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La Pasqua di Gesù libera, nella notte, la Luce.

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Academic year: 2022

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a cura di don Renzo

Anno 8; n. 1— ciclostilato in proprio — Ufficio Parrocchiale Cles — febbraio 2021

Tanti, troppi colpiti dal virus in ospedale

o chiusi nelle case:

violento il covid cieco nell’aggredire e non sai perché continua a far danni.

Tempo di magra per il lavoro di molti, cambio di abitudini e anche di sogni.

Come in viaggio con il freno tirato, stagione bloccata, nastro inceppato.

Ma un grido è possibile, siamo chiamati a tender l’orecchio:

“Lui non è qui, è risorto”,

più forte del virus e perfino della morte.

Pasqua di Cristo, dono del Padre, semina di Speranza dentro la storia.

La Pasqua di Gesù

libera nella notte la Luce, riversa Acqua

nel deserto del cuore,

annuncia Parole

che raccontano l’Amore e la Forza della fedeltà di Chi non ci lascia.

La pietra dalla tomba di questo tempo nefasto viene rotolata via

come un fuscello.

Sta vivo fra noi il Crocifisso Risorto e ci invita

a non avere paura.

Nella pazienza riconosceremo

che l’impegno comune porta alla vita

e che l’effluvio dello Spirito di Dio darà spazio

a nuova creazione.

La Pasqua di Gesù libera,

nella notte, la Luce.

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La preghiera liturgica è

fondamentale per la presen- za di Cristo tra noi

Papa Francesco: la preghiera nella liturgia: è importante pregare in se stessi e nella pro- pria intimità ma un vero cri- stiano deve partecipare alla preghiera liturgica. Anche se nel corso degli anni si è tenta- to di rendere la preghiera pri- va di atti liturgici, si riteneva

“la presunta maggiore purez- za di una religiosità che non dipendesse dalle cerimonie

esteriori, ritenute un peso inu- tile o dannoso.” Ma ciò è sba- gliato, la preghiera non può prescindere dalla liturgia.

Poiché, come viene ben spie- gato nel Concilio Vaticano II

“la preghiera dei cristiani pas- sa attraverso mediazioni con- crete: la Sacra Scrittura, i Sa- cramenti, i riti liturgici, la co- munità. Nella vita cristiana non si prescinde dalla sfera corporea e materiale, perché in Gesù Cristo essa è diventata via di salvezza. “È la presenza di Cristo che viene tra noi,

“Cristo si rende presente nello Spirito Santo attraverso i se- gni sacramentali: da qui deri- va per noi cristiani la necessi- tà di partecipare ai divini mi- steri. […] Ogni volta che cele- briamo un Battesimo, o consa- criamo il pane e il vino nell’Eucaristia, o ungiamo con l’Olio santo il corpo di un ma-

lato, Cristo è qui! È Lui che agisce ed è presente come quando risanava le membra deboli di un infermo, o conse- gnava nell’Ultima Cena il suo testamento per la salvezza del mondo.”

Anche quando si va a Messa, ad esempio, noi non solo ascoltiamo, ma partecipiamo.

È importante capire questa distinzione, “la Messa è sem- pre celebrata, e non solo dal sacerdote che la presiede, ma da tutti i cristiani che la vivo- no. E il centro è Cristo! Tutti noi, nella diversità dei doni e dei ministeri, tutti ci uniamo alla sua azione, perché è Lui, Cristo, il Protagonista della liturgia” E come esortò San Paolo nella sua Lettera ai Ro- mani, la nostra vita stessa de- ve diventare culto a Dio, at- traverso la preghiera liturgica.

Trovare note di speranza anche nel tempo diffici- le di questa pandemia non è un esercizio di otti- mismo a buon mercato. Credo invece corrisponda a un compito e a una responsabilità che riguarda tutti in vista della ricostruzione che ci attende nei prossimi mesi e anni. Saper interpretare il tempo della crisi, offrire una parola sensata e disegnare un orizzonte realista, ma non rassegnato, rimane anche in questo tempo una responsabilità per il bene di tutti alla quale non possiamo e non vo- gliamo sottrarci.

Pratiche di solidarietà

Il primo e più evidente dei segni di speranza che indicano una risorsa per il tempo a venire credo si possa cogliere nel grande movimento di solidarie- tà scaturito dal basso, che ha visto protagonisti tante persone le quali hanno dato prove di dedi- zione per il bene altrui che sono state sicuramente superiori al solo dovere professionale – e si sono spinte in molti casi fino a mettere a rischio la pro- pria salute (e comunque hanno comportato sacri- fici importanti per sé e per le persone ca-

re).Anche il coordinamento e la collaborazione tra mondi abituati ad agire separati (servizi sociali, Caritas parrocchiali, associazioni di volontariato ecc.) credo sia degna di menzione. Da una crisi come la presente usciremo sicuramente molto di- versi: se anziché il «si salvi chi può» riuscissimo a difendere e coltivare l’atteggiamento ispirato alla consapevolezza che «nessuno si salva da solo» (di cui siamo stati testimoni nelle migliori espressioni di umanità registrate in questo tempo) potremmo forse «uscirne migliori». «Se non riusciamo a re- cuperare la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale desti- nare tempo, impegno e beni, l’illusione globale che ci inganna crollerà e lascerà molti in preda alla nausea e al vuoto. Inoltre, non si dovrebbe ingenuamente ignorare che “l’ossessione per uno stile di vita consumistico, soprattutto quando solo pochi possono sostenerlo, potrà provocare soltan- to violenza e distruzione reciproca”. Il “si salvi chi può” si tradurrà in fretta nel “tutti contro tut- ti”, e questo sarà peggio di una pandemia» (FT 36).

Esercizi di speranza

di: Marco Bernardoni

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Una nuova architettura del mondo

Il secondo spunto più che un segnale di speranza è un pensiero scaturito dalla considerazione che si va verso un mondo che dovrà essere ricostruito dopo l’esperienza della pandemia. Ed è facile prevedere che sarà un mondo attraversato (anche) da rabbia, frustrazione e disperazione (di chi ha perduto tanto o tutto) e che questi sentimenti ali- menteranno spinte divisive e laceranti dentro il tessuto sociale. In queste crisi epocali (la storia insegna), non è raro che la gente finisca per dare credito a chi individua, con cinismo e studiata strategia, gruppi responsabili e colpevoli della situazione di disagio verso i quali dirigere la rab- bia, il risentimento, la violenza aggressiva. Do- vremo dunque avere consapevolezza che que- sto può accadere (amplificato dalla potenza per- vasiva dei nuovi linguaggi, capaci di creare false notizie e diffonderle nelle coscienze con una for- za e una rapidità inedite). Dovremo dunque im- pegnarci a comporre fratture e divisioni e a resi- stere a questo tipo di letture, sviluppando fiuto, ma soprattutto senso critico e sapienza evangeli- ca.

Questo però va fatto ora, preventivamente, senza cedimenti. Sia attraverso i servizi di assistenza alle povertà; sia attraverso la conoscenza dei no- stri territori e di tutti coloro che sul territorio ri- schiano di divenire oggetto di colpevolizzazione.

Ma anche attraverso la formazione delle coscien- ze secondo istanze genuinamente solidali.

Politiche di fraternità

Colpisce, infine, il riferimento insistito, quasi un appello che il papa ci rivolge a rivalutare la di- mensione politica come espressione alta della ca- rità (secondo la felice intuizione che fu già di Pio XI, cf. qui). Credo sia una chiara espressione della coscienza che problemi strutturali e profondi, ad- dirittura di dimensione mondiale, come quelli che il tempo presente sta in parte creando e in parte soltanto rendendo più evidenti − perché erano già presenti prima della pandemia −, si possono af- frontare in modo incisivo e possono trovare solu- zioni capaci di imprimere una svolta duratura sol- tanto agendo sul livello politico e sul piano cultu- rale (non solo assistenziale). Condivido senza ri- serve l’appello a rivalutare – anzitutto nella sua reputazione, piuttosto compromessa presso le ge- nerazioni più giovani – l’arte politica come dedi- zione seria e onerosa per il bene comune.

Trovo come sempre efficaci le parole di France- sco: «È carità stare vicino a una persona che sof- fre, ed è pure carità ciò che si fa, anche senza ave- re un contatto diretto con quella persona, per mo- dificare le condizioni sociali che provocano la sua sofferenza. Se qualcuno aiuta un anziano ad attra- versare un fiume – e questo è carità –, il politico gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica» (FT 186).

appunti sui cap. 5°- 6° dell’Enciclica di Papa Francesco

Capitolo 5° LA MIGLIORE POLITICA

“Essere parte del POPOLO è far parte di una identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile… verso un progetto comune.” Così si esprimeva il Vescovo di Buenos Aires J.M. Bergoglio (A. Spadaro, Omelie e discorsi di Bueno Aires, Rizzoli, Mi). Dalla parola POPOLO derivano 2 aggettivi: POPOLARE E POPULISTA. Se con il primo si intende quanto c’è di comune nelle aspirazioni, negli obiettivi, perfino nei sogni di un popolo, con il secondo si intende un uso sfrontato delle passioni, delle inclinazioni più istintive della gente per fini elet- torali o economici. Cerchiamo sempre di distinguere bene questi 2 modi di occuparsi del Popolo. Papa Francesco va oltre il concetto di popolo e ci conduce a quello di fratellanza: apparteniamo gli uni agli altri come fratelli e sorelle che hanno il mondo come casa comune. L’ essere FRATELLI ha 2 dimensio- ni inseparabili una personale, quella dell’Amore, della Carità, dell’accettazione reciproca, della condivi- sione e una che si occupa del bene comune, del buon funzionamento e della buona organizzazione della società nel suo complesso. Addirittura il paragrafo 180 del 5° cap. parla di AMORE POLITICO e ce lo spiega con 2 esempi: “ Se qualcuno aiuta un anziano ad attraversare un fiume – e questo è squisita carità – il politico gli costruisce un ponte e se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica”. E an- cora avanti, fino alla TENEREZZA “Cuore dello spirito della politica è sempre un amore preferenziale per gli ultimi” (cap. 5, 187)” Anche nella politica c’è spazio per amare con tenerezza… i più piccoli, i più deboli, i più poveri… hanno il DIRITTO di prenderci l’anima e il cuore (udienza 18 gennaio 2015).

Capitolo 6° DIALOGO E AMICIZIA SOCIALE

“Il DIALOGO perseverante e coraggioso non fa notizia come gli scontri e i conflitti, eppure aiuta con discrezione il mondo a vivere meglio, molto più di quanto possiamo rendercene conto” (cap. 6, 198).

Chiunque veda un po' di TV ha esperienza di dibattiti che scadono inesorabilmente in litigi: voci urlanti che si sovrappongono e arrivano all’ offesa. Sembra quasi che tra l’indifferenza di chi cerca solo evasio-

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ne e non vuole sentire nulla dei problemi della società e chi protesta con violenza contro tutto e tutti non sia possibile una via di mezzo. Eppure esiste una via, quella del dialogo, della mediazione della pazienza, del buon senso, dell’ascolto, insomma una via molto vicina a quella dell’amore. In famiglia, nel lavoro, con colleghi ed amici, nelle associazioni e nella Chiesa, dialogare sarebbe la “sanificazione”

dei rapporti. E Papa Francesco ci prende per mano e ci insegna l’arte del dialogo: una lezione fatta di 7 parole semplici: 7 verbi riflessivi, che indicano azioni che raggiungono l’altro e ritornano veloci a chi li pronuncia: “avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto” (Cap. 6, 189). Sarebbe tanto bello cercare di mettere in pratica questa lezione in ogni campo della nostra vita! E ancora, alla fine del capitolo, un suggerimento affettuoso, sembrano le paro- le di un padre, o forse di una madre: “Recuperare la gentilezza, la pratica della gentilezza non è un par- ticolare secondario, né un atteggiamento superficiale o borghese … ma trasforma lo stile di vita, i rap- porti sociali, il modo di dibattere … apre strade là dove l’esasperazione distrugge tutti i ponti.” (cap. 6, 222-224). In Amoris laetitia consigliava di trovare quel secondo minuto salvifico per dire “permesso - scusa – grazie”.

Al termine della visita del papa in Iraq sento una profonda emozione nutrita di stupore e di gratitu- dine per un evento straordinario. Già l’annuncio di un tale viaggio aveva suscitato meraviglia e ogni settimana ci si chiedeva se non sarebbe giunto dalla Santa Sede un comunicato del rinvio a tempi più tranquilli. Ma papa Francesco è rima- sto fiducioso in una missione cui si sentiva chia- mato da Dio e (a quanto abbiamo appreso) i fede- li iracheni non volevano ormai rinunciare alla sua presenza; ne sentivano il bisogno e pregustavano la gioia. In tutti loro – lo si è capito – vi erano disponibilità a ogni sacrificio e fede nella divina Provvidenza, oltre che nelle precauzioni umane.

Parole di conforto e di perdono

Ed è andato tutto bene, con grande dignità e im- patto: dialogo inter-religioso, preghiera tra rap- presentanti di vari credo, incontri tra cristiani.

Una visita che ha rafforzato anche il Governo nel suo compito di unificare un paese diviso da con- flitti e sofferente per una lunga dittatura e per an- ni di terrorismo. La gratitudine mia va al Signore che ha concesso alla Chiesa un papa con il man- dato di «confortare i fratelli» e ringrazio Dio di averci concesso questo papa in un tale momento.

Non soltanto la sua decisione ha colto moltissimi di sorpresa, ma anche la sua affermazione che andava in Iraq come «pellegrino penitente»: nes- suna pretesa e richiesta di perdono!

Pur non colpevole personalmente, ricordava che siamo tutti solidali della nostra storia e non pos- siamo dissociarci da essa e da un popolo che ha tanto sofferto anche per interventi esterni. Egli ha dato coraggio a tanti: ai perseguitati a motivo del- la fede, ai costruttori di pace, alle comunità deci- mate dei credenti in Cristo, agli organismi di so-

stegno allo sviluppo. Un aspetto che, forse, è sta- to poco richiamato ma che è importante per il fu- turo: ha dato animo ai musulmani moderati che intendono costruire e lavorare con i popoli di altre fedi e che, da cinquant’anni, sono rimasti piutto- sto emarginati nello stesso islam. Inoltre, la forte posizione del papa contro l’uso della religione per uccidere e l’invito a mettere al bando le armi so- no richiami decisivi per avviare relazioni umane e politiche diverse.

Papa Francesco ha proclamato il perdono in un popolo che ricorda tante violenze ma egli crede che il trionfo finale non spetta al terrorismo e alla sopraffazione, ma all’amore creativo, che non si arrende mai e che ci fa considerare fratelli e so- relle in un cammino comune di vita. Ha ricordato anche la presenza ebraica e yazida, riferimenti non graditi agli islamisti.

Partecipazione e commozione

Dopo questa visita non è più possibile che i Go- verni di paesi a maggioranza islamica trattino i non-musulmani da dhimi o khafir. L’eco degli interventi del papa, che si appoggia sul messaggio cristiano, sulla Dichiarazione di Abu Dhabi e sull’enciclica Fratelli tutti non potrà non risuona- re nelle varie nazioni del mondo. Diceva il papa:

«Chi ha fede rinunci ad avere nemici».

Era commovente vedere tanta gente nello stadio di Erbil; si sa che le iscrizioni erano chiuse già vari giorni prima dello scadere del termine. Il pa- pa commosso ha reso testimonianza a una Chiesa martire e ha ricordato la missione della pace che Cristo ci ha affidato (e per la quale anche i papi precedenti erano intervenuti) e che è missione specifica anche di chi è nato in quelle terre di an- tica storia umana e di collaborazione interreligio- sa.

Francesco: Iraq, ti porto nel cuore

di: Luigi Bressan

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Il Medio Oriente non sarebbe più tale fucina e scambio di culture se scomparissero i cristiani.

Papa Francesco ha reso omaggio alle donne che più hanno sofferto e le ha incoraggiate. I discorsi erano saggiamente equilibrati ma sempre proposi- tivi, animati anche da una vena di poesia. Pronun- ciati con rispetto e mirando alla conversione dei cuori. Ha colpito poi che il papa, nonostante l’evi- dente fatica del camminare, fosse attento a tutti, anche in incontri imprevisti. I luoghi erano certa- mente significativi: Ur patria di Abramo e delle

religioni abramitiche, Najab luogo della tomba di Alì e del Grande Ayatollah degli sciiti, Bagh- dad la capitale, Mosul città con ricca tradizione cristiana, Qaraqosh centro cattolico, Erbil luogo di accoglienza di milioni di sfollati.

Giustamente sono state ricordate le vittime dei conflitti, ma senza fermarsi al passato. La tem- pesta disumana del terrorismo – diceva il papa – non vincerà, il trionfo spetta a chi persegue vie di armonia.

“Chi odia il fratello profana il nome di Dio”

(Papa Francesco nella piana di Ur)

“Qui Abramo sentì la chiamata di Dio, da qui partì per un viaggio che avrebbe cambiato la storia. Noi qui siamo il frutto di quella chiamata e di quel viaggio. Dio chiese ad Abramo di alzare lo sguardo al cie- lo e di contarvi le stelle. In quelle stelle vide la promessa della sua discendenza, vide noi. La prospettiva da seguire è quella sulle orme di Abramo che guardò il cielo e guardando l’oltre di Dio ci rimanda all’al- tro del fratello, in un cammino in uscita che ci fa comprendere che abbiamo bisogno gli uni degli altri.

Non ci sarà pace finché gli altri non saranno un “noi”; la via che il Cielo indica al nostro cammino è la via della pace. Da questo luogo sorgivo di fede, dalla terra del nostro padre Abramo, affermiamo che Dio è misericordioso e che l’offesa più blasfema è profanare il suo nome odiando il fratello. Ostilità, estremismo e violenza non nascono da un animo religioso: sono tradimenti della religione. E noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione. Anzi, sta a noi dissolvere con chiarezza i fraintendimenti. Non permettiamo che la luce del Cielo sia coperta dalle nuvole dell’odio. Sta a noi, umanità di oggi, e soprattutto a noi, credenti di ogni religione, convertire gli strumenti di odio in stru- menti di pace. Sta a noi esortare con forza i responsabili delle nazioni perché la crescente proliferazione delle armi ceda il passo alla distribuzione di cibo per tutti. Sta a noi mettere a tacere le accuse reciproche per dare voce al grido degli oppressi e degli scartati sul pianeta. Sta a noi mettere in luce le loro manovre che ruotano attorno ai soldi e chiedere con forza che il denaro non finisca sempre e solo ad alimentare l’agio di pochi. Sta a noi ricordare al mondo che la vita umana vale per quello che è e non per quello che ha, e che le vite dei nascituri, anziani, migranti, uomini e donne di ogni colore e nazionalità sono sacre sempre e contano come quelle di tutti. Sta a noi avere il coraggio di alzare gli occhi e guardare le stelle, le stelle che vide il nostro padre Abramo, le stelle della promessa”.

“Se Dio è il Dio della vita – e lo è – a noi non è lecito uccidere i fratelli nel suo nome. Se Dio è il Dio della pace – e lo è – a noi non è lecito fare la guerra nel suo nome. Se Dio è il Dio dell’amore – e lo è – a noi non è lecito odiare i fratelli”

i figli

(madre Teresa di Calcutta)

I figli sono come gli aquiloni:

insegnerai a volare ma non voleranno il tuo volo.

Insegnerai a sognare ma non sogneranno il tuo sogno.

Insegnerai a vivere ma non vivranno la tua vita.

Ma in ogni volo, in ogni sogno

e in ogni vita

rimarrà per sempre l’impronta dell’insegnamento ricevuto

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L’incontro: “Quel Gesù della strada”

Di Renzo Salvi Conversazione con Ermes Ronchi

[Il punto di partenza è dove nasce la Chiesa? Alcuni teologi rispondono che nasce sotto la Croce, con Maria e Giovanni; altri vedono il momento fondativo in quella camera alta, a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste… Io credo di poter vedere, “sentire” che la chiesa nasce sulle strade di Galilea dove, per tre anni, Gesù… “non ha un indirizzo” dove lo si possa trovare, ma dove può essere incontrato da chiun- que, con la polvere della strada sui piedi, sui vestiti…E con grumi di deserto incollati nei capelli. Sono convinto davvero che la proto/struttura della Chiesa, quella che noi abbiamo probabilmente trascurato, è quella comunità in cammino, quella Chiesa che è “della strada” perché li è nata: sulle strade di Galilea.

Questo significa che noi abbiamo bisogno di immaginare la chiesa come la immaginava e vedeva Gesù, non come la immaginiamo con le nostre teologie: come un gruppo itinerante, per cominciare, perché Gesù cammina, ma non da solo, da subito sceglie alcuni e va, in una intimità itinerante. Un gruppo com- posto di oltre una ventina di persone: i dodici scelti come apostoli, poi altri che son stati con lui fin dall’inizio] [Barsabba, Mattia, Maddalena, e Giovanni, Susanna e “molte altre”. Si trattava di un gruppo numeroso, anche difficile da alloggiare, da sistemare…

Gesù su quelle strade è in “uscita”: non sta sulla soglia a braccia aperte; non sta come il padre misericor- dioso ad attendere che il figlio torni. Il vero Gesù è in cammino “verso”, in un libero esodo, l’esodo di Dio, aperto a qualsiasi incontro possa avvenire lungo la strada. E’ un Gesù che] [non ha mai mandato via nessuno. Sto immaginando, sto cercando di “sentire” questa immagine di Chiesa] [ come un punto sorgivo del nostro essere “in uscita”, come vede e propone papa Francesco. Perché? Perché sento la fati- ca dei recinti chiusi e sono portato ad opporre al recinto la strada; a quello che abbiamo sempre definito l’ovile] [ Vorrei opporre alle pareti che contengono una Chiesa, una Chiesa che abbia pareti d’aria, di polvere della via, di voli di uccelli nel cielo, e e colonne di fichi e sicomori; a fronte di una nostra chiu- sura, che si è fatta asfittica.[ L’arrivo di Francesco mi ha consolato, accompagnato, aiutato]..[ Diciamo che Gesù camminando vive,. Va la dove lavorano: sulla riva del lago, incontra pescatori che svolgono la loro attività quotidiana, al lavoro. Dio si incarna nella vita, al tempio preferisce il tempo, allo straordina- rio il piccolo. Come in tutta la Bibbia: Mosè e Davide si sono incontrati mentre seguono le loro greggi al pascolo; Saul sta cercando le asine del padre; Eliseo ara la terra con sei paia di buoi, Levi è seduto allo sportello delle imposte…Il lavoro come luogo vocazionale… Poi –già- come li sceglie? Direi che li guarda, li osserva: non però soltanto come pescatori, come gente che lavora, che ha tirato le barche in secca e sta aggiustando le reti. [Gesù davanti, a prendersi in faccia il vento, il sole e, poi, gli insulti, a prendersi in faccia il pericolo: in tesata alla carovana…Questa per me è un’immagine “conduttrice”.]..

[Noi siamo così, dietro a lui, e cerchiamo di mettere i piedi sulle sue orme, di respirare nel suo respiro, di conquistare un pò della sua libertà. Gesù ha capito che tradire il suo annuncio era per lui più mortale della morte stessa: questo è il momento in cui indurì il suo volto, lo fece forte e prosegui sulla strada]

Ermes Ronchi [frate nell’Ordine dei Servi di Maria è teologo e studioso delle Sacre Scritture: Sacerdote dal 1973] [E’ docente presso la facoltà Teologica “ Marianum” di Roma e autore di testi di spiritualità, teologia ed ermeneutica.

Dalla rivista “Rocca” del 15 febbraio 2021 sede

Una fede fondata

(Dionisio Candido)

Come fare a sapere se la nostra mentalità è quella di un vero credente o di un cripto-pagano? Come fare ad essere più o meno certi che la casa della nostra fede sia fondata sulla roccia della Bibbia e non sulla sabbia delle nostre idee? Forse due in- dicatori possono aiutare a rispondere a queste domande.

Un primo indicatore per valutare quanto reale e competente sia la capacità di ascolto della Parola di Dio da parte del credente consiste nella sua disponibilità a cambiare idea o, meglio, ad evol-

versi nella fede. La mente umana è abile a pro- durre modelli, ai quali ricondurre tutte le espe- rienze: elabora cioè schemi che consentono di dare un senso alle cose e agli eventi. E’ quella un’operazione del tutto legittima e in definitiva necessaria e opportuna, altrimenti si sarebbe sem- pre disorientati, incapaci di spiegare cosa succeda intorno a noi e di decidere cosa è giusto fare. Il limite di questo meccanismo mentale consiste nella possibile eccessiva rigidità dei modelli che vengono elaborati. Quando questo accade, la real- tà smette di stupire e si cercano solo conferme a paradigmi già elaborati: si può finire per non ac- corgersi che vengono selezionati solo i dati che confermano lo schema, mentre quelli che non lo

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confermano vengono trascurati o distorti. Avvie- ne così una discriminazione inconscia, che indu- ce a cercare una conferma più o meno articolata a quanto già si pensava.

Un secondo criterio per valutare il grado di bon- tà dell’ascolto riguarda la vita, in termini di etica personale e di discernimento della cultura del proprio tempo. L’ortoprassi è il primo banco di prova della fede: “Non chiunque mi dice:

<Signore, Signore> entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21). Non c’è bisogno di ulteriori commenti: tra il dire e il fare si gioca la vera identità del credente. Uno scollamento tra fede professata e fede vissuta purtroppo è sempre possibile. Di conseguenza il vero ascolto e la buona interpretazione della Parola di Dio trova- no una verifica a volte impietosa ma pur sempre salutare nell’etica del credente: “A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere?” (Gc 2,14). Non stupisce quindi che i migliori esegeti della Scrittura siano i Santi.

Una vita di fede improntata alla Scrittura coin-

volge anche il rapporto con la cultura dei luoghi e dell’epoca in cui si vive. Chi si lascia plasmare dalla Parola di Dio matura un modo di stare al mondo improntato allo stile evangelico. Consa- pevolmente o inconsapevolmente ogni persona adotta comportamenti in base alla griglia valoria- le a cui si ispira. Per il cristiano questa griglia di riferimento è il Vangelo. Si tratta di inserirsi nel- la storia con un atteggiamento sapienziale, basato sull’insegnamento di Cristo. Questo significa riconoscere il bene già in atto, ma anche mante- nere un sano atteggiamento critico: “Non confor- matevi a questo mondo, ma lasciatevi trasforma- re rinnovando il vostro modo di pensare, per po- ter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2). Incarnandosi nelle varie culture, IL Vangelo porta in dote i suoi valori antropologici, etici e spirituali, che a volte possono cozzare o non accontentarsi di quanto offerto dalla mentalità imperante. Chi si lascia ispirare dalla Scrittura sa entrare nella cul- tura del suo tempo con un atteggiamento equili- brato, dialogico e critico al contempo.

san Giuseppe: un cuore di padre (suor Agnese Quadrio: 18.03.21)

Facendo riferimento a Mt e Lc ed a “Patris corde” di papa Francesco, la suora ricorda che per essere padri come Giuseppe bisogna “essere uomini” come Giuseppe (lo stesso vale per le mamme: “essere donne”). Cosa imparare da Giuseppe, santo feriale, comune, della porta accanto, ma che scrive uno dei documenti più decisivi della storia?

Matteo lo presenta giovane, innamorato, fidanzato, con un progetto, il sogno di condividere la vita con la ragazza che ama.

Innamorato, capace di uscire da sé, capace di un salto di qualità;

fidanzato, capace di fiducia, di una consegna reciproca, di prendere per mano

promesso sposo: capace di attendere la sposa come dono dal Cielo, non come cosa da possedere.

Le tre dimensioni dentro la vita di coppia vanno tenute vive. Così l’amore si trasforma se si custodisce il cuore innamorato, la sostanza del fidanzamento e la consapevolezza che il partner è dono.

In Mt l’imprevisto fa saltare tutti i progetti. Come avrà reagito Giuseppe? Vive un momento di angoscia certa- mente anche se crede nella fedeltà di Maria: “E adesso?”. La legge è terribile: la donna sia allontanata pubblica- mente con la pena della lapidazione. E poi la domanda: “Chi è stato?”.

Giuseppe adesso dimostra la sua grandezza. Per Mt egli è un uomo “giusto”: non si appella alla legge e nemmeno fa zittire Maria facendo finta di niente, non manipola la realtà e men che meno ripudia Maria per salvare la fac- cia. Pensa di ripudiarla in segreto, di rimandarla senza dare spiegazioni seppur facendo caso alla reazione della gente (“prima la mette incinta e poi”, oppure: “te l’hanno messa incinta e tu …sei un povero uomo, incapace”.

Giuseppe difende la vita di chi è debole. Mette la vita di Maria prima della sua faccia.

Osserva la legge senza esserne schiavo. La prima legge alla quale obbedire è il bene dell’altro, particolarmente se è fragile. Giuseppe sa pensare, accetta la fatica del discernimento.

È facile trovare uomini che agiscono per istinto, per rabbia o uomini che fanno calcoli. Per Giuseppe pensare è soppesare le cose, considerare, guardare sotto l’orizzonte delle stelle. Così diventa saggio, sa distinguere ciò che è banale da ciò che conta.

Giuseppe sta dormendo pur con un problema enorme. Saper dormire è una cosa grande. Chi non dorme crede di dover fare tutto; chi dorme sa che Dio agisce anche mentre tu dormi. E lasci che Dio agisca. E così Dio parla a Giuseppe perché dorme e non strafà. Abbiamo bisogno di uomini che agiscano, che sappiano che qualcosa devo- no fare, ma che anche Dio può agire.

E nel sogno Giuseppe sa accogliere il sogno di Dio anche se diverso dal suo. Dio chiede di spaccare le nostre mi- sure per spalancarci ad un piano più grande, Dio così allarga la vita, il cuore, la mente.

E Giuseppe prende con sé Maria: è uomo che accoglie Maria come dono e anche il bambino che porta in grembo.

Luca ci presenta Giuseppe mentre la gravidanza di Maria è inoltrata, è all’ottavo mese e deve fare circa 250 chilo- metri fino a Betlemme per decreto di Augusto. Giuseppe ha imparato ad accettare la realtà anche quando è sco- moda; depone la rabbia, fa spazio con prontezza a ciò che accade.

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È coraggioso nell’accogliere la vita com’è. Non perde energie a lamentarsi. Il lamento per noi diventa spesso alibi per non metterci in gioco. Lui fa tutto quello che può; è coraggioso protagonista. Come può un figlio di- ventare forte se sente sempre il papà che si lamenta? Ogni situazione può diventare costruttiva.

Giuseppe a Betlemme dimostra un coraggio creativo: prepara la stalla: il mondo sarà cambiato da uomini e don- ne con coraggio creativo.

E nel cuore della notte organizza la fuga in Egitto, diventando così l’uomo mediante il quale Dio si prende cura del Bambino e di Maria. Giuseppe è il vero miracolo: il Cielo interviene valorizzando il coraggio di Giuseppe.

Dio si fida del coraggio di Giuseppe: Giuseppe è il miracolo di Dio. Se Dio non interviene è perché si fida di te

… Sei tu, dice Dio, la mia Provvidenza.

Quanti uomini nella storia sono stati la Provvidenza di Dio (vedi san Giovani Bosco). Giuseppe proprio in Egitto senza casa, senza lavoro, senza lingua, nella tempesta della vita insegna a non temere ed a lasciare a Dio il timo- ne della vita: Giuseppe ha fatto quello che poteva, non ha perso la fiducia, ha superato il rischio dell’ansia.

Quando le cose non vanno, la vera cosa da fare è lasciare a Dio il timone della barca. Così con Lui si possono intravedere i piccoli passi che si possono fare e si evitano grandi danni: “Dio, prenditi cura di noi!”.

La famiglia uscirà dall’Egitto per arrivare a Nazareth. Giuseppe ha amato Gesù con cuore di padre (Osea). in Giuseppe Gesù ha conosciuto la tenerezza di Dio, la capacità di accogliere l’altro in tutto ciò che è, anche nella sua fragilità, senza confondere la tenerezza con le coccole anche se c’è spazio anche per quelle. Non ci si im- provvisa capaci di tenerezza. Prima devi essere capace di tenerezza verso di te, devi aver imparato ad accettare la tua fragilità. Il maschio non nasconda la sua debolezza ma l’accolga: “Ho sbagliato, scusa, ho bisogno di te, ho bisogno di Dio”. Se si è orgogliosi e superbi non si può essere capaci di tenerezza.

La tenerezza non è mollezza, m fermezza. L’amore di un padre è fermamente tenero e teneramente fermo. Co- sì Giuseppe aiuta Gesù a fortificarsi senza togliere a lui la fatica (come in palestra) e le spine piccole o grandi che la vita regala. Insegna a Gesù le leggi della vita. Allena Gesù mentre è piccolo. Facendo e facendo fare. Senza sostituire. Bisogna fortificare i figli!

Quando Gesù ha dodici anni ci viene presentato uno stile di famiglia: è famiglia che vive nella Comunità, non è isolata ma condivide. Dobbiamo ricreare un popolo che si incontra, occorre riscoprire e ripensare un buon vicina- to. Gesù sta con i pari un giorno intero (telefono azzurro: sic!) e i due genitori non sono ansiosi: sono liberi, la- sciano il figlio con la Comunità, non gli sono addosso

Poi: ”tuo padre e io angosciati …”l’affermazione è emblema di una relazione di coppia: l’uno mette prima l’altro e manifesta l’alleanza di coppia.

Ciò che spacca la coppia può essere il dolore. Il dolore unisce se la coppia c’è ed è capace di condividere l’ango- scia e la fatica. E’ una bella meta alla quale guardare.

Celebrazioni pasquali

Con il permesso dei vescovi, data la pandemia, si propone una celebrazione penitenziale con l’assolu- zione generale in ogni Comunità (poi è sempre opportuna la confessione personale per il cammino di conversione):

lunedì santo alle 20: Mechel, Pavillo martedì santo alle 20: Nanno, Tassullo mercoledì santo alle 20: Cles, Rallo, Tuenno

Confessione personale: in convento lunedì santo dalle 9 alle 11, martedì e mercoledì santo dalle 15 alle 17. Sabato 27 marzo, giovedì santo, venerdì santo e sabato santo dalle 9 alle 11 e dalle 15 alle 17: in convento e in sacrestia in parrocchia a Cles e Tuenno

Adorazione eucaristica

domenica delle Palme alle 14 in Cles, Pavillo e Tuenno; alle 15 in Mechel, Rallo; alle 20 in Nanno, Tassullo

lunedì, martedì, mercoledì santo in Cles, Rallo e Tuenno dopo la Messa del mattino lunedì santo alle 20 in Cles, Nanno, Rallo, Tassullo, Tuenno

martedì santo alle 18 in Pavillo, alle 20 in Cles, Mechel, Rallo, Tuenno mercoledì santo alle 18 in Pavillo, alle 20 in Mechel, Nanno, Tassullo

Triduo pasquale alle 18 in Cles, Mechel, Pavillo, Rallo, Tuenno; alle 20 in convento, Cles, Nanno, Tassullo, Tuenno (bambini e ragazzi con la famiglia sono invitati a stare nella propria Comunità per evi- tare assembramenti: per Cles e Tuenno preferibilmente alle 18)

NB: giovedì santo: raccolta “Pane per amor di Dio”

NB: venerdì santo: digiuno e astinenza, raccolta per i cristiani della Terra Santa Pasqua: Eucaristia come ogni domenica (in convento Messa anche alle 7,30)

Pasquetta: Eucaristia alle 8 in Rallo; alle 8,30 in Cles, Tuenno; alle 9 in e Nanno, Mechel, Pavillo; alle 10,30 in Cles

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