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C’era una volta lo Stato di diritto. Spigolature d’istinto sul “diritto processuale” della Corte Suprema - Judicium

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Academic year: 2022

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BRUNO SASSANI

C’era una volta lo Stato di diritto. Spigolature d’istinto sul “diritto processuale” della Corte Suprema.

1. La mia precedente Nota alla sentenza della Corte d’appello di Milano oggi confermata dalla Cassazione era intitolata “C’era una volta il codice di procedura”. La ripubblico integralmente di seguito in nome della sua conclusione che scaricava sulla responsabilità ricadente sulla Cassazione la conseguente responsabilità del professore di procedura di dover promuovere lo studente che aveva saltato il capitolo sulla revocazione. Ora il grand arrêt è arrivato: mi riservo di ritornare sull’insieme con un lavoro più meditato e consono alla mole della motivazione, ma, dovendo riconoscere di aver fatto un passo avanti nella conoscenza giuridica, non posso trattenermi di spendere qualche parola su di esso. Il lettore le prenda come impressioni di prima lettura.

Il grand arrêt lo si può certo commentare appoggiandosi a un mare di letteratura e, mostrando il proprio virtuosismo nel fare surf sulle onde alte, si arriverà forse a salvare capra e cavoli. Per me però è solo il sigillo alla linea eversiva che tende ormai a prevalere nella giurisprudenza della Corte Suprema sulle questioni processuali (art. 37 c.p.c. docet) e che fa dubitare di vivere ancora in uno Stato di diritto. Nel grand arrêt si legge che esistono certo le regole invocate dal ricorrente, regole che una parte della dottrina1 si è premurata di ricordare. Principi superiori, ahimé, però impediscono di applicare “le regole”. Abbasso dunque le regole quando sono in gioco principi

“chiovendiani” (parce Domine!) di giusto processo, effettività, durata ragionevole e così via litaniando.

2. Gli errori nell’argomentazione sono fondamentalmente di tre tipi.

1 Ben poca in verità, dal momento che la politica dello struzzo rispetto alla posta in gioco da parte della maggioranza della processualistica italiana ha brillato nell’ignorare la incredibile (pardon: credibile, visto il risultato finale) sentenza della Corte d’appello di Milano. Aggiungasi che una parte di essa ha contribuito a evitare

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Il primo errore è quello “ruspante”, insensibile alla logica, alla recta ratio in generale o a ragioni specifiche che imporrebbero una conclusione diversa.

Chiamiamolo “fallacia”.

Il secondo è quello di chi sa o teme di sbagliare, ma conta sulla propria capacità di camuffare l’errore, utilizzando mezzi verbali acconci o taluno dei tanti paralogismi che infestano la sequenzialità del ragionare. Lo si definisce “sofisma” e chiama in gioco un atto di volontà.

Il terzo è un errore sui generis perché l’aspetto della volontà prende qui un altro verso. Esso proviene da chi, a differenza del sofista, non nasconde ma piuttosto scopre le carte perché, riconosciuta in linea di principio la ragione avversaria, decide scientemente di neutralizzarla operando apertamente sulle regole del gioco. Per questo giochetto i logici non hanno coniato un termine; se a praticarlo è chi detiene il potere dell’ultima istanza non è improprio chiamarlo “Diktat”. O, se si preferisce, “fatto normativo”: la loi, c’est moi.

3. Bene. L’arco della vicenda conclusa dalla nostra sentenza pronunciata in ultima istanza mette esemplarmente in fila i tre errori.

La sentenza di primo grado si cura poco delle fallacie in cui incorre; la disinvoltura delle giustificazioni addotte mantiene la motivazione nel perimetro dell’inaccuratezza e dell’approssimatività. Capita.

Il giudizio della Corte d’appello ha giocato invece sulla accorta presentazione di presupposti ingannevoli; si è assisa dunque su un impianto sofistico.

Il giudizio della Corte Suprema è invece un “fatto normativo” perché, una volta riconosciuto – in linea di principio – che le regole del gioco dovrebbero essere altre, essa stessa provvede a neutralizzarle in nome di superiori principi, rispetto ai quali “le regole” fanno la meschina figura della zanzara che punge l’elefante.

4. Non si smette mai di imparare. Nella mia ingenuità pensavo che i “principi”

avessero tre funzioni variamente graduabili e mescolabili. La prima: consentire l’individuazione di quali norme fossero espressione (appunto) di principi e di quali

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invece se discostassero a mo’ di eccezioni.2 La seconda: indirizzare l’interpretazione degli enunciati linguistici passibili di più interpretazioni. La terza: contribuire a trovare la regola più acconcia per il caso non regolato.

La sentenza ne aggiunge una quarta: abrogare le regole esplicite dell’ordinamento.

Eh si! Quello del nostro grand arrêt è un discorso brutale di abrogazione, neppure troppo tacita, delle regole. E in nome di quali principi poi? Principio “di effettività”, per cominciare. Res demonstranda è però che con tale principio confliggano le regole del giudicato formatosi per mancata impugnazione. La sentenza neppure ci prova, ma – e qui sta la differenza con i sofismi della Corte milanese – non ne sente neppure il bisogno. Quale status ha la sentenza non revocata? Giudicato formale? Sì. Giudicato sostanziale? No. Se il vizio è bello grosso, che non sia stato fatto valere non lo cancella affatto. Piaccia o meno, questo è quel che pensiamo noi giudici supremi. Domando allora ai miei colleghi processualisti? Vi sta bene, vi riconoscete in queste affermazioni? In caso positivo, sono io ad avere sbagliato mestiere; se non vi sta bene e accettate che la cosa scorra quieta, ne diventate tutti corresponsabili. Non vi illudete di farla franca: lo diventate.

Altro principio invocato è quello, of course, del giusto processo. Ohibò! Ma non era il giusto processo “regolato dalla legge”? E i nostri maestri non ci avevano insegnato che, se certi vizi vanno fatti valere con apposito mezzo di impugnazione entro un termine perentorio e nessuno procede in tal senso, essi si sanano, dato che non si può più attaccare quel giudicato che aequat quadrata rotundis e amenità del genere? Che, cioè, il rispetto della legge che regola il processo sotto il profilo della definitività della sentenza è anche la misura della sua giustizia? Che una sentenza non può essere considerata ingiusta, ad opinione di un nuovo giudice di un autonomo processo, se la sua ingiustizia non era stata fatta valere secondo le regole del “suo” procedimento?

Che ingenuità, si risponde. Se c’è del marcio, la puzza la si sente anche se la sentenza è stata infiocchettata con la definitività del giudicato. Perfetto! Ma ha pensato qualcuno che, prevedendo la revocabilità della sentenza per dolo del giudice, la legge ha puntualizzato proprio l’ipotesi del marcio-che-più-marcio-non-si-può e la disciplina specifica della revocazione è stata dettata proprio per far fuoco su tale bersaglio? Se

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disciplina, perché non si è al cospetto di una disciplina disposta per rimediare ad un mero errore rispetto al quale la coscienza giuridica potrebbe obiettare “crimen et fraus omnia corrumpunt”, bensì al cospetto di una disciplina scritta proprio per rimediare al caso del crimine e della frode definitivamente accertati in sede penale.

Allora – l’avevo domandato nella Nota alla sentenza d’appello e torno a chiederlo perché non l’ho ancora capito – qual è la fattispecie dell’illecito civile da cui discende la condanna al risarcimento. La sentenza? No, perché la sentenza, per quanto la si voglia considerare odiosa, è diventata buona per il codice di procedura. Il reato? Ma qui il reato non può nemmeno essere concepito quale fattispecie autonoma di danno:

tra esso e il danno c’è lo schermo della sentenza e torniamo al punto di partenza. A meno che la logica non sia un’opinione barattabile con l’appello ai “principi”.

4. C’è una chicca. La revocazione, il cui mancato esperimento era irrilevante per Corte d’appello, diventa addirittura inammissibile nel nostro grand-arrêt. Per carenza di interesse ad agire, si dice. Superato lo sgomento iniziale (vanto qualche infarinatura sull’art. 100), mi vedo costretto ad aderire alla logica stringente della sentenza. Se infatti posso ottenere, quando e come mi pare, la cognizione incidentale del vizio, senza esperire la revocazione, non ho interesse ad esperirla: che me ne faccio se vinco?3 Ho solo intralciato la giustizia con un ulteriore grado (o magari più d’uno) e il principio della ragionevole durata – eccolo! – sta lì a colpevolizzarmi. Non fa una grinza. C’è solo un piccolo, piccolo particolare: forse si dovrebbe contemplare anche la possibilità che la revocazione sia rigettata dal “suo” giudice e che questo rigetto divenga definitivo. E allora? Be’ diventerebbe impossibile a queste condizioni invocare il reato che “omnia corrumpit”, perché la sopravvivenza della sentenza al

“male assoluto” è stata appositamente e definitivamente sancita dal “suo” giudice.

Se proprio occorre dimostrare l’inossidabilità dell’ “omnia corrumpit”, è meglio non correre rischi.

5. Infelice materia ormai il Diritto (si fa per dire) processuale civile. Il professore deve mettersi una mano sulla coscienza e chiedersi se sia proprio il caso di bocciare lo studente che ha saltato il capitolo sulla revocazione. Ma non solo questo povero

3 La sentenza assume l’impotenza del giudizio rescissorio a dare soddisfazione alla parte che ha vinto in rescindente. L’argomento è davvero curioso e merita una confutazione che va riservata al lavoro “di secondo impatto” che mi riservo di scrivere sul tema.

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ragazzo (che magari ha solo la colpa di non aver ripassato bene l’argomento): non merita la bocciatura neppure chi ha saltato i capitoli sulla cosa giudicata, sulle impugnazioni in generale, e su altro ancora a cominciare dal senso intuitivo della regola processuale. Se la Corte di cassazione scrive che la sentenza revocabile entro un termine perentorio, ma non impugnata, passa in giudicato formale ma non in giudicato sostanziale, spingendosi poi addirittura a fondare su questa premessa la conclusione della inammissibilità della stessa impugnazione della sentenza per carenza di interesse, vuol dire che mantenere in vita i manuali che circolano significa solo corrompere le giovani menti.

Chi si assume questa responsabilità?

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Nota del 31.08.2011

Corte d’appello di Milano, Sez. II, 10 luglio 2011, n. 3461 – De Ruggiero (pres.) – Saresella (est.) – Fininvest s.p.a.

contro CIR s.p.a.

«Accertato in sede penale il reato di corruzione del giudice, la revocazione della sentenza ai sensi dell’art.

395 n. 6 c.p.c. non costituisce, né logicamente, né giuridicamente, il presupposto necessario o una condizione di procedibilità per l’azione risarcitoria, poiché la sentenza “corrotta” deve essere considerata

“tamquam non esset” e per ciò stesso, in quanto prodotto di un illecito generatore di danno ingiusto, non può esserle riconosciuta valenza di giudicato sostanziale».

BRUNO SASSANI

La cognizione incidenter tantum della sentenza viziata da dolo del giudice e la superfluità della revocazione: c’era una volta il codice di procedura.

1. Quid juris nell’ipotesi che un giudicato penale abbia accertato che il giudice civile

è dolosamente venuto meno al suo dovere di imparzialità nel decidere? A questa domanda, lo “studente medio” di Procedura Civile verosimilmente risponderà che la parte danneggiata potrà chiedere la revocazione della sentenza condizionata dal dolo, essendo questo motivo previsto dall’art. 395 n. 6 c.p.c. E quando il professore, per verificare che non abbia ripetuto a memoria l’appunto strappato al collega (a cui era egualmente capitata la domanda sulla revocazione), insisterà per sapere che significa la risposta ricevuta, il nostro studente verosimilmente aggiungerà che l’interessato deve proporre l’impugnazione nel termine di trenta giorni dal giorno in cui è passata in giudicato la sentenza penale che accerta il reato, termine che si determina ai sensi degli artt. 326 e 327 c.p.c.. “Altrimenti?”, incalza il professore: altrimenti la sentenza non sarà più removibile, continuerà a fare stato tra le parti e la situazione di diritto resterà quella accertata.

La banalissima verità contenuta nelle risposte del nostro ipotetico studente di Giurisprudenza non deve essere però così salda, se (nientemeno che) la Corte d’appello di

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Milano, aderendo in maniera convinta e confermando in pieno una scelta già compiuta dalla sentenza appellata, ha potuto stabilire che, di fronte al dolo del giudice accertato con giudicato penale, la sentenza civile toccata dal reato va considerata tamquam non esset.

Scrive la Corte d’appello, riproducendo le giustificazioni a suo tempo fornita dal Tribunale, che, di fronte al reato di corruzione del giudice, è consentito, al diverso giudice

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autonomamente adito per il risarcimento del danno, “ricostruire autonomamente la vicenda corruttiva”. In questo caso non rileva – parla sempre la Corte – che la parte interessata, avendo avuto la possibilità di dolersi dei riflessi di quella vicenda sulla sentenza tramite l’apposita impugnazione con il mezzo dell’art. 395 c. 6, non l’abbia fatto: fondandosi sugli atti del giudizio penale, il giudice del danno può rifare da capo, ed in piena autonomia, il giudizio civile, e così rovesciare la decisione e affermare la responsabilità civile della parte olim vittoriosa.

2. Potenza dell’interpretazione evolutiva! Reato del giudice, suggerisce la Corte, significa “non sentenza”; la macchia sulla veste del decidente cancella ogni formalità e la sentenza frutto del reato “come la neve al sol si disigilla”.

Se questo è vero, la norma dell’art. 395 n. 6 c.p.c. è semplicemente cancellata dal codice.

Lo scenario disegnato dalla Corte milanese è infatti – né più, né meno – ciò che la legge intende scongiurare, poiché la presenza dell’art. 395 n. 6 c.p.c. conduce ineluttabilmente alla conclusione che la ripugnanza per il reato del giudice non basta: non basta il passaggio in giudicato della sentenza penale sul dolo, poiché tale giudicato è condizione necessaria ma non sufficiente per cancellare l’intervenuto giudicato civile. Onere della parte che se ne voglia giovare è adire (nei termini e nelle forme previste dalla legge processuale)1 il giudice individuato come competente (dalla legge processuale); questo giudice (e solo questo, evidentemente) procederà, con la tecnica del rescindente, ad annullare, se del caso, la sentenza per poi, con la tecnica del rescissorio, rifare il giudizio. Dove – attenzione! –

“rifare il giudizio” non vuol dire esprimere e motivare (come mostra di aver fatto il Tribunale di Milano, con le diffuse affermazioni convintamente sottoscritte dalla Corte d’appello) il proprio dissenso sulle modalità e sul contenuto della decisione,2 ma vuol dire pronunciare, in via principale e nel contraddittorio delle parti della sentenza impugnata, su specifiche conclusioni, e applicare la regola di giudizio richiesta dal caso concreto.

1 Ivi comprese le forme stabilite a pena di inammissibilità dall’art. 398 c. 2, e a pena di improcedibilità dall’art. 399 c. 2 c.p.c.

2 Del tipo “cosa vi fosse di illogico nel ragionamento che precedeva, il Tribunale non riusciva a

comprendere”, ovvero: “Il Tribunale ripercorreva l’iter logico giuridico della sentenza 259/1991 della CdA di Roma e ne rilevava l’incongruenza anche alla stregua della giurisprudenza all’epoca vigente”.

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Insomma la soluzione patrocinata dalla sentenza in commento è quella a cui l’interprete potrebbe eventualmente pervenire nell’ipotetico ordinamento contrassegnato dall’assenza dell’art. 395 n. 6, considerato che tale articolo mira appunto evitare che una tale possibilità si realizzi. L’accertamento del dolo del giudice è solo uno degli elementi della fattispecie, costituendo esso il mero presupposto dell’apposito giudizio di ingiustizia della sentenza: che il dolo del giudice abbia prodotto una sentenza ingiusta, non è giudizio che può rendere incidenter tantum il diverso giudice chiamato a giudicare del danno ricollegato al contenuto della sentenza. La previsione di un termine perentorio, l’individuazione di un organo esclusivamente competente, la necessità di una preventiva pronuncia in rescindente (incompatibile con la mera cognizione del vizio) stanno proprio ad escludere che il giudice possa operare con la tecnica adoperata dal Tribunale di Milano, e riepilogata adesivamente dalla sentenza in commento quando disinvoltamente scrive: “Il giudice di prime cure ricostruiva quindi autonomamente la vicenda corruttiva”.

3. Come può un autorevole collegio giudicante adottare senza imbarazzo una soluzione così singolare? La curiosità è legittima e stimola le deformazioni professionali del processualista, autorizzandolo a chiedersi su quale suggestione culturale riposi l’idea che un nuovo giudice possa rimettere in gioco un provvedimento che il titolare del potere di rimozione abbia invece fatto consolidare scegliendo di non esercitare tale potere.

Sul contesto discorsivo della Corte, che parla di sentenza apparente, aleggia probabilmente la suggestione dell’art. 161 c. 2 c.p.c., o meglio della lettura che considera la norma il punto di emersione della categoria della sentenza inesistente, della tipologia di vizio radicale che abilita il giudice a fare astrazione dal giudicato, ridotto ad un dato meramente formale, per procedere ad una autonoma valutazione del rapporto inter partes.

Ne è spia la riproduzione del passo di una sentenza eletta dalla Corte a proprio precedente in cui si assimila “l’ipotesi del giudice corrotto a quella del non giudice per vizi di nomina”

con la conseguenza “che il difetto di legittimazione invalida, per giurisprudenza costante, l’atto giudiziario emanato” (su tale “precedente”, amplius infra § 5).

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Ora, messa da parte una più accurata disamina di questo elusivo fenomeno,3 una cosa è certa: la previsione dell’art. 395 n. 6 c.p.c. è, nel caso in questione, la prova dell’impossibilità di procedere alla lettura spaziosa dell’art. 161 c. 2 c.p.c.. Se la legge subordina alla revocazione la sorte della sentenza affetta dal dolo del giudice, vuol dire che non basta la presenza dell’elemento revocatorio (per quanto definitivamente accertato) a trasformarla in mera apparenza di cui ci si possa all’occorrenza sbarazzare. La presenza del motivo di revocazione rende sì attaccabile il provvedimento ma non lo assimila affatto a quella “non sentenza” inetta a fare stato tra le parti di cui favoleggia la Corte d’appello in pieno consenso al Tribunale di Milano.

La logica del tamquam non esset è una extrema ratio che sconta, quale istituto valvola, il conflitto tra l’apparenza e la realtà sottostante, e non è invocabile nei casi in cui l’ordinamento, avendo preventivamente individuato quel conflitto, concede uno specifico motivo di impugnazione straordinaria per sanarlo: qui le regole del ripristino sono chiare, sicché è pura ribellione alla legge assumere che l’acquiescenza, avutasi alla sentenza non impugnata in revocazione, non è di ostacolo ad una nuova, autonoma decisione.4

Per scrupolo di completezza si può accennare ad un’altra possibile (più o meno consapevole) suggestione sulla scelta compiuta di consentire ad un diverso giudice di giudicare dei danni subiti in conseguenza di una decisione giudiziaria, senza prima procedere a demolizione di essa. E’ il caso dell’art. 2738 comma 2 del codice civile che ammette la risarcibilità dei danni derivanti dalla sentenza fondata su falso giuramento, ove tale falsità sia stata riconosciuta in sede penale (ovvero in sede civile al solo fine del risarcimento quando la condanna penale non può essere pronunziata perché il reato si è estinto). Ma non è possibile ignorare che l’azione risarcitoria ha qui a suo presupposto proprio l’esclusione del rimedio revocatorio (art. 2938 c. 2 c.c.), sì che è giocoforza concludere che dove la legge (come nel n. 6 dell’art. 395 c.p.c.) traccia la via della revocazione, essa finisce per negare la possibilità stessa dell’autonoma azione risarcitoria.

3 Rinvio ad Auletta, La sentenza inesistente, Padova 2000, passim.

4 Si consideri che la motivazione di Corte cost. n. 51 del 1995 (in Giur. It., 1995, I, 458, con Nota di Consolo, e in Foro It., 1995, I, 2414, con Nota di Monnini), che estende alla convalida di sfratto la possibilità di revocazione per il n. 1 dell’art. 395 c.p.c., lo fa prendendo espressamente in considerazione la possibilità che alla base del provvedimento stiano fatti configuranti ipotesi di reato. Il che è indicativo della percezione che non basta il reato a spezzare il nesso tra il provvedimento e il suo regime.

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Nessuno infatti può dubitare che, se il caso del falso giuramento rientrasse nella fattispecie dell’art. 395 n. 2 c.p.c. (giudizio in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la sentenza), nessuna autonoma azione risarcitoria sarebbe proponibile senza previo, vittorioso esercizio dell’impugnazione per revocazione.

Perché le cose dovrebbero essere diverse per il nostro caso, visto che esso integra la contigua fattispecie dell’art. 395 n. 6 c.p.c.?

4. In presenza dell’art. 395 n. 6 c.p.c. non è dunque permessa la disapplicazione della sentenza. E questo, contrariamente a quanto mostra di credere la Corte milanese,5 vale anche per chi pretenda di essere risarcito per il pregiudizio apportatogli dalla decisione.

Poiché infatti i danni in questione sono (per definizione) un prodotto della ingiustizia della sentenza, la necessità che tale ingiustizia venga dichiarata dal giudice della revocazione esclude che si possa parlare di fatto illecito dannoso prima ed indipendentemente dall’accoglimento in rescissorio della revocazione stessa. In altre parole, in caso di “dolo del giudice”, la fattispecie del danno risarcibile non si esaurisce (come induce a credere la motivazione della sentenza) nell’operazione corruttiva, né può consistere nella postulata ingiustizia della sentenza data la sua connessione con il fatto di corruzione: essa va precisamente individuata nell’esito della revocazione quale annullamento in rescindente e pronuncia in rescissorio di giudizio diverso e alternativo a quello revocato. Decisivo infatti non è il dolo del giudice nel partecipare all’attività corruttiva, e nemmeno il solo accertamento del dolo del giudice nel falsare i risultati processuali in maniera determinante per il senso e la portata della decisione (oggetto dell’eventuale accoglimento in rescindente), ma l’intervenuto accoglimento della revocazione in rescissorio, cioè la sostituzione della decisione revocata con una decisione effettivamente diversa.

Altro è evidentemente il caso in cui, pur essendovi sulla scena un provvedimento giudiziale, fattispecie del pregiudizio non sia l’ingiustizia del provvedimento in sé, quanto piuttosto l’intralcio che taluno ponga alla fisiologica possibilità di un diverso giudizio. E’ il caso, avventatamente richiamato dalla sentenza, dell’avvocato che non ha impugnato la sentenza sfavorevole nel termine, facendola passare in giudicato: qui non è neppure

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pensabile la revocazione della sentenza (che resta giusta per definizione), sicché non ha senso usare tale esempio per puntellare la tesi dell’irrilevanza dell’esperimento della revocazione in caso di dolo del giudice.

Ma è parimenti il caso deciso dalla III sezione della Cassazione civile, nella sentenza 18 maggio 1984, n. 3060, a cui la Corte milanese fa dire che è possibile la mera disapplicazione della decisione investita dal dolo del giudice, e che quindi l’esercizio della revocazione è irrilevante. Prego qui il lettore di astenersi dalla facile osservazione che un precedente remoto e isolato è una rondine che non fa primavera, per l’assorbente ragione che, a guardare da vicino il caso deciso dalla Cassazione6 v’è seriamente dubitare che il precedente sia tale (sospetto che la Corte d’appello si sia limitata a leggere la massima).

Chi si prende la briga di leggere la sentenza per esteso, scopre che la vicenda è quella di un tale che scopre che alla base del decreto ingiuntivo pronunciato nei suoi confronti, ed a cui non si è opposto ritenendo di essere effettivamente obbligato, sta un titolo cambiario la cui data è stata alterata, è che l’alterazione è stata fatta appunto per estendere nei suoi confronti la responsabilità per il debito portato dal titolo. Scoperto l’artificio, l’ingiunto denuncia per truffa l’autore dell’alterazione, e chiede i danni nel processo penale assumendo che l’artificio della data lo aveva indotto all’acquiescenza nei confronti di un decreto che avrebbe invece sicuramente impugnato. Il giudizio penale si conclude con sentenza di prescrizione, l’azione di danni viene ripresa in sede civile e si conclude con la condanna al risarcimento del danno nei confronti del contraffattore; la Corte Suprema conferma la decisione d’appello che aveva ritenuto non necessaria la revocazione.

Che qui, però, non vi fosse necessità di revocazione deriva dal fatto che il danneggiato non se la prendeva affatto con il decreto ingiuntivo, non chiedeva, cioè, né di giudicare incidentalmente del dolo della parte di cui parla l’art. 395 n. 1 c.p.c., né della falsità della prova di cui al n. 2 dello stesso articolo (motivi ambedue ammessi dall’art. 656 c.p.c.);

inoltre egli non agiva neppure in ripetizione di indebito (cosa che avrebbe dovuto portare a considerare il decreto tamquam non esset); egli chiedeva piuttosto di valutare alla stregua di illecito civilmente rilevante la truffa subita poiché, senza l’alterazione della data sul titolo cambiario egli avrebbe avuto potuto verificare l’insussistenza di responsabilità debitoria,

6 A leggere cioè per esteso la sentenza, reperibile in Informazione Prev., 1985, 609 ss.

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onde non avrebbe pagato e fatto acquiescenza. Morale della storia: il decreto poteva ben restare al suo posto, avendo la truffa operato sul comportamento acquiescente dell’ingiunto.

Non è casuale che la sentenza di Cassazione insista sul fatto che nella specie non era venuta in gioco una ripetizione dell’indebito ex art. 2033 cod. civ., ma si trattava di un risarcimento del danno ex art. 2043 cod. civ., sia pure determinato sul parametro di quanto pagato in adempimento del decreto. Un’azione di ripetizione avrebbe evidentemente richiesto la rimozione del titolo dell’arricchimento (cioè la revocazione del decreto), mentre una pretesa risarcitoria poteva ben nascere dalla incidenza della truffa sulla indotta convinzione dell’esistenza di un proprio obbligo.7

La situazione, come si vede, non mette in discussione la permanenza del provvedimento poiché il comportamento della controparte riesce ad avere una sua obiettiva rilevanza quale autonomo fatto dannoso;8 in quanto tale, essa non è assimilabile a quella dell’ingiustizia della sentenza provocata dal dolo del giudice, caso in cui è necessario l’accertamento dell’ingiustizia del provvedimento, e, quindi, diviene ineludibile la via della sua revocazione.

5. Altro ancoraggio per la tesi della superfluità della revocazione viene poi visto dalla Corte nel“principio enucleato in Cass. Pen. n. 35525 del 16.05.2007”, 9 sentenza diffusamente riprodotta in motivazione allo scopo di indurre il lettore a concludere che il principio in parola è quello per cui, se un componente dell’organo giurisdizionale sia privo di imparzialità, spetta comunque al giudice civile “di valutare se la decisione sia comunque conforme a giustizia, nel merito”. E che, per “giudice civile”, la Corte milanese intenda il diverso ufficio a cui si domanda di valutare una situazione incompatibile con tale sentenza emerge a chiare lettere dalla conclusione che, all’esito dell’excursus essa esplicita: “in

7 L’induzione in errore del danneggiato, “determinata dalla falsificazione e dall’utilizzazione in giudizio delle cambiali, fu la causa della mancata opposizione al decreto ingiuntivo e del successivo pagamento … il raggiro protrasse i suoi effetti dopo l’emanazione del decreto ingiuntivo, perché in rapporto eziologico con esso Tizio, per l’errore in cui era stato indotto, non propose opposizione al decreto ingiuntivo, che perciò passò in giudicato”.

8 Scrive la sentenza che “l’atto illecito si pone quale unica genesi dell’esborso effettuato che, quale ingiusta diminuzione patrimoniale, è da qualificare danno ex art. 2043 c. c.”. Poiché «il raggiro fu rivolto a trarre in

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questa sede civile si può dunque fin d’ora affermare che la sentenza della Corte d’Appello di Roma è tamquam non esset: già per la sola presenza nel collegio del giudice corrotto, a prescindere dal merito della decisione e dal convincimento degli altri componenti del collegio”.

Il lettore provvisto di un po’ di pazienza può però giudicare da solo è vero che, dalla sentenza invocata, si ricavi quel che la Corte ne ricava, cioè che la parte soccombente è dispensata dall’esercizio della revocazione.

Della sentenza penale viene riprodotto il seguente brano: «La presenza di un componente dell’organo giurisdizionale privo del requisito di imparzialità, perché partecipe di un accordo corruttivo che lo delegittima in radice dalla funzione, infirma la validità dell'intero iter decisionale, per sua natura dialettico e sinergico. In sostanza in quel collegio non sedeva un giudice, quanto piuttosto una parte, in violazione non di un generico precetto di legge ma della stessa Grundorm della giurisdizione, che costituisce il fondamento etico- giuridico del suo esercizio, consentendo alla collettività di accettare perfino l’eventuale erroneità o ingiustizia sostanziale delle sentenze emesse. In tesi generale, tale è l’effetto inquinante del vizio di costituzione del giudice – dovendosi assimilare, sotto questo profilo, l’ipotesi del giudice corrotto (patologia, fortunatamente rarissima) a quella del non giudice per vizi di nomina – che il difetto di legittimazione invalida, per giurisprudenza costante, l’atto giudiziario emanato ... In ogni caso spetterà al giudice civile … di valutare se la decisione sia comunque conforme a giustizia, nel merito». Il paziente lettore faccia caso ai puntini di sospensione10 presenti in fondo al testo riportato, ne prenda nota e vada poi a sbirciare il testo autentico, l’originale da cui è stata tratta la citazione. Gli capiterà di trovare scritto (non che “in ogni caso spetterà al giudice civile di valutare se la decisione si comunque conforme a giustizia nel merito”, ma) che “in ogni caso spetterà al giudice civile, che secondo quanto allegato dallo stesso ricorrente, è stato già adito nel giudizio di revocazione ex art. 395 c.p.c., di valutare se la decisione sia comunque conforme a giustizia,

10 Qui pedissequamente riprodotti, in taglia-e-incolla, dal testo .pdf a disposizione di tutti in rete.

Curiosamente in altro punto la sentenza dimentica le cautele adottate e scrive ... proprio quel la Cassazione penale ha scritto. Cfr. pag. 52: «proseguiva più oltre il Supremo Collegio: ‘in ogni caso spetterà al giudice civile, che, secondo quanto allegato dallo stesso ricorrente, è già stato adito nel giudizio di revocazione ex art. 395 CPC, di valutare se la decisione sia comunque conforme a giustizia nel merito’ ».

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nel merito”. C’è un abisso tra la spettanza del potere di valutazione al giudice civile tout court e la spettanza dello potere di valutazione al giudice civile “adito nel giudizio di revocazione ex art. 395 c.p.c.” E’ l’abisso che intercorre tra il giudicato e la situazione vergine da giudizio.

In verità, thema decidendi della sentenza penale così generosamente sfruttata era stabilire se la presenza di un giudicato civile potesse precludere “l’autonomo accertamento penale di eventuali reati ... commessi proprio nel corso del processo civile”. La risposta della Cassazione è negativa, come è ovvio che debba essere, dal momento che questo è esattamente quanto stabilisce l’art. 395 n. 6 c.p.c. allorché, a presupposto della rimozione della sentenza civile, pone l’autonomo accertamento in sede penale del reato commesso nel processo civile. Ci mancherebbe che il giudicato civile potesse far da barriera all’accertamento dei reati relativi alla sua formazione: anche nel caso giudicato dalla Corte milanese, l’accertamento del reato compiuto dal giudice civile non era stato impedito dal giudicato. Una gaia logica è però quella che, dall’affermazione che l’accertamento del reato non è impedito dal giudicato civile, pretende di ricavare che il giudicato civile è automaticamente travolto dall’accertamento del reato. Gaia logica da cui è certo immune la Cassazione penale perché vanamente il lettore cercherebbe questa conclusione nella sua sentenza: egli trova invece l’affermazione che la pronuncia viziata “resta soggetta, sotto il profilo meramente civile, al rimedio straordinario della revocazione, che, allo stato, non ne ha ancora inficiato l’efficacia di giudicato”. Sarà l’eventuale accoglimento della revocazione ad inficiarne l’efficacia di giudicato: “Spetterà invece al giudice civile, adito ex art. 395 c.p.c., affrontare la questione se la corruzione di un membro del collegio giudicante – per di più, relatore ed estensore della sentenza – sia, di per sé, idonea, nella fase rescindente, a provocare la revocazione della sentenza – salvo il riesame del merito, riservato alla susseguente fase rescissoria.” Altro che sentenza inesistente! E altro che

“precedente”!

Resta solo da augurarsi che alla sentenza della Corte milanese non spetti in sorte di trasformarsi essa in precedente. E che al professore non tocchi di dover premiare lo studente

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