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CAP. I

ORIGINI DELLA FIGURA DEL VIRTUOSO

ORIGINI DELLA FIGURA DEL VIRTUOSO

ORIGINI DELLA FIGURA DEL VIRTUOSO

ORIGINI DELLA FIGURA DEL VIRTUOSO

Sebbene sia stata usata spesso dagli storici in riferimento ad alcune delle figure peculiari e animatrici della Repubblica delle Lettere dei secoli XVII e XVIII, l’espressione “virtuoso” attende ancora una definizione e una collocazione nel contesto storico cui appartiene. In molti casi è stata usata in senso piuttosto vago in relazione ad eruditi dal singolare profilo intellettuale; altre volte si incontra quale comodo surrogato cui ricorrere per evitare ripetizioni, riducendosi ad un’etichetta priva di significato. L’imbarazzo degli storici della cultura di fronte al tentativo di dare al termine un valore e un contenuto euristicamente più connotati deriva probabilmente dal fatto che alla lunga fase di gestazione della Repubblica delle Lettere contribuirono figure dalle competenze e dagli interessi così disparati, da richiedere una sua successiva frammentazione in tante quante sono le branche del sapere1. Tuttavia, l’espressione non nasce dalla fantasia degli storici; il termine ha una sua antichità ed un suo uso, che affondano le radici nei primi secoli dell’età moderna sino a presentare una significativa deriva riscontrabile sino alla metà del Settecento.

PARTE I

1. Studio lessicografico

La prima apparizione del termine virtuoso registrata dagli accademici della Crusca nel loro Dizionario2 risale al XIV sec. quando Dante, nel primo trattato del Convivio (cap. 6) sentenzia:

“ciascuna cosa è virtuosa in sua natura, che fa quello a che l’è ordinata: et quanto meglio lo fa, tanto più è virtuosa. Onde dicemo, huomo virtuoso, che vive in vita contemplativa […]”.

Altro antesignano dell’uso nella lingua vernacolare è padre Jacopo Passavanti, che nel suo Specchio della Penitenza3, pur servendosi della lectio difficilior “vertudioso” ascrive alla

1

Cfr. H. Bots - F. Waquet, La Repubblica delle Lettere, il Mulino, Bologna, 2005, spec. conclusioni, pp. 225-7.

2 Mi riferisco qui all’edizione stampata a Venezia nel 1612 presso Giovanni Alberti, tuttora

fruibile nella ristampa anastatica pubblicata a Firenze, Le Lettere nel 1987. La voce “virtuoso” si trova a p. 941, e mantiene la sua valenza di aggettivo. Tuttavia, le ricorrenze del termine in alcuni degli autori menzionati si sono rivelate estremamente utili nel mio tentativo di ricostruzione della storia del termine.

3 L’opera, composta attorno al 1345, venne edita per la prima volta a Firenze nel 1485. Per la sua

consultazione mi sono avvalso dell’edizione in 12° pubblicata nel 1585 a Firenze presso Domenico Sermatelli. Il brano citato si trova nel Prologo, p. 60. Nonostante la datazione dell’opera possa suggerire un uso ancora immaturo del termine, una sfumatura simile di questo significato può esser rinvenuta in quel passo della biografia del Sarpi nel quale il Micanzio ricorda come, durante il noviziato nell’Ordine dei Servi di Maria da lui affrontato a Mantova “è costume in tali adunanze di religiosi far mostra di varii essercizii virtuosi, di predicazioni e di dispute, ove si mandano i soggetti più elevati ad onorar il congresso e far vedere che gl’ordini non sono oziosi, ma spendono il tempo in sante e lodevoli operazioni”. Cfr. F. Micanzio, Vita di padre Paolo dell’ Ordine dei Servi e Theologo della Serenissima Repubblica di Venezia, [Leyden, 1646]. Per la lettura del testo io mi servii a suo tempo dell’edizione degli Elzevier pubblicata ad Amsterdam nel 1658 (in 12°), conservata in BNCF, Magl. 4.7.199/a. Una edizione di riferimento più “moderna” è quella curata da Corrado Vivanti per Einaudi, impressa in due volumi che contengono anche l’Istoria del Concilio Tridentino. Da questa provengono i brani riportati in queste pagine, d’ora in poi citata come Vivanti, Sarpi. Il passo menzionato è a p. 1279.

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penitenza, alla lettura delle vite dei santi ed alla pratica devozionale i meriti per i quali “l’uomo diventa vertudioso, conoscente ed esperto di molte altre cose”. Ma nonostante la precocità di tali usi nella lingua italiana, la trasposizione del termine dal latino e l’introduzione di una nuova sfumatura di significato, volta ad identificare un cultore delle arti e delle scienze, rappresentano due stadi differenti nello sviluppo di questa espressione. Il terreno in cui ciò avviene è quello della cultura italiana, data la tardiva apparizione in altri idiomi nazionali4, nella quale si sviluppa la riflessione

politica e intellettuale dei grandi autori del nostro Rinascimento.

L’appartenenza del termine virtuoso al campo semantico polarizzato attorno al concetto di virtù permette di concentrare le ricerche attorno ai quei testi didascalici che rappresentano alcuni tra i capolavori della nostra letteratura coeva. Del progressivo saldarsi alla riflessione sulla virtù a concetti quali nobiltà, eminenza, perizia e capacità ci si può render facilmente conto dalla lettura di testi fondamentali quali il Principe di Machiavelli o il Libro del Cortegiano di Baltasar Castiglione. Ma nonostante la presenza di tutte queste sfumature di significato nell’uso di tali autori, non si può dire certamente che essi forniscano un concetto univoco dell’esser “virtuoso”. Per quanto capiti talvolta di incorrere nella loro prosa in usi in qualche modo vicini alla definizione di percorsi della virtù riconducibili allo studio o alla professione di una qualche disciplina5, il lemma continua a mantenere accezioni

legate principalmente alla sua connotazione etica. Se nel corso della lettura del Principe capita di imbattersi in accezioni di virtù e di “uomini virtuosi” legate a perizia, eccellenza, capacità, Machiavelli non riesce tuttavia a fornire una definizione univoca dei valori, delle competenze e delle capacità che li rendono tali. Probabilmente, tale incapacità dell’A. è legata alla sua più ampia revisione di quel codice umanistico dei vizi e delle virtù, caratterizzato da una forte connotazione etica, che si scontra con il suo esercizio della facoltà di dubitare e rimettere le cose in discussione alla luce del suo brillante pragmatismo. Un esercizio che si sviluppa con tale audacia nei capp. XI-XXVI, da divenire prospettiva ingannevole6 ai fini di assurgere a metro di valutazione

4 Cfr., ad es., E. Huguet, Dictionnaire de la langue française du XVI siècle, Paris, Didier

Erudition, 1925-67, alla voce «virtuosité», vol. VII, pp. 452-3. L’estensore è ben chiaro nell’indicare l’origine italiana del termine.

5 Cfr. N. Machiavelli, Il Principe, a cura di G. Inglese, Einaudi, Torino, 1995, cap. XXI (Quod

Principem deceat ut egregius habeatur), p. 198. Qui l’ex segretario della Repubblica Fiorentina consiglia al suo regnante modello: “Debbe ancora uno principe mostrarsi amatore delle virtù, dando ricapito alli uomini virtuosi e onorando gli eccellenti in una arte”.

6 Cfr. Machiavelli, Principe, op. cit., cap. X, 14, p. 92 (Quomodo omnium principatuum vires

perpendi debeant): “Onde, se si considerrà bene tutto, si troverà qualche cosa che parrà virtù e, seguendola, sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio e, seguendola, ne riesce la sicurtà ed il bene essere suo”. Questa, tra le frasi probabilmente più celebri del capolavoro del

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oggettiva delle necessità dello stato e delle azioni dei suoi governanti. Il concetto dominante di virtù che ne scaturisce risulta quindi quello di una superiore virtù politica, intesa quale capacità di governare e mantenere lo stato; capacità questa fondata sulla scaltrezza e sul coraggio piuttosto che sulla regolamentazione ed aderenza ad un rigido codice etico-morale. A modo suo, la celebrazione della figura di Cesare Borgia è solo la parte più sensibile dello spostamento di questo concetto dalle figure esemplari degli antichi – celebrati nella letteratura classica principalmente per la loro statura morale – verso il possesso di capacità e competenze specifiche e vincolate in confini molto più labili dell’etica stoica. La percezione di tale tendenza a traslare il concetto di virtù verso il possesso di competenze pratiche piuttosto che di una specchiata morale si fa più viva nel secondo quarto del Cinquecento. Nell’esaminare le cause della prosperità degli stati italiani anteriore alla discesa di Carlo VIII, Francesco Guicciardini ricorda come

“[…]nella quale felicità, acquistata con varie occasioni, la conservavano varie cagioni: ma tra l’altre, di consentimento comune, si attribuiva laude non piccola alla industria ed alla virtù di Lorenzo de’ Medici, cittadino tanto eminente sopra il grado privato nella città di Firenze che per consiglio suo si reggevano le cose di quella repubblica, potente più […] per gli ingegni degli uomini e per la prontezza de’ danari che per grandezza di dominio”7.

Se tale “industria” e “virtù” restano ancora profondamente legate all’esercizio del governo8 ed a competenze necessarie all’amministrazione del potere, il rapporto tra

l’essere virtuoso ed erudito si consolida nel Libro del Cortegiano di Baltasar Castiglione. Le varie stesure dell’opera devono aver in qualche modo modificato l’accezione del concetto di virtù assieme alle finalità ad essa assegnate ed al valore stesso della “cortigianeria”, alla luce dei contrasti e delle tensioni anche diverse che si riscontrano attorno alle problematiche affrontate nel corso del dialogo tra gli interlocutori. Nella discussione di un concetto ampio e intriso di significati umanistici come quello di virtù, la sua stessa definizione cade vittima di una polarità insopprimibile di valori positivi e negativi, che non trova una definizione univoca o la sua identificazione

Machiavelli, la lente sotto la quale le caratteristiche necessarie alla conservazione di uno stato vengono analizzate e messe in discussione nei capp. XVI-XXI.

7 Cfr. F. Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, Einaudi, Torino, 1971, libro I,

cap. I, p. 2.

8

Cfr. Ibidem, libro IV, cap. XII, p. 414. È lo stesso Guicciardini ad accostare benemerenza e virtuosità per significare eccellenza, capacità e meriti in funzione antitetica alla pratica del nepotismo: “Le ricchezze diffuse in loro ed in tutta la corte seguitarono in loro le pompe, il lusso ed i costumi inonesti, le libidini ed i piaceri abominevoli; nessuna cura ai successori, nessuna della maestà perpetua del pontificato, ma in luogo di questo, desiderio ambizioso e pestifero di esaltare non solamente a ricchezze immoderate ma a principati, a regni, i figliuoli ed i congiunti loro: non distribuendo più le dignità e gli emolumenti negli uomini benemeriti e virtuosi, ma, quasi sempre o vendendosi al prezzo maggiore o dissipandosi in persone opportune all’ambizione all’avarizia o alle vergognose voluttà”.

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nell’alveo di un sistema di principi morali rigidamente inquadrato o di un paradigma comportamentale altrettanto inflessibile, quanto piuttosto nella sintesi, nell’incontro di valori, atteggiamenti e comportamenti contrastanti9, da sottoporre ed adeguare alla

mutevolezza della storia. Per quanto anche nel Cortegiano l’appellativo “virtuoso” resti principalmente relegato a funzione di aggettivo, ad esso iniziano a legarsi qualità e comportamenti in grado di arricchire il modello e fornirlo di complessità. Complessità che nel buon cortegiano si estrinseca principalmente in comportamenti prudenti e misurati, come nel continuo esercizio del buon giudizio. Ma oltre che una istigazione all’ideale della mediocritas umanistica, intesa come misuratezza e oculatezza dei comportamenti (a loro volta intesi in un senso molto più ampio di quello della cura esteriore o degli esercizi cavallereschi in cui formarsi, che rientrano nella sfera della “grazia”), la virtù si palesa e si precisa come parametro interno e spirituale non esclusivamente legato alle occasioni sociali, ma che trova espressione nella formulazione da parte del conte Ludovico da Canossa (uno degli interlocutori) del concetto di “sprezzatura”. Nella sua accezione antinomica di “punto intermedio di convergenza tra due atteggiamenti contrari – l’affettazione o l’artificio da una parte e la spontaneità o naturalezza dall’altra”10 funziona perciò allo stesso modo dell’ideale

di mediocritas cui è strettamente correlata, venendo a rappresentare un parametro ed una misura in cui si confrontano e definiscono, in positivo e in negativo, principi e pratiche diversi ed opposti, quali regole fondanti nella via dell’esercizio della virtù. La sprezzatura, che non respinge l’arte ma la dissimula cercando di mostrare come naturali capacità e competenze frutto dell’artificio, diviene sinonimo non solamente di una superiore capacità di autocontrollo (la temperanza, annoverata tra le virtù

9 Nonostante non si parli direttamente della virtù, una linea guida fondamentale in grado di

esplicare questo atteggiamento dell’autore nel vagliare e formulare tale concetto può essere rinvenuta nelle parole di Cesare Gonzaga che aprono il cap. VIII del primo libro: “Chi vol con diligenza considerar tutte le nostre azioni, trova sempre in esse varii difetti; e ciò procede perché la natura, così in questo come nell’altre cose varia, ad uno ha dato lume di ragione in una cosa, ad un altro in un’altra: però interviene che, sapendo l’un quel che l’altro non sa ed essendo ignorante di quel che l’altro intende, ciascun conosce facilmente l’error del compagno e non il suo ed a tratti ci pare esser molto savi, e forse più in quello in che più siamo pazzi”, cfr. B. Castiglione, Il libro del Cortigiano, a cura di G. Preti, Einaudi, Torino 1965 (d’ora in poi citato come Castiglione, Cortigiano), p. 19. Nonostante questa premessa sia legata alla breve discussione che si tiene attorno alle virtù ed ai vizi della persona amata, il passo configura bene come anche il concetto di virtù si stagli in quel quadro di sincronica varietas storica dei costumi e delle consuetudini, che impedisce una valutazione ed una definizione univoca per le grandi tematiche dibattute nel libro. Per quanto molto differenti e volontariamente messi in contrapposizione quelli rappresentati da Federico da Montefeltro e da suo figlio Guidobaldo, l’uno per la sua operosità politica e le sue capacità militari, l’altro per il suo otium dignitoso e raffinato, condizionato dalla malattia che sopporta con stoica temperanza, sono entrambi considerati esempi di virtù.

10 Tale, acuta definizione proviene dal saggio di A. Carella, “Il libro del Cortegiano” di

Baldassarre Castiglione, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere, Einaudi, Torino, 1992, vol. I, pp. 3-46.

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cardinali), ma anche di superiore consapevolezza intellettuale, padronanza piena degli strumenti con cui si è compiuta la propria formazione culturale, di importante coadiutore della grazia non solo nel parlare, nello scrivere o nel comportarsi bene, quanto nell’esercizio e nello sviluppo di quella “bontà” considerata essenziale nel coltivare saggezza e cultura. Nonostante verso la fine del primo libro si ricordi a chiare lettere come la gloria militare e la professione delle armi restino la principale vocazione del cortigiano, l’attività delle lettere viene definita nelle pagine immediatamente precedenti il “vero e principal ornamento dell’animo”, il “supremo dono” concesso da Dio agli uomini, una delle cose “più utili e necessarie alla vita ed all’utilità nostra”11.

Quella del Castiglione non rappresenta tuttavia una pedissequa riproposizione del mito umanistico dell’assoluta complementarità di lettere e armi nel campo della formazione del suo cortigiano. Questa posizione è espressa piuttosto come possibile, priva di alcun dogmatismo, che contribuisce a non renderla immune da tensioni ed incertezze. Il dubbio e la mediazione di queste posizioni, divenute apparentemente inconciliabili e distanti nel quadro della situazione politica italiana coeva, sebbene vengano difese in posizione polemica e conflittuale con quelle del Bembo (suo contemporaneo ed interlocutore nel corso dei dialoghi del libro), si trovano successivamente vincolate a quella misura che aveva guidato Ludovico da Canossa nella sua esposizione delle qualità e competenze che rendono “virtuoso” il cortigiano nel corso del primo libro. Se le posizioni del Castiglione in questa annosa disputa sulla nobiltà della professione delle lettere come possibile via per perseguire una virtù non esclusivamente identificabile come rettitudine morale o capacità politica (ma intesa in questo caso nel senso più ampio di eccellenza, acquisizione di perizia e capacità, insite in quella necessità di ornamento e nobilitazione della condizione umana) restano improntate alla mediocritas12 ed alla misura, la rivendicazione dello

11 Cfr. Castiglione, Cortigiano, libro I, cap. XLIII, p. 71. Il riferimento immediatamente

precedente sulla preminenza del “mestiere delle armi” si trova invece in libro I, cap. XLIV, p. 74, racchiuso in questo significativo passo: “mostrando sempre e tenendo in effetto per sua principal professione l’arme e l’altre bone condizioni tutte per l’ornamento di quelle; e massimamente tra i soldati, per non far come coloro che ne’ studi voglion parere omini di guerra e tra gli uomini di guerra letterati”.

12 Cfr. Castiglione, Cortigiano, libro I, cap. XLIV, p. 73. “Il quale voglio che sia più che

mediocremente erudito, almeno in questi studi che chiamano d’umanità; e non solamente della lingua latina, ma ancor della greca abbia cognizione, per le molte e varie cose che in quella divinamente scritte sono. Sia versato nei poeti e non meno negli oratori ed istorici ed ancor esercitato nel scriver versi e prosa, massimamente in questa nostra lingua volgare”. Il bagaglio culturale che l’A. raccomanda al cortigiano tramite queste parole stride per quantità e qualità con il “mediocremente erudito” con cui aveva aperto la sua illustrazione di tali competenze. Nonostante manchi in questa trattazione un’uguale attenzione alle competenze matematiche, certamente più

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spazio da dedicare al sapere resta importante e significativa. Questo spazio, ricavato e difeso dal Castiglione tramite la dialettica del contrasto quale mezzo per giungere ad una sintesi che anima numerose delle pagine dei dialoghi del suo Cortigiano, viene difeso con maggiore convinzione dal suo “interlocutore/rivale” Pietro Bembo, che fa a suo modo della virtù un percorso di ricerca personale, aperto ad ogni campo dell’attività contemplativa. Come sanziona in apertura del secondo libro delle Prose della volgar lingua,

“Due sono, monsignor messer Giulio, per comune giudicio di ciascun savio, della vita degli uomini le vie, per le quali si può, caminando, a molta loda di sé con molta utilità d’altrui pervenire. L’una è il fare le belle e laudevoli cose; l’altra è il considerare e il contemplare […]. Perciò che e con le buone opere, e in pace e in guerra, si fa in diversi modi e alle private persone e alle comunanze de’ popoli e alle nazioni giovamento, e per la contemplazione diveine l’uom saggio e prudente e può gli altri di molta virtù abondevoli fare similmente, loro le cose da sé trovate e considerate dimostrando”13.

Con la stipulazione di questo “patto con le Muse” (per dirla con le parole di Erasmo), anche il termine virtuoso inizia la sua trasformazione in sostantivo atto a connotare il suo firmatario.

È solamente verso la metà del Cinquecento infatti che questa estensione di significato nel termine assume una conformazione più definita, volta a racchiudere in sé un’unione dei concetti di eminenza, rispettabilità e capacità in campo tecnico legate ad ambiti non esclusivamente connessi alla politica14: Benvenuto Cellini in alcuni passi della sua Autobiografia si riferisce più volte alla “virtù” di colleghi e collaboratori quale sinonimo di perizia, padronanza ed eccellenza nell’esecuzione artistica. Ma tale uso inizia a diffondersi con maggiore rapidità solamente nella seconda metà del secolo, quando la ricerca dell’eccellenza, della virtù, dell’essere virtuoso non è perseguibile solamente tramite la produzione nell’ambito dell’arte (o meglio, quelle che vengono definite le beaux arts).

Un primo uso del termine in questa funzione può essere rinvenuto nei Ragionamenti diversi fatti ai Marmi di Fiorenza e scritti dai signori Accademici Peregrini al magnifico e nobilissimo signore Antonio da Feltro dedicati (Venezia, 1552) di Anton Francesco Doni, che nel corso di un dialogo tra due viaggiatori di passaggio a Firenze (Dubbioso e Risoluto), fa porre al primo la richiesta di quali siano i “litterati e i virtuosi gentiluomini” che vivono adesso in quella città. Risoluto risponde fornendo i nomi di

funzionali alla carriera militare, questo resta una traccia di un percorso di educazione e formazione significativo.

13 Cfr. P. Bembo, Prose della Volgar Lingua, Gli Asolani, Rime, a cura di C. Dionisotti, UTET,

Torino, 1966, p. 43.

14 Accezione questa che avrà una sua fortuna nel campo della musica, dove tuttora capita di sentir

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alcuni dei principali letterati; quanto ai “virtuosi gentiluomini” risponde con quella che potrebbe essere una definizione prototipica – “di gentiluomini poi che son literati, che attendono alle faccende del mondo,quanti ce ne sono in questa terra! Tanti che ne stupireste”15 – senza però fornire un particolari criteri distintivi in grado

di esplicare o dare una connotazione più specifica (in grado di superare una dimensione vagamente positiva) a questa definizione. Dalle parole del Risoluto doniano veniamo a sapere che tra i requisiti necessari ad essere qualificato come virtuoso ci sono l’essere dotato di “raro ingegno, [l’esser] gentil, cortese, reale”16. Per

quanto questi attributi abbiano un significato piuttosto ampio nel campo della cultura rinascimentale, il termine necessiterà ancora una lunga maturazione prima di acquisire un significato ed un valore ermeneutico più precisamente definiti; tuttavia in queste parole già si avverte l’avvicinamento delle figure del cortigiano di castiglioniana memoria e dell’erudito. Erudito non più vincolato al solo ambito della corte. Per quanto questa resti uno dei luoghi in cui può essere praticata l’attività intellettuale grazie al mecenatismo illuminato di alcuni sovrani17, nel corso del Cinquecento si

creano nuovi spazi: le Accademie cittadine ad esempio, che nella prosa doniana, iniziano a connotarsi quali ridotti di “virtuosi”. Nel dialogo legato ad un ipotetico incontro tra accademici fiorentini e i “Peregrini” veneziani18 il mutamento del termine appare completamente avvenuto nel loro reciproco scambio di informazioni e complimenti in merito alla “modestia e alla dottrina di questi uomini dotti e virtuosi” che popolano le loro schiere. Gli Accademici Peregrini salutano l’Accademia fiorentina infatti come “una congregazione di virtuosi sì stupenda, in una sì illustre Accademia” conferendole valore esemplare; costoro sono tutti

15 Il dialogo si trova in A. F. Doni, I Marmi, a cura di E. Chiorboli, parte I, Ragionamento V,

Laterza, Bari, 1928, p. 63. Risoluto fornisce quale esempio di virtuoso quello di “messer Filippo del Migliore se ne chiama uno [virtuoso] che voi mai praticaste con il più raro ingegno, gentil, cortese, reale, ed è de’ grandi uomini da bene che si trovi”.

16 “[...] il virtuoso la notte veglia e studia” ricorda Silvio scultore a Bartolomeo Gottifredi nel

Settimo Ragionamento incentrato sull’arte di scrivere in prosa o in versi. Cfr. Ibidem, parte I, pp. 108-68. Il passo citato è a p. 151.

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Nel Ragionamento successivo l’autore ha infatti parole encomiastiche per il Granduca Cosimo I ed il suo governo. Durante il dialogo tra Risoluto, l’Etrusco, Fortunato Martinego e il fiorentino Alfonso de’ Pazzi, quest’ultimo magnifica il mecenatismo mediceo: “Che vi par della stampa rara che ha fatto venire? L’arte de’ panni di Razzo? Dove sono premiati i literati così bene? dove possono vivere i virtuosi meglio? Qua ci sono scultori da sua eccellenza accarezzati e strapagati, per parlare naturalmente, qua pittori in supremo grado, qui architetti: in sino al mirabilissimo istoriografo del Giovio si riposa sotto sì felice pianta”. Cfr. Ibidem, parte I, Ragionamento V, p. 71. Questo passo ha importanza non secondaria in quanto dimostra poi il sempre maggiore avvicinamento tra virtuoso ed erudito, già adombrata nel passo precedente.

18 Cfr. Ibidem, parte II, Ragionamento della stampa, pp. 197-99, passim, da cui provengono le

citazioni successive. Sull'attività delle Accademie cittadine in Italia, cfr. poi il datato quanto ancora esaustivo M. Maylender, Storia delle Accademie d’Italia, L. Cappelli, Rocca S. Casciano (Trieste), 1927.

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“cosa da meravigliare e mostrare a dito: […]son tutti eccellenti nella greca lingua, quegli altri (a decine ne gli mostravate) sono nelle latine, […] sono eccellentissimi nella lingua nostra [e] in varie lingue. Il mostrarci poi tanti musici, scultori, architetti, pittori e le centinaia di uomini industriosi è da fare stupire il mondo nonché noi altri”.

Da qui al secolo successivo, l’accezione di “virtuoso” quale sostantivo sinonimo di letterato, uomo industrioso che pratica la professione erudita, ma anche semplicemente mecenate e protettore delle arti19 trova diffusione sempre più ampia

in numerose tipologie di fonte, che spaziano dalla letteratura all’epistolografia. Negli ultimi decenni del XVI secolo il suo percorso di avvicinamento ad un profilo intellettuale più definito compie infatti un ulteriore passo significativo maturando in seno alle attività delle Accademie cittadine. Non sono solamente gli accademici fiorentini ed i Peregrini veneziani a considerarsi cultori del perseguimento della virtù attraverso gli studi e le lettere. Nella Breve descrittione del nuovo Risorgimento dell’Accademia degl’Intronati di Siena, l’anonimo estensore è esplicito nel delineare i criteri di valutazione per l’ammissione dei membri della rinata accademia:

“Per dover altrui significare, che le persone da intromettersi nella scuola accademica Intronata, deono esser bramose d’apprender Virtu, e d’imprendere Scientie; strumenti sicuri, così come necessarii a fare acquisto dell’humana felicità”20.

Con l’appellativo di “virtuoso” alla fine del Cinquecento Gian Vincenzo Pinelli onora lo scozzese Thomas Segett nella missiva con la quale saluta il suo arrivo nell’ambiente erudito dei salotti padovani. Con lo stesso titolo il “linceo” Cassiano dal Pozzo si rivolgerà a numerosi dei suoi corrispondenti sparsi per l’Europe Savante21. Fulgenzio

19 Esempi in questo campo, tanto per rimanere sul testo del Doni, si incontrano in riferimento ad

uomini come Aldo Manuzio, descritto come “questo virtuoso uomo che s’incontro per buona ventura nell’occasione dei buoni tempi, era […] liberalissimo, amorevolissimo, sincero, cortesissimo, la dove vedeva il bisogno degli uomini letterati […] e virtuosi; tratteneva in casa sua e a sue spese molti uomini dotti.” Cfr. Doni, I Marmi, op. cit., parte II, Ragionamento della stampa, p. 194. Un altro esempio di “principe virtuoso” e buon mecenate proviene dalla Vita del Padre Paolo del Micanzio, nella quale si ricorda con queste parole il serenissimo duca Guglielmo Gonzaga di Mantova, “prencipe di grandissimo ingegno, così profondamente erudito nelle scienze, che difficilmente si discerneva qual fosse maggiore, o la prudenza di governare, o l’erudizione di tutte quelle scienze et arti, sino alla musica. Non aveva un ingegno circoscritto, che mentre s’applicava alle lettere, ponto scemasse di quello che conviene ad un saggio governatore de’ popoli. Concorrevano alla sua corte, come di principe virtuoso e buon mecenate, da tute le parti quelli che nelle scienze et arti avevano qualche straordinaria eccellenza, et tutti abbracciava, favoriva, et largamente tratteneva”. Cfr. Vivanti, Sarpi, p. 1280.

20

Cfr. Anon., Breve descrittione del nuovo Risorgimento dell’Accademia degl’Intronati di Siena, in La descrittione del nuovo riaprimento dell’Accademia Intronata […], Matteo Fiorini, Siena, 1611, p. T4

21 Il contenuto della lettera di Pinelli a Segett è sommariamente riportato nel primo capitolo del

volume di M. Bucciantini, Galileo e Keplero, Einaudi, Torino, 2002. Il carteggio di Cassiano dal Pozzo (come la sua attività di accademico) sono divenuti oggetto in questi ultimi due decenni di

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Micanzio, erede spirituale e biografo del Sarpi, nel descrivere le frequentazioni erudite intrattenute dal padre servita tra Venezia e Padova negli anni compresi tra la fine del Cinquecento e lo scoppio della crisi dell’Interdetto, mostra nella sua prosa come quella del “virtuoso” sia divenuta una figura riconosciuta del panorama intellettuale, per quanto ancora difficilmente identificabile in un profilo ben delineato e in competenze specifiche.

La pagina in cui l’autore descrive l’attività del salotto riunitosi attorno alla figura di Andrea Morosini sono indicative in tal senso:

“Tornato il padre [Sarpi] a Venezia, ripigliò i suoi studii e la sua ritiratezza da tutti i negozii, frequentando le sue solite virtuose conversazioni, et il mezato del signor Andrea Morosini, nominato di sopra, era diventato molto numeroso, perché vi concorrevano gran parte di quelli che facevano professione di lettere, non solo della nobiltà, de' quali i soggeti tutti sono riusciti grandi senatori e come stelle in questo firmamento della Serenissima Republica per bontà, religione, dottrina e prudenza civile, ma anco v'erano ammessi d'ogni sorte di virtuosi, così secolari, come religiosi, anzi tutti i più letterati personaggi che capitassero in Venezia, o d'Italia, o d'altre regioni, non averiano mancato di trovarsi in quel luogo, come in uno de' più celebri consecrati alle Muse. Io in mia vita non ho veduto essercizii piú virtuosi; e piacesse a Dio che, come le virtù delli due Andrea e Nicolò zii sono passate come per eredità ne' nipoti, così fosse in Venezia un altro tale mezato, ove si numeravano alle volte 25 e 30 uomini di virtú insigni”22.

Ecco perché, se da un lato la registrazione da parte di Cesare Tinghi23 nel suo diario di corte24, in un’udienza del 1617,

S.A.S. [il Granduca Cosimo II] si trattiene con diversi virtuosi, cioè uomini scienziati o letterati, come in quei tempi significava la parola virtuosi25,

studi e attenzioni, miranti a colmare il vuoto che separava dalle ormai lontane Note sul Carteggio di Cassiano dal Pozzo pubblicate dal Palumbo nelle Memorie della Reale Accademia d’Italia nel lontano 1873. Dai tempi del convegno di studi tenutosi nel 1987, i cui atti sono stati pubblicati a cura di F. Solinas, Cassiano dal Pozzo. Atti del Seminario Internazionale di studi su Cassiano dal Pozzo, Napoli 18-19/12/1987, De Luca, Roma, 1989, sono scaturiti alcuni nuovi significativi contributi. Tra questi figura specialmente un dettagliato inventario del suo carteggio, ancora in attesa di essere edito. Cfr. A. Nicolò, Catalogo del carteggio di Cassiano dal Pozzo, Olschki, Firenze, 1991. Il Warburg Institute a Londra sta poi patrocinando un progetto scientifico mirante a ricostruire il museo allestito da Cassiano nel corso della sua vita.

22 Cfr. Vivanti, Sarpi, pp. 1305-6. È lo stesso Micanzio poi a confermare il contatto tra l’ambiente

gentilizio veneziano e quello patavino quando ricorda (Ibidem, p.1308) “Il ridotto in Venezia era nel mezato menzionato e nella bottega del Sechini; in Padova, ove spesso si trasferiva, la casa di Vincenzo Pinelli, ch’era il ricetto delle Muse e l’academia di tutte le virtù in quei tempi”. Sulla permeabilità di questi ambienti cfr. poi G. Cozzi, Galileo Galilei e la società veneziana, in Id. (a cura di) P. Galluzzi , Saggi su Galileo Galilei, Barbera, Firenze, 1965.

23

Cesare Tinghi era l’aiutante di camera di Cosimo II (granduca tra il 1609 ed il 1621). Per alcune notizie su di lui e la sua attività in seno alla corte medicea, cfr. M. Fantoni, La corte del granduca: forme e simboli del potere mediceo fra Cinque e Seicento, Bulzoni, Roma, 1994.

24 Il manoscritto contenente questo testo venne “sottratto” alla biblioteca di S. Maria del Fiore

nella prima metà del Settecento da Giovanni Targioni Tozzetti, che lo fece confluire nelle sue Selve, adesso conservate (in gran parte inedite) nella classe VIII dei Manoscritti del Fondo Nazionale della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Una copia del testo è conservata presso il manoscritto 42 di questa serie. Sulla stesura di quel grande corpus di fonti costituito dalle Selve del Targioni Tozzetti, sono profondamente debitore nei confronti del volume di T. Arrigoni, Uno scienziato nella Toscana del settecento. Giovanni Targioni Tozzetti, Gonnelli, Firenze, 1987.

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rappresenta una ulteriore conferma dell’affermazione di questo significato del termine “virtuoso” e registra il suo avvenuto ingresso nell’uso corrente, non permette ancora di individuare caratteristiche peculiari tali da permettere di tracciare un identikit definito di questa tipologia di erudito che si stava affermando assieme alla nuova accezione della parola.

Un parziale aiuto in questo sforzo di definizione può essere rinvenuto nelle pagine che il Micanzio dedica nella biografia del Sarpi alla descrizione degli interessi coltivati dal servita, che rappresentò un modello ed una vera e propria guida per gli eruditi suoi contemporanei:

“Nell'istorie sacre e profane faceva trasecolare col rispondere co' fatti precisi, co' luoghi, tempi, occasioni, come se la sua fantasia fosse la tavola, ove mirasse tutte le cose successe. Sono capitati in Venezia di nostro raccordo varii virtuosi in separate professioni26. Un oltramontano, ch'aveva fatto studio isquisito nelle proprietà della calamita, e credeva, e con buona ragione, saperne quanto alcun altro, fu introdotto a colloquio col padre, e trovando che non poteva portare né speculazione, né esperimento che 'l padre non sapesse, e molto più e con le sue raggioni e fabrica degl'istromenti, restò così attonito, che non sapeva ove si fosse. Le piú rare invenzioni d'istromenti, machine per misure, per pesi, per orologi, per le matematiche e per le militari, per tutti i propositi, gli venivano fatti capitare da vedere e farne il giudizio. Cosa stupenda! come se non avesse mai atteso ch'alle mecaniche, immediate comprendeva il dissegno e giudicava se poteva servir all'effetto preteso o non; il modo di megliorargli, o facilitargli, o farne d'altri per l'istesso, che opposizioni, che difetto. In tanto grandi ingegni ancor viventi, che comunicandogli i suoi pensieri sopra l'inventare qualche nuovo istromento di sopradetti fini, testifichino essi con che velocità giudicava s'era possibile, o no; e s'era possibile, come si potesse facilitare; e se 'l suo giudizio gl'è mai riuscito fallace”27.

25

Stralci di questo testo furono trascritti da Giovanni Targioni Tozzetti ai fini della redazione dei suoi Documenti sui progressi delle scienze fisiche in Toscana durante il regno di Cosimo II, poi confluito in G. Targioni Tozzetti, Atti e memorie inedite dell’Accademia del Cimento e notizie aneddote dei progressi delle scienze in Toscana, G. Tofani, Firenze, 1780, 4 voll., vol. I, pp. 26-149. Per le testimonianze citate cfr. specialmente pp. 73-4 e 126.

26 La voce “virtuoso” redatta dall’Oxford English Dictionary, Clarendon Press, Oxford, 19892, vol.

XIX, p. 678, menziona un passo simile (There have happened to come to Venice divers Virtuosi in several professions) tra i primi usi nella lingua inglese, attribuendolo erroneamente alla Historia del Concilio Tridentino. Cfr. P. Sarpi, The History of the Council of Trent, a cura di J. Macock, per Samuel Mearne, John Martyn e Henry Herringham, Londra, 1676, in folio. Di questo volume vennero prodotte due tirature nello stesso anno. La seconda metà del XVII sec., nonostante la distanza temporale che ormai separava dalla guerra dell’Interdetto, vide una certa fortuna editoriale delle opere del Sarpi in Inghilterra, pubblicate e ristampate più volte tra il 1650 ed il 1693. Cfr. D. Wing (a cura di), Short-Title Catalogue of Books printed in England, Scotland, Ireland, Wales, and British America and of english Books printed in other Countries 1641-1700, New York, The Modern language association of America 1998, 3 voll. (d’ora in poi citato come Wing, Short-Title Catalogue 1641-1700), III, p. 263. L’edizione in folio non è comunque la prima in ordine di cronologico del principale scritto sarpiano, presentato per la prima volta ad un pubblico inglese nel 1623. Cfr. P. Sarpi, The Historie of the Councel of Trent. Conteining eight Bookes. In which (besides the ordinarie Actes of the Councell) are declared many notable occurrences, which happened in Christendome during the space of furtie yeeres and more. And, particularly, the practises of the Court of Rome, to hinder the reformation of their errors, and to maintaine their greatnesse. Written in Italian by Pietro Soave Polano, and faithfully translated into English by Nathanael Brent , London, Robert Barker & John Bill, 1620.

27

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Per quanto definire il Sarpi un “virtuoso” possa costituire un’aberrazione prospettica, il brano mostra come i campi del sapere nei quali un erudito poteva essere nobilitato con tale appellativo divengano molteplici nelle attestazioni che si rinvengono nel corso del Seicento, fin quasi a giustificare l’identificazione tautologica compiuta successivamente dagli storici e precedentemente segnalata. Da un certo punto di vista, il percorso di sviluppo semantico compiuto dal termine ed il suo conseguente arricchirsi di significato si snoda parallelamente a quella monumentale espansione delle conoscenze umane avvenuta nel corso del lungo periodo conosciuto come rivoluzione scientifica. Come attestano gli usi riscontrabili nel corso di questo periodo28, dal significato originario e ancora generico di uomo “literato, che attende alle faccende del mondo” introdotto da Anton Francesco Doni, il termine è arrivato a comprendere nelle sue accezioni il cultore delle discipline matematiche legate alle scoperte recentemente compiute ed illustrate da William Gilbert nel suo De Magnete o a quelle astronomiche illustrate da Galileo nel suo Sidereus Nuncius. Parallelamente al mutamento degli equilibri nelle gerarchie del sapere l’epiteto “virtuoso” non viene più conferito a figure esclusivamente “eccellenti nella greca lingua” oppure nelle latine, né tantomeno agli autori ed ai letterati che figurano “eccellentissimi nella lingua nostra [e] in varie lingue”. La dimensione verso la quale il virtuoso indirizza i propri interessi, la propria curiosità ed il fervore della sua attività tutta tende sempre più col passare del tempo ad orientarsi in una dimensione realmente poliedrica, sempre più improntata ad un enciclopedismo legato alla sistematicità nella quale il sapere del tempo veniva sintetizzato e tramandato.

2. Una congettura

La maturazione concettuale del termine e la sua saldatura ad una gamma di interessi e a tradizioni culturali più demarcata avviene tuttavia in un contesto geografico e culturale diverso da quello di origine: l’Inghilterra. Quando questo sia giunto sull’isola con precisione, resta ancora in parte un mistero; sul come vi sia arrivato, mi piacerebbe rispondere in modo paragonabile ai versi del prologo dell’Ebreo di Malta di Marlowe in cui lo spirito dell’“odiato” Machiavelli flowne beyond the Alpes […], come from

28 Nonostante questa periodizzazione possa essere considerata arbitraria, la rivoluzione scientifica

viene generalmente compresa tra il 1543 – anno della pubblicazione del De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio e del De Revolutionibus orbium coelestium di Copernico – ed il 1687, anno in cui videro per la prima volta la luce i Principia di Newton.

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France to view this Land. Tuttavia la spiegazione (per quanto più prosaica) ha più di qualcosa in comune con l’itinerario di viaggio adottato da questo inquieto “spettro”. Probabilmente il termine deve esser tornato insieme a qualcuno dei viaggiatori inglesi che, attraverso la Francia, avevano intrapreso la via dell’iter italicum per familiarizzarsi con la cultura e le antichità del nostro paese, sebbene nessuno dei cortigiani, letterati e pamplethisti dell’epoca elisabettiana che furono tra i pionieri del Grand Tour menzioni il termine nei propri resoconti di viaggio o nelle opere prodotte successivamente29. E se anche per il momento nessun Coryat30 è stato in grado di

venirmi incontro, fornendomi la prova di questo transfert linguistico in un’epoca più vicina al periodo di incubazione del termine, la mia convinzione che l’introduzione del lemma virtuoso in terra inglese sia da imputare a qualcuno dei viaggiatori che ebbero modo di visitare il nostro paese durante i loro viaggi di studio. Come probabilmente ogni persona che abbia avuto la fortuna di soggiornare per qualche tempo all’estero entrando in contatto un po’ più approfondito con la realtà di un altro paese avrà certamente avuto modo di sperimentare da solo, alcune delle espressioni più caratteristiche della lingua “di acquisizione” entrano a far parte del patrimonio linguistico per la loro pienezza di senso o per la loro carica espressiva, giudicata di significato. A vantaggio di questa teoria figura poi il fatto che l’italiano fosse considerata la terza lingua classica in Inghilterra fin dai tempi di Roger Ascham31, e che perfino lui – che certo non vedeva di buon occhio il viaggio in Italia

– continuasse a considerarla la terza lingua che un gentiluomo deve padroneggiare.

29 Nonostante in questa prima generazione di viaggiatori figurino alcuni raffinati conoscitori della

lingua italiana (un esempio su tutti quello di Sir Thomas Hoby, autore nel 1561 della prima versione inglese del Libro del Cortigiano di Baltasar Castiglione) ed il termine possa essere vicino ai loro interessi e alla loro paideia, nessuno a mia conoscenza ne fa uso. Lo stesso Hoby, nella sua traduzione si mantiene strettamente aderente al testo italiano, rendendo il lemma “virtuoso” in modo terminologicamente letterale.

30 Thomas Coryat, scrittore e “avventuriero” vissuto tra la fine dell’epoca elisabettiana e quella

giacobita. A lui si deve l’introduzione di numerosi dei più conosciuti “italianismi”nella lingua inglese, derivati dalle sue esperienze di inquieto e instancabile viaggiatore, registrate in T. Coryat, Coryat's Crudities hastily gobled up in five moneths travells in France, Savoy, Italy, Rhetia, commonly called the Grisons country, Helvetia alias Switzerland, some parts of high Germany and the Netherlands; newly digested in the hungry aire of Odcombe in the county of Somerset, and now dispersed to the nourishment of the travelling members of this kingdome, James MacLeHose and Sons, Glasgow, 1905 [Londra, 1611]. Non è azzardato che un ulteriore spoglio di testi inglesi prodotti a cavallo tra l’età elisabettiana e i primi decenni del Seicento possa un giorno permettere di individuare altre occorrenze risalenti al periodo compreso tra il 1590 ed il 1630.

31 Nonostante l’edizione moderna di riferimento del testo di Ascham sia quella Lawrence V. Ryan

(R. Ascham, The Schoolmaster, Cornell UP, New York, 1967), soprattutto per quel che riguarda l’indiscutibile valore dell’apparato critico, questo come numerosi altri testi della prestigiosa collana non ne offre una versione integrale. Per tale motivo ho preferito servirmi dell’edizione originale stampata a Londra nel 1570. Il passo citato è in book I, p.134.

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“I thought, concernyng the fansie that many yong gentlemen of England haue to trauell abroad, and namely to lead a long lyfe in Italie. […] I take goyng thither, and liuing there, for a yonge ientleman, that doth not goe vnder the kepe and garde of such a man, as both, by wisedome can, and authoritie dare rewle him, to be meruelous dangerous. And whie I said so than, I will declare at large now: […] not bicause I do contemne, either the knowledge of strange and diuerse tonges, and namelie the Italian tonge, which next the Greeke and Latin tonge, I like and loue aboue all other: or else bicause I do despise, the learning that is gotten, or the experience that is gathered in strange contries: or for any priuate malice that beare to Italie: which contrie, and in it, namelie Rome, I haue alwayes speciallie honored: bicause, tyme was, whan Italie and Rome, haue bene, to the greate good of vs that now liue, the best breeders and bringers vp, of the worthiest men, not onelie for wise speakinge, but also for well doing, in all Ciuill affaires, that euer was in the worlde. But now, that tyme is gone, and though the place remayne, yet the olde and present maners, do differ as farre, as blacke and white, as vertue and vice. Vertue once made that contrie Mistres ouer all the worlde. Vice now maketh that contrie slaue to them, that before, were glad to serue it. All men seeth it: They themselues confesse it, namelie soch, as be best and wisest amongest them. For sinne, by lust and vanitie, hath and doth breed vp euery where, common contempt of Gods word, priuate contention in many families, open factions in euery Citie: and so, makyng them selues bonde, to vanitie and vice at home, they are content to beare the yoke of seruyng straungers abroad. Italie now, is not that Italie, that it was wont to be: and therfore now, not so fitte a place, as some do counte it, for yong men to fetch either wisedome or honestie from thence. For surelie, they will make other but bad Scholers, that be so ill Masters to them selues”.

Riflettendo riguardo alla fantasticheria che molti giovani gentiluomini inglesi debbano compiere viaggi all’estero, e specificatamente condurre un lungo soggiorno in Italia, pensavo che il recarsi là, e viverci, costituisca un grandissimo pericolo per un giovane gentiluomo che non vi si recasse sotto la tutela e la custodia di un uomo in grado di governarlo con saggezza ed autorità bastevoli per entrambi. Poiché mi è capitato di dire ciò, voglio diffondermi adesso in una spiegazione più ampia: il perché del mio disprezzo non ha nulla a che vedere con la conoscenza delle lingue straniere, né tantomeno con quella della lingua italiana, che dopo la greca e la latina amo sopra ogni altra: né tantomeno poiché condanno il sapere che vi viene appreso, o addirittura l’esperienza maturata in terre straniere, o per qualsiasi meschinità imputi all’Italia a titolo personale. Italia che, ed in essa particolarmente Roma, ho sempre onorato largamente, poiché vi è stato un tempo nel quale l’Italia e Roma sono state, per il bene di tutti noi che adesso viviamo, le migliori nutrici e genitrici dei più grandi uomini mai esistiti, non esclusivamente per quanto concerne il parlare con saggezza, ma anche per il condursi bene in ogni tipo di materia civile. Ma adesso che quel tempo è andato, nonostante i luoghi rimangano, i loro costumi sono diversi come il bianco ed il nero, la virtù ed il vizio. Fu la Virtù a fare di quella nazione la regina di tutto il mondo. Il Vizio adesso la rende schiava di quelle stesse genti che prima si sentivano onorate di servirla. Chiunque può vederlo: sono loro stessi a confessarlo, principalmente i migliori ed i più saggi. Poiché i peccati di lussuria e vanità hanno attecchito e proliferano ovunque, il disprezzo della parola di Dio è diffuso, come la disputa lo è in molte famiglie, e lo schieramento in fazioni in ogni città: e poiché sono contenti di rendersi schiavi della vanità e del vizio nella madrepatria, sono altrettanto contenti di portare il giogo di servire lo straniero all’estero. L’Italia non è più il paese che era stato; e quindi adesso non costituisce un luogo adatto nella considerazione di molti in cui un giovane gentiluomo possa acquisire o apprendere saggezza o onestà. Di sicuro gli italiani non renderanno gli altri che dei pessimi studiosi, essendo tali cattivi maestri di se stessi.

Nonostante un momento di eclissi nello studio dell’italiano nell’Inghilterra rivoluzionaria, la sua fortuna si mantiene pressoché continua nel corso di tutto il Seicento inglese32. A dimostrare questo assunto, non solo l’ampio numero di titoli

italiani presenti nelle principali biblioteche inglesi e nei cataloghi o le traduzioni di autori italiani prodotte dagli stampatori inglesi e censite nello Short-Title Catalogue33,

quanto piuttosto le numerose edizioni di un’opera come il dizionario italiano-inglese

32 Cfr. S. Gamberini, Lo studio dell'italiano in Inghilterra nel Cinquecento e Seicento, G. D’Anna,

Firenze/Messina, 1987, passim.

33

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di John Florio34. Sebbene nella prima edizione di questo repertorio il termine

conservasse ancora una fondamentale valenza di aggettivo (peraltro sostanzialmente mantenuta nella seconda edizione stampata nel 1611 con il patrocinio della regina Anna)35 è solamente con l’avvento della Restaurazione che il mutamento di

significato in “an ingenious man, a mixt Scholar, a Wit” viene definitivamente ufficializzato nella nuova edizione curata da Giovanni Torriano36. Nonostante le

rivendicazioni di originalità e novità mosse dal Torriano, i dizionari tendono generalmente a registrare a posteriori l’ingresso di un lemma all’interno di una

34

La prima edizione dell’opera è John Florio, A Worlde of Wordes, or most copious and exact

Dictionarie in Italian and English, London, A. Hartfield for L. Blount, 1598.

35 La seconda edizione del vocabolario del Florio si intitola infatti Queen Anne’s New World of

Words, or Dictionaire of the Italian and English tongues, collected and newly much augmented by Iohn Florio, Reader of the Italian unto the Soveraigne Maiestie of Anna, Crowned Queene of England, Scotland, France and Ireland etc. And one of the Gentlemen of Her Royal Privie Chamber. Whereunto are added certaine necessaire rules and short Observations for the italian Tongue, London, Edward Blount e William Barret, 1611. Se nella prima edizione del suo vocabolario l’A. si era limitato a definire virtuoso come “full of vertue” (cfr. Ddd3 colonna dx), già in questa compare un’estensione dei significati in “also one who is indowed with parts, as humanity and polite learning, a mixt Scholar” (cfr. Zzz4 col. centrale).

36 Cfr. G. Torriano, Vocabolario Italiano e Inglese. A Dictionary, Italian and English; formerly

compiled by J. F. […] Now revised and compared with La Crusca […] and enriched with very considerable additions. Whereunto is added, a Dictionary English and Italian, with severall proverbs and instructions for the speedy attaining to the Italian Tongue, London, J. Martin/ J. Allestry/ T. Dicas, 1659, spec. p. 593, e p. 596 nella ristampa nel 1660. Oltre ad essere una menzione relativamente tardiva, l’estensione finale del significato del lemma da parte dell’autore può dirsi “interessata” e frutto di una serie di operazioni di editing. Nella sua prefazione Torriano sostiene di aver “supplied [il dizionario] in very many phrases supplied out of the generally approved Dictionary of the Accademici della Crusca, and severall others that have been set forth since his death [il Florio era morto nel 1625]”, ma il Dizionario della Crusca presenta ancora una definizione “tradizionale” del termine virtuoso. Di seguito l’A. sostiene anche di avere “likewise much corrected the English interpretations and (where there was cause) reduced them to their genuine sense, as they are now used in modern times”. Il lavoro del Torriano rivendica poi una sua originalità, dato che “there wanted yet a Dictionary English and Italian, which I have compiled by my owne industry”. Questo viene peraltro a confliggere con la sua precedente affermazione di essersi servito (“I have diligently perused”) delle note manoscritte che il Florio preparava per una nuova edizione del suo testo, “collected out of them an Addition of many thousands words and phrases, relating to Art, Sciences, and Exercises intending (if he had lived) a third edition, which he left behind him in a very fair manner, perfected and ready for the Presse”. Dato l’interesse per la questione avevo sperato di trovare ulteriori conferme in questo fantomatico manoscritto, che tuttavia non ho rinvenuto tra i pur numerosi autografi del Florio conservati alla British Library (cfr. ad esempio il Ms. Add. 15214, che contiene il suo “giardino di ricreazione”, o la lettera conservata nel Ms. Cotton, Julius C III, ch. 16. Il Ms. Sloane 3011 contiene le “Regole et institutioni della lingua Toscana”, ma questo era stato redatto molti anni prima dal padre Michelangelo per la regina – per sei giorni- Jane Grey). Personalmente sono molto più propenso a credere che questa revisione del dizionario del Florio inerente Arts, Sciences, and Exercises risenta maggiormente del periodo e dell’influena di membri legati agli ambienti del Gresham College (prima sede della Royal Society), dove un altro Torriano (Alexander) sarà professore di astronomia tra il luglio 1691 ed il maggio 1713. Per alcune note biografiche su quest’ultimo cfr. J. Ward, Lives of the Gresham Professors, John Moore, London, J. Ward, 1740, pp. 117-9. Un’ulteriore indizio che mi fa propendere per questa interpretazione è legato agli editori che si unirono nello sforzo di stampare il testo del Torriano. John Martyn e John Allestry rappresentano i due editori “di riferimento” della Royal Society nei suoi primi decenni di vita. Sull’argomento rimando alle esaurienti pagine di A. Johns, The Nature of the Book. Print and Knowledge in the Making, Chicago and London, University of Chicago Press, 1998, spec. cap. 7.

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lingua37. Questo uno dei motivi che mi portano a sostenere che l’ingresso del lemma

virtuoso in Inghilterra vada collocato attorno ai primi anni del Seicento, momento in cui alle “ristrettezze” e al clima di sospetto che accompagnava le richieste dei gentiluomini di viaggiare all’estero, si sostituisce la generale disponibilità da parte della Corona di farsi garante dell’incolumità dei suoi viaggiatori38. La mutata congiuntura politica dettata dalla fine della ventennale guerra con la Spagna aveva nuovamente aperto ai viaggiatori inglesi le porte di nazioni quali l’Italia ed i Paesi Bassi, consentendo loro di recarsi in questi paesi senza correre eccessivi rischi legati alla differenza di fede religiosa o alla professione del mestiere di mercenario al soldo delle nascenti Province Unite.

3. L’incidenza del Grand Tour

L’iter cismarinum costituiva già dalla seconda metà del Cinquecento una tappa importante nell’economia della formazione dei giovani rampolli dell’aristocrazia inglese. Nonostante la storica tendenza all’isolamento insulare che caratterizzava i “tramontani” e l’ulteriore fattore di separazione insorto con l’inizio della Riforma inglese, la pratica del Grand Tour era invalsa e si era codificata fin dai tempi del regno di Elisabetta a seguito dell’affermazione degli ideali dell’umanesimo nell’isola39.

37 Questa tendenza non deve essere interpretata come una regola. John Wilkins, giustamente

inserito dagli studiosi nel novero dei “virtuosi” per il suo contributo fondamentale alla costituzione della Royal Society, per le sue estese competenze matematico-scientifiche, oltre che per la sua infaticabile attività di promotore culturale nell’Inghilterra della metà del Seicento, non mostra di aver metabolizzato altrettanto velocemente la novità insite nel significato del lemma “virtuoso”. Autore lui stesso di un “dizionario”, demandato a censire i neologismi o le parole di recente introduzione che erano confluite ad arricchire il linguaggio filosofico della lingua inglese, non le dedica alcuna menzione. Cfr. J. Wilkins, An Essay towards a real character, and a philosophical language: an alphabethical Dictionary, wherein all English words according to their various significations, are either referred to their placet in the philosophical tables, or explaine by such words as are in those tables, S. Gellibrand, Londra, 1668. Una parziale risposta a questo interrogativo verrà proposta nell’ultimo capitolo della mia trattazione.

38 Sebbene non possa presentare un calcolo statistico, l’aumento nei numeri delle licenze di

viaggio in forma di delibera del Consiglio privato o di patente reale è un dato di fatto innegabile. Le pagine dei ponderosi volumi delle Domestic Series del Calendar of State Papers da me prese in considerazione (tra il 1608 ed il 1664) sono particolarmente ricche di trascrizioni di questa tipologia di documenti. Tra le letture di riferimento sul fenomeno del Grand Tour cfr. poi J. Stoye, English Travellers abroad: 1604-1667, edizione rivista, Yale University Press, New Haven/ Londra, 1989, ed E. Chaney, The Evolution of the Grand Tour: Anglo-Italian cultural relactions since the Reinassance, F. Cass, Londra/Portland, 1998.

39 L’origine ideale del Grand Tour va infatti rinvenuta nel costume invalso presso l’aristocrazia

della Roma tardorepubblicana di far compiere ai figli un lungo soggiorno in Grecia e Asia Minore, dove costoro avrebbero potuto affinare il loro bagaglio culturale e le loro abilità retoriche presso i migliori maestri. Oltre a costituire l’ultimo passo propedeutico alla carriera forense, il viaggio in Grecia segnava il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Consuetudine ripresa in epoca umanistica, sanciva il completamento della formazione intellettuale dell’individuo, che trascorreva lunghi periodi all’estero, studiando presso le principali Università d’Europa (lo Studium di Padova

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Se il viaggio per l’Europa costituiva un’occasione per familiarizzarsi con le lingue, perfezionare le proprie competenze nella scherma e nell’equitazione, rappresentava anche fonte di grande apprensione da parte delle autorità che temevano un riavvicinamento dei giovani alla confessione romana. Da questo l’istituto tutto inglese della concessione della license of traveling, una concessione scritta che ogni nobile doveva ottenere prima di potersi imbarcare alla volta del continente40.

Una volta ottenuta, il viaggio iniziava con la traversata della Manica, spesso complicata dal gioco delle correnti, delle maree e delle condizioni atmosferiche avverse: la variabilità di questi presupposti poteva far oscillare i tempi di viaggio tra Londra e Parigi dai quattro giorni alle due settimane. Giunti alla volta di uno dei porti del nord (Calais, Dunkerque, o anche Ostenda o Bruges, a seconda dell’itinerario ideato) i viaggiatori si incamminavano generalmente verso le grandi capitali. La prima tappa di un Grand Tour tipico era solitamente costituita da Parigi, raggiungibile attraverso le grandi vie di comunicazione costruite durante il regno di Enrico IV con la supervisione del Sully41. Il prestigio della Sorbona e delle accademie di recente

fondazione42 costituiva un importante fattore d’attrazione per la nobiltà

d’Oltremanica. Dopo un periodo di studio condotto presso queste istituzioni, il viaggio entrava nel vivo: era il momento del passaggio in Italia, affrontato indifferentemente per terra e per mare43. L’iter italicum conduceva il giovane

e la Sorbona a Parigi costituivano solitamente le due mete predilette, cui in seguito si aggiunsero Lovanio, Heidelberg,Siena, Saumur, etc.)

40

La license of traveling sembra essere stata inventata da Cecil in persona quale forma di controllo dei nobili che abbandonavano l’isola. Per ottenerla era necessario inviare una lettera formale al Lord Treasurer o ad uno dei Segretari di Stato, in cui venivano esplicitati i motivi del viaggio, la sua durata approssimativa (generalmente di tre anni) e le persone al seguito. Sembra che l’usanza si sia ammorbidita durante il regno dei sovrani Stuart, se Kenelm Digby, al momento della sua partenza per un lungo soggiorno in Francia nel 1635, si limitò a prendere congedo dalla corte chiedendo soltanto l’assenso di Carlo I ed il permesso di accomiatarsi. Sull’istituto si vedano ed il clima di latente sospetto che avvolgeva i viaggiatori inglesi sul continente (spesso addirittura sorvegliati dai residenti e dagli ambasciatori della Corona sparsi per le varie sedi d’Europa) si vedano gli accenni contenuti in J. Stoye, English Travellers abroad, op. cit., passim, con particolare attenzione all’introduzione e ai primi due capitoli.

41 La via più breve per la capitale costeggiava l’Atlantico per piegare a sud verso Abbeville,

risalendo la Somme sino ad Amiens e da qui a Parigi. I cattolici inglesi erano soliti intraprendere un tragitto più lungo, che faceva tappa a St. Omer (soltanto a poche miglia dall’Artois spagnolo), Douai (sede di uno dei più prestigiosi collegi gesuitici del tempo, che accoglieva i giovani inglesi intenzionati ad entrare nella Compagnia), Dieppe e poi da Rouen, piegava a sud lungo la valle della Senna sino a destinazione.

42 Prima tra tutte l’accademia fondata da Antoine Pluvinel, assurta rapidamente a grande prestigio

per l’abilità dei suoi maestri d’arme e di equitazione e per il suo livello formativo. Oltre alle lezioni di scherma e di dressage (tenute rispettivamente presso i giardini prospicienti al Louvre e le stalle del Palazzo Reale), la giornata tipica degli allievi comportava lezioni di danza, musica, matematica, latino, storia e filosofia.

43 La scelta del percorso era generalmente vincolata alla stagione in cui il viaggio veniva

intrapreso. L’inverno rendeva preferibile l’imbarco a Marsiglia alla volta di Genova o Livorno, ma anche la via dei passi alpini attraverso il ducato sabaudo costituiva una valida alternativa.

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gentiluomo attraverso alcune delle città della penisola: le tappe principali erano generalmente costituite da soggiorni in Toscana, talvolta Roma, sporadicamente Napoli, per poi intraprendere la via del ritorno soffermandosi nei territori della Serenissima (Venezia e Padova), e poi di nuovo in Francia attraverso Milano o i cantoni svizzeri, prima del definitivo rientro in patria.

Ma l’affermazione del costume del Grand Tour diviene un fattore importantissimo nelle dinamiche culturali dell’Inghilterra del Seicento, non solo in quanto veicolo di cultura e mezzo di arricchimento intellettuale, quanto piuttosto per l’imporsi del viaggio come dimensione. Esso costituisce la prima occasione per l’aspirante “virtuoso” di affacciarsi sul mondo, su nuove realtà con cui familiarizzarsi e da cui trarre importanti insegnamenti. Con il volgere del nuovo secolo infatti l’iter cismarinum perde la sua dimensione totalizzante di esperienza esclusivamente legata al servizio dello Stato, al commercio o allo studio presso istituzioni prestigiose e maestri rinomati, per assumere implicazioni determinanti anche nella formazione di un “virtuoso”.

Sull’esempio di personalità come William Camden e Robert Cotton44 si iniziano ad

intraprendere viaggi alla ricerca di rovine e testimonianze di insediamenti romani, alla scoperta di un passato nascosto in edicole e tabernacoli come nelle lapidi sepolcrali delle chiese ormai alienate o lasciate in abbandono. La Bretagna continentale, ricca del comune passato normanno come delle sepolture dei Plantageneti, diviene non a caso negli ultimi decenni del Cinquecento come nei primi del secolo successivo, una delle tappe più suggestive per i viaggiatori d’Oltremanica. L’estensione del Grand Tour ad una dimensione prevalentemente antiquaria, così tipica durante l’epoca neoclassicista, avverrà solo in un secondo momento. Ma con il ritorno delle navi inglesi oltre lo stretto di Gibilterra e i nuovi traffici delle compagnie monopolistiche nel Mediterraneo, anche per il giovane rampollo che sta perfezionando la propria

44 Il viaggio attraverso le contee settentrionali del regno intrapreso da Cotton e Camden nel 1599

divenne l’esempio da imitare per tutta un’epoca. Nonostante esistessero numerosi e importanti precedenti nella tradizione dei viaggi antiquari (specialmente quelli condotti attraverso l’Inghilterra da veri e propri pionieri quali erano stati John Leland o John Bale durante la prima metà del Cinquecento), il loro fine non era più quello di reperire dati con cui compilare Surveys e trattati, quanto piuttosto l’interesse e la curiosità “turistica”. La testimonianza più significativa lasciata dal viaggio per lo Yorkshire è rappresentata forse dagli schizzi conservati nel MS Cotton, Julius F. VI, adesso conservato presso la British Library. Il loro valore può essere sottolineato facilmente dal fatto che vennero stampati più volte nelle edizioni successive della Britannia (la prima era uscita nel 1586). Sull’importanza dei viaggi dei principali antiquari dell’epoca Tudor come strumento di indagine scientifica “diretta” e fondamento degli studi corografici e toponomastici si veda S. Mendyk, “Speculum Britanniae”. Regional study, antiquarianism and science in Britain to 1700, Toronto/Buffalo/London, University of Toronto Press, 1989, passim, specialmente nei primi tre capitoli.

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