e femmine, sia pregi come la sottolineatura del carattere di orientamento e non di

selezione degli esami.7

5  Cfr S.Santamaita,op.cit., p 154 6  Cfr. ivi, p 157

7

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La scuola media unica apriva le porte ad un processo di “scolarizzazione di massa” già iniziato in precedenza, ma reso più evidente via via che i suoi effetti si dispiegavano, testimoniando una domanda di istruzione che ai primi degli anni sessanta ormai saliva dal paese.8

I dati riferiti alle iscrizioni non danno idea però delle bocciature, dell’abbandono, del “nodo” importante che era quello della selezione: fino a quel momento l’imperativo primario era sempre stato quello di contenere la massa di allievi, e bocciare era considerato un elemento che andava “a braccetto” con l’insegnare.

“Che la funzione della scuola dell’obbligo non fosse più la selezione ma piuttosto la promozione di una comune formazione di base e l’orientamento per le scelte successive, non fu subito chiaro […]”9,

soprattutto alla maggior parte degli insegnanti: “Più della metà dei docenti, ancorati direttamente o meno all’eredità gentiliana, si dimostrarono, a un’inchiesta del 1966, violentemente contrari al carattere non selettivo della scuola media unica, cioè all’innovazione senza dubbio più importante e profonda della riforma 10.

La scuola in questo periodo ha dei nodi profondi da sciogliere, e la richiesta di ristrutturazione nasce da

8  Cfr S.Santamaita,op. cit. , p 166 9  ivi, p. 169

10

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più parti. La Lettera a una professoressa (1967) di Don Lorenzo Milani e dei ragazzi della scuola di Barbiana, per esempio, denunciava l’ esistenza di una forte selezione nella scuola dell’obbligo, costituita da bocciature, ripetenze, abbandoni ma soprattutto sottolineava il carattere sociale di questa selezione :i “Gianni”, come Don Milani chiamava i figli di operai, contadini, piccoli artigiani, che vivevano perlopiù lontani dalla città, erano assai più colpiti da questa selezione rispetto ai “Pierini”, i ragazzi appartenenti a famiglie benestanti e urbanizzate che venivano di regola promossi ogni anno. Veniva quindi denunciata la scarsa propensione del ceto insegnante ad accogliere il nuovo, l’arroccarsi nella difesa dell’istruzione come privilegio per pochi.11

La contestazione studentesca del 68 testimoniava l’entrata nella scuola di ragazzi sempre più provenienti da gruppi e ceti sociali fino a quel momento rimasti al di fuori del contesto scolastico. Ma soprattutto dimostrava che:

“[…] il passaggio da una scuola di elìte a una scuola di massa era molto più che il passaggio da un istruzione per pochi a una per molti” 12.

11 Cfr S.Santamaita, op. cit. , p 164-165 12  ivi,p 166

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Nonostante ciò i politici del tempo non seppero rispondere al movimento studentesco in maniera adeguata. I gruppi dirigenti di quel periodo, infatti, adottarono la parola d’ordine “facilitare”, sperando in un’attenuazione del conflitto, cambiando quel tanto che bastava affinchè cambiasse ben poco. Si immettono in questa ottica le uniche due misure legislative di politica scolastica di quel periodo: una leggina (L. 910/69) che dava la possibilità di accedere a qualsiasi facoltà universitaria da qualsiasi percorso secondario si provenisse, e concedeva allo studente, nella formazione del proprio piano di studi, una maggiore autonomia decisionale previa approvazione da parte della Facoltà, e un decreto [D.L. 15-2-1969, n.9] che introduceva novità per lo svolgimento dell’esame di maturità, rendendolo in pratica molto più facilmente superabile rispetto al precedente .

A parte questo dagli anni 60 in poi è tutto un susseguirsi di proposte e disegni di legge che rimangono senza seguito, soprattutto per quanto riguarda la scuola secondaria superiore, la riforma della

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quale si era imposta come problema primario dopo la nascita della scuola media unica. Nella scuola secondaria superiore vigeva ancora, con pochissime modifiche, il sistema gentiliano, oggetto di numerose critiche, tra le quali lo scarso ruolo dato all’istruzione tecnica rispetto al posto di pregio assegnato agli studi classici , la poca differenziazione esistente tra liceo classico e scientifico, il fallimento degli esami di maturità.13.

Mentre la riforma della secondaria superiore e dell’ università affrontavano dibattiti e accese discussioni in parlamento, nel corso degli anni 70 “il

nuovo sistema scolastico di massa”14 si andava

articolando e sempre maggiormente popolando, secondo una modalità che era essenzialmente spontanea e non legata a una precisa misura di politica scolastica. A riprova di questo stanno i provvedimenti che furono adottati in quel periodo e tutti i tentativi di riforma dibattuti e mai approvati.

13

 Cfr G.Cives, op.cit. , p 141 14 S.Santamaita, op. cit. , p 175

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Dopo i pochi interventi del 1969, i decreti delegati del 1974 rappresentano quella che fu ancora la limitata risposta dei gruppi dirigenti ai numerosi problemi del momento, ma soprattutto ad alcune questioni di assetto della pubblica istruzione. Da più lati si chiedeva di articolare il sistema scolastico su base territoriale, affinché nuove componenti scolastiche ed extrascolastiche potessero parteciparvi in maniera adeguata. I decreti delegati del 1974 introducono il

distretto scolastico, un nuovo punto di riferimento a

livello geografico che avrebbe gestito alcuni servizi, e una serie di organi collegiali a diversi livelli (provincia, distretto, istituto, circolo, classe) che prevedevano la partecipazione accanto a dirigenti ed insegnanti, dei genitori e degli stessi studenti.

La grande fiducia e forte aspettativa verso la gestione e la partecipazione sociale, riconducibile anche al movimento del 68, venne esaurita nella creazione di una serie di organi privi di effettivo potere decisionale e disposti solo ad amministrare fondi limitati ed a “avanzar proposte”. L’amministrazione scolastica rimase nella sostanza tale e quale a quella precedente i decreti delegati, sia a livello di centro sia di periferia.

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Più incisive furono invece le norme riguardanti lo stato giuridico degli insegnanti: vennero ridotti i poteri di presidi e direttori scolastici a vantaggio di una maggiore collegialità della vita scolastica. Per quanto riguarda invece la formazione degli insegnanti, un principio interessante fu quello dell’art 7 del D.L. 417/1974, che prevedeva una formazione universitaria di tutti gli insegnanti di ogni ordine e grado di scuola, che però, nella sostanza, troverà una effettiva applicazione solo nel 1990, con la legge n 341, che istituisce presso le facoltà di Magistero (che diventerà poi Scienze della Formazione), corsi di laurea per insegnanti sia di scuola materna sia elementare, attivi solo dalla fine del 1998.15

Relativamente alla scuola media inferiore abbiamo la già ricordata legge n. 348 del 1977, che abolisce definitivamente il latino, e la legge n. 517, sempre del 1977, che elimina gli esami di riparazione, inserisce nuovi criteri per la valutazione degli studenti, sostituendo il voto con la “scheda ragionata”, e contiene alcune norme importanti per l’integrazione

15

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degli handicappati in tutta la fascia dell’obbligo. La funzione di orientamento della scuola media unica viene ribadita nei nuovi programmi del 1979, che rispetto ai precedenti, facevano un gran passo in avanti sia per contenuti e metodologie, sia a livello di finalità democratiche,

“interventi che, anche se importanti, non si rivelano sufficienti a equilibrare i forti scompensi […]”16

In tutti questi provvedimenti citati si esaurisce la riforma degli anni 70. Molto più grande il numero di riforme e proposte dibattute e discusse ma mai portate a termine, vuoi per una connaturato disinteresse da sempre esistente della politica nei confronti della scuola, vuoi per le inconciliabili vedute pedagogiche di stampo cattolico e laico, vuoi (ultima ma forse più incisiva ragione a livello pratico), per una instabilità politica che, da dopo il ‘68 per trent’anni, vede sciogliere il Parlamento prima della fine naturale della legislatura.

Tra gli anni 80 e 90 si segnalano significativi interventi di politica scolastica che riguardano,

16

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soprattutto, la scuola di base e l’università, mentre rimane del tutto aperta la questione del riordino della secondaria superiore. Per i motivi che abbiamo già menzionato, i grandi progetti totalizzanti di riforma vengono alla fine abbandonati preferendo d‘ora innanzi una “navigazione a vista” che vede agire a livello legislativo, esclusivamente per blocchi distinti. Il decreto n. 382 del 1980 permetteva un riassetto della docenza universitaria e del suo sistema concorsuale: la trentina di figure professionali docenti esistenti precedentemente il decreto, venivano fatte confluire così nel docente unico, che era titolare sia della ricerca sia della didattica e che si distingueva in ordinario o associato. Veniva poi creata la figura del ricercatore universitario, primo grado del cammino verso la carriera di professore. Il decreto cominciava ad attuare il dettato costituzionale riguardante l’autonomia dell’università, ampliando il corpo accademico, introducendo procedure più trasparenti e democratiche per l’elezione di rettori e presidi di Facoltà e aprendo molti organi degli Atenei alle rappresentanze degli

studenti e del personale non docente.17

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Altri interventi importanti riguardano invece l’istruzione primaria. La legge n. 148 del 1990 aveva il titolo “Riforma dell’ordinamento della scuola elementare” ed effettivamente portò ad un totale rivolgimento della figura professionale tradizionale della

maestra, che risaliva addirittura alla legge Casati:

“ […] scompariva la maestra unica, sostituita da un

team di insegnanti che, operando su moduli didattici

composti da più classi, erano titolari di diversi ambiti disciplinari”18.

Questo forte cambiamento comportò un inizio molto tormentato della riforma :

“ […] molte maestre hanno scelto la strada del pensionamento anticipato piuttosto che stravolgere la propria consolidata professionalità fondata sulla titolarità esclusiva di una classe ”19.

Sempre nel 1990 vedono la luce i nuovi orientamenti per la scuola dell’infanzia. Oltre a sottolineare il carattere particolare e specifico di questo primo gradino dell’ istruzione, essi, ponevano l’accento sull’importanza della continuità della scuola dell’ infanzia con la scuola elementare, nell’ottica di un futuro iter formativo unitario dell’istruzione di base. Ciò su cui non si poteva più sorvolare, in questo campo, era

 Cfr S.Santamaita, op.cit., p 175-177,180 18 S.Santamaita, op.cit., p 181

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il nodo della formazione, sia professionale sia culturale, della maestra di scuola elementare e materna, essendo l’Italia l’unico stato dell’ Europa in cui i percorsi formativi dei docenti non erano così soddisfacenti. La legge n.341 del 1990, che dava il via alla Riforma degli

ordinamenti Universitari,

“[….] recava due norme la cui portata non è esagerato definire storica per il sistema scolastico italiano. Si istituiva infatti uno specifico corso di laurea, articolato in due

indirizzi,[….] preordinato alla formazione culturale e professionale degli insegnanti, rispettivamente, della scuola materna e della scuola elementare(art. 3, comma

2). Poco oltre si stabiliva che con una specifica scuola di

specializzazione[…] le università provvedono alla formazione, anche attraverso attività di tirocinio didattico, degli insegnanti della scuola secondaria (art. 4, comma 2),

precisando che il diploma di specializzazione così conseguito ha valore di abilitazione all’insegnamento”.20

Tali norme saranno però effettivamente operanti dopo un lasso di tempo di circa un decennio, tempo necessario alle singole università e al MURST21 per

ottemperare ai vari adempimenti necessari al nuovo sistema di formazione degli insegnanti: l’anno accademico 1998-99 è il primo anno che vede

“[…] attivato in molti atenei il corso di laurea per la formazione degli insegnanti della scuola materna ed elementare, di durata quadriennale, articolato in un biennio

20

 ivi, p. 183

21 Il nuovo Ministero dell’ Università e della ricerca scientifica e teconologica, nato con la legge n. 168 del 1989

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comune e un biennio più spiccatamente caratterizzato verso i due ordini dell’istruzione primaria”.22

Da questo momento si può dire conclusa una fase importantissima della nostra storia della scuola, in cui l’insegnante imparava ad insegnare insegnando.

Fino alla promulgazione della suddetta legge lo Stato italiano non si era mai occupato della formazione degli insegnanti. Ancora non si occupava di tutta una serie di problemi che aveva la scuola agli inizi degli anni 90: tutta la struttura educativa in genere aveva un assetto estremamente complesso e macchinoso, la domanda di istruzione era sempre più crescente, le nuove tecnologie sempre più necessarie, la scuola secondaria era ancora completamente da ristrutturare ed i docenti erano sommersi da richieste di lavoro aggiuntive che burocratizzavano in maniera sempre maggiore il loro lavoro e che non trovavano alcuna contropartita, soprattutto a livello di stipendio.

Il governo Prodi, che iniziò il suo mandato nel maggio del 1996, si trovò quindi a dover fronteggiare tutta una serie di problemi irrisolti. Nel gennaio del 1997 il ministro del MURST Luigi Berlinguer, con un

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progetto di riforma trasformato in disegno di legge nel giugno di quello stesso anno, ma mai approvato, cercò di riformare l’intero assetto scolastico. La riforma Berlinguer, aldilà di luci e ombre, aveva sicuramente un carattere innovativo, poiché puntava ad una scuola che era del tutto diversa dalla preesistente e che faceva propri i caratteri di flessibilità, unitarietà e continuità. Nel dettaglio la riforma avrebbe visto l’obbligo scolastico iniziare dai cinque anni, ovvero dall’ultimo anno della scuola dell’infanzia, e proseguire fino al compimento dei quindici anni, ovvero al terzo anno di quello che sarebbe stato il ciclo di orientamento. Successivamente erano previsti tre anni facoltativi di scuola superiore, che avrebbero aperto la strada alla carriera universitaria.23 I punti interessanti di questo

progetto erano l’obbligo ampliato a dieci anni,la posticipazione della scelta dell’indirizzo della scuola secondaria alla fine del ciclo di orientamento, anziché alla fine della scuola media inferiore. I dubbi sulla riforma, invece, riguardavano l’effettiva capacità della scuola dell’infanzia di ottemperare al compito della

23

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scolarizzazione e anche:

“[…] il rischio di una marcata professionalizzazione nell’ultimo triennio superiore”24 da ritenersi più opportuna

in sede universitaria.25

L’unica legge approvata durante il ministero Berlinguer fu la legge 10 dicembre 1997, n. 425, che oltre a sottolineare il ruolo degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria come

“ [...] analisi e verifica della preparazione di ciascun candidato in relazione agli obiettivi generali e specifici, propri di ciascun indirizzo di studio”26,

modificava sostanzialmente la struttura e la modalità dello svolgimento di esso. L’esame di Stato così riformato prevedeva tre prove scritte ed un colloquio: la prima prova scritta, come in precedenza, andava ad accertare la padronanza della lingua italiana, e la seconda riguardava una delle materie specifiche del corso di studio. La terza prova scritta, novità introdotta dalla legge in parola, era a carattere pluridisciplinare e riguardava le materie dell’ultimo anno di corso e consisteva

24

 G.Genovesi, op.cit. p 208 25  Cfr Genovesi

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“[…] nella trattazione sintetica di argomenti, nelle risposta a quesiti singoli o multipli, ovvero nella soluzione di problemi o di casi pratici e professionali o nello sviluppo di progetti”.27

Altra modifica sostanziale riguardava il voto finale del candidato che era attribuito in centesimi ed era la risultante della somma dei punti ottenuti alle prove scritte e al colloquio e dei punti per il credito scolastico acquisito da ciascun candidato , che poteva arrivare ad un massimo di 20 punti. Il credito scolastico veniva attribuito a ogni alunno che ne fosse meritevole, dal Consiglio di classe, nello scrutinio finale di ciascuno degli ultimi tre anni della scuola secondaria superiore. Il punteggio minimo complessivo per superare l’esame era di 60/100, il punteggio massimo di 100/100. Anche la commissione d’esame veniva completamente rivisitata: mentre in precedenza essa era costituita esclusivamente da membri esterni, con la nuova legge :

“ […] è nominata dal Ministero della Pubblica Istruzione ed è composta da non più di otto membri, dei quali un cinquanta per cento interni e il restante cinquanta per cento esterni all’istituto, più il presidente, esterno.”28

27

 art 3, comma 1 28

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Il resto del progetto di riforma Berlinguer, cosiddetta riforma dei cicli scolastici, concluso in un secondo tempo dal ministro De Mauro, non è mai stato approvato in quanto il nuovo governo di centro destra, entrato in carica in seguito alla vittoria elettorale del 2001, lo ha bloccato per iniziare l’elaborazione di una nuova riforma scolastica.

La prima sostanziale riforma del nuovo ministro Letizia Moratti è quella introdotta con la legge 28 dicembre 2001, n 448 (legge finanziaria 2002) che all’art 22, comma 7 ha introdotto rilevanti modifiche all’articolo 4 della legge n. 425:la più importante è quella che prevede la commissione esaminatrice negli esami di Stato costituita da membri esclusivamente interni, più il presidente, esterno. Il Ministero dell’ Istruzione ha spiegato il cambiamento con l’inutilità e la costosità della commissione per metà esterna quando da anni le percentuali dei promossi si attestano poco al di sotto del 100%. Resta il fatto che la commissione (anche) esterna non serviva a bocciare di più o di meno, ma doveva servire a spingere la scuola medesima a svolgere al meglio il proprio compito educativo, e va da sé che gli insegnanti che sanno che

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a giudicare i propri allievi verranno dei colleghi esterni, saranno sollecitati a svolgere al meglio il loro lavoro. Eliminando del tutto i commissari esterni, salvo il presidente, che però, essendo unico presidente di tutte le commissioni della scuola, è effettivamente poco presente agli esami, si rinuncia così ad effettuare una valutazione tendenzialmente omogenea degli studenti di tutto il paese.

Vedremo se in futuro la situazione sarà modificata dal progetto Moratti di riordino dei cicli, in discussione al Parlamento nei giorni in cui scriviamo.

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