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3. Fluidi di lavoro, cicli termodinamici e sistemi di condensazione di interesse per i cicli binari

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3. Fluidi di lavoro, cicli termodinamici e sistemi di

condensazione di interesse per i cicli binari

Fluido operativo, ciclo di recupero e sistema di condensazione sono le tre variabili principali sulle quali agire per una progettazione ottimale di un impianto a ciclo binario. L’analisi della letteratura tecnica ha mostrato come le soluzioni possibili siano molteplici in ognuno dei tre campi; si sono visti essere impiegati gli idrocarburi così come i fluidi refrigeranti sintetici piuttosto che fluidi inorganici come l’ammoniaca; i cicli di recupero potevano prevedere o no il surriscaldamento del fluido, essere ad uno o a due livelli di pressione, con o senza recupero del calore sensibile posseduto dal fluido in uscita dalla turbina; la condensazione veniva attuata mediante sistemi a secco oppure ad umido.

In questo capitolo ci si prefigge lo scopo di fare una panoramica nei tre settori di interesse, ovvero fluidi, cicli e sistemi di condensazione, atta ad aprirci la strada per la successiva procedura di ottimizzazione. Si cercherà di classificare il fluidi di lavoro secondo opportuni criteri e descriveremo i principali cicli termodinamici di nostro interesse, senza la pretesa di stilare una gerarchia, ma soltanto di mettere in luce le loro caratteristiche. Si farà infine una breve descrizione dei due possibili sistemi di condensazione, quello a secco e quello ad umido.

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3.1 Fluidi operativi

Per poter essere candidato all’utilizzo in un ciclo binario un fluido deve possedere dei requisiti essenziali:

• Temperatura critica inferiore a quella dell’acqua; per essere un buon candidato è bene che tale temperatura non sai molto lontana da quella di estrazione del fluido geotermico.

• Stabilità chimica durante le variazioni di temperatura e durante i cambiamenti di fase.

• Avere limitato impatto ambientale; in particolare non deve contribuire alla riduzione dello strato di ozono in atmosfera (ODP = 0).

Altre proprietà, non strettamente necessarie, possono comunque risultare utili durante la fase operativa:

• Bassa tossicità • Non infiammabilità

• Basso GWP (potenziale di contributo all’effetto serra) • Basso costo

• Pressione di saturazione alla temperatura di condensazione maggiore di una atmosfera, al fine di evitare infiltrazioni di aria attraverso le tenute del condensatore • Curva di saturazione di tipo retrogrado, in modo tale che l’espansione avvenga

interamente nel campo del vapore surriscaldato

In generale i fluidi che trovano spazio nel campo della refrigerazione e del condizionamento dell’aria, per questo motivo detti fluidi refrigeranti, presentano proprietà termofisiche che bene si adattano all’impiego in cicli binari.

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3.1.1 Classificazione chimica

Una prima classificazione può essere fatta in base alla composizione chimica della molecola elementare del fluido operativo. Esistono composti organici e composti inorganici.

3.1.1.1 Composti inorganici

I composti inorganici maggiormente utilizzati nella refrigerazione sono l’anidride carbonica e l’ammoniaca; per applicazioni di potenza in cicli binari soltanto l’ammoniaca potrebbe essere impiegata, ma la tossicità ed un calore latente di evaporazione molto elevato ne rendono l’utilizzo limitato a poche applicazioni.

3.1.1.2 Composti organici

Appartengono a questa categoria gli idrocarburi classici e gli idrocarburi alogenati, detti anche Freon, sostanze derivate sinteticamente del metano e dall’etano per sostituzione di alcuni atomi di idrogeno con atomi di alogeni (cloro, fluoro, bromo). Il risultato è un gas incolore, inodore, non infiammabile, chimicamente stabile e senza alcuna azione tossica. Possono essere ulteriormente classificati in cinque categorie:

• CFC (Cloro-Fluoro-Carburi) • HCFC (Idro-Cloro-Fluoro-Carburi) • HFC (Idro-Fluoro-Carburi)

• FC (Fluoro-Carburi) • HC (Idro-Carburi)

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I refrigeranti alogenati si trovano quasi sempre indicati con la sigla R-mnp, il cui significato è spiegato dalla seguente formula:

R-mnp = Cm+1 Hn-1 Clx Fp, dove x, il numero di atomi di cloro, è calcolabile come:

1. x = 4 – (n – 1) – p = 5 – n – p , per gli alogenati derivati del metano, ovvero per i refrigeranti caratterizzati da due sole cifre dopo la lettera R.

2. x = 6 – (n – 1) – p = 7 – n – p , per gli alogenati derivati dell’etano, ovvero per i refrigeranti caratterizzati da tre cifre dopo la lettera R.

Per esempio, il fluido refrigerante R-12, derivato sinteticamente dal metano, avrà una molecola formata da un atomo di carbonio, due atomi di fluoro e due atomi di cloro, e risulta essere un CFC; il fluido R-124, derivato dell’etano, avrà una molecola formata da due atomi di carbonio, un atomo di idrogeno, quattro di fluoro ed un atomo di coloro, risultando essere un HCFC.

Per trovare un fluido appartenente alla categoria degli HFC, è necessario che la somma delle ultime due cifre del nome sia 5, se esso è un derivato del metano, oppure 7, se è derivato dall’etano.

Storicamente i primi fluidi ad essere impiegati, sia per la produzione del freddo, sia, anche se in misura ridotta, negli impianti a ciclo binario, sono stati i CFC; tali fluidi, creati sinteticamente proprio per l’utilizzo nei cicli frigoriferi, presentano proprietà termofisiche particolarmente adatte a questi impieghi. I cloro-fluoro-carburi sono però stati messi al bando già a partire dal 1994 a causa del loro potenziale nella degradazione dello strato di ozono che avvolge la terra e che è in grado di assorbire gran parte delle radiazioni solari ultraviolette dannose per l’uomo. In particolare la distruzione delle molecole di ozono è dovuta principalmente all’emissione in atmosfera delle molecole di cloro (una sola molecola di cloro può distruggere fino a 100 000 molecole di ozono).

L’impatto ambientale dei CFC è stato talmente grande che nel 1987 a Montreal è stato siglato un accordo internazionale tra circa 150 Paesi con lo scopo di limitare l’utilizzo e l’emissione in atmosfera di sostanze nocive alla fascia di ozono. Il Protocollo di Montreal

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ed i successivi emendamenti hanno tra le altre cose sancito il divieto di produzione di cloro-fluoro-carburi proprio a partire dal 1994.

In via provvisoria i CFC sono stati sostituiti con sostanze già presenti in commercio, anche se ancora in fase di perfezionamento, gli HCFC. Tali fluidi, che non rappresentano comunque una soluzione definitiva, poiché la loro produzione ed il loro utilizzo avranno termine a partire dal 2014, sono in grado di offrire qualità termodinamiche comparabili ai vecchi CFC, con costi di produzione accettabili. Il loro potenziale di distruzione dell’ozono non è nullo, anche se molto inferiore rispetto ai fluidi tradizionali.

Il contributo di un certo fluido all’assottigliamento dello strato di ozono è fornito da un indice, l’ODP (ozone depletion potential). Fatto 1 il contributo di un chilogrammo di R-11 immesso in atmosfera, tale indice esprime il rapporto tra il contributo della sostanza in esame e quello appunto dell’R-11.

Altri indici importanti per valutare l’impatto ambientale di un fluido operativo sono l’ALT (atmospheric time life), che indica il tempo di permanenza del gas in atmosfera, e il GWP (global warming potential), che valuta il contributo della sostanza all’effetto serra, confrontandolo a quello prodotto da una molecola di CO2. In particolare quest’ultimo

parametro risulta essere particolarmente elevato per la quasi totalità dei fluidi impiegati nella refrigerazione e di conseguenza per tutti i fluidi interessanti per l’impiego in cicli binari.

Le ultime tre categorie di fluidi non presentano limitazioni dal punto di vista della riduzione della fascia di ozono, avendo tutte ODP nullo. Il loro possibile impiego dovrà essere valutato sulla base di altri indicatori, tra i quali l’infiammabilità, il costo ed ovviamente le qualità termodinamiche.

In linea generale possiamo dire che gli HFC hanno il difetto di presentare valori di GWP molto elevati; non è raro trovare un HFC con GWP maggiore di 1000. Gli idrocarburi invece hanno il maggiore ostacolo nella loro spiccata infiammabilità, ma presentano buone proprietà termodinamiche e valori di GWP estremamente bassi. I fluoro-carburi infine, hanno caratteristiche termofisiche solitamente meno adatte rispetto alle altre due categorie di fluidi.

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3.1.1.3 Miscele

Un’ultima branca di fluidi operativi è rappresentata dalle miscele; esse sono composte da due o più fluidi appartenenti alle categorie precedenti. Le caratteristiche termofisiche di una miscela saranno funzione dei fluidi utilizzati e delle percentuali che tali fluidi rappresentano all’interno della miscela stessa.

L’indubbio vantaggio che qualsiasi miscela presenta è quello di avere le fasi di evaporazione e di condensazione a temperatura variabile; ciò consente di ridurre le perdite exergetiche dovute allo scambio termico sia nell’evaporatore che nel condensatore.

Nell’industria del freddo sono ormai presenti moltissimi tipi di miscele, dalle più classiche composte da acqua ed ammoniaca o da isobutano ed isopentano, fino a miscele di ultima generazione, nelle quale sono mescolati anche tre fluidi di categorie diverse (idrocarburi e HFC oppure HFC e FC).

3.1.2 Classificazione termofisica

Una classificazione come quella che è stata descritta in precedenza è un classificazione chiara e rigorosa, ma che non fornisce utili indicazioni per la scelta del fluido operativo; permette soltanto di escludere dai canditati i fluidi appartenenti a categorie bandite dai trattati internazionali, in particolare dal trattato di Montreal.

Possono essere pensati altri parametri da utilizzare nella classificazione dei fluidi di lavoro; parametri che, anche se meno rigorosi, perché più qualitativi che quantitativi, racchiudano in se le proprietà termofisiche del fluido in esame. In particolare è utile riuscire a raggruppare i fluidi in base alle seguenti caratteristiche:

• Temperatura critica • Pressione critica

• Calore latente di vaporizzazione

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Ovviamente i primi due valori possono essere espressi da un numero, mentre i secondi due possono soltanto essere descritti attraverso una curva. Ecco che risulterà poco sensato il tentativo di stilare una vera e propria classificazione in base agli ultimi due parametri; quello che potrà essere fatto sarà una suddivisione qualitativa in due o tre sottogruppi.

Suddividere i fluidi operativi in base alle proprietà termofisiche significa andare a creare un certo numero di classi di fluidi che possano costituire un comune punto di partenza dal quale partire ogni volta che ci troviamo di fronte ad un nuovo campo geotermico.

Quindi, ad esempio, se dovessimo lavorare con una temperatura del fluido geotermico particolarmente bassa, il fluido di lavoro idoneo andrà cercato in una classe contraddistinta da temperature critiche non molto alte; o ancora, se una particolarmente alta temperatura di reiniezione ci costringesse a lavorare con un modesto salto di temperatura dal lato del fluido primario, potrebbe essere utile operare con un fluido dall’elevato calore latente di vaporizzazione, al fine di evitare eccessive perdite exergetiche per scambio termico.

Si riporta qui una tabella contenente una piccola selezione di possibili fluidi operativi; non sono stati riportati né CFC né HCFC.

Fluido Formula Percentuali Gruppo T cr P cr

[°C] [bar] R-134a C2H2F4 100 HFC 101,2 40,65 R-152a C2H4F2 100 HFC 113,96 44,95 FC-318 C4F8 100 FC 115,3 27,81 Propano C3H8 100 HC 96,76 42,35 Isobutano C4H10 100 HC 135,92 36,84 Isopentano C5H12 100 HC 187,79 33,3 Ammoniaca NH3 100 Inorganico 132,35 113,53

R-404A R-125/R-143a/R-134a 44/52/4 Miscela 72,07 37,32 R-407C R-32/R-125/R-134a 23/25/52 Miscela 86,74 46,19 Tabella 3. 1 Temperatura critica e pressione critica di alcuni fluidi di interesse

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Dalla tabella si può già intravedere un fatto che risulterà essere più evidente alla luce dei grafici successivi; ovvero che l’appartenenza ad un certo gruppo chimico, implica un certo comportamento termodinamico della sostanza in esame. Si può dire che fluidi appartenenti ad uno stesso gruppo chimico abbiano, in linea generale, un comportamento termofisico simile. Il che non significa che un gruppo chimico debba avere una certa proprietà simile in valore per tutti i fluidi; significa che tale caratteristica può essere in qualche modo prevista in funzione della molecola della sostanza. Gli idrocarburi sono l’esempio più chiaro: all’aumentare del numero di atomi di carbonio e quindi della complessità della molecola, la temperatura critica aumenta, la pressione critica diminuisce, il calore latente di vaporizzazione aumenta e la curva di saturazione ha un comportamento sempre più retrogrado.

I grafici che vengono mostrati sono relativi alle campane di saturazione dei principali fluidi esaminati. Il primo è il grafico log(P)-h, che ci permette di valutare quanto sia onerosa la fase di vaporizzazione; il secondo è il classico diagramma T-s ed ha lo scopo di valutare qualitativamente il comportamento del fluido nella fase di espansione (curva retrograda o curva non retrograda).

Diagramma Log(p)-h 1 10 100 0 100 200 300 400 500 600 700 Entalpia P ress io n e 134a 152a iso-Butano Propano FC-318 Isopentano

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Diagramma T-s 0 20 40 60 80 100 120 140 160 180 200 0 0,5 1 1,5 2 Entropia T e m p er at u ra 134a 152a iso-Butano Propano FC-318 Isopentano

Figura 3. 2 Diagramma T-s di alcuni possibili fluidi operativi

Possono essere fatte alcune considerazioni:

• Gli idrocarburi presentano curve di saturazione più larghe, e quindi vaporizzazioni maggiormente onerose, rispetto agli HFC ed agli FC.

• Tutti i fluidi esaminati hanno pressioni critiche molto simili tra loro, comprese tra i 30 ed i 40 bar.

• Gli HFC non hanno curve di saturazione di tipo retrogrado, a differenza degli altri due gruppi di fluidi.

• Non vi sono relazioni tra temperatura o pressione critica e comportamento termodinamico della sostanza (curva retrograda e calore latente di vaporizzazione); il comportamento termodinamico può soltanto essere relazionato alla classe chimica di appartenenza.

• Una curva di saturazione di tipo retrogrado tende a scoraggiare il surriscaldamento del fluido; nei fluidi classici, come l’acqua, surriscaldare significa aumentare il titolo di fine espansione e l’efficienza del ciclo. Se però la curva di saturazione tende a rientrare, come nel caso degli idrocarburi, una qualunque espansione reale,

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ovvero ad entropia crescente, avente inizio dal vapore saturo secco, non può che terminare nel vapore surriscaldato. Anche in termini di efficienza i vantaggi relativi al surriscaldamento del fluido si riducono molto: l’espansione avrebbe termine ad una temperatura molto maggiore di quella del condensatore, comportando una discreta irreversibilità.

• Fluidi che presentano curve di saturazione non retrograde, invece possono assicurarsi di terminare l’espansione fuori dalla campana del vapore saturo soltanto attraverso il surriscaldamento. Questo concetto è espresso dalla figura seguente.

Figura 3. 3 Curve di saturazione retrograde e non retrograde [Gozdur 2005]

I grafici successivi, ancora un diagramma log(P)-h ed un diagramma T-s, mostrano come in realtà tutti i fluidi considerati in precedenza presentino un calore latente di vaporizzazione piuttosto basso; l’ammoniaca, fluido dal comportamento termodinamico simile a quello dell’acqua, presenta una vaporizzazione molto più onerosa.

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Diagramma Log(p)-h 1 10 100 0 200 400 600 800 1000 1200 1400 Entalpia P res si o n e 134a 152a iso-Butano Propano FC-318 Isopentano Ammoniaca

Figura 3. 4 Diagramma log(p)-h dei fluidi in esame a confronto con quello dell'ammoniaca

Diagramma T-s 0 20 40 60 80 100 120 140 160 180 200 0 1 2 3 4 5 Entropia T e m p er at u ra 134a 152a iso-Butano Propano Ammoniaca Isopentano

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Si riporta infine l’andamento della pressione di saturazione in funzione della temperatura di saturazione. Diagramma p-T 0 20 40 60 80 100 120 0 20 40 60 80 100 120 Temperatura P res si o n e R134a R-152a isobutano Propano Isopentano FC-318 Ammoniaca Acqua

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3.2 Cicli di recupero

I cicli di recupero utilizzabili nello sfruttamento indiretto di risorse geotermiche a bassa entalpia sono pressappoco gli stessi che si possono trovare negli impianti a vapore per la generazione di potenza elettrica. Ovviamente, data la scarsa potenza in gioco, saranno preferibili soluzioni impiantistiche semplici, per non gravare di costi iniziali eccessivi una realtà che non potrà creare un ritorno economico paragonabile a quello di un classico impianto di potenza a combustibili fossili.

Si possono così riassumere le scelte possibili:

• 1 livello di pressione: • Ciclo Rankine • Ciclo Hirn • Ciclo Kalina • 2 livelli di pressione: • Doppio Rankine • Doppio Hirn

• Ciclo Hirn con risurriscaldamento

• Cicli non standard:

• Ciclo rigenerativo • Ciclo supercritico

Si passa ora ad analizzare nel dettaglio le soluzioni proposte, riportando lo schema impiantistico e le relazioni principali per i calcoli delle grandezze prestazionali.

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3.2.1 Cicli di recupero ad un livello di pressione

3.2.1.1 Ciclo Rankine

Figura 3. 7 Schema impiantistico di un ciclo Rankine

Il ciclo Rankine è il ciclo termodinamico più semplice.

Il fluido di lavoro, nella condizione di liquido saturo, viene pompato e riscaldato sensibilmente fino alla temperatura di saturazione, funzione della pressione di saturazione scelta e quindi fatto vaporizzare fino a diventare vapore saturo secco; a questo punto viene fatto espandere in una turbina fino alla pressione di saturazione relativa alla temperatura di condensazione e quindi condensato per tornare ad essere nelle condizioni di partenza ed iniziare un nuovo ciclo.

L’unica variabile su cui poter giocare è la pressione di saturazione; tutti gli altri dati termodinamici o sono dipendenti dalla pressione stessa, come l’entalpia di inizio espansione, oppure sono imposti dalle condizioni esterne, come la pressione di fine espansione, funzione della temperatura di condensazione.

Le problematiche possibili sono legate principalmente ai profili di temperatura nello scambiatore a recupero (in ogni punto la temperatura del fluido geotermico deve essere

EVAP ECO T geo,in T geo,out Cond T

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superiore alla temperatura del fluido di lavoro), ed al titolo del vapore al termine dell’espansione (un titolo pari a 0,8 può essere preso come valore limite, ma è preferibile terminare l’espansione con un titolo maggiore).

La figure seguente mostra come un fluido dalla curva di saturazione retrograda possa trascurare il secondo problema; l’espansione terminerà sempre nel vapore surriscaldato.

Figura 3. 8 Diagramma T-s di un ciclo Rankine

3.2.1.2 Ciclo Hirn

Il ciclo Hirn rappresenta la naturale evoluzione del ciclo Rankine; in letteratura, infatti, può essere trovato anche con il nome di ciclo Rankine con surriscaldamento. In effetti l’unica variane che viene introdotta con il ciclo Hirn è proprio il surriscaldamento del fluido, dalla temperatura di saturazione, in condizioni di vapore saturo secco, fino ad una temperatura arbitraria, ovviamente non superiore alla temperatura del fluido geotermico.

Le variabili in gioco questa volta sono due, la pressione di saturazione e la temperatura di fine surriscaldamento.

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Figura 3. 9 Schema impiantistico di un ciclo Hirn

Il problema legato al titolo di fine espansione è ampiamente risolto (vedi figura in basso), mentre quello relativo ai profili di temperatura dovrà essere verificato di volta in volta. Mantenendo l’attenzione sui profili di temperatura, si nota come quello del fluido di lavoro abbia una zona evaporativa molto piccola; qualitativamente questo significa un profilo in grado di seguire meglio l’andamento della temperatura del fluido geotermico (tutto calore sensibile), in grado quindi di ridurre le irreversibilità per scambio termico.

EVAP ECO T geo,in T geo,out Cond T SH

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3.2.1.3 Ciclo Kalina

Prendono il nome di ciclo Kalina tutti quei cicli termodinamici operanti nella zona del vapore saturo, nei quali il fluido di lavoro è costituito da una miscela. Le configurazioni impiantistiche sono le stesse illustrate per il ciclo Rankine e per il ciclo Hirn, dal momento che anche le miscele possono espandersi sia dal vapore saturo secco che dal vapore surriscaldato. Il vantaggio di operare con una miscela, invece che con un fluido puro, è quello di avere le fasi di evaporazione e condensazione a temperatura variabile; ciò permette di ridurre il gap di temperatura tra fluido di lavoro e fluido primario, nell’evaporatore, e tra fluido di lavoro e fluido di condensazione nel condensatore, con un indubbio beneficio in termini di riduzione di irreversibilità.

Figura 3. 11 Profili di temperatura a confronto T W Eva Eco W Eva Eco Sh T Ciclo

Rankine Ciclo Hirn

W Eva Eco Ciclo Kalina T W Eva Eco Sh T Ciclo Kalina con Sh

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I quattro grafici mostrano come sia nel caso di ciclo Rankine, che nel caso di ciclo Hirn, l’utilizzo di una miscela consenta di ridurre lo spazio compreso tra i due profili di temperatura.

Tutto ciò è valido più in linea teorica, che dal punto di vista operativo. Infatti le miscele commerciali utilizzate nella produzione del freddo permettono un incremento di temperatura nella fase di evaporazione soltanto di qualche grado. Esse sono create per migliorare le efficienze dei cicli frigoriferi, che lavorano in un range di temperatura molto inferiore rispetto ai cicli binari, a cavallo della temperatura ambiente; la maggior parte di esse presentano temperature critiche dell’ordine dei 100°C, temperatura intorno alla quale potrebbe avvenire la vaporizzazione del fluido di lavoro; ma essendo in prossimità della temperatura critica, la vaporizzazione del fluido è troppo poco onerosa perché si possa notare un considerevole vantaggio in termini di aumento della temperatura in fase evaporativa e quindi una sensibile riduzione dell’irreversibilità.

Il grafico seguente, ottenuto per la miscela R-407C, mostra una differenza di temperatura tra il liquido saturo ed il vapore saturo di circa 2°C.

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Con un vantaggio così ridotto la scelta del fluido operativo dovrà essere fatta su altre basi, e non è detto che la miscela sia la soluzione ottimale.

Miglioramenti più significatici potrebbero esserci qualora lo sviluppo dei cicli binari divenisse tale da innescare un circolo virtuoso intorno a sé. Allora si potrebbe pensare di studiare una serie di miscele ad hoc per questi impieghi, senza dover ricorrere ad utilizzare fluidi nati per altre applicazioni. In letteratura esistono studi su miscele sperimentali più idonee alle applicazioni di potenza; i vantaggi iniziano ad essere quantificabili, ma mai schiaccianti.

3.2.2 Cicli di recupero con due livelli di pressione

3.2.2.1 Doppio ciclo Rankine

Figura 3. 13 Schema impiantistico di un ciclo Rankine a due livelli di pressione ECO AP ECO BP T geo,in T geo,out Cond T AP EVA AP EVA BP T BP M tot M Ap M Bp

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Questa tipologia di ciclo di recupero prevede la suddivisione dell’intera portata in due frazioni: una andrà a percorrere il circuito di alta pressione, l’altra quello di bassa pressione.

Dopo un comune preriscaldamento del fluido, fino al raggiungimento della temperatura di saturazione relativa alla pressione inferiore, la portata di bassa pressione entra nell’evaporatore e quindi nella relativa turbina di bassa pressione; la restante parte, invece viene ulteriormente pompata fino alla pressione superiore e conseguentemente riscaldata fino alla relativa temperatura di saturazione. Dopo di che viene fatta evaporare e quindi espandere nella turbina di alta pressione. A questo punto arriva nel condensatore, dove insieme alla portata di bassa pressione condensa e si riporta nelle condizioni iniziali.

Immagine del ciclo di recupero con due livelli di pressione.

Figura 3. 14 Diagramma T-s di un ciclo Rankine a due livelli di pressione

Lo scopo del doppio livello di pressione è quello andare a colmare parte del gap tra la temperatura del fluido geotermico e quella del fluido operativo.

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Come vedremo meglio quando andremo ad analizzare nel dettaglio il problema termodinamico, questa soluzione risulterà migliorativa per fluidi di lavoro con temperatura critica piuttosto alta ed una consistente fase di evaporazione.

Il diagramma seguente mostra in modo molto qualitativo quanto detto. La linea rossa rappresenta il profilo di temperatura di un ciclo Rankine ad un livello di pressione; la linea nera, quella del due livelli di pressione, tende ad essere mediamente più vicina al profilo del fluido geotermico.

Figura 3. 15 Variazione dei profili di temperatura passando da uno a due livelli di pressione

3.2.2.2 Doppio ciclo Hirn

La soluzione del doppio livello di pressione è praticabile anche con un doppio ciclo Hirn. Lo schema impiantistico differisce dal precedente per il solo fatto che il fluido non espande dalla zona del vapore saturo secco, ma viene prima surriscaldato. Le sezioni di scambio termico saranno sei anziché quattro.

W Eva Bp Eco Bp Eva Ap Ciclo Rankine 2 livelli di pressione Eco Ap M Ap M Ap M Bp M tot T

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Si può pensare anche di fare anche una terza variante, ovvero ciclo Hirn alla pressione superiore e Rankine alla pressione inferiore.

Le problematiche ed i vantaggi sono gli stessi descritti in precedenza, perciò una trattazione maggiormente accurata sarebbe soltanto ridondante.

3.2.2.3 Ciclo Hirn con risurriscaldamento

Figura 3. 16 Schema impiantistico di un ciclo Hirn con risurriscaldamento

Il ciclo Hirn con risurriscaldamento può essere visto come una soluzione ibrida tra un singolo ed un doppio livello di pressione. Ogni sezione dell’impianto tratta sempre l’intera portata, che non subisce mai un frazionamento; le pressioni operative sono però due.

EVAP ECO T geo,in T geo,out Cond T1 SH + RSH T2

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La prima parte del ciclo è un ciclo Hirn semplice, nella quale il fluido operativo viene pompato alla pressione voluta, riscaldato, fatto evaporare, surriscaldato ed infine fatto espandere in una prima turbina. Da qui iniziano le differenze: l’espansione non è completa, non si arriva alla pressione di condensazione, ma ci si ferma ad una pressione intermedia arbitraria. Uscita dalla prima turbina, il fluido viene di nuovo surriscaldato e mandato ad espandersi nuovamente, questa volta fino alla pressione di condensazione.

Ci sono varie soluzioni impiantistiche per attuare un ciclo Hirn con risurriscaldamento. Lo schema proposto in alto prevede che la prima espansione termini ad una temperatura superiore della temperatura di saturazione relativa alla pressione operativa; in questo caso può essere utilizzato uno scambiatore con sezioni in parallelo, nel quale il fluido geotermico scambia calore contemporaneamente con due flussi di fluido di lavoro. Se invece volessimo protrarre la prima espansione fino ad una temperatura inferiore a quella di saturazione, saremmo costretti ad impiegare due scambiatori con sezioni in parallelo; il flusso a pressione intermedia si sarebbe risurriscaldato in parte nell’economizzatore ed in parte nel surriscaldatore.

Una terza alternativa sarebbe potuta essere quella di predisporre un’ulteriore sezione di scambio termico dedicata al solo risurriscaldamento del fluido. Sicuramente più semplice, questa soluzione avrebbe introdotto un’irreversibilità maggiore rispetto all’introduzione delle sezioni di scambio termico in parallelo.

Come si nota anche dall’immagine seguente, l’ipotesi di risurriscaldamento del fluido comporta una temperatura di fine espansione molto elevata, addirittura paragonabile a quella di evaporazione. Si capisce che se non fosse associato ad un recupero termico, il risurriscaldamento del fluido comporterebbe dei peggioramenti dal punto di vista prestazionale, oltre che delle indubbie complicazioni costruttive.

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3.2.3 Cicli di recupero non standard

Fanno parte di questa sezione soluzioni impiantistiche che fino ad ora non hanno trovato una precisa collocazione nelle realtà dei cicli binari.

3.2.3.1 Ciclo di recupero rigenerativo

Figura 3. 18 Schema impiantistico di un ciclo rigenerativo

Il ciclo rigenerativo, a differenza di tutte le altre soluzioni che tendono a ridurre le irreversibilità prodotte nello scambiatore a recupero, cerca di limitare la perdita exergetica nella fase di condensazione. Quasi tutti i diagrammi T-s visti nei paragrafi precedenti evidenziano una temperatura di fine espansione estremamente elevata; in alcuni casi l’espansione termina ad una temperatura che è intermedia tra quella di condensazione e quella massima. Questo significa che il condensatore non dovrà solo dissipare calore

EVAP ECO T geo,in T geo,out Cond T SH Pre-ECO

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latente, a bassa exergia, ma anche una discreta quantità di calore sensibile, ad exergia maggiore. L’idea è quella di recuperare il calore sensibile fino a che è possibile, compatibilmente con un certo salto di temperatura da garantire per il corretto funzionamento dello scambiatore rigenerativo, e lasciare al condensatore solo il calore latente e la parte rimanente di calore sensibile. Ovviamente recuperare il calore sensibile significa utilizzarlo come fluido caldo in un pre-economizzatore che avrà dal lato freddo il fluido di lavoro stesso, in fase liquida e già alla pressione di esercizio.

La rigenerazione del fluido sta iniziando a trovare spazio anche negli impianti reali [Di

Pippo 2004], grazie anche all’introduzione delle miscele e dei cicli Kalina. La

condensazione a temperatura variabile infatti permette di sfruttare maggiormente l’energia posseduta dal fluido al termine dell’espansione, consentendo di recuperare anche parte del calore “latente”, che in realtà è a temperatura variabile, legato alla condensazione della miscela. Nel capitolo dedicato all’analisi termodinamica valuteremo quantitativamente la differenza tra la rigenerazione di un fluido puro e quella di una miscela.

3.2.3.2 Ciclo supercritico

Figura 3. 19 Schema impiantistico di un ciclo di recupero supercritico Scamb super critico T geo,in T geo,out Cond T

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Un ciclo supercritico è per definizione un ciclo termodinamico operante ad una pressione superiore alla pressione critica del fluido di lavoro.

L’esigenza di introdurre un ciclo di recupero supercritico si ha quando la temperatura del fluido geotermico supera sensibilmente la temperatura critica del fluido operativo. In tal caso, lavorando in condizioni sub-critiche, un ipotetico ciclo Hirn risulterebbe squilibrato, con una zona di surriscaldamento molto più consistente delle altre due. Molto più efficiente è il tentativo di ridurre lo scarto termico tra i due fluidi andando ad aumentare la pressione operativa.

In ogni caso un ciclo operante a pressione superiore a quella critica, ha il vantaggio di non avere la fase di evaporazione, intrinsecamente ad elevata irreversibilità. Lo schema riportato in precedenza infatti ha visto la sostituzione delle tre sezioni di scambio termico, con una solo grande scambiatore.

Il diagramma T-s in basso, relativo al fluido R-134a, mostra il confronto tra un ciclo di recupero supercritico, in rosso, operante ad una pressione di 50 bar, ed un ciclo Hirn, in nero, alla pressione operativa di 38 bar; la pressione critica del fluido è 40 bar.

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Il ciclo supercritico riesce a ridurre contemporaneamente l’irreversibilità prodotta nello scambiatore a recupero e quella prodotta nel condensatore; la temperatura di fine espansione è infatti inferiore rispetto a quella del ciclo Hirn.

Ovviamente questa tipologia di ciclo di recupero ha anche delle problematiche:

• Lo scambio termico di un fluido operante a pressione superiore alla critica non è mai cosa semplice.

• I fluidi di interesse per queste applicazioni possono avere spiccate aggressività chimiche; una pressione elevata potrebbe esaltarle e creare problemi alle parti meccaniche dell’impianto.

• Un impianto che nasce per lavorare con un ciclo supercritico non può essere convertito a ciclo subcritico, poiché gli apparati di scambio termico sono profondamente diversi. Un decremento della temperatura del fluido primario potrebbe creare serissimi problemi, nel momento in cui l’espansione terminasse nel vapore saturo, e con un titolo basso.

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3.3 Sistemi di condensazione

Una terza variabile molto importante nella progettazione di un ciclo binario è la scelta della tipologia e dei parametri operativi del sistema di condensazione. Dall’analisi della letteratura abbiamo visto come gli apparati di condensazione possano ridursi a tre tipologie principali, ovvero condensatori ad acqua corrente, condensatori ad acqua di torre e condensatori ad aria. Non è compito di questo paragrafo dire quale possa essere la scelta migliore, ma soltanto di illustrare gli aspetti principali delle tre tipologie ed in particolare della condensazione con acqua di torre e di quella ad aria.

Per quanto riguarda la condensazione con acqua corrente diciamo soltanto che avviene, su scala ridotta, nello stesso modo con cui si condensa il vapore delle grandi centrali termoelettriche. Il fluido, terminata l’espansione, viene mandato in uno scambiatore di calore nel quale condensa a spese di un fluido freddo, che può essere acqua di mare o acqua di fiume. Se operiamo con acqua di fiume, è necessario che il corso d’acqua abbia una portata sufficientemente grande da riuscire ad assorbire l’inquinamento termico generato dalla condensazione del fluido con un modesto incremento della propria temperatura. L’applicazione ai cicli binari di questo sistema di condensazione è limitato a quegli impianti che hanno avuto la fortuna di sorgere in prossimità di corsi d’acqua.

3.3.1 Condensazione con acqua di torre

Un sistema di condensazione operante con acqua di torre è composto da due elementi principali: lo scambiatore, nel quale l’acqua si riscalda facendo condensare il fluido di lavoro, e la torre evaporativa, nella quale avviene il raffreddamento dell’acqua.

Lo scambiatore è un classico scambiatore a liquido, in nulla dissimile rispetto ad uno utilizzato per la condensazione con acqua corrente e può essere di varie tipologie.

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All’interno di esso l’acqua di raffreddamento con una temperatura che può variare dai 15°C ai 25°C scambia calore con il fluido di lavoro, condensandolo. Mediamente la differenza tra la temperatura d’ingresso e quella di uscita dell’acqua è di 10°C; possiamo dire quindi che uscirà con una temperatura compresa tra i 25°C e i 35°C.

Uscita dallo scambiatore, l’acqua deve essere raffreddata; questo avviene nella torre di evaporazione, nella quale incontra in controcorrente o in flusso incrociato una corrente di aria secca, la quale provoca una forte evaporazione in seno al liquido e un conseguente abbassamento della temperatura. Ovviamente l’evaporazione provoca una perdita di acqua che deve essere compensata con un’integrazione.

Torre di raffreddamento Condensatore P-16 P-17 P-18 V-1 Fluido di lavoro in uscita dalla turbina Fluido di lavoro condensato Acqua di integrazione Acqua di raffreddamento T=15°C-25°C Acqua di raffreddamento T=25°C-35°C

Figura 3. 21 Schema impiantistico di un sistema di condensazione con acqua di torre

La portata di acqua che deve essere integrata in un sistema di condensazione come questo è quantificabile in circa 30 t/h per ogni MW istallato.

Solitamente gli impianti di taglia medio-piccola, come sono gli impianti a ciclo binario, sono dotati di torri con tiraggio meccanico; si può prevedere che nel computo della potenza assorbita dal sistema di condensazione, questa soluzione risulterà più onerosa della precedente; quantitativamente si può stimare intorno al 10% della potenza istallata.

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3.3.2 Condensazione a secco

Un sistema di condensazione ad aria è concettualmente ancora più semplice di uno ad acqua corrente: il fluido di lavoro, finita l’espansione in turbina, percorre una serie di tubazioni alettate lambite all’esterno da un flusso di aria alla temperatura ambiente movimentata meccanicamente.

La condensazione a secco presenta però delle problematiche di natura pratica:

• L’aria, essendo un gas, presenta un coefficiente di scambio termico sensibilmente inferiore a quello dell’acqua; l’introduzione di superfici alettate potrà compensare solo in parte questo gap, che comporterà un notevole incremento della superficie di scambio e conseguentemente un incremento dei costi capitali.

• Perché si abbia un coefficiente di scambio termico accettabile, l’aria deve essere convogliata sulle batterie alettate con una certa velocità; ciò comporterà un consumo non indifferente in termini di potenza assorbita dal sistema di ventilazione, che mediamente si aggira intorno al 20% della potenza istallata.

• L’aria ha un calore specifico circa quattro volte inferiore a quello dell’acqua, quindi a parità di portata elaborata e di differenza di temperatura, asporterà circa un quarto della potenza termica altrimenti asportata da uno scambiatore ad acqua.

• Un condensatore ad aria risentirà molto di più delle variazioni della temperatura ambiente; dovranno essere studiati degli accorgimenti per fare fronte anche a questo problema ed evitare di dover spengere l’impianto nei periodi più caldi.

Il vantaggio principale di un impianto condensato ad aria è senza dubbio quello di essere autosufficiente, ovvero di non avere bisogno di altre risorse se non di quella geotermica. Un condensatore ad acqua di torre, come abbiamo detto, ha bisogno di una continua integrazione di acqua per compensarne l’evaporazione. Un condensatore a secco, invece necessita soltanto di energia elettrica, un bene che, seppur prezioso, è sicuramente presente in prossimità di una centrale elettrica.

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Si riportano due immagini di condensatori a secco. Il primo è un condensatore a tubi alettati disposti orizzontalmente, soluzione che privilegia i bassi consumi, a scapito di un ingombro notevole; Il secondo, invece, ha ancora tubi alettati, ma essi sono inclinati, riducendo gli ingombri a scapito di una maggiore potenza necessaria per il funzionamento dei ventilatori, a parità di potenza termica smaltita.

Figura

Figura 3. 1 Diagramma log(p)-h di alcuni possibili fluidi operativi
Diagramma T-s 020406080100120140160180200 0 0,5 1 1,5 2 EntropiaTemperatura 134a152a iso-ButanoPropanoFC-318 Isopentano
Diagramma T-s 0 20406080100120140160180200 0 1 2 3 4 5 EntropiaTemperatura 134a 152a  iso-ButanoPropano  AmmoniacaIsopentano
Figura 3. 6 Diagramma (p-T)sat dei fluidi in esame, dell'acqua e dell'ammoniaca
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