2. I dispositivi elettrici del
macchinario
? Specifiche dei componenti elettrici e del sistema nel complesso ? Considerazioni sui motori elettrici ed esposizione dei tipi utilizzabili ? Scelta della macchina elettrica e verifica di compatibilità
? Sistemi di accumulo elettrochimico ? Batterie al piombo-acido
? Batterie al nichel-cadmio
? Batterie al nichel-idruro metallico ? Batterie al litio
? Scelta della batteria di alimentazione ? Considerazioni conclusive
Nel presente capitolo, e nel successivo, sarà esposta tutta la parte del lavoro che ha riguardato la ricerca e lo sviluppo di idee per quanto riguarda tutti i componenti elettrici utilizzati, o comunque utilizzabili, nella applicazione considerata. In primo luogo si ha un paragrafo dedicato al riassunto e commento delle specifiche già definite per il presente macchinario, e alla determinazione di quelle mancanti. Di seguito si procede alla descrizione dei possibili azionamenti utilizzabili per lo scopo e di conseguenza alla indicazione di quello ritenuto più idoneo, illustrando i risultati di tale scelta. Analogo percorso viene seguito per effettuare la scelta del sistema di accumulo dell’energia necessario per alimentare il sistema. Per quanto riguarda il sistema di controllo dell’azionamento, si rimanda al capitolo successivo.
Specifiche dei componenti elettrici e del sistema nel
complesso
In base a quanto già esposto nel precedente capitolo, è possibile creare un primo schema a blocchi di quello che sarà il macchinario nel suo complesso.
Fig. II-1 Schema a blocchi complessivo del sistema “macchina raccolta olive”
Dallo stesso si nota come tutti i suoi componenti servano a dare come risultato la raccolta dei frutti; questo viene causato dal contatto delle chele sugli stessi, azionate dal motore per mezzo di un riduttore meccanico. La macchina elettrica viene infine comandata da un opportuno sistema che, a fronte dei segnali provenienti dall’operatore e dalla retroazione effettuata sul motore, interfaccia la batteria a quest’ultimo in modo tale da ottenere il comportamento desiderato.
Basandosi su queste semplici considerazioni e sui risultati ottenuti dalle prove effettuate con il prototipo, già esposti in precedenza, è stato possibile elencare un certo numero di specifiche da soddisfare con il progetto considerato. Vengono di seguito riportate quelle che è stato già possibile valutare con precisione adeguata.
? Coppia necessaria all’asse delle chele, che si è già visto debba essere di circa 0,25 newton per metro. Per motivi di cautela si operatore
Controllo Riduttore meccanico M
preferisce considerare una coppia massima richiesta leggermente superiore, per cui in definitiva si fissa tale valore a 0,35 Newton per metro.
? Numero di giri delle chele, che come risultato dalle prove con il prototipo è opportuno che non superi il valore di 3200 giri al minuto, rimanendo però sempre al di sopra almeno dei 2500 giri al minuto
? Autonomia del macchinario, sulla base di considerazioni di carattere tecnico ed economico, si è valutato che la quantità di carica sarebbe dovuta essere sufficiente per lavorare 7 – 8 ore prima di una nuova ricarica.
? Sistema di alimentazione, per il quale è stato già stabilito che dovrà trattarsi di un dispositivo elettrico alimentato a batteria.
Queste specifiche non sono da sole sufficienti per consentire un corretto proseguimento della fase di progetto, per cui è stato indispensabile fissare altri parametri in modo da poter ridurre il numero delle variabili in gioco. Di seguito vengono elencate altre specifiche per le quali non sono state precedentemente formulate ipotesi, per cui non se ne è ancora stabilito un valore.
? Tensione massima di alimentazione, trattandosi di un dispositivo portatile a batteria, che si troverà ad operare in ambienti particolari, si è deciso di mantenere tale tensione al di sotto della soglia di sicurezza dei 50 volt. Ovviamente questo è il valore massimo ipotizzato, per cui potrebbe non essere necessario arrivare a tale valore se la potenza in gioco non lo richiede.
? Peso massimo del macchinario e quindi dei singoli componenti, ipotizzando per il sistema completo un peso massimo di circa 1 chilogrammo, batteria esclusa, valore questo che consente di operare per lunghi periodi senza risentire eccessivamente per lo sforzo, si attribuisce
indicativamente al motore un peso massimo pari al 35% dell’intero dispositivo, per cui questo particolare dovrà pesare al massimo 350 grammi. Per il sistema di controllo elettronico si da per scontato che si tratterà di un componente estremamente leggero in rapporto agli altri, per cui è possibile fissare il suo massimo intorno ai 50 grammi. Sicuramente ci saranno problemi in più per quello che riguarda la batteria, che comunque sarà dotata di un idoneo sistema di ancoraggio all’operatore, per cui si può pensare accettabile un peso fino a circa 3,5 chilogrammi.
? Temperatura massima di lavoro all’interno dell’involucro, per la quale va fissato un valore compatibile con gli organi che si troveranno in tale ambiente, ossia il motore, la scheda elettronica e il riduttore meccanico. Questi tre organi sono anche quelli ai quali è dovuto l’incremento della temperatura indicata, per cui è ipotizzabile che, quando essa raggiunge un determinato valore di soglia, i componenti prima indicati siano in realtà più caldi di quanto non rilevato. Questo discorso non è del tutto vero per il riduttore, organo questo che produce decisamente meno calore rispetto agli altri due, per cui per semplicità la soglia è stata fissata senza considerare lo stesso, limitandosi a verificare a posteriori che tale temperatura è compatibile con il materiale adoperato per esso. In considerazione di tutto ciò, si fissa il valore massimo della temperatura a 70 gradi centigradi.
? Costo massimo sostenibile per il singolo componente, essendo questo un parametro estremamente delicato da valutare e da rispettare, si è preferito operare senza fissare a priori dei costi massimi, ma cercando di minimizzare gli stessi a posteriori, nel rispetto dei vincoli dati dalle specifiche, dall’affidabilità e dal corretto funzionamento del macchinario. Al limite anche l’affidabilità del sistema sarebbe potuta rientrare tra le specifiche, ma essendo anche questo un parametro
di difficile valutazione per un sistema innovativo come quello considerato, si è preferito cercare di massimizzare la stessa nel rispetto dei vincoli, in particolare economici. A seguito della sperimentazione su larga scala operata dal consumatore finale, che seguirà al primo anno di uscita sul mercato, si avranno a disposizione tutti i dati statistici e deterministici necessari per valutare con maggiore attenzione l’affidabilità ed effettuare le opportune correzioni, se necessarie, al progetto.
Prima di proseguire con l’analisi dei singoli componenti elettrici del sistema, si riporta una tabella riassuntiva delle specifiche fino ad ora elencate.
Coppia resistente 350 mN·m (massima)
Numero di giri
(velocità angolare)
3?220 giri/min(massima) 340 rad/s (massima)
Autonomia dell’alimentazione 7 ore (minima)
Sistema di alimentazione Elettrico a batteria
Tensione di alimentazione 50 V (massima)
Pesi massimi consentiti:
complessivo del macchinario motore elettrico scheda di controllo batteria 1 kg 350 g 50 g 3,5 kg
Temperatura di lavoro 70 °c (massima)
Considerazioni sui motori elettrici
Per quanto riguarda la scelta del motore da utilizzare per azionare l’utensile, bisogna innanzi tutto considerare che la forte spinta data negli ultimi anni allo sviluppo in questo campo da parte dell’automazione industriale ha permesso, almeno in teoria, di orientare la scelta tra un discreto numero di soluzioni alternative, ognuna con determinati pregi ed immancabili difetti. Lo scopo di questo paragrafo sarà quello di illustrare le principali soluzioni prospettate, valutarle singolarmente ed in modo comparato, e quindi indirizzare la selezione in una direzione ben definita, ovviamente giustificando i risultati.
Per prima cosa è stato necessario definire in modo più dettagliato il tipo di azionamento elettrico al quale si sarebbe voluti giungere. Con questo termine infatti si indicano in genere i metodi, con conseguenti schemi elettrici ed apparecchiature, in base ai quali è possibile imporre ad una macchina elettrica un determinato tipo di comportamento. I tipi di azionamenti maggiormente utilizzati nelle applicazioni industriali sono in genere di tipo a coppia costante oppure a velocità costante, altrimenti si può decidere di variare la velocità indipendentemente dalle condizioni di carico.
Nel presente caso si deduce da quanto detto in precedenza che nessuno di questi tipi di azionamento sarebbe stato idoneo per ottenere il comportamento finale desiderato: infatti sarebbe stato pressoché inutile avere una applicazione a coppia o velocità costante, visto che pure in caso di variazione delle stesse non si avrebbero particolari riscontri negativi sul funzionamento finale, mentre ci sarebbe eventualmente stato un interesse nei confronti di azionamenti a velocità variabile in modo controllato manualmente, il che avrebbe consentito forse di migliorare le condizioni di raccolta in ogni situazione, ma la relativa complicazione della parte elettronica, ovvero del controllore, non avrebbe giustificato un incremento modesto della produttività dell’utensile.
Una delle questioni alle quali dare un certo rilievo è invece quella dell’affidabilità. Bisogna infatti tener presente che il motore utilizzato per questa applicazione dovrà essere in condizione di lavorare per un discreto numero di ore in condizioni particolarmente disagiate, dovendo avviarsi ripetutamente, diverse volte al minuto, spesso con carico applicato abbastanza influente. Arbitrariamente si è considerato come tempo di vita accettabile minimo della macchina elettrica una durata di almeno 1?200 ore di lavoro, il che corrisponde a 150 giorni lavorativi di 8 ore al giorno. Dato che la raccolta delle olive si protrae solo per pochi giorni, o al più settimane, nell’arco dell’anno, questo significa che tale valore garantisce una durata che si estende a diversi anni, a seconda del grado di sfruttamento.
Altra caratteristica peculiare del sistema sarebbe dovuta essere la semplicità di realizzazione, il che garantisce pesi contenuti, costi minori e maggiore facilità di intervento in caso di problemi ad un qualunque apparato. Ovviamente il tipo di controllore che viene utilizzato è strettamente correlato al tipo di macchina elettrica che si ha intenzione di sfruttare.
Per lo meno in teoria, le attuali tecnologie che sarebbero potute tornare utili allo scopo sono diverse, sia per quanto riguarda azionamenti in corrente continua che alternata, per cui nel seguito si riporta una breve panoramica delle possibilità offerte sia dalla ricerca che dal mercato.
Il primo motore che è venuto in mente di utilizzare, visto il tipo di alimentazione e le altre considerazioni precedenti, è stata la
macchina in corrente continua a collettore, la quale, per questa
applicazione, potrebbe addirittura essere utilizzata senza bisogno di nessun tipo di controllo, dato che il suo comportamento è grosso modo quello richiesto, essendo la stessa autoregolante per ciò che riguarda coppia e velocità, ovvero all’aumentare della coppia resistente applicata all’albero, la macchina reagisce incrementando la coppia motrice e riducendo la velocità di rotazione.
Un motore in corrente continua, di potenza non grandissima, è costituito da una carcassa fissa, all'interno della quale è presente un campo magnetico generato, nei motori più piccoli, da magneti permanenti (e così si presumerà nel seguito per quelli considerati); nelle macchine di dimensioni più grosse è invece presente un avvolgimento induttore percorso da corrente.
Il rotore è costituito da una serie di spire solidali con l'albero rotante; il collegamento elettrico con l'alimentazione è costituito da due spazzole striscianti su un tamburo rivestito di lamelle conduttrici, che costituiscono la parte più delicata del motore. Si tratta di cilindri in carbone o contatti in metallo che strisciano sui contatti elettrici che costituiscono il collettore.
Il circuito equivalente di un motore come quello considerato è costituito, in prima approssimazione, da una resistenza, un induttore e da un generatore di tensione che è proporzionale alla velocità di rotazione.
Fig. II-3 Circuito elettrico equivalente del motore a collettore
Le equazioni che regolano il sistema sono quelle riportate di seguito.
Nelle quali
? Va è la tensione di alimentazione
? Ia è la corrente di alimentazione
? Ra è la resistenza di armatura
? La è l'induttanza di armatura
? Ke e Kt due costanti, proprie del motore, dette costante elettrica e di coppia
? Cm la coppia motrice
? ? è la velocità di rotazione
Dall'esame qualitativo delle equazioni sopra riportate si possono, a regime, fare diverse osservazioni: quando il motore è fermo (? = 0) la corrente è massima e pari a Va/Ra, di conseguenza anche la coppia è massima. Questa situazione si presenta quando il rotore è bloccato meccanicamente, e allo spunto; se protratta nel tempo, rischia di surriscaldare il motore ed eventualmente l'elettronica di comando, rischiando di danneggiare permanentemente entrambi. Inoltre, il rotore gira alla massima velocità quando la Eg è pari alla Va; di conseguenza la corrente e la coppia motrice sono nulle. In realtà questa situazione è solo teorica, in quanto una piccola coppia resistente è sempre presente a causa degli attriti meccanici e dell'eventuale ventilazione. Gli attriti a vuoto sono, per esempio, sempre presenti e particolarmente rilevanti nel caso in cui il motore è collegato ad un riduttore meccanico di giri. Altra osservazione che è possibile trarre dalle equazioni è che la diminuzione della velocità all'aumentare della coppia resistente è lineare. È possibile notare anche che la massima potenza meccanica si ha al 50% della velocità oppure, in modo equivalente, al 50% della coppia massima. Tutte queste considerazioni possono essere tratte, in maniera forse più intuitiva, osservando le curve caratteristiche di un qualsiasi motore di questo
tipo, quali ad esempio quelle riportate nel capitolo precedente o nel seguito del capitolo attuale, in figura II-6
È necessario osservare anche che la macchina in corrente continua, come in generale tutti i motori elettrici, è un carico fortemente induttivo, quindi per il suo pilotaggio sono richiesti accorgimenti per evitare il danneggiamento dell'elettronica di controllo, a causa delle cosiddette sovratensioni di commutazione.
Nel caso in cui occorresse affrontare il problema della regolazione di velocità, ossia di rendere indipendente la velocità di rotazione dell’albero dal carico meccanico e dalla tensione di alimentazione, nel caso presente converrebbe sicuramente realizzare un tipo di controllo ad anello aperto, in quanto per effettuare una retroazione occorrerebbe misurare la velocità di rotazione, operazione complessa e costosa, giustificata solo nel caso in cui fossero richieste prestazioni particolarmente elevate. Una soluzione a questo problema semplice ed efficiente, che garantisce sempre un rendimento energetico elevato, può essere quella del pilotaggio tramite chopper con comando di tipo PWM (pulse width modulation, modulazione a larghezza di impulso), soluzione che, ad esempio, è stata adottata per la realizzazione del prototipo a velocità variabile descritto nel capitolo precedente.
È possibile infine riassumere i principali pregi e difetti di questa macchina: innanzi tutto dispone di una elevata potenza specifica (rapporto potenza/peso), cosa che in questa applicazione è sicuramente molto importante, e può erogare una considerevole coppia di spunto. Inoltre sono facilmente regolabili sia in termini di velocità che di coppia, nel caso in cui ciò fosse necessario, estremamente economiche e facilmente reperibili, di qualsiasi tipo e qualità. Di contro, hanno rendimenti inferiori rispetto ad altri motori, in particolare quelli di piccola potenza, ed hanno una elevata coppia di inerzia. Inoltre hanno tutta una serie di problemi legati alla presenza del commutatore meccanico, costituito dall’accoppiamento spazzole-collettore: innanzi tutto causano sovratensioni elevate in fase di commutazione, limitano la velocità
massima del rotore e sono oggetti estremamente fragili, tali da compromettere l’affidabilità di tutta la macchina. Inoltre hanno una durata nel tempo limitata, per cui la macchina necessiterà sicuramente di interventi di manutenzione in un secondo momento.
Dato che gran parte degli aspetti negativi di questo tipo di macchina dipendono dalla presenza delle spazzole e del collettore, la seconda possibilità che si è prospettata è stata quella di utilizzare un piccolo motore brushless, il quale preserva in pratica tutti i vantaggi del precedente, senza la scomoda presenza dei particolari sopra detti.
La struttura tipica di un piccolo motore brushless è quella riportata nello spaccato a lato: lo statore è costituito da un certo
numero di
avvolgimenti, sfasati geometricamente di un dato angolo (è in un certo senso simile ad uno statore di un motore asincrono polifase), mentre il rotore è dotato di uno o più poli nord e sud, come quello di un motore sincrono.
Si può notare che nel rotore non sono presenti fili elettrici, per cui non è necessaria alcuna connessione elettrica tra la parte in movimento e quella fissa, come avveniva nel caso precedente, e ciò determina un concreto aumento dell’affidabilità di questa macchina, dovuto anche ad una elevata robustezza meccanica.
Per poter far operare questo componente, è sempre indispensabile utilizzare un circuito di pilotaggio opportuno. Questo dipende dal suo principio di funzionamento: gli avvolgimenti di statore devono produrre un campo magnetico che deve risultare,
istante per istante, perpendicolare a quello di rotore, prodotto dai magneti fissi, per poter usufruire della coppia massima. Di conseguenza, quando l’albero viene portato in rotazione, è necessario che il sistema di controllo commuti l’alimentazione tra gli avvolgimenti, dei quali solo una coppia alla volta viene alimentata, in modo da far correre il campo magnetico di statore davanti a quello di rotore, che tenderà ad inseguirlo, in pratica proprio come avviene nelle macchine sincrone.
La curva di coppia relativa a questo motore è visibile nella figura a lato. Questa è simile a quella di una macchina a collettore, essendo decrescente all’aumentare del numero di giri, ma rispetto all’altra non è lineare e si mantiene decisamente più costante.
Ovviamente, in questo caso, con un opportuno controllo è possibile modificare molto semplicemente la velocità di rotazione, e grazie alle particolarità di questo componente è possibile ottenere azionamenti di precisione controllati in catena aperta, senza la necessità di utilizzare sensori di posizione o velocità. I primi problemi però iniziano a sorgere proprio tirando in ballo questo discorso: il motore brushless risente abbastanza dei cambi di velocità, in particolare nel caso di controlli non troppo sofisticati. Inoltre, dato che ad ogni commutazione degli avvolgimenti alimentati, la corrente deve passare dal valore di regime a zero, e viceversa, l’alto valore della induttanza delle bobine non permette di raggiungere delle velocità angolari molto elevate, a causa della costante di tempo del circuito RL. A causa di
ciò i motori brushless non hanno una potenza specifica quale quella delle macchine a collettore. Presentano inoltre basso rendimento energetico, per lo meno per i motori di piccole dimensioni e potenze presi in considerazione in questa sede e, non ultimo, il loro costo è sensibilmente maggiore rispetto a quello di altre macchine, anche in considerazione del fatto che viene richiesto un controllo più sofisticato.
Un’altra soluzione prospettabile sarebbe stata quella di utilizzare macchine in corrente alternata, sincrone o meglio ancora asincrone, polifase, alimentate da un opportuno sistema (inverter a frequenza variabile) in modo da poter gestire il loro funzionamento in maniera ottimale. Questa forse sarebbe stata a livello di ricerca e sperimentale la soluzione più soddisfacente, ma fin dal principio i problemi incontrati sono stati di portata insormontabile: a partire dalla necessità di un sistema di controllo più complicato, quindi meno economico e maggiormente ingombrante, per continuare con la impossibilità di reperire sul mercato sia macchine idonee a questo scopo, sufficientemente piccole e versatili, che controllori integrati, già realizzati per scopi del genere. Di conseguenza, tale ipotesi è stata scartata fin dal principio.
Scelta della macchina elettrica e verifica di compatibilità
Per quanto sopra esposto, l’ipotesi più probabile riguardo il tipo di motore da utilizzare era quella di una semplice macchina in continua a collettore, riservando la possibilità di migliorare le prestazioni della stessa per mezzo di un opportuno sistema di controllo. Non volendo però mettere a rischio la riuscita di tutto lo studio effettuato a causa di un componente poco affidabile, si è preferito affrontare la fase di ricerca di mercato e sperimentazione portando avanti sia questa idea che quella di poter usare un brushless, dato che il maggiore esborso causato da questa seconda
scelta sarebbe potuto rivelarsi opportuno nel caso di grossi vantaggi apportati al prodotto finito.
Mentre però non si sono riscontrati problemi nel reperire fornitori di macchine a collettore, di caratteristiche profondamente diverse, sia per potenza, peso, coppia e affidabilità, per quanto riguarda i motori brushless la situazione si è rivelata molto più complicata. Tolti tutti quelli utilizzati nel campo dell’automazione industriale, in quanto troppo grandi e pesanti in rapporto alla potenza, gli unici che rimanevano disponibili erano quelli utilizzati a bordo di aereomobili, con caratteristiche di gran lunga superiori a quanto non fosse necessario in questa applicazione e di conseguenza troppo costosi, oppure quelli usati nel campo del modellismo, che grazie alle elevate velocità di lavoro possono sviluppare una coppia molto grande in rapporto al peso, ovviamente con opportuna demoltiplica. Questi ultimi, tra l’altro, dispongono di controllori integrati ottimali anche per il progetto in esame, in quanto studiati per far girare il motore con una caratteristica esterna del tutto simile a quella di un motore a corrente continua classico. Purtroppo si tratta di un tipo di prodotti di nicchia, destinati solo ad un uso particolare, per cui il poco businnes attorno ad essi influisce negativamente sul prezzo. Trattandosi inoltre di componenti prodotti quasi esclusivamente negli Stati Uniti, l’esborso sarebbe stato considerevole, oltre 110 dollari tra motore e controllore, per volumi di ordini rilevanti (1?000 pezzi). In considerazione di ciò, si è preferito per prima cosa cercare di soddisfare le specifiche utilizzando nel progetto un motore a collettore, lasciando la seconda ipotesi come piano di emergenza in caso di fallimento della prima.
Nella prima fase di sviluppo del prodotto, è stata presa la decisione di orientarsi verso un valore della tensione di alimentazione di 12 volt, in quanto ciò avrebbe consentito di alimentare il dispositivo anche per mezzo di una qualsiasi batteria per autotrazione, nel caso in cui l’operatore lo avesse ritenuto
necessario. In caso di una futura revisione del progetto di base, si valuterà la possibilità di innalzare tale valore a 24 o 48 volt, in modo da poter usare un motore più leggero, in rapporto alla coppia sviluppata (la coppia varia in modo proporzionale con la tensione applicata), e senza la necessità di interporre un riduttore meccanico, inevitabile causa di perdite di potenza e di possibilità di rottura.
Innanzi tutto è stato ricercato un motore che permettesse di azionare direttamente le chele, senza bisogno di interporre un riduttore di velocità, ma dalle offerte dei produttori ed importatori di tali componenti si è visto che, per avere la coppia necessaria alla velocità di circa 3?000 giri al minuto, come indicato dalle specifiche, sarebbe servito un motore di peso maggiore di quanto non permesso. Dato che in genere i motori più veloci hanno sì potenza specifica maggiore, ma anche tempo di vita inferiore, si è ricercato un buon compromesso tra velocità, peso della macchina e coppia sviluppabile, per mezzo di un riduttore, a circa 3?000 giri.
Dato che l’azienda presso la quale è stato sviluppato il progetto in esame, aveva già in precedenza contatti per la fornitura di motori elettrici con un distributore di tali apparati, importati dall’oriente, la prima idea è stata quella di valutare tra i prodotti inseriti nel suo catalogo se ce ne fosse stato uno idoneo per poter azionare il macchinario. Dal catalogo Johnson Electric è stata selezionata la macchina in corrente continua che meglio avrebbe potuto soddisfare tutte le specifiche, della quale si riportano le curve caratteristiche della pagina successiva.
Fig. II-6 Curve caratteristiche del motore scelto per azionare il macchinario
Nel caso in cui si fosse deciso di utilizzare questo oggetto, sarebbe stato necessario interporre un riduttore meccanico con rapporto di trasmissione di circa 3:1, in modo tale da avere una velocità massima di poco superiore ai 3?000 giri (considerando il punto di massimo rendimento e una tensione di alimentazione effettiva di 12 volt), e una coppia massima erogabile di circa 0,48 newton per metro a 2?000 giri al minuto (punto di massima potenza). Ovviamente a rotore bloccato la coppia erogata è ancora maggiore, ma non essendo questo un punto di lavoro sfruttabile tale valore non interessa. Si vedrà nel seguito che il massimo valore della coppia è stato imposto per mezzo del circuito di controllo, in modo tale da non sovraccaricare la macchina. Tale motore pesa circa 230 grammi, per cui risulta essere ampiamente all’interno del range ipotizzato anche per questo parametro. Da notare il rendimento non molto elevato di questa macchina, sebbene ciò sia tipico di tutte quelle di piccola potenza ed in particolare di quelle così economiche.
Alcuni prototipi sono stati realizzati e messi in funzione con questo sistema, in modo da verificarne il corretto funzionamento e l’affidabilità, mentre nel frattempo si è proceduto a reperire altri due motori dello stesso tipo, ma da due altri fornitori, i quali sembravano potessero rispecchiare le specifiche richieste. Il primo degli stessi, prodotto dalla azienda Nuova SME di Padova, si è rivelato essere in pratica molto simile all’altro, ma essendo prodotto in Italia presentava un costo decisamente superiore. Per il resto, risultava essere leggermente più veloce e con un valore di coppia un po’ inferiore, per cui tra i due sarebbe stato sicuramente da preferire, a parità di affidabilità, il primo descritto. L’ultimo motore esaminato invece presentava caratteristiche sensibilmente differenti rispetto a questi altri: prodotto da una piccola azienda di Brescia, MBT motori, ha numero di giri sensibilmente inferiore, per cui sarebbe sufficiente un rapporto di trasmissione minore e probabilmente avrebbe avuto tempo di vita maggiore, è il più pesante dei tre, circa 310 grammi, indice comunque questo di una discreta resistenza meccanica, e a differenza degli altri due, nei quali non vi è possibilità di cambiare le spazzole, (per cui una volta esaurite queste è necessario obbligatoriamente sostituire tutto il motore), in questo le stesse possono essere rinnovate in modo estremamente semplice, quindi la vita non è come negli altri limitata alla durata di un dispositivo che tende ad usurarsi. Purtroppo questo ha ovviamente un costo sensibilmente maggiore degli altri, per cui è stata prima valutata l’affidabilità del primo motore, tenendo come riserva la possibilità di sfruttare questo altro. Sono comunque stati ordinati alcuni campioni e messi in prova
Tutti i motori inseriti nei prototipi e collaudati sono stati portati a fine vita, con i risultati seguenti:
? I primi due hanno dato grosso modo gli stessi risultati, cioè una durata di vita media di circa 1?200 ore, con massimo di 1?450 e minimo di 1?000. Solamente un motore, di quelli del
primi tipo descritto, ha avuto un cedimento meccanico dopo 650 ore di funzionamento, probabilmente a causa di un difetto costruttivo. Di conseguenza si è preferito non tenere conto di tale misura nel calcolo della media in quanto non congruente con il parametro richiesto, cioè la vita media in condizioni standard. Complessivamente ne sono stati provati dieci.
? Il terzo motore ha esaurito le spazzole dopo circa 750 ore, dopo di che non sono state sostituite in quanto i risultati delle altre macchine si erano rivelati soddisfacenti.
? Il terzo motore ha esaurito le spazzole più in fretta in quanto le stesse sono costituite di grafite, per cui hanno preservato pressoché integro il collettore; i primi due invece, con spazzole fatte in lega di rame e piombo, hanno distrutto anche le lamelle rendendo quindi tutta la macchina inutilizzabile.
Conseguenza di tutto ciò è stato che, per lo meno in questa prima fase dell’uscita sul mercato del prodotto, il motore che sarà montato sarà quello prodotto dalla Johnson, le cui curve caratteristiche sono state riportate in precedenza, in quanto è stato ritenuto sufficientemente affidabile e quindi rispondente a tutte le specifiche. Tale decisione è stata presa in larga misura in base a considerazioni economiche, ma dalla successiva fase di sperimentazione non è risultato avere particolari difetti od inconvenienti, se non la necessità di un riduttore meccanico, che peraltro tutti quelli proposti avevano, ed una affidabilità che potrebbe comunque essere migliorata.
Infine è possibile, sulla base di quanto stabilito per il motore, determinare la capacità e il tipo di batteria della quale dovrà essere equipaggiato il macchinario.
Bisogna infatti considerare che quella elettrica è una forma di energia destinata al trasporto della stessa, utilizzata per spostarla da un punto di produzione ad un utilizzatore che la userà ancora in forma non elettrica.
A causa delle sue caratteristiche intrinseche non è possibile accumularla direttamente, se non che in piccole quantità, per cui è necessario effettuare una sua trasformazione in una forma differente. Nel caso considerato, l’energia viene immagazzinata sotto forma di potenziale chimica, ed i sistemi preposti a ciò vengono detti di accumulo elettrochimico o, più semplicemente, batterie di accumulatori elettrochimici.
Un singolo elemento, o cella, dell’accumulatore, visto dai suoi morsetti esterni, è un doppio bipolo
che scambia energia elettrica con un circuito, il quale opera in corrente continua, come indicato nella figura a lato. Quando la corrente entra nel polo positivo, si ha accumulo di
energia all’interno
dell’accumulatore, quando ne esce, si ha la restituzione parziale al circuito esterno dell’energia accumulata.
Qualunque sia la tipologia di cella, essa è un sistema in corrente continua con un polo positivo ed uno negativo, la cui tensione è dell’ordine di 1 ? 2 V. Poiché per la maggior parte delle applicazioni tali valori non sono direttamente utilizzabili, tranne i casi in cui la potenza non sia veramente esigua, spesso vengono realizzate batterie di accumulatori elettrochimici connettendo in serie più celle, realizzando sistemi anche con tensioni dell’ordine delle decine o centinaia di volt.
Fig. II-7 Rappresentazione di un
accumulatore elettrochimico visto dai morsetti esterni
Sperimentalmente si osserva che l’energia che si riesce ad ottenere da una batteria in fase di scarica è solo una frazione dell’energia fornita in fase di carica. Inoltre, se a partire da una batteria piena, si eseguono scariche a corrente costante e temperatura ambiente costante, per vari valori della corrente e della temperatura ambiente, almeno per le batterie analizzate, si osserva che la quantità di carica erogata dipende fortemente sia dal valore della corrente di scarica che dalla temperatura: in particolare più è alta la corrente e minore è la carica che si riesce ad ottenere. Per la temperatura invece si hanno comportamenti molto differenti a seconda della tecnologia sulla quale si basa l’accumulo: ad esempio, per le batterie al piombo la carica erogabile cresce al crescere della temperatura, per quelle al nichel cadmio tale parametro cresce fino a circa 30 gradi centigradi, iniziando a diminuire al di sopra di tale soglia.
Fig. II-8 Andamento della capacità di una batteria al piombo in funzione della temperatura e della corrente erogata.
Un altro fenomeno importante ai fini di questa applicazione è quello dell’autoscarica: le batterie inattive sono soggette ad una
progressiva riduzione della carica erogabile, tale fenomeno è fortemente dipendente dalla temperatura e cresce al suo crescere, inoltre è inizialmente più marcata e si riduce nel tempo. Anche in questo caso si hanno forti differenze a seconda del tipo di accumulatore: per quelli al piombo non solo tale fenomeno è marcato (dopo un mese di inattività, alla temperatura ambiente di 20 gradi centigradi, l’autoscarica varia, a seconda del modello e del costruttore, da un 2 ? 3 % , fino al 20 % circa.), ma nel caso in cui un elemento rimanesse profondamente scarico per periodi superiori a pochi giorni, si avrebbe un forte rischio che lo stesso presenti danneggiamenti irreversibili, ciò a causa della reazione di ossidoriduzione che, scaricando la batteria, trasforma l’acido solforico in acqua. Per contro, gli altri tre tipi di batterie presi in considerazione non presentano fenomeni di tale tipo, potendo permanere completamente scarichi anche per lunghi periodi senza incorrere in danni permanenti. Sarà necessario tenere in considerazione questo fatto, dato che il macchinario sarà destinato ad essere usato per pochi giorni e poi riposto per il resto dell’anno. Altro problema da analizzare è quello della carica: i principi su cui si basano le varie leggi di ricarica proposte dai costruttori, sono abbastanza generali e possono essere riassunte come nel seguito
? la corrente di carica non deve essere eccessiva e non deve superare i valori massimi ammissibili determinati dalla costruzione interna della batteria;
? verso la fine della carica, la capacità della batteria di assorbire corrente si riduce, di conseguenza la corrente di carica si deve ridurre. Nel caso in cui ciò non viene eseguito, si attivano reazioni parassite diverse da quella reversibile carica/scarica, in particolare avviene la dissociazione elettrolitica dell’ acqua contenuta nell’elettrolita.
Un sistema estremamente semplice e naturale per rispettare detta necessità consiste nella carica I-U raffigurata schematicamente nella figura di seguito; un primo tratto a corrente costante ed un
secondo tratto a tensione costante.
Questo
andamento si ottiene per mezzo
di un
alimentatore che abbia
caratteristica statica analoga
al suddetto diagramma, il quale può essere immaginato come alimentatore a tensione costante limitato in corrente, ovvero a corrente costante limitato in tensione.
Per quanto riguarda i valori di corrente I e di tensione V, valgono le seguenti considerazioni:
? I non deve superare il massimo valore accettabile per la
batteria in carica. I Costruttori in genere esprimono tale massimo come frazione della capacità nominale della batteria ; ad esempio tipicamente Imax = 0,25 C10, intendendosi la corrente espressa in ampere e la capacità in ampere per ora.
? V deve essere tale da evitare eccessivi assorbimenti di
corrente a fine carica, i quali potrebbero causare dissociazione elettrolitica dell’acqua nell’elettrolita e conseguente parziale disseccamento di quest’ultimo.
Si può quindi passare ad illustrare brevemente i quattro tipi di accumulatori considerati, cioè al piombo-acido, nichel-cadmio, nichel-idruro metallico e litio.
Batterie al piombo-acido
Costituiscono indubbiamente la categoria di accumulatori più diffusa in tutte le applicazioni che richiedano una considerevole quantità di energia, ma non solo, ad esempio nelle automobili, gruppi di continuità di ogni potenza, sommergibili, sistemi di alimentazione ausiliaria delle centrali elettriche e diverse altre ancora. Sono infatti disponibili per capacità che vanno da pochi ampere ora fino a moduli da alcune migliaia di ampere ora.
I punti critici degli accumulatori al piombo sono costituiti da bassa potenza ed energia sia in rapporto al peso che al volume e da scarsa vita utile, in particolare per condizioni di utilizzo non ottimali. Negli ultimi anni però, a causa della concorrenza delle altre tipologie di batterie di nuova concezione, i produttori di accumulatori al piombo hanno cercato di migliorare il loro prodotto, arrivando allo sviluppo delle cosiddette batterie al piombo di tipo evoluto, che cercano in qualche misura di colmare il gap tra questa tecnologia vecchia (risale infatti agli inizi del ‘900) e quelle più recenti.
L’accumulatore è caratterizzato dalla seguente struttura, valida in condizioni di accumulatore completamente carico:
? Elettrodo positivo costituito da diossido di piombo (PbO2)
? Elettrodo negativo costituito da piombo spugnoso (Pb)
? Elettrolita costituito da una soluzione acquosa di acido solforico (H2SO4)
I processi di carica e scarica sono indicati nella seguente equazione
Il funzionamento si basa sulla dissociazione dell’acido solforico, elettricamente neutro, in uno ione ? ?
4
SO e due ioni idrogeno H? . Chiudendo il circuito esterno la corrente fluisce sia fuori che dentro l’accumulatore, in particolare il primo ione si muove verso l’elettrodo positivo, mentre i secondi verso quello negativo. Sulla base delle ricombinazioni che avvengono ai due elettrodi, si ha un eccesso di due elettroni che devono percorrere un circuito esterno per far si che la reazione si compia.
È importante notare come in questo tipo di batterie l’elettrolita non ha solo il compito di consentire il transito degli ioni, come avviene per tutte le altre tipologie di accumulatori, ma partecipa attivamente alla reazione. In particolare, mentre a batteria completamente carica l’elettrolita è ricco di acido solforico, durante il processo di scarica lo stesso si trasforma in acqua, lasciando una soluzione più diluita. Questo consente da un lato di misurare con estrema precisione lo stato di carica degli accumulatori al piombo, dall’altro tale fenomeno è alla base dei problemi causati dalla permanenza delle batterie in situazione di carica scarsa.
I tipi di celle al piombo attualmente sul mercato vengono costruite secondo tre tecnologie, che differiscono a seconda dello stato dell’elettrolita al loro interno: esso può essere liquido, assorbito oppure gelificato. Considerato che il primo tipo menzionato richiede una discreta manutenzione, si è pensato di non prenderlo per niente in considerazione per l’applicazione corrente, concentrando l’attenzione sugli altri due, che vengono genericamente indicati con la sigla VRLA batteries, valve regulated lead acid (batterie ad acido con regolazione a valvola). Sono infatti entrambe in contenitore stagno, salvo la presenza di una valvola di sfiato, che interviene nel caso di condizioni eccezionali per evitare l’esplosione della batteria. Possono essere considerate sostanzialmente equivalenti, salvo analizzare specificatamente le caratteristiche dei singoli modelli dei vari produttori.
Batterie al nichel-cadmio
Le prime batterie studiate per sostituire o affiancare quelle al piombo, nei casi di necessità di energia in condizioni difficili, sono state quelle al nichel cadmio.
Questo tipo di accumulatori hanno la seguente composizione, in condizioni di carca completa:
? Elettrodo positivo costituito da idrossido di nichel (Ni(OH3))
? Elettrodo negativo costituito da cadmio metallico, misto a ferro
? Elettrolita costituito da una soluzione acquosa di idrossido di potassio (KOH)
La prima differenza che può essere notata rispetto a quanto visto precedentemente è che l’elettrolita costituisce in questo caso una soluzione alcalina, e non acida come avveniva nel caso dell’acido solforico. Di conseguenza, questo tipo di batteria può fa parte della famiglia di quelle alcaline.
Senza scendere nel dettaglio delle reazioni chimiche che intercorrono all’interno dell’accumulatore durante la carica e la scarica, ci si può limitare a dire che in pratica si realizza il trasferimento di ossigeno da una piastra all’altra, attraverso l’elettrolita. Questo conduce la corrente elettrica per mezzo degli ioni in esso disciolti ma, a differenza del caso delle batterie al piombo acido, non prendono parte alle reazioni anodiche e catodiche, servono solamente come vettori. L’equazione alla quale è possibile riferirsi è la seguente:
batteria scarica batteria carica
elettrodo elettrodo elettrodo elettrodo
positivo negativo positivo negativo
? ?
OH Cd? ?
OH Ni? ?
OH Cd Ni 2? 2 ? 2 3 ? 2Rispetto alle batterie al piombo, quelle al nichel-cadmio presentano indubbiamente diversi vantaggi, tra cui una maggiore robustezza meccanica, maggiore potenza ed energia specifica, vita utile più lunga ed una minore dipendenza della capacità erogabile da fattori esterni, quali temperatura e corrente di scarica, ma hanno anche dei punti a sfavore, cioè una minore tensione di cella, un impatto ambientale molto più significativo (a causa dell’alta pericolosità del cadmio, la Comunità Economica Europea ha promosso una moratoria per cui tali accumulatori dovrebbero essere tolti dalla circolazione in Europa a partire dalla fine del 2005), costo significativamente più alto e un marcato effetto memoria. Tale fenomeno può essere illustrato come la tendenza, da parte di alcuni tipi di accumulatori, a ridurre la tensione di batteria, a parità di capacità erogata, in modo inversamente dipendente dalla carica residua nel momento della ricarica, cioè in presenza di cicli di scarica poco profondi. In pratica, le batterie al nichel-cadmio dovrebbero sempre essere completamente scaricate prima di un nuovo ciclo di carica, pena una decisa riduzione della tensione di cella nei cicli seguenti. Se l’apparato utilizzatore non è compatibile con tali abbassamenti di tensione, questo fenomeno comporta una diminuzione della capacità effettivamente sfruttabile della batteria. Tale fenomeno è comunque reversibile.
Batterie al nichel-idruro metallico
Di concezione analoga alle precedenti, ma decisamente più recenti e quindi maggiormente efficienti, sono le batterie al nichel-idruro metallico. Queste presentano lo stesso elettrodo positivo e stesso elettrolita degli accumulatori al nichel-cadmio, ma diverso elettrodo negativo, in particolare:
? Elettrodo positivo costituito da idrossido di nichel (Ni(OH3)).
? Elettrodo negativo costituito da un metallo, nel quale viene incorporato dell’idrogeno a formare una lega MHx dove con “M” è stato indicato un metallo generico.
? Elettrolita costituito da una soluzione acquosa di idrossido di potassio (KOH)
La reazione che si realizza all’elettrodo positivo è ovviamente la stessa già vista per il nichel-cadmio, mentre all’elettrodo negativo, durante la scarica, viene ceduto un elettrone per mezzo del circuito esterno ed una molecola di acqua all’elettrolita, avviene cioè la ricombinazione. In pratica è come se il solo ione idrogeno passasse da un elettrodo all’altro durante la carica e la scarica.
Per quanto visto, tali batterie costituiscono una variante di quelle del paragrafo precedente; di conseguenza, esse presentano tutte le principali caratteristiche che rendono interessanti le celle al nichel-cadmio, attenuando però sostanzialmente quelli che ne costituiscono i difetti principali, quali il costo elevato ed i problemi di impatto ambientale. Sulla base di queste considerazioni è intuibile come nel medio periodo tale tecnologia è destinata a soppiantare quella basata sul cadmio, per cui non varrebbe nemmeno la pena soffermarsi su queste ultime, se non fosse che, dato il grosso surplus di accumulatori Ni-Cd ancora in circolo, oggi è possibile approvvigionarsi di tali elementi a prezzi decisamente competitivi.
Un particolare che va tenuto presente lavorando con le batterie al nichel-metal idrato è la temperatura di esercizio: tali elementi infatti riducono la carica che vi può essere introdotta al crescere di tale parametro, arrivando addirittura al danneggiamento permanente della cella nel caso di surriscaldamenti eccessivi. Di conseguenza, il normale esercizio dell’accumulatore può, in condizioni particolari, comportare anche la gestione del calore prodotto dallo stesso sia durante la carica che la scarica.
Si fa infine presente che anche per questa tipologia di accumulatori sussistono problemi dovuti all’effetto memoria sopra menzionato, anche se sembrerebbe che alcuni produttori dichiarino di essere in grado di produrre celle al nichel-metal idrato basso effetto memoria.
Batterie al litio
L’idea di utilizzare il litio nelle celle elettrochimiche risale agli anni settanta, che inizialmente erano di tipo non reversibile (ancora oggi usate in campo fotografico). Il principale motivo per cui tale elemento risulta essere così interessante in questo campo è la sua estrema leggerezza, per cui la carca che può essere sfruttata dalla ionizzazione dell’atomo di litio è, in rapporto al peso, decisamente superiore rispetto a quella di molti altri elementi. Ciò comporta delle elevate potenze specifiche per gli accumulatori che sfruttano tale elemento. Oltre a ciò, il litio presenta caratteristiche fisiche e meccaniche che lo rendono particolarmente indicato per essere utilizzato in celle facilmente trasportabili.
Allo stato attuale, le piccole batterie al litio sono ampiamente utilizzate in tutte le applicazioni che richiedano dispositivi leggeri con elevate possibilità di accumulo di energia, per esempio nel campo delle telecomunicazioni, medico, fotografico e simili, mentre si stanno iniziando a diffondere i primi accumulatori di potenza superiore, adatti ad alimentare ad esempio personal computer (già da diversi anni), utensili elettrici portatili, strumentazione specifica per professionisti.
Le batterie al litio si dividono a loro volta in due categorie: quelle di tipo litio-ioni, il cui elettrolita è di tipo liquido, e quelle litio-polimeri, nelle quali l’elettrolita è solido. In entrambi i casi, il principio di funzionamento è il medesimo: si basa sulla
caratteristica riscontrata in alcune sostanze di contenere atomi di litio all’interno della struttura cristallina. Durante la scarica, un elettrone sottratto ad uno di questi atomi al polo negativo fluisce dal circuito esterno, per raggiungere il polo positivo. Il litio, passato in forma ionica a causa della perdita della carica, migra attraverso l’elettrolita fino a raggiungere il catodo, passando quindi attraverso la cella, dove riprende un elettrone proveniente dal circuito esterno, tornando neutro ed andando a legarsi all’interno della struttura cristallina del catodo. Anche in questo caso, l’elettrolita ha il solo compito di consentire la migrazione degli ioni, non partecipando direttamente alle reazioni. Di conseguenza, la sua densità non si modifica durante i processi di carica e scarica, rendendo quindi difficile stabilire lo stato della cella e la carica residua.
I vantaggi rispetto a tutti gli altri tipi di accumulatori analizzati sono considerevoli: in particolare, utilizzando il litio, si ottengono valori di energia e potenza specifiche significativamente più alti, non si hanno problemi di compatibilità ambientale, inoltre l’effetto memoria è praticamente assente. Di contro, hanno un prezzo che a tutt’oggi è decisamente più alto di quello delle altre batterie e, tranne quelle di potenza molto piccola, sono ancora ad uno stadio poco più che prototipale, per lo meno dal punto di vista industriale, e questo ne limita gli utilizzi a piccole applicazioni.
Scelta della batteria di alimentazione
Viste le considerazioni già svolte in precedenza nel paragrafo dedicato alla scelta del motore, per quanto riguarda la tensione di alimentazione erogata dalla batteria ci si orienta direttamente sui 13 volt a vuoto, in modo da poter contare a un valore nominale di 12 volt.
Per effettuare un confronto tra i sistemi di accumulo descritti, vengono di seguito riportate le caratteristiche principali degli stessi, riassunte nella tabella riportata di seguito.
Tipologia Pb-acido Ni-Cd Ni-MH Litio-ioni
Tensione di cella nominale [V] 2.0 1.2 1.2 3,0 ÷ 4,2 Energia massica [Wh/kg] 35-50 40-60 70-95 80-130 Potenza massica [W/kg] 150-400 80-150 200-300 200-300 Efficienza energetica [%] >80 75 70 >95 Vita utile (cicli scarica 80%) 350-400 800 750-1200 >1000 Autoscarica [% per 48 h] 0.6 1 6 0.7 Costo [$/kWh] 120-150 250-350 200-350 300
Fig. II-11 Tabella riassuntiva delle principali caratteristiche degli accumulatori
considerati.
Per quanto riguarda i costi riportati, sono da intendersi puramente indicativi, in realtà le analisi di mercato effettuate hanno dimostrato che la situazione è decisamente differente. Questo argomento sarà comunque affrontato nel seguito.
Per poter scegliere correttamente sia il tipo che la capacità della batteria, si è calcolata approssimativamente quale fosse l’energia necessaria ad alimentare il dispositivo nell’arco di una giornata di utilizzo. Considerando come punto medio di lavoro del motore quello corrispondente ad una coppia resistente applicata di circa 0,13 newton per metro, valore questo determinato sperimentalmente, si ricava dalle curve dello stesso una corrente richiesta approssimativa inferiore ai 4,5 ampere. Tale valore può
essere moltiplicato per due coefficienti di utilizzazione, uno dovuto alle normali pause di ritorno tra due passaggi consecutivi, l’altro dipendente dal tempo che viene impiegato per le operazioni complementari, quali organizzare la raccolta, spostarsi, nonché le necessità fisiologiche dell’operatore. Si ipotizza che il primo coefficiente valga 0,5, dato che il tempo di andata può considerarsi uguale a quello di ritorno, ed il secondo pari empiricamente a 0,6, sulla base della esperienza di lavoro. Di conseguenza la energia necessaria per ogni ora di funzionamento, misurata in ampere ora, come di prassi in tutti i casi di sistemi alimentati a batteria, risulta
Che, moltiplicato per le sette ore di funzionamento, fornisce l’energia necessaria per giornata di lavoro, pari a 9,45 ampere ora.
Sulla base di quanto detto fino ad ora, il sistema di accumulo da preferire per questo tipo di applicazione sembrerebbe essere quello al nichel-metal idrato, che unisce i vantaggi di una semplice gestione da parte dell’operatore, una alta potenza ed energia specifica, di conseguenza un peso contenuto, il tutto ad un prezzo non eccessivo. In realtà, come già accennato in precedenza, la ricerca di batterie sul mercato italiano ha dato risultati “particolari”: in pratica, solamente per gli accumulatori al piombo è disponibile una vasta possibilità di scelta, sia per marca che per capacità, modello, utilizzi specifici. Sia per la tecnologia del nichel-cadmio che per quella del nichel-metal idrato la situazione è grosso modo la medesima: in pratica sono disponibili solamente celle singole, che i produttori assemblano opportunamente per realizzare batterie della capacità e tensione voluta, ma ad un prezzo decisamente superiore di quello che si avrebbe nella possibilità di disporre di un prodotto standard, in particolare per i piccoli quantitativi necessari nella prima fase di commercializzazione del prodotto. In definitiva, il prezzo di un sistema di alimentazione di questo genere sarebbe venuto a costare oltre dieci volte di più
Ah f
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rispetto ad uno al piombo-acido. L’unica possibilità probabilmente che avrebbe consentito di utilizzare qualcosa del genere sarebbe stata importare dall’estero i dispositivi necessari, ipotesi non realizzabile in questo primo periodo. Per quanto riguarda gli accumulatori al litio, non è stato possibile rintracciare nemmeno un fornitore o distributore che si occupasse di tali componenti o che disponesse di qualcosa di adattabile alla situazione specifica.
Conseguenza diretta di tutto ciò è stato che, per lo meno per i primi anni di commercializzazione del macchinario, la scelta deve necessariamente cadere su una batteria al piombo per mancanza di alternative valide. In particolare, la scelta si è orientata verso quelle di tipo VRLA, ovvero a contenitore stagno, le quali non solo richiedono una manutenzione praticamente nulla, ma dato che il liquido elettrolitico è assorbito all’interno di un separatore, posto tra la piastra positiva e quella negativa della cella, non si ha fuoriuscita dello stesso anche nel caso in cui il contenitore venisse inclinato o capovolto.
Stabilito ciò è stato semplice determinare, sulla base dei cataloghi di diversi produttori di questi componenti, quale accumulatore fosse quello più indicato per lo scopo. Innanzi tutto bisogna tenere conto che il tipo di scarica al quale sarà sottoposto è estremamente stressante, in quanto dovendo avviare un motore elettrico in continuazione, con frequenza abbastanza elevata, i picchi prodotti in tali circostanze fanno si che la batteria si scarichi con corrente decisamente alta, raggiungendo allo spunto il valore di 30 ampere. Questo provocherebbe un decremento del tempo di vita della stessa e una diminuzione della capacità effettivamente sfruttabile della batteria: infatti nel caso in cui la corrente erogata fosse sensibilmente inferiore a quella nominale, cioè di scarica a 20 ore, i processi elettrolitici all’interno delle celle hanno la possibilità di svolgersi in modo uniforme e regolare, cosa che invece non avviene per scariche veloci. Una soluzione ideale a tutti questi problemi può essere quella di imporre, come specifica della scheda di controllo del motore, che la corrente dello stesso non superi una
certa soglia prefissata. In base alle curve della macchina precedentemente riportate, è possibile impostare tale soglia al di sotto degli 11 ampere, in considerazione del fatto che in corrispondenza di tale punto la coppia erogata è oltre 0,1 newton per metro a 8?500 giri al minuto, per cui con opportuna demoltiplica è possibile riportarsi all’interno delle specifiche generali precedentemente stabilite.
Sulla base del calcolo dell’energia necessaria sviluppato in precedenza e alle considerazioni sul peso, è stato possibile scegliere dai cataloghi dei produttori la taglia delle batterie che possono essere utilizzate per questa applicazione. Essendo le capacità unificate, la scelta non è dipendente dal produttore del dispositivo, per cui questo dato è stato scelto in un secondo momento. Le uniche due che è sembrato ragionevole utilizzare sono state quelle da 7,2 ampere ora, del peso di circa 2,5 chilogrammi, e quelle da 12 ampere ora, pesanti oltre 3,8 chilogrammi; di conseguenza la prima ha scarsa capacità, la seconda è troppo pesante. Si è deciso quindi di procedere alla sperimentazione della batteria più piccola, nel caso in cui fosse andata bene sarebbe stata accettata come definitiva. Contemporaneamente, su suggerimento del costruttore, è stato testato un altro tipo di accumulatore al piombo che, essendo destinato all’utilizzo nei piccoli gruppi di continuità per personal computer, e quindi con alte correnti di scarica, in condizioni di sfruttamento normale avrebbe dovuto essere in grado di erogare maggiore quantità di carica a parità delle altre condizioni. Di conseguenza sono stati reperiti anche alcuni campioni del tipo suddetto, sempre della capacità di 7,2 ampere ora nominali, quindi di uguale peso e dimensioni di quelle precedentemente menzionate ma che, nel tipo di utilizzo considerato, avrebbero dovuto essere in grado di erogare circa 9 ampere ora, costando solo leggermente di più. In realtà questi ultimi hanno dato risultati non soddisfacenti, comportandosi in pratica allo stesso modo delle batterie da 7,2 ampere ora classiche, per cui ci si è concentrati solo sulle possibilità di utilizzo di questi secondi elementi.
La caratteristica di scarica di un accumulatore quale quello considerato è visibile nel seguito. Riporta l’andamento della tensione ai morsetti in funzione delle ore di lavoro, il tutto per diversi valori della corrente di scarica. La linea tratteggiata in basso indica il luogo geometrico delle tensioni di cut-off relative ai differenti valori della corrente erogata, cioè i minimi valori di tensione che la batteria può raggiungere in fase di scarica senza accusare danni permanenti. Da notare come tali valori decrescano all’aumentare della corrente, per i motivi sopra accennati sulla diminuzione della capacità utile.
Fig. II-12 Caratteristica di scarica di una batteria al piombo da 7,2 Ah (catalogo
Panasonic).
Considerato che le condizioni di utilizzo in questo specifico progetto sarebbero state particolari, sopratutto per la corrente fortemente variabile, ma anche per tempi di non erogazione più o meno lunghi, una volta ricevuti i campioni da testare si è ritenuto opportuno costruire una curva di scarica effettiva per quel tipo di batteria in quelle specifiche condizioni di lavoro. Sono state effettuate due serie di prove, entrambe senza la presenza di alcuna limitazione della corrente assorbita: sia delle misure fatte su un
apposito banco di studio, pensato appositamente per simulare in tutto il reale comportamento del macchinario, sia sul campo, durante il lavoro effettivo. Data l’alta compatibilità delle due serie, si riportano solamente i risultati relativi alle prove effettuate sul banco: si è operato misurando ad intervalli non regolari la tensione fornita dalla batteria e la corrente erogata dalla stessa, mentre il motore azionava le chele che agivano su un dispositivo a coppia frenante costante. La prova sarebbe dovuta concludersi al raggiungimento della tensione di cut-off indicata dal grafico precedente al valore della corrente erogata, cioè circa 10,3 volt, ma si è preferito far proseguire l’esperimento per valutare fino a che punto l’accumulatore era in condizioni di far funzionare correttamente il sistema; come si vede dalla tabella, il test si è interrotto non molti minuti dopo, al raggiungimento delle sei ore. Il grafico riporta gli andamenti delle due grandezze che si vedono essere compatibili con quanto ci si sarebbe aspettati dalla curva teorica precedente.
Fig. II-13 Caratteristica di scarica misurata per batteria 12V 7,2Ah.
Considerato che tale batteria ha alimentato il macchinario per sei ore sul sistema di simulazione, quindi consecutive e senza soste di alcun genere, è stato plausibile prevedere che, nel caso di utilizzo da parte di un operatore, tale tempo si allunghi ancora un po’ a causa delle inevitabili pause dell’attività lavorativa, dovute sia a
Minuti tensione corrente
0 12,1 3,3 30 12,01 3,3 80 11,9 3,27 120 11,8 3,3 160 11,67 3,3 210 11,5 3,2 270 11,25 3 300 10,7 2,85 330 10,4 2,6 360 9,13 2,2 durata ore 6 0 2 4 6 8 10 12 14 0 100 200 300 400 tensione [V] corrente [A]
necessità fisiche che logistiche del lavoro. Di conseguenza si è optato per questo accumulatore, prevedendo comunque la possibilità di fornire sul mercato delle batterie di riserva nel caso in cui ci fosse necessità di maggiore autonomia.
Per quanto concerne i cicli di vita previsti per questo elemento, bisogna innanzi tutto considerare che tale parametro dipende da una serie di termini quali il tipo di batteria, il metodo di carica, la temperatura ambiente e il periodo di permanenza in condizioni di scarica prima di una successiva ricarica, ma quello che certamente influisce maggiormente rispetto agli altri è la profondità di scarica. Essendo impossibile, per ragioni di tempo, effettuare delle prove a riguardo, è stato necessario basarsi sui dati forniti dal costruttore, riportati sul grafico di seguito; sulla base degli stessi è ragionevole aspettarsi in queste condizioni di utilizzo un numero di cicli di vita pari almeno a 350 o 400, più che sufficienti a garantire il corretto funzionamento per diversi anni.
Fig. II-14 Cicli di vita di un accumulatore al piombo (catalogo SBK).
L’ultima verifica che è stata effettuata ha riguardato l’autoscarica: considerando infatti che queste batterie sono destinate all’utilizzo solo per un breve periodo dell’anno, rimanendo inattive per il resto, è importante che il fenomeno considerato non sia di entità tale da causare una eccessiva scarica delle celle con
conseguente danneggiamento. Anche per la determinazione di tale parametro, si è ricorsi alle curve fornite dal costruttore,riportate nel seguito, essendo impossibile operare con verifiche sul campo per i motivi sopra detti.
Fig. II-15 Curva di autoscarica di batterie al piombo per diversi valori di
temperatura (catalogo SBK).
Ipotizzando una temperatura ambiente media nell’arco dell’anno di 25 gradi centigradi, è ragionevole supporre che dopo un anno si abbia ancora una seppur esigua carica residua della batteria.
Si è deciso inoltre di dotare l’accumulatore di apposito caricabatteria; per quanto detto in precedenza, è stato adottato un alimentatore in corrente limitato in tensione. In base alle indicazioni generali e a quelle specifiche fornite dal costruttore, questo metodo prevede che la corrente sia mantenuta ad un valore compreso tra il 20% e il 40% della corrente di scarica nominale considerata a 20 ore e che la tensione non superi i 2,45 volt per ogni cella, pena la dissociazione dell’acqua in soluzione e quindi la formazione di gas con pericolo di esplosione. Nel presente caso, per quanto riguarda la corrente di carica, essendo la scarica a 20 ore pari a 7,2 ampere, si ha
Icmax ? 7,2*0.4? 1.44A Icmin ? 7,2*0.2? 0.72A
Mentre per quanto riguarda il valore massimo di tale corrente è sempre bene che non venga superato, si può scendere anche al di sotto di quello minimo, con effetti ovviamente negativi sui tempi necessari per la ricarica. Si è comunque deciso di utilizzare un caricabatteria in grado di erogare circa 1 ampere, di tipo elettronico per questioni sia di leggerezza che economiche. Questo componente sarà comunque acquistato all’esterno e non costruito in azienda.
Per quanto riguarda la componentistica elettrica del macchinario in esame, rimane da illustrare solamente la scheda elettronica di controllo, alla quale è stato dedicato un capitolo apposito vista la vastità dell’argomento trattato.
Considerazioni conclusive
Per quanto concerne i dispositivi elettrici dell’utensile in oggetto, è stata riscontrata una certa difficoltà nella determinazione delle specifiche, in quanto trattasi di un argomento sicuramente inusuale, del quale non è reperibile nella letteratura attuale alcuna indicazione, per cui l’unico metodo grazie al quale è stato possibile ottenere i primi risultati soddisfacenti è stato quello di sperimentare soluzioni differenti, con esiti più o meno incoraggianti, e di procedere per tentativi. Di volta in volta, è stato necessario ingegnarsi al fine di risolvere gli immancabili piccoli problemi, che inevitabilmente sorgevano procedendo nella realizzazione. Una volta riusciti, tramite tali artifici, ad ottenere dati abbastanza concreti sui quali basare il futuro progetto, è stata
intrapresa l’opera di concretizzazione delle idee e loro perfezionamento: per queste operazioni è stato indispensabile l’ausilio dei moderni mezzi informatici, in particolare di Internet, che ha consentito in breve tempo di rendersi conto della effettiva attuabilità dei progetti o meno e delle disponibilità offerte dai mercati, e strumenti di realizzazione di modelli grafici tridimensionali, i quali consentono di conoscere il risultato finale di tutta una serie di operazioni, prima ancora che le stesse siano intraprese, ovviamente senza considerare tutti gli altri apporti forniti di uso più comune.
Una volta stabilite le linee guida del progetto, riassunte per mezzo di pratiche e chiare specifiche, è stato individuato un primo schema realizzativo dell’utensile, molto approssimativo, ma che ha consentito di iniziare a pensare ai singoli dispositivi che avrebbero preso parte al prodotto finito.
Per quanto riguarda i componenti elettrici, si è deciso di utilizzare la configurazione più semplice che avrebbe consentito il corretto funzionamento del sistema, costituita quindi da un attuatore, in questo caso un motore, un sistema di controllo dello stesso e la fonte di energia, ovvero una batteria di accumulatori elettrochimici. Bisogna a questo punto ammettere che le scelte in tale settore sono state in grande misura vincolate da due aspetti: quello economico e quello logistico. Per quanto infatti siano in teoria disponibili un discreto numero di alternative per poter ottenere quanto richiesto, in pratica gran parte delle stesse sono limitate ad impieghi particolari, per cui con alti costi e scarse possibilità di approvvigionamento in grande quantità. La scelta del motore non ha molto risentito di questo aspetto, in quanto la macchina in corrente continua a collettore è certamente una soluzione idonea per tale tipo di azionamento, ma lo stesso non si può dire per l’accumulatore selezionato: probabilmente sarebbe stato di gran lunga da preferire uno del tipo al nichel-metal idrato, di capacità superiore, ma questa possibilità è stata soppressa a causa del costo veramente fuori portata.
Per migliorare la situazione determinata dalla presenza di questi due componenti, l’elemento su cui non si potrà transigere sarà la scheda elettronica di controllo, che dovrà far si che, a fronte dei vincoli già imposti e delle specifiche da rispettare, l’utensile abbia un comportamento conforme a quanto preventivato per mezzo del prototipo.