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Microinvalidità: più dubbi che speranze. Prof. Flavio Peccenini

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Academic year: 2022

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Microinvalidità: più dubbi che speranze.

Prof. Flavio Peccenini*

Pur senza arrivare ad intravedere mostriciattoli giuridici, condivido l’affermazione di chi, riferendosi alla L. 57/2001, sostiene che siamo di fronte ad un provvedimento elaborato senza il contributo della dottrina giuridica, di quella medico-legale, della magistratura e dell’avvocatura (una sola, modesta, consolazione: almeno una volta non possiamo professori, avvocati, giudici e medici legali essere chiamati in correità a vario titolo).

Mi sento persino di spingermi oltre: che dire di un legislatore che intende regolamentare, sia pure in parte qua, il danno biologico e ben si guarda non solo dal richiedere il contributo domestico del Ministero di Grazia e Giustizia, ma anche dal tenere in qualsivoglia conto i numerosi progetti e disegni di legge giacenti alla Camera?

La risposta è nelle caratteristiche stesse della Legge n. 57, legge che potremmo classificare - introducendo un nuovo genus - tra i provvedimenti sperimentali ad applicazione differita (sulla sperimentalità incorrendo in recidiva rispetto al d. lgs 38/2000) in un mal digerito o mal compreso rapporto con il diritto vivente - che è qualcosa di ben diverso dal lungo di verifica dell’efficacia delle norme - e con una patente ammissione di frettolosità, del resto tipica di ogni legge negoziata.

È difficile credere che il legislatore non fosse consapevole di approvare un provvedimento insoddisfacente; ciò nonostante premuto da esigenze disparate, alcune dichiarate, altre no, ma egualmente riconoscibili, lo licenzia, salvo pretendere di verificarne la tenuta sul campo. Attenzione! Sto parlando del legislatore, non di un produttore di autoveicoli: questo comportamento mi ricorda, infatti, l’atteggiamento ormai superato di quelle case automobilistiche che facevano sperimentare le “prime serie” dei loro nuovi modelli ai compratori desiderosi di sfoggiare la novità.

Non ho dubbi di alcun genere nel confermare il titolo ed il contenuto del mio brevissimo commento “a caldo” apparso sul numero uno di Tagete di questo anno:

Microinvalidità: l’ineffabile arte di scontentare tutti.

In quelle poche righe facevo riferimento al documento congiunto del Centro Studi Gennaro Giannini e dell’Associazione Melchiorre Gioia nel quale si evidenziava, relativamente al progetto di legge governativo C6994 (“misure in tema di risarcimento danno alla persona per le lesioni di lieve entità e di attività assicurativa”), come restassero un mistero le ragioni per le quali il Governo, nell’accingersi a disciplinare organicamente con legge l’intera materia del risarcimento del danno alla persona, avesse ritenuto di limitare l’intervento normativo alle micropermanenti, in un volontario quanto incomprensibile (i maligni

* Professore di Diritto Privato, Università di Bologna

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direbbero – anzi hanno detto – comprensibilissimo) mancato coordinamento tra Ministero di Giustizia e Ministero del Lavoro.

Il richiamato documento conteneva anche una proposta relativa allo schema di una futura legge di riforma del danno alla persona e vi si sottolineava che la disciplina del danno alla persona non può venire frammentata: sia per evitare un doppio binario per i risarcimenti, di dubbia legittimità costituzionale; sia perché i problemi, da tempo caratterizzanti il nostro sistema risarcitorio, richiedono un intervento di ampio respiro, coerente con una lettura costituzionale: in una parola un intervento codicistico.

Non si può, quindi, essere soddisfatti che l’intervento legislativo abbia seguito la strada della settorialità al quadrato: non solo micro, ma micro da circolazione soltanto!!

Veniamo ora ad uno degli snodi più discussi dell’art. 5: la sua funzionalità.

Come sappiamo nella relazione alla legge si ripete che la finalità di questa norma

“sarebbe” (il condizionale è d’obbligo) quella di porre fine alla disparità di trattamento conseguente ai diversi criteri adottati dagli uffici giudiziari.

È inutile nascondere che questo obiettivo sarà conseguito solo in minima parte: è pur vero che le microinvalidità da circolazione coprono tra l’80% ed il 90%

dell’intero ammontare delle domande di risarcimento, tuttavia la disparità permarrà in tutti i casi in cui il danno alla salute deriva da un traumatismo che non consegue alla circolazione, nonché in tutti i casi in cui si supera, quale che sia la causa del traumatismo, il 9% di invalidità permanente, restando, comunque, un mistero ulteriore - faccio mia l’opportuna sottolineatura (e mi riferisco a Marco Rossetti su Tagete) - come si possa stabilire ex ante tale soglia limite, quando non si sa ancora con quali criteri sarà costruita la tabella medico-legale di riferimento.

Su questo preciso punto mi associo a quanti hanno evidenziato che ci troviamo di fronte al monstrum - qui il termine ci sta tutto - di una norma di rango primario (legge) che deve essere interpretata e valutata alla luce di una norma di rango secondario (regolamento).

Ritornando alla disparità di trattamento mi sia consentito di dissentire dall’affermazione di chi sostiene che si possono eludere i criteri dettati dall’art. 5, secondo comma, agendo in giudizio ex art. 2054 c.c. e non esperendo azione diretta, cioè agendo fuori dell’ambito d’applicazione della L. 990/69.

Chiarisco il mio dissenso: non vi è dubbio che l’art. 5 della legge (meglio, l’intera legge) risente pesantemente, tra l’altro, anche del fatto di essere venuta al mondo prima della circolare 20 aprile 2001 della Presidenza del Consiglio dei Ministri, pubblicata da il Sole 24 Ore con il nome giornalistico e suggestivo di Il Galateo delle norme (Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi, G.U. 97 del 27 aprile 2001) e che, mentre l’art. 5 è rubricato

“modifiche alla L. 39/77”, il testo prevede tali modifiche unicamente ai commi 1 e 7; i commi da 2 a 6, invece, sono novità che non “novellano” alcunché; sono novità e basta!!

Quindi il richiamo “generico” alla circolazione stradale copre sia quella in aree

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pubbliche sia quella in aree private, e non consente di distinguere tra ipotesi di azione diretta ed ipotesi di azione nei confronti del solo danneggiante e non del suo assicuratore.

Ma anche ammesso che i commi da 2 a 6 novellino la L. 39/77, non è questa la legge di riforma “c.d. mini” della 990? E l’art. 1 della 990 non richiama proprio l’art. 2054?

Sulla non retroattività o meglio sull’applicazione della nuova normativa dell’art.

5 solo ai sinistri accaduti dopo la data di entrata in vigore della legge non mi pare si possa dubitare: il legislatore proprio questo ha voluto; non so, invece, fino a che punto questa previsione sia in grado di evitare l’effetto trascinamento per i sinistri precedenti per i quali il magistrato continuerà a provvedere alla liquidazione del risarcimento ricorrendo ad uno dei noti metodi equitativi. Chi gli può vietare che proprio la nuova normativa rappresenti il punto di maggior equità?

Veniamo ora ad alcune osservazioni sul punto più cruciale della nuova normativa: l’ulteriore risarcibilità del danno biologico, tenendo conto delle condizioni soggettive dell’offeso.

Il tema va affrontato prendendo le mosse un po’ da lontano, cioè dalla natura del danno biologico normato dalla L. 57/01. Marco Rossetti per “sciogliere il nodo gordiano” (ho usato le sue parole) di tale natura articola un sillogismo di questo tipo:

a) le conseguenze funzionali di un danno alla salute variano da soggetto a soggetto, e dipendono dalle attività concretamente svolte dal leso;

b) la norma in questione ha lo scopo di adattare il risarcimento alla situazione effettiva del leso;

c) ergo, la norma suddetta dimostra che il legislatore ha voluto adottare una nozione funzionale, e non strutturale, dinamica, e non statica, di danno biologico.

Questa conclusione interpretativa è certo condivisibile, ed ha dalla sua anche i lavori parlamentari, dai quali si evince che l’ulteriore risarcibilità è stata voluta al fine di non “ingessare” il risarcimento, e consentirne un’adeguata personalizzazione.

Tuttavia, anche in questo caso, viene da chiedersi (uso ancora le parole di Rossetti), se vi sia davvero consequenzialità teleologica tra la ratio legis e la struttura semantico-sintattica della norma, giacchè – quali che siano state le intenzioni del legislatore – il testo approvato appare oggettivamente ambiguo. Cosa vuol dire, infatti, “ulteriormente risarcito”? Di un danno non può che predicarsi la sua risarcibilità o la sua irrisarcibilità, non certo la sua “risarcibilità ulteriore”. Una volta stabilita la risarcibilità della lesione di un diritto od interesse, tutto il resto è questione di quantum, non d’altro. Per contro (teme ancora Rossetti) l’adozione dell’avverbio “ulteriormente” potrebbe porgere il destro a scaltri ermeneuti per sostenere che, in realtà, la lettera della legge consente il risarcimento di due tipi di danno: uno, biologico, uguale per tutti a parità di lesioni; l’altro, “ulteriore”, di imprecisata natura (esistenziale?).

Ecco apparire, anche oggi, il nuovo convitato di pietra del mondo del danno alla

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persona: il danno esistenziale.

Evitando, ovviamente per motivi di tempo, ma non dimenticando il dibattito recentemente aperto da Paolo Cendon (quando afferma che la distinzione tra danno biologico e danno esistenziale è destinato a scomparire in quanto inutile) – un’involontaria risposta è forse rinvenibile nella recentissima distinzione operata dal Tribunale Penale di Locri (Sezione di Siderno) tra danno esistenziale di matrice biologica e quello c.d. puro, dove il primo indica le conseguenze esistenziali di lesioni medicalmente accertabili, mentre il secondo (quello puro) va oltre, rivendicando la risarcibilità delle conseguenze non patrimoniali della lesione di qualsiasi interesse (non solo alla salute) giuridicamente rilevante per la persona.

Ci piaccia o non ci piaccia, la distinzione ora richiamata ci aiuta a sostenere che anche l’ulteriore risarcibilità di cui alla L. 57/2001 può essere riferita unicamente al danno esistenziale di matrice biologica, cioè al danno biologico universalmente noto.

Allora occorre domandarsi quale sia il ruolo della CTU medico-legale nel ginepraio Rossettiano.

Si è detto e sostenuto che tale ruolo va legato all’aspetto c.d. statico del danno biologico. Mi pare riduttivo.

Se la lesione è misurabile nella sua intensità da un punto di vista medico, le conseguenze non lo sono; il risarcimento del danno biologico non costituisce un riflesso automatico della determinazione percentuale del medico.

Le indicazioni del C.T. sono indispensabili al giudice per capire fino a che punto la situazione fisiologica dell’individuo è alterata, e per consentirgli di dedurre da ciò, in base all’id quod plerumque accidit quali attività non potranno più essere svolte dal danneggiato.

Ma il C.T. può spingersi oltre; se messo in condizione, può indicare quali attività effettivamente il danneggiato non sarà più in grado di fare o farà con maggior sforzo e fatica.

Perché ciò accada è necessario non solo un quesito correttamente formulato, ma che venga fornito al C.T. ogni elemento utile ed opportuno acquisibile attraverso l’istruzione probatoria, che quindi dovrebbe precedere la CTU e non seguirla o affiancarla.

Credo che la classe forense, di cui mi onoro di far parte, e conseguentemente la magistratura (cui non è affidato in questo campo un potere istruttorio d’ufficio) possono trovare in quest’avverbio ulteriormente lo spunto per modificare quell’abitudine ormai inveterata in forza della quale il calcolo del danno è il risultato di una moltiplicazione tra il valore tabellare e la percentuale contenuta nelle relazioni del CTU., delle quali, per altro, si finisce con il leggere solo le conclusioni;

ciò accadrà soltanto, lo ripeto, dando spazio, fin dalla concessione dei mezzi istruttori, alla prova concernente aspetti peculiari della vita del danneggiato compromessi dalla lamentata lesione.

Un’ultimissima postilla sull’ulteriore risarcibilità.

Si è sostenuto che la possibilità di maggiorare in via equitativa il biologico

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temporaneo assume particolare rilevanza nella ipotesi di danno biologico da morte iure hereditatis, nel periodo tra lesione e morte, consentendo una maggiorazione correlata ad un multiplo di tale importo e valutando anche poche ore od un sol giorno come tempo apprezzabile.

Comprendo, anche se non condivido, il tentativo di affermare la risarcibilità a favore del defunto (rectius degli eredi) del danno biologico qualsivoglia sia il lasso di tempo tra la vita e la morte. Non ignoro che, proprio a tale proposito, recentemente la Suprema Corte, (4783/01) ha affermato che anche un brevissimo lasso di tempo è idoneo a far acquisire alla vittima tale risarcimento quando il danno lamentato è una lesione psichica; che detta lesione va accertata o negata a mezzo di CTU, dovendo il Giudice motivare indicando le ragioni, diverse dalla durata dell’agonia, in base alle quali abbia ritenuto esistente o inesistente il danno biologico-psichico (senza più ricorso alla presunzione di inesistenza desumibile dalla brevità dell’agonia).

Che dire: da un lato certamente la Corte ha affidato alla medicina-legale una

“patata bollente” (mi si consenta di citare per l’ultima volta Marco Rossetti) dall’altro si rischia che la solita montagna partorisca il solito topolino: se in qualche caso il CTU riuscirà ad accertare che nelle poche ore o giorni di vita la vittima ha subito un danno biologico temporaneo, il risarcimento che deriverebbe dall’applicazione del criterio enunciato sarebbe in ogni caso insignificante.

Forse il danno c.d. catastrofico, così come risulta dalla fattispecie esaminata, non è un problema di danno biologico, bensì un problema di danno morale nella sua prevalente funzione sanzionatoria, quindi, con possibile gradazione crescente in relazione all’entità del turbamento causato alla vittima che è stata costretta ad assistere alla propria morte…ovviamente senza che questo significhi aprire la porta del nostro ordinamento ai punitive damages tipici del sistema di common law.

Questo nuovo danno riconoscibile e classificabile tramite l’aggettivo (come il fantasmagorico danno grafologico o quello punitivo) mi portano ad una osservazione sui greci “dona ferentes” evocati dal VI libro dell’Eneide: chi temere di più: lo scaltro ermeneuta o il legislatore?

Sicuramente il primo non tanto quando si diletta a discutere nel Parnaso della dottrina, ma opera sul campo sia come demandeur sia come colui al quale il demandeur si rivolge ed inventa le etichette sopra richiamate.

Al legislatore (regolamentare) invece rivolgo l’invito affinchè cessi di comportarsi come una monade, conseguentemente colga l’occasione della emanazione della futura tabella, da un lato, evitando la pigrizia di estendere sic et simpliciter la tabella già esistente, dall’altro, del pari evitando gli effetti potenzialmente abnormi di una nuova tabella priva di qualsiasi coordinamento con l’esistente; sempre che, colpito sulla strada di Damasco, non voglia rimettere mano ad un’opera più ampia, che da tempo tutti attendiamo.

Il danno “aggettivato” mi porta a concludere ribadendo una mia “fissazione”:

non sono d’accordo che “l’interprete sia libero di descrivere il pregiudizio subito dalla vittima facendo uso di più etichette” (Marco Bona si riconoscerà in questa sua

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affermazione contenuta nel suo, per altro condivisibile, scritto apparso anche esso sull’ultimo numero di Tagete) .

Ad un repertorio di danni riconoscibili per l’aggettivo che li accompagna (esistenziale, più o meno puro, catastrofico, edonistico, grafologico) preferisco regole condivise per individuare quali lesioni di interessi protetti siano fonte di responsabilità, quali i criteri di risarcimento, da un lato per evitare duplicazioni e dall’altro realizzare le tre funzioni tradizionali proprie del risarcimento, in una visione del “sistema della responsabilità civile” che focalizzi l’attenzione sulla sua funzione organizzativa rispetto alle attività dei privati.

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