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VOLETE FAR MORIRE IN PRIGIONE PITTELLI (SE NON CONFESSA)?

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Academic year: 2022

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Redazione e amministrazione

via di Pallacorda 7 – Roma – Tel. 06 32876214

Sped. Abb. Post., Art. 1, Legge 46/04 del 27/02/2004 – Roma

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9 772704 688006 00821

L'ex spin doctor

VITTORIO FERLA

a pagina 9

Stefano Brusati

«N

on posso accettare di essere, di fatto, inserito fra i “tanti promos- si grazie all’ex leader di Unicost”, per la semplice ragione che so- no stato nominato Presidente del Tribunale di Piacenza dal Csm con delibera unanime do- po che, sempre all’unanimità, la competente

Commissione mi aveva proposto per detto incarico». «Non avevo alcun bisogno di essere

“sistemato", sono stato nominato grazie al mio curriculum, e non ho mai contattato Palama- ra». Finito nel calderone delle nomine gesti- te dallo zar dell'Anm, Stefano Brusati scrive al Riformista. Ma se le cose stanno così, per- ché il 31 marzo ringraziò Palamara dopo la nomina?

A pagina 7

Ci scrive il magistrato Stefano Brusati

«Io non chiesi aiuti»

E quel sms a Palamara?

VOLETE

FAR MORIRE IN PRIGIONE PITTELLI

(SE NON

CONFESSA)?

A pagina 3

Piero Sansonetti

G

ian Carlo Pittelli sta malissimo. È in pri- gione da otto mesi, in totale isolamen- to. Imbottito di psicofarmaci. Non ha contatti con l'esterno. Io credo che la sua vita sia in pericolo. Qualcuno ha voglia di in- tervenire? Mi rivolgo ai leader dei partiti demo- cratici, tutti, di sinistra e di destra: da Berlusconi a Zingaretti, da Renzi a Meloni a Speranza, a Salvini.

Pensateci bene: è giusto girarsi dall'altra parte per non disturbare il manovratore, cioè i magistrati?

Gian Carlo Pittelli è un ex parlamentare e un av- vocato calabrese molto prestigioso. È stato arre-

stato alle 3 di mattina del 19 dicembre scorso. Da allora è in isolamento e non è mai stato interro- gato dai suoi accusatori. Mai. È accusato di ave- re rivelato dei segreti che gli erano stati offerti da altri imputati. Gli altri imputati però sono stati già scagionati dalla Cassazione e si è scoperto che i segreti che lui avrebbe rivelato, prima che li rive- lasse erano stati pubblicati dai giornali. Non era- no, diciamo così, segretissimi. Pittelli è il nome di lusso dell'inchiesta "Rinascita Scott" del dottor Gratteri. Se cadono le accuse contro di lui cade tutto. Cosa vogliono? La confessione.

L'ex parlamentare sta male

Arrestato Bannon il sovranista:

Trump nei guai

Deborah Bergamini a pagina 4

Disastri annunciati

Fotografi a di un paese fatto

a pezzi dai grillini (senza neppure rendersene conto...)

Isaac, ragazzino di San Diego: è lui il nuovo Martin Eden E Pertini gridò:

"Lei è un porco!"

Lettera al NYT Parlamento

Eraldo Affinati a pagina 10 David Romoli a pagina 6

(2)

PARLA GIANCARLO PAGLIARINI, EX MINISTRO LEGHISTA DEL BILANCIO

È

stato un leghista della primissima ora. E a distanza di anni, Giancarlo Pagliarini non si sente né si autodefi nisce un leghi- sta “pentito”, semmai tradito. È stato, dal maggio 1994 a gennaio 1995, ministro del Bilan- cio e della programmazione economica, deputa- to e senatore della Repubblica, fi no a quando, nel 2007, ha deciso di lasciare la Lega Nord a causa di dissidi interni. A Umberto Bossi, allora leader in- contrastato della Lega Nord, mandò questa mail quando decise di non rinnovare la tessera del mo- vimento «...Onestamente non riesco a sentirmi parte di un movimento più interessato a discutere di coppie di fatto, eutanasia, dazi, diocesi e prese- pi che non di federalismo, di federalismo e ancora di federalismo». Con orgoglio, ricorda di quando, era il 4 maggio 1996, il ‘Parlamento di Mantova’ de- dicò una giornata di studio al libro di Kenichi Oh- mae, La fi ne dello Stato-nazione. L’emergere delle economie regionali. «Come vede – dice a Il Rifor- mista Pagliarini – già allora, 24 anni fa, discuteva- mo di “nazionalismi da quattro soldi”. Parlavamo della fi ne degli Stati-nazione e di una Europa fede- rale. Di diversi che restavano diversi, diversissimi, che lavoravano assieme. Insomma, del modello svizzero».

Lei si ritiene un federalista leghista pentito?

Assolutamente no, semmai sono altri ad aver ab- bandonato quella strada. Abbandonata, se non ad- dirittura tradita. Vede, io continuo a dire ciò che dicevo allora, con la stessa convinzione: ragazzi, guardate che il Paese è organizzato male, quando un’azienda non funziona perché è organizzata ma- le, è inutile cambiare gli amministratori: è neces- sario cambiare l’organizzazione. È inutile litigare, o far fi nta di farlo, su elezioni sì o no, anticipate o meno: il problema è cambiare l’organizzazione del sistema-Paese. Io vado in giro a dirlo: dobbiamo avere questi principi, diversi che lavorano assieme, tutela delle generazioni future etc. È incredibile che quando c’era la Lega di queste cose se ne par- lava ed eravamo come una famiglia, eravamo tutti d’accordo e quindi cercavamo di seminare questo know how e di rea- lizzarlo. Adesso è sparito tutto, non riesco a capire come sia possibi- le. È incredibile, non ho parole.

Già ventiquat- tro anni fa, nel

“Parlamento di Mantova” par- l a v a m o

della fi ne degli Stati-nazione, di una Europa fede- rale, di diversi che restavano diversi, che lavora- vano assieme. Era il modello svizzero. A distanza di tempo, non ho ancora trovato uno che mi ab- bia detto: “è sbagliato”. Al massimo mi dicono “sì, però la Svizzera è piccola”. E allora gli dici no, cal- ma, la Svizzera è grande il doppio della Lombardia, più o meno abbiamo gli stessi abitanti, e i confron- ti si possono fare, poi non è che gli svizzeri sono dei geni, sono solo organizzati meglio. Oggi è di- ventato quasi proibito parlarne. È incredibile, non ho parole.

Ma la Lega è rimasta in vita. È la Lega di Mat- teo Salvini. Cosa c’è in questa Lega di oggi di quello che era la Lega di cui lei è stato uno dei pensatori?

Da quello che capisco, non c’è più niente. Adesso vedo questo movimento che stanno cercando di realizzare con il vecchio simbolo della Lega, però fi nora sento solo parole di polemiche contro Salvi- ni o contro Bossi, ma non sento obiettivi ed elenchi di cose da fare. Evidentemente l’Italia come siste- ma-Paese non è ancora abbastanza maturo. In Svizzera nel governo hai quattro partiti diversissimi tra di loro, che però lavorano assieme per i cittadini.

Il problema è che qui da noi, invece, i politici hanno l’obiettivo di gestire il potere, non di lavorare per i cittadini. Questa è l’unica spiegazione che capisco anche se mi trova in totale disaccordo: siccome chi fa politica vuole gestire il potere, non gliene fre- ga niente di organizzare in modo migliore il siste- ma-Paese. È chiaro che se hai un sistema federale dove diversi lavorano insieme, tu non puoi gestire il potere perché ci sono anche loro, gli altri, che ti rompono le scatole. E quindi da noi è una peren- ne lotta politica, mentre lì non c’è. A me quello che piace in quel sistema è che eviti che ci siano centri di potere: il presidente della Svizzera è a rotazione e dura un anno, ed è uno dei sette ministri. Un an- no e poi la rotazione: ecco perché lì non esistono centri di potere. È un problema di organizzazione, non di mentalità. Nei documenti uffi ciali svizzeri, la parola presidente della Confederazione la scrivono con la “p” minuscola, perché è un cittadino come gli altri, e non perché è un errore di battitura. So- no cose che mi entusiasmano da sempre, quando ero in Lega mi en-

tusiasmavano ma quando la Lega smise di parlarne, e di farne il centro della sua iden- tità culturale e dell’azione p o l i t i c a , scrissi a

Bossi e andai via. Questa concezione federalista continua a entusiasmarmi, mi piace un mondo, però in Italia non funziona, perché quelli sono lì a far politica hanno in testa solo la gestione del pote- re, e non gliene importa nulla, per usare un eufemi- smo, di come organizzare il sistema-Paese.

Lei evoca la riforma del sistema-Paese, men- tre in Italia ci accingiamo a votare per il referendum sul taglio del numero dei par- lamentari. Non è una deminutio rispetto al- le grandi questioni di cui in precedenza ha parlato?

Assolutamente sì. Come quello che gli fai vedere la luna e lui guarda il dito... Tutte le cose di cui si di- scute, sono tutte scemate. Il problema è organiz- zarsi meglio. Sono tutte robe inutili: vogliono fare il referendum su ‘sta roba, vabbé ma chissene... Per tornare un attimo ai parlamentari, anche il famo- so taglio dei vitalizi: quel taglio ha fatto risparmia- re una cifra che equivale a 8 ore di interessi passivi sul debito pubblico. Otto ore! Prendendo il debito pubblico diviso 365 giorni, diviso 24 ore, il rispar- mio di questa roba per cui hanno parlato, discusso per dei mesi, è di 8 ore. Di risparmiare 8 ore di in- teressi passivi ne hanno parlato per mesi, di ridurre il debito pubblico non ne parla mai nessuno, anzi, cercano di aumentarlo. Questo ti fa capire che c’è proprio una illogicità di fondo: ogni tanto, qualcuno mi chiede cosa ne pensi di questo o quello, rispon- do che sono su Marte...

In una intervista a questo giornale, un “grande vecchio” della politica italiana, Rino Formica, ha affermato che il guaio in politica dell’Italia, e non solo della sinistra di cui continua a sen- tirsi, parte, non è il defi cit di classe dirigente, ma l’assenza di pensiero.

Bravo Formica. La sua considerazione è del tutto fondata. Qui c’è il divieto di discutere seriamente. È diventato un divieto culturale. Senti solo questi qui che litigano, ma non c’è un’idea delle cose da fare.

Tra l’altro, io sono convinto di questo, della priori- tà assoluta dell’organizzazione del sistema-Paese, ma se qualcun altro mi propone altre cose, ci ra- giono sopra e se sono migliori faccio marcia in- dietro e ragiono sulle cose che dice lui. Invece no, non hai proposte, è lo zero assoluto, o se vuoi hai le solite proposte: riduciamo l’evasione fi scale, com- battiamo gli immigrati, un milione di nuovi posti di lavoro... sono tutte le solite scemate. Tutti dico- no riduciamo le tasse, però nessuno dice come. In un Paese civile, se uno dice riduco le tasse, subi- to bisognerebbe dire: “bene, riduci le tasse quindi meno soldi e dunque dimmi quali spese contrai.

Oppure se non vuoi tagliare delle spese, dimmi come ti entrano altri soldi che non vengono dal- la pressione fi scale”. Cos’è: apriamo un casinò per ogni Regione? Non c’è la capacità, l’abitudine di discutere, di ragionare. Zero assoluto. Bravo Rino:

l’incapacità di ragionare, è questo qui il problema grosso del Paese.

Il federalismo che lei ha perorato e per il qua- le si è battuto, può essere il vero antidoto al so- vranismo populista?

Secondo me assolutamente sì, anche se sono due cose molto diverse. Il sovranismo è semplicemen- te una grande cavolata, per non dire di peggio, co- me dicevamo nel ’96: le guerre mondiali le hanno generate questi nazionalismi stupidi. Poi c’è il pun- to che a me sta tantissimo a cuore che è quello

dell’Unione europea. Dobbiamo avere una Unione europea fortissima, altrimenti non contiamo nien- te. Ma per averla, è necessario che elimini, non fi si- camente, ma culturalmente, i vecchi Stati-nazione.

Devi avere l’Europa come una grande Svizzera.

Finché tu hai l’Italia, la Francia, la Germania e via elencando, tu non avrai mai l’Europa. Questi vec- chi Stati-nazione sono quelli che di fatto blocca- no la costruzione di una Europa forte come gli Stati Uniti d’America...Questo per ciò che concerne il so- vranismo. Quanto al federalismo, è tutt’altra cosa.

Il federalismo, se vuoi, è anche un modo di vivere e di intendere la vita: devo sentire gli altri, io sono io, sono diverso dagli altri però dobbiamo lavora- re assieme. Se ci mettiamo a fare la guerra, il siste- ma-Paese non va avanti, così come non va avanti un condominio. È proprio un approccio culturale.

Sono discorsi completamente diversi, agli antipodi, quelli del federalismo e di questi nazionalismi che io non sento, che non ho mai avuto dentro di me.

In ogni dove, si continua a dire e a scrivere che dopo il Covid-19 nulla sarà più come prima.

Ma non c’è il rischio che questo “nulla” si tra- sformi in “peggio”?

Se nulla sarà più come prima, ne sarei solo che contento. Perché prima era un disastro. Secon- do me sarà tutto come prima, purtroppo, perché il problema è culturale. La cultura dipende da quello che senti dentro e non dagli avvenimenti che hai intorno. A quegli avvenimenti cerchi di metterci una pezza, ma il problema è culturale. Sarò bru- tale, ma sono abituato a dire ciò che penso. E quel che penso è che l’Italia culturalmente è ancora ab- bastanza all’età della pietra, e dopo il coronaviurs ho paura che continuerà a esserlo. È molto triste, ma è così.

L’ultima domanda ci riporta al discorso sull’oggi. Quando ci fu la crisi del Conte I, alla base della formazione della nuova maggioran- za che dette vita al Conte II, c’era il dover far fronte alla minaccia-Salvini. Ma bisogna dav- vero avere così paura di Matteo Salvini?

No, e la ragione è la stessa che spiega perché non era il caso di avere paura di Berlusconi o dei co- munisti che mangiano i bambini. Uno ragiona per- ché vuole vincere qualcosa... Pensa alla sinistra: per venti-trent’anni tutti contro Berlusconi. Ora non è che mi sia particolarmente simpatico Berlusco- ni, ma che una politica a sinistra dovesse ridursi all’antiberlusconismo, era una roba sciocca, così come è sciocco essere contro-Salvini. A me, dico la verità, Salvini fa molta paura per quello che di- ce contro l’Unione europea, ma il fatto che mi fac- cia paura non mi porta a dire che il mio obiettivo è bloccarlo. Secondo me le elezioni bisognerebbe farle prima o poi, però Mattarella ha fatto bene: se c’erano i numeri in Parlamento, è suo dovere fare la cosa che ha fatto. Essere contro qualcuno è pro- prio il contrario del federalismo. Non ha senso es- sere contro qualcuno. Tant’è che in Svizzera, il mio pallino, non hai nemmeno le minoranze in Parla- mento. Non esiste il concetto di minoranza: ognu- no fa dei passi indietro fi nché non si trova il punto di accordo, anche se questo richiede tempo. Così si fanno le cose, mica con il muro contro muro.

«IL SOVRANISMO DI SALVINI?

CHE CAVOLATA!»

In alto

Giancarlo Pagliarini e Matteo Salvini

«Nella Lega di Bossi lo dicevamo sempre: questi stupidi nazionalismi hanno generato guerre mondiali.

Matteo fa paura: ha tradito il federalismo per ‘sta roba»

Umberto De Giovannangeli

«IL SOVRANISMO DI SALVINI?

CHE CAVOLATA!»

Nella Lega di Bossi lo dicevamo sempre: questi stupidi nazionalismi hanno generato guerre mondiali.

Matteo fa paura: ha tradito il federalismo per ‘sta roba»

A fi anco Pagliarini e Bossi

(3)

G

iancarlo Pittelli, ex parlamentare, ex assessore, prestigioso avvocato ca- labrese, sta molto male. Da otto me- si è chiuso in una cella di una delle più famigerate carceri italiane, Badu ‘e carros, vicino a Nuoro. È in isolamento totale. Non vede nessuno. Non sente nessuno. Anche l’o- ra d’aria deve farla da solo come un cane in un cortiletto. Persino le rare visite consenti- te ai familiari non ci sono, per via del Covid e del fatto che comunque Badu ‘e Carros è più lontana di Parigi o di Mosca da Catanza- ro. Giancarlo Pittelli non è stato in questi otto mesi mai interrogato dal suo Pm. Mai. Come in un famoso romanzo successe a un certo Joseph K. Una volta, una sola volta, gli han- no chiesto se volesse parlare con un giovane Pm di Nuoro, del tutto all’oscuro dell’inchie- sta giudiziaria che lo riguarda. Anche questo successe a Joseph K. L’inchiesta che riguarda Pittelli è una delle famose inchieste del dot- tor Gratteri. Lui ha detto di no, che non vole- va essere interrogato da un estraneo. Voleva il suo accusatore, voleva poter parlare con lui e a lui spiegare perché è innocente. Penso che chiunque di noi avrebbe fatto lo stesso.

Beh, cominciate a capire come funzionano le cose: parlare col vostro accusatore non è un vostro diritto. L’atteggiamento della Pro- cura di Catanzaro, il rifiuto di occuparsi del caso Pittelli (e probabilmente di decine e de- cine di casi analoghi) è perfettamente e for- malmente legale. Tra i poteri della pubblica accusa c’è quello di far sbattere un cristia- no in prigione, di metterlo in isolamento, e di tenerlo lì senza permettergli di difendersi, di spiegare, di capire, per molti e molti me- si. Anche di spingerlo al suicidio. I suicidi in carcere sono in aumento.

Succedeva così anche a Joseph K., più o me- no nel 1925. Voi magari potreste chiedere: ma una situazione di questo genere non è equi- parabile alla tortura? Sì, sicuramente è equi- parabile. Però esistono due tipi di torture:

quelle illegali, che possono essere punite, e quelle legali che sono guardate con rispet- to anche da gran parte dell’opinione pubbli- ca. La tortura fu abolita in Francia un po’ più di due secoli fa, per una ragione di dottrina:

si stabilì che siccome la tortura era contem- poraneamente un metodo di indagine - per- ché serviva a far confessare l’imputato - e una punizione in atto, non era legittima. Dal momento che il diritto ha sempre immagina- to che tra indagini e pena non ci possa es- sere confusione. Perché tenere un signore di 68 anni in prigione per otto mesi, isolato, in attesa di rinvio a giudizio e udienza prelimi- nare, se non per indurlo a confessare e risol- vere così i tanti problemi di una inchiesta che sta marciando a giornali unificati ma a prove scarsissime? Nessuno immagina che Pittelli possa fuggire, nessuno immagina che possa inquinare le prove (non ci sono prove, fin qui, tranne alcune intercettazioni piuttosto prive di valore e che comunque non possono certo essere manipolate), nessuno immagina che possa reiterare i reati. Dunque? Resta solo l’i- potesi dell’induzione a confessare. E allora più è duro il carcere meglio è.

Giusto, i reati. Quali sono i reati? In origi- ne erano tre. Rivelazioni di segreti d’ufficio, abuso d’ufficio, associazione mafiosa. Poi, piano piano si sono ridotti. È caduto il rea- to di rivelazioni, per il quale la Cassazione ha ordinato la scarcerazione, è caduto il reato d’abuso, è caduta anche l’associazione ma- fiosa che si è trasformata nella mitica accu- sa di concorso esterno, accusa, come sapete, che si basa sulle congetture, non sulle pro- ve. Per questo viene usata con grande fre- quenza. E può resistere - dal punto di vista della sua legittimità formale, non certo del- la logica - anche se cadono tutti i cosiddetti reati fine. Che vuol dire reato fine? Per esem- pio, truffa. O omicidio. O corruzione. O se- questro di persona. Ti dicono: tu partecipavi, seppur dall’esterno, a una associazione che organizzava furti, o omicidi, o truffe. In que- sto caso no, il reato fine non c’è: tu hai parte- cipato a una associazione che non aveva in programma reati, o comunque non ne ave- va commessi. È probabile, anche se nel ro-

È IN CARCERE, ISOLATO, STA MALE

APPELLO A BERLUSCONI RENZI, SALVINI, MELONI SPERANZA E ZINGARETTI

SALVATE LA VITA A PITTELLI

In otto mesi di totale solitudine non è mai stato interrogato dal Pm. Non succedeva nemmeno nel Medioevo.

Piero Sansonetti

In alto

Giancarlo Pittelli, ex deputato, ex senatore, ex assessore a Catanzaro: è in prigione da otto mesi in una condizione di totale isolamento.

Non ha mai incontrato il Pm che lo accusa

È tutto legale quello che gli stanno facendo.

Questo è terribile:

è tortura, in modo assolutamente evidente

è tortura, ma è legale.

Il mondo politico lo ha abbandonato. Perché?

probabilmente per paura

O confessi o muori

manzo non viene mai detto (perché l’ipotesi di un reato così fantasioso, nel 1925, sfuggiva persino alla mente molto aperta del suo au- tore) che l’accusa a Joseph K. fosse appunto associazione esterna. Per tutte le pagine del romanzo, e per tutta la durata del processo, a Joseph K. non viene mai

detto qual è il reato.

Vediamo meglio nello spe- cifico i reati imputati a Pit- telli. Rivelazione di segreti d’ufficio grazie alla soffia- ta di un ufficiale dei cara- binieri amico. Ma poi si è scoperto che il segreto era pubblico da molto tempo.

Abuso d’ufficio: avrebbe ottenuto sempre da questo carabiniere l’insabbiamen- to di un provvedimento contro un suo cliente. Ma poi si è scoperto che questo provvedimento fu eseguito immediatamente. E infat- ti sia l’ufficiale dei carabi-

nieri sia il suo cliente sono stati scagionati e scarcerati dopo sei mesi di prigione inuti- le. Infine concorso esterno per aver rivelato a un amico una frase pronunciata agli inqui-

renti da un pentito. Secondo l’accusa, Pittelli avrebbe saputo di questo pentito da un agen- te dei servizi segreti. In realtà questa frase, molto prima che Pittelli la pronunciasse in una telefonata intercettata, era stata pubbli- cata da diversi quotidiani, tra i quali Il Fatto.

In questi giorni gli avvoca- ti di Pittelli sono andati a trovarlo nel carcere di Nuo- ro. Dicono di averlo trova- to in condizioni penose. Sta malissimo. Barcolla. È im- bottito di psicofarmaci. È disperato, rassegnato al- la feroce persecuzione alla quale è sottoposto in ba- se alla legge. Parla a fatica.

Dicono gli avvocati che in due ore di colloquio sono riusciti a farlo parlare dav- vero per non più di dieci minuti. L’unico strumento di comunicazione con l’e- sterno che Pittelli possie- de è il telegramma. A me ne ha mandato due recentemente. Tre parole:

«Aiutami, ti prego». Noi ci conosciamo appe- na di vista. Ci saremo visti un paio di volte quando lavoravo in Calabria. Si rivolge a me,

Pittelli, perché è stato lasciato solo da tutti...

Abbandonato. I suoi avvocati ora tentano una mossa che forse è l’unica possibile. Hanno chiesto il rito abbreviato. Rinunciano a mol- te garanzie che spettano alla difesa ma alme- no, finalmente, potranno portarlo davanti a un giudice, e lui potrà riottenere il diritto di parola.

È indegna questa situazione. Mi rivolgo ai capi dei partiti democratici. Tutti: di destra e di sinistra. Berlusconi, Renzi, Zingaretti, Speranza, Salvini, Meloni: voi pensate che la civiltà possa guadagnarne dalla decisio- ne delle forze politiche di abbandonare nel- la mani dei Pm un proprio esponente e di permettere che sia torturato, e forse spinto alla morte? Non mi rivolgo al vostro senso di umanità, semplicemente a un ragiona- mento freddo: se permettete che questo succeda, sappiate che avete lasciato la por- ta spalancata allo sterminio della politica. E del Diritto.

(4)

ti dei quattrini dallo Stato (cioè nostri) attraverso Cassa Depositi e Prestiti.

C’è poi la migliore intenzione di tutti, il no al terzo mandato elettorale con- secutivo per tutti i 5 Stelle, per garan- tire un costante ricambio della classe dirigente. Anche questo un elemento distintivo, venduto tempo fa agli elet- tori come una specie di marchio Doc del grillismo militante. Spazzato via in un attimo, era poco pratico. Alle buo- ne intenzioni grilline non è rimasto più di che lastricare. Hanno rinnegato tutto, ma proprio tutto. E non deve essergli stato troppo difficile, perché da sem- pre il loro modello è basato sul vuoto plasmabile: si studia la rete, si sonda- no gli animi e si promettono roboanti utopie acchiappa-like, non importa se irrealizzabili. Adesso gli è rimasto solo il giustizialismo, che si tengono stretto, forse non avendo scelta. Del resto per armarsi di giustizialismo non occorre essere eroi, basta provare piacere nel giudicare l’altro, cosa abbastanza co- mune. E gli è rimasta la riforma costi- tuzionale per il taglio dei parlamentari, ultimo vessillo di una forza politica che fu. Vanno tagliati, sono troppi. E in ef- fetti dal loro punto di vista è coerente.

Essendo sprovvisti di una precisa idea di mondo da tradurre in realtà, man- cando di convincimenti radicati su cui confrontarsi, a che diavolo potran- no mai loro servire tutti quei benedet- ti parlamentari? I parlamentari, infatti, nella loro funzione di rappresentan- ti eletti dai cittadini sono chiamati ad esercitare la funzione legislativa, ov- vero a trasformare in leggi gli impegni

C

om’è che dice quella frase del saggista inglese Samuel Johnson (1709-1784)? Ah, sì, che l’inferno è lastricato di buone intenzioni. E di buone inten- zioni è lastricata anche la strada degli ultimi anni di governo in Italia. Speria- mo che Johnson si sbagli, e speriamo di non essere condotti all’inferno. Se fossero bastate le buone intenzioni, il reddito di cittadinanza avrebbe cre- ato milioni di posti di lavoro e abolito la povertà, come promesso dai grilli- ni. Sarebbe stato un investimento per il futuro e per i nostri giovani, anzi- ché una spesa, ma così non è andata.

Le percentuali di chi ha effettivamen- te trovato lavoro sono così ridicole che

gli stessi 5 Stelle si guardano bene dal rivendicare la loro riforma bandiera. E nemmeno l’Inps riesce a dargli man- forte, in questo caso. Sempre secon- do le buone intenzioni, l’accordo con la Cina per la Via della Seta, che ci ha visto unico paese del G7 a precipitar- si a fi rmarlo, avrebbe dovuto portare grandi benefi ci all’export italiano, ma in realtà è avvenuto l’esatto contrario: i benefi ci li hanno visti per ora solo i ci- nesi, noi in compenso abbiamo visto il nervosismo di quei tradizionali partner commerciali come gli Usa che ogni an- no fruttano miliardi di euro alle nostre casse, e che non hanno proprio gradito.

Anche il decreto Dignità, fiore all’oc-

chiello dell’allora super ministro Di Maio, doveva segnare una svolta epo- cale per i lavoratori italiani. L’ha segna- ta: a causa del blocco dei rinnovi dei contratti a tempo determinato molti hanno perso il lavoro che avevano, al- la faccia della dignità. E infatti anche questo provvedimento simbolo del- le migliori intenzioni a 5 Stelle è fi nito nello sgabuzzino. Meglio non parlarne più. Nel mentre, tra un governo Conte e l’altro, le crisi industriali, quelle tipo Ilva, su cui le migliori intenzioni grilli- ne avevano sempre una soluzione fa- cile e imminente, sono rimaste irrisolte e coloro che sbraitavano “Mai con il Pd, mai con il partito di Bibbiano” (Di Ma- io), non solo hanno fatto il governo con il Pd, ma ora ci fanno anche un’allean- za strategica. Naturalmente con le mi- gliori intenzioni, elettorali questa volta.

Come dimenticare, poi, tutti i no stori- ci del Movimento 5 Stelle che col tem- po si sono trasformati in “forse” e poi in “sì, ma”? Pensiamo alle grandi infra- strutture: dalla Tav al Tap, dal Mose allo Stretto di Messina, improvvisamente si deve fare (e di corsa) tutto ciò che pri- ma era da combattere, sbagliato, dan- noso. Per non parlare della maniera ridicola in cui è stata gestita la vicenda Autostrade a seguito del crollo del pon- te Morandi. Per 2 anni abbiamo sentito i governi dei 5 Stelle promettere la re- voca della concessione ad Autostrade.

Per 2 anni le famiglie e gli investitori sono rimasti in balia di una promessa che non si è mai realizzata: la conces- sione, infatti, non è stata revocata e ai titolari di essa verranno anche versa-

politici assunti davanti ai cittadini. Ma a che servono se tanto gli impegni as- sunti sono carta straccia? Meglio da- re potere assoluto al governo e non stare a perdere tempo col Parlamen- to, che là tocca confrontarsi sul terre- no delle idee e dei convincimenti (che è poi quello che più o meno è accadu- to durante il lockdown), tocca ascoltare gente che rappresenta dei territori, ro- ba astrusa e vetusta ai tempi di inter- net. Meglio indebolirlo il Parlamento, svuotarlo di senso, farlo impallidire, e concentrare nell’esecutivo il processo decisionale. Ma coloro che non si ri- trovano in questa idea della politica 4.0 capiscono bene ciò che sta accadendo:

qualora vincesse il sì al referendum sul taglio dei parlamentari non solo ci tro- veremmo in un sistema in cui il gover- no (non eletto dal popolo) avrebbe più potere sul Parlamento (eletto dal po- polo), ma fi niremmo per vivere in un contesto politico in cui tutti gli incu- bi paventati dai 5 Stelle si andrebbero a realizzare. Se oggi bastano pochi de- putati o senatori per far cadere un go- verno, domani ne basterà uno solo. Il ribaltone è servito. Se oggi il peso dei senatori a vita è di per sé insuffi cien- te a votare la fi ducia o la sfi ducia ad un governo o a far passare una legge, do- mani il loro contributo potrebbe es- sere determinante. Ma al di là di tutto questo sarebbe bene mettersi d’ac- cordo su un concetto: la democrazia è un costo o un valore? Se non si han- no idee, oppure se si è pronti a ven- dersele per una manciata di like o per tenere in mano un po’ di potere, allo- ra la democrazia è un costo ed è giu- sto tagliare spese, diritti, e tutti quegli strumenti che consentono di realizza- re gli obiettivi democratici (dalla sa- nità all’istruzione alla sicurezza). Se invece la democrazia è un valore, allo- ra occorre ricordare che essa è basata sulla rappresentanza di porzioni di cit- tadinanza che hanno visioni e interessi diversi, i quali trovano una sintesi pro- prio nell’attività parlamentare. E quel- la rappresentanza deve essere difesa e brandita come il bene supremo della nazione. Non è una buona intenzione, è una necessità.

LE MIGLIORI INTENZIONI DEI 5S PORTANO DRITTE SUL LASTRICO

I navigator? Zero posti di lavoro. Il decreto dignità? Licenziati in tanti.

Autostrade? Niente revoca. Ilva? Un disastro. L’Italia fatta a pezzi dai grilini

Deborah Bergamini

L’automotive sta attraversando un momento difficile tra calo delle vendite e l’evoluzione green e tec- nologica del settore, sullo sfondo la fusione Fca, Psa

La frenata nei consumi accelera la transizione verso una mobilità sem- pre più sostenibile. Ma servono po- litiche di sostegno per gestire la transizione. I 410 milioni di incentivi del Decreto Agosto sono solo una pri- ma risposta. In questo quadro la na- scita di Stellantis, con la fusione tra FCA e PSA, è una buona notizia, ma va evitata una “francesizzazione” dei

modelli.

Per questo vogliamo essere coinvol- ti in anticipo e non a scatola chiusa, anche per gestire una novità storica:

l’ingresso di due rappresentanti dei lavoratori nel Cda del Gruppo. Final- mente si concretizza anche in Ita- lia la partecipazione dei lavoratori nell’impresa.

far restare o sostituire Arcelor-Mit- tal. Nel frattempo si annunciano piani di riconversione all’idrogeno, mentre continua a calare la produzione di ac- ciaio. Il tutto senza nessun confronto sindacale e con i lavoratori intrappo- lati nella cassa integrazione. Ciò è inaccettabile.

Sono decine i contratti da rinnova- re; con quello dei metalmeccanici a che punto siete?

È positivo registrare, dopo 10 mesi di melina, la disponibilità di Federmec- canica a un confronto serrato già dal prossimo 16 settembre. I temi in gioco sono tanti: dare nuove tutele al lavo- ro che cambia, regolare il lavoro agile, la formazione continua, le modalità di ingresso dei giovani al lavoro, il rico- noscimento professionale e salariale del lavoro; l’estensione a tutte le im- prese della contrattazione di secon- do livello.

di ricollocazione. Un capitolo questo che riguarda in particolare i giova- ni, ai quali, come ha ricordato Mario Draghi, vanno destinati investimenti consistenti per la cura della loro for- mazione professionale. L’attenzione ai giovani è un investimento sul pre- sente e futuro del nostro paese.

Dall’acciaio, all’automotive, all’e- lettrodomestico, tante vertenze aperte…

Sono 155 le vertenze aperte, tra le quali Ex-Alcoa, AST, Piombino, Blu- tec, Whirlpool di Napoli, ecc.. Ma so- no centinaia le vertenze con aziende sotto i 200 dipendenti che non ap- prodano al Ministero. A tutte va da- ta una risposta, con Mise e Invitalia che devono assumere un ruolo ope- rativo più diretto nei piani di rilancio industriale. C’è poi il caso della Ex-Il- va: lo Stato sta trattando l’ingresso nel capitale ma non è dato sapere se per

S

egretario della Fim Cisl, Ro- berto Benaglia, l’autunno sarà complicato tra l’in- certezza legata al virus e l’economia e il lavoro in forte soffe- renza; ciò nel mezzo di cambiamen- ti epocali…

Clima, tecnologia e demografia so- no temi decisivi, e il futuro dipenderà dalle scelte che faremo oggi in questi campi. Nell’immediato sarebbe fata- le per la nostra economia ritrovarsi in un nuovo lockdown. È necessario, in un’ottica di sostenibilità, un rilancio degli investimenti, puntando sulla ri- presa di fi ducia delle imprese, ma che favorisca un cambiamento struttura- le, tecnologico, organizzativo, dei pro- cessi e dei prodotti, con l’obiettivo di creare lavoro.

Nel Dl di agosto ci sono tante le no- vità per il lavoro, a partire dal bloc- co dei licenziamenti, ma prevale l’idea di bonus e incentivi. Di cosa c’è bisogno?

Il blocco dei licenziamenti dovrà ser- vire anche per dotarci di strumenti di tutela e rilancio del lavoro, che non si conserva per legge. C’è bisogno di un

“patto di solidarietà” tra impresa e sin- dacato che redistribuisca il lavoro a parità di occupati, laddove possibile.

A chi perde il lavoro, va dato un soste- gno al reddito insieme ad opportunità

Roberto Benaglia, segretario della Fim Cisl: “Bene il blocco dei licenziamenti, ma il lavoro va redistribuito a parità di occupati. Inaccettabile l’inerzia su Ilva. Più tutele per lo smart working”

Antonino Ulizzi

«BONUS E INCENTIVI NON BASTANO:

ORA NUOVO PATTO IMPRESE-SINDACATI»

I DANNI POPULISTI NEL PAESE COLPITO DAL COVID

Nella foto L’ex ministro M5s Toninelli con il

plastico del Morandi da Vespa

Con il covid, lo smartworking, meglio dire il lavoro da casa, ha visto un’esplosione, ma le donne sono state penalizzate come far sì che questo strumento non al- larghi ulteriormente le differen- ze sul mercato del lavoro?

Durante il lockdown molti hanno lavorato da remoto, ma in tanti ca- si si è trattato di un “cottimo” a do- micilio. Per trovare un equilibrio dobbiamo progettare una organiz- zazione del lavoro adeguata alla conciliazione vita-lavoro e alla pro- duttività dell’impresa, soprattutto nelle Pmi.

Servono perciò regole chiare con- trattate tra le parti, altrimenti lo smartworking finisce per penaliz- zare i soggetti meno tutelati sin- dacalmente e soprattutto le donne che rischiano di cumulare ancor più di quanto accade già lavoro produttivo con quello riproduttivo.

(5)

45 MIGRANTI MORTI.

SONO POCHI?

C’

è stato un naufragio al largo della Libia. Nel gommone che è andato a fondo c’erano 82 persone. 45 sono affogate perché nessuno le ha soccorse. I superstiti sono 37. Sono stati arrestati. No, no: non è un errore di stampa.

I superstiti - ripeto - sono stati arrestati. Difficile capire dove siano finiti gli elementi essenziali della nostra civiltà, di fronte a queste notizie.

Il naufragio è avvenuto diver- si giorni fa. Lunedì. L’allarme era stato lanciato da una Ong, ma non gli aveva creduto qua- si nessuno. La Ong aveva chie- sto alla Libia, all’Italia e a Malta di intervenire. Sono intervenuti solo i libici e a tragedia già con- clusa. Si sono limitati ad au- mentare i danni con gli arresti.

Ora non sappiamo noi a qua- li sofferenze saranno sottopo- sti gli arrestati, non sappiamo quanti di loro sopravviveranno.

Sappiamo che non sono sbarca- ti da noi, e questo ci basta. L’I- talia è salva, i confini non son stati violati. L’armata austriaca è in rotta. Si chiama prevenzio- ne, si dice “aiutiamoli a casa lo- ro”, no? Come? Beh affogandoli ben lontano dalle nostre coste.

I giornali non hanno dato mol- to peso a questa notizia. Si è pensato che 45 non sia un nu- mero altissimo. Ci sono stati in passato naufragi peggio- ri. Le ultime tabelle in funzio- ne nei giornali dicono che gli affogati devono essere alme- no 100 per fare notizia. I bam- bini valgono un po’ di più, ma pare che stavolta i bambi- ni affogati siano stati solo 5.

L’Onu ha rivolto un appello se- vero all’Italia e a Malta e alla Libia. In particolare si è lamen- tata per la scomparsa, qua- si, delle navi di soccorso delle Ong. A quali navi di soccorso si riferisce? A quelle messe fuo- ri gioco prima dalla magistra- tura di Catania, sostenuta dai 5 Stelle e dal “Fatto Quotidiano”, e poi definitivamente dal go- verno italiano. Quello di Salvi- ni? No, no, quello precedente.

Alle volte viene un po’ da riflet- tere su queste cifre e sul livello culturale molto rasoterra delle discussione sugli immigrati. Per esempio Salvini. È stato manda- to a processo perché ha tenuto ferme in porto alcune centina- ia di persone per diversi giorni.

Giusto o sbagliato? Io credo che Salvini abbia fatto malissimo a far soffrire inutilmente tut- ta quella gente. Ma credo anche che il processo sia una follia.

In ogni caso ora di fronte all’O- nu che protesta per la scompar- sa delle Ong, e dice che questo fenomeno ha causato centina- ia di morti, che si dovrebbe di- re? Beh, se volete processare Salvini per sequestro di perso- na, a quelli che hanno blocca- to le Ong che dobbiamo fare?

Imputare, poco poco, per stra- ge, non vi pare? Chi sono quel- li che hanno bloccato le Ong?

Prima di tutto i magistrati.

UOMINI E NO

Piero Sansonetti

«S’

di tromba». Il popolino ode ea destra unosquillo (per numero e qualità) degli iscritti pentastella- ti, chiamati al voto sul- la Piattaforma Rousseau, oltre a ratificare lo stra- tagemma del “mandato zero”, hanno approvato la proposta di una nuova linea per quanto riguarda la politica delle alleanze.

«A sinistra risponde uno squillo». Nicola Zingaret- ti ha misurato le parole, ma non è riuscito a na- scondere un’intima sod- disfazione: «Credo sia un fatto positivo - ha affer- mato il segretario del Pd -. Noi siamo un’alleanza fra forze diverse che ri- mangono diverse, ma per

governare si deve essere alleati, non si può es- sere avversari. Quindi, che si riesca a fare insie- me percorsi comuni, penso sia un fatto molto positivo».

“Le magnifi che sorti e progressive” che si apro- no per la maggioranza, hanno suscitato malu- mori negli alleati (di Italia viva) e qualche mal di pancia all’interno dei due partiti, pronti al giro di boa. Soprattutto, ha fatto discutere la disinvoltu- ra con cui il M5s ha capovolto le sue posizioni nel giro di un anno, non solo per quanto riguar- da l’atteggiamento verso gli altri partiti, ma per la radicale riconversione delle istanze ideali con cui aveva conquistato la maggioranza relativa nelle elezioni del 2018. Non ci pare che debba- no avere questa preoccupazione gli avversari dei

“grillini”. È bene, invece, tener conto di una vec- chia regola militare: “a nemico che fugge ponti d’oro”. Se i “grillini” rinsaviscono non abbiamo alcun interesse ad accusarli di incoerenza. Ci limitiamo soltanto a condividere una conside- razione più volte espressa da Claudio Cerasa: i pentastellati migliorano solo quando sconfes- sano se stessi e rinunciano ai principi e alle teo- rie che li hanno portati a divenire – per un breve lasso di tempo – la prima forza politica del Paese.

Quanto al Pd, lo storico incontro era scritto nel- le cose. Per tante ragioni.

Innanzi tutto, in conse- guenza del nuovo qua- dro politico ridisegnato dagli elettori. Nel “siste- ma” sono entrate due forze “eversive”. Ci sia- mo accorti, a spese di noi tutti, quali siano le conseguenze se Lega e M5s governano insieme.

È opportuno allora fare il possibile per “romaniz- zare i barbari” affi dando i due soggetti eccentri- ci ed abusivi alla custo- dia dei partiti “perbene”, sperando che non falli- scano nell’azione riedu-

cativa e si facciano trascinare nelle barbarie.

Sappiamo che Zingaretti non è un fi ne analista della politica, ma questa volta – nelle dichiara- zioni a commento del voto sulla Piattaforma Rousseau – ha centrato il problema: «Si sta tor-

nando a un sistema bipolare su due grandi cam- pi che si contendono la leadership», quello del centrosinistra e quello del centrodestra.

Del resto, non dimentichiamo che, nel 2013, Pierluigi Bersani – il rappresentante di un certo

“continuismo” post-comunista - aveva tentato di tutto per stabilire un rapporto positivo con gli ar- rembanti “grillini” che avevano rifi utato quelle offerte in modo pregiudiziale e non per dissensi programmatici (verso le istanze ‘’pentastellate’’, a partire dal reddito di cittadinanza, il Pd aveva fatto parecchie aperture).

Poi dove sta scritto che Pd e M5S siano forze ra- dicalmente diverse? La liaison dangereuse che intercorre tra un’area consistente della sinistra politica e sindacale e il M5s è la stessa che uni- sce il dr. Jeckill e Mister Hyde. Fuor di metafo- ra, il M5S ha potuto permettersi di apostrofare - con le stesse parole del rag. Ugo Fantozzi – la

“Corazzata Potemkin” del rigore di bilancio, del- le riforme del mercato del lavoro e dei sistemi dl welfare, mentre alla sinistra di governo (non a quella sindacale la cui trasformazione in Mi- ster Hyde è ormai divenuta irreversibile) è pre- cluso di esprimersi liberamente – pur covando tracce simili nel dna - nella buona società do- ve è riuscita ad appro- dare dopo decenni di emarginazione.

Alcuni anni or sono – co- me viatico per l’opera- zione/rinnovamento intrapresa da Matteo Renzi – Claudio Cerasa in un saggio, Le catene della sinistra. scriveva:

«È la storia di una sini- stra che in mancanza di una solida muscolatu- ra si affida sempre, per non cadere, ad una se- rie di stampelle. Ai ma- gistrati, per dimostrare la propria vicinanza alla parola ‘’purezza’’. Ai sin- dacalisti per dimostrare la propria vicinanza al- la parola ‘’lavoro’’. Agli industriali per dimostra- re la propria vicinanza alla parola ‘’impresa’’. Ai registi, per dimostrare la propria vicinanza al- la parola ‘’cultura’’. Agli ambientalisti per dimo- strare la propria vicinanza alla parola ‘’verde’’».

In sostanza, il M5s è cresciuto al suono della stessa musica del Pci-Pds-Ds-Pd. Non fa molta differenza che per questi ultimi si esibisse una grande orchestra sinfonica, mentre per i pri- mi solo un organetto. Fu Enrico Berlinguer ad inventare la “questione morale” quale discri- minante del confronto politico. Quanto al giu- stizialismo, è stata la strada maestra per arrivare al potere e per liquidare gli avversari (da Bettino Craxi a Silvio Berlusconi). Suggeriamo, in propo- sito, la lettura di un altro saggio da poco nelle li- brerie: ‘Novantatrè di Mattia Feltri. Una cronaca che segue giorno dopo giorno i fatti di quell’an- no in cui fu sconvolta la storia politica del Pae- se e mette in evidenza la tracotanza, la disonestà e la falsità della linea di condotta di tanti perso- naggi (citiamo, ad esempio, Achille Occhetto e Rosy Bindi) protagonisti di quell’epoca. Ma al- cuni anni dopo, è stata Rosy Bindi – non Nicola Morra - da presidente dell’Antimafi a ad inven- tarsi la lista degli “impresentabili”. Leggendo con gli occhi di oggi le vicende del 1993 ci rendiamo conto di non aver “visto” allora, ma di essere sta- ti turlupinati da una narrazione distorta. Magari anche di averla accettata per viltà, come ades- so si tollerano le violenze ideologiche dei no- stri tempi: il ’’me-too’’, il gender, il culture cancel, l’avversione ai migranti “negher” e via di questo passo.

E da dove hanno origine lo “statalismo” in eco- nomia e l’avversione per la globalizzazione (che secondo tanti esponenti del Pd è stata “selvag- gia”, nonostante che abbia ridotto la povertà nei paesi emergenti)?

Lo stesso rammarico vale per l’antipolitica e la polemica con l’Europa. In merito, Matteo Ren- zi – che pure è stato un innovatore in materia di lavoro grazie al jobs act, imposto prima di tutto a vasti settori del suo partito di allora – avreb- be qualcosa da farsi perdonare. È stato lui a trac- ciare (con la “rottamazione” e gli attacchi alla

“burocrazia” di Bruxelles) il solco in cui hanno seminato i sovranisti.

Questo breve excursus dimostra che il M5s, in fondo, ha colto l’occasione per raccogliere dal fango tante bandiere della sinistra politica e sin- dacale. Nulla di strano se – magari ripulite - tor- na a sventolarle insieme al Pd.

AFFINITÀ ELETTIVE

Non è solo un’alleanza tattica. È un’alleanza tra forze simili. Chi ha inventato la questione morale? Berlinguer. Chi ha stilato le liste degli impresentabili? Rosi Bindi

Giuliano Cazzola

In basso

Il segretario del Pd, Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio

Certe cose i grillini non se le sono inventate.

Da dove hanno origine lo

“statalismo” e l’avversione per la globalizzazione che

secondo tanti esponenti dem è stata “selvaggia’’, nonostante che abbia

ridotto la povertà nei paesi emergenti?

Il Pd romanizza i barbari?

No, è quasi uguale al M5s

(6)

L

a paternità della definizione è dub- bia: alcuni la attribuiscono a Giancar- lo Pajetta, altri a Piero Calamandrei. Di certo fu un colpo di genio sul piano del- la propaganda politica: “legge truffa” diceva tutto, era lo slogan da campagna elettorale per- fetto. Un vessillo.

Si parlava di una nuova legge elettorale, che avreb- be dovuto sostituire quella strettamente pro- porzionale con la quale si era votato nelle prime elezioni politiche libere della Repubblica, nel 1948.

Quattro anni dopo, in vista della nuova prova elet- torale dell’anno seguente, la Dc di De Gasperi, no- nostante avesse trionfato nel 1948 incamerando da sola il 48,51% dei consensi, di quella legge messa alla prova una sola volta era già stanca. La voleva sostituire con una nuova legge che attribuiva au- tomaticamente il 65% dei seggi alla Camera, pari a 380 deputati per la lista (o l’alleanza dichiarata di li- ste) che avesse ottenuto più del 50% dei voti. Ove nessun partito o nessuna alleanza di liste superas- se quel quorum, i seggi sarebbero invece ripartiti sulla base del sistema proporzionale in vigore.

Non era la legge Acerbo che nel 1924 aveva sancito il trionfo del fascismo e aveva tenuto a battesimo la dittatura, anche se comunisti e socialisti la bol- larono subito proprio considerandola una ripropo- sizione di quella legge. Non era così. In quel caso uno spropositato premio di maggioranza veniva attribuito al partito più votato, purché avesse supe- rato la soglia del 25%. In questo caso la lista doveva comunque ottenere la maggioranza assoluta per poi vedere però la propria posizione fortemente rinsaldata. Si trattava di un correttivo maggioritario, pur se robusto, e non a caso, nei decenni dell’im- peto maggioritario seguiti al referendum del 1993, molti commentatori cercarono di rivalutare quella legge. Ma per capire lo sdegno che suscitò allora, non solo nell’opposizione ma anche in aree della maggioranza che si rivelarono alla fine determi- nanti, bisogna tornare alla mentalità dell’epoca.

Con il ricordo della dittatura

ancora fresco e la lezione di Hans Kelsen egemo- ne nel pensiero politico democratico, violare la re- gola della massima rappresentanza garantita da un proporzionale quasi perfetto, essendo la soglia di sbarramento fi ssata appena all1,5%, suonava co- me un insulto alla democrazia, anzi come un tra- dimento dei suoi princìpi.

Nessuno volle la riforma più del presidente del consiglio e leader della Dc Alcide De Gasperi, la cui fede democratica era tuttavia indiscutibile. A spingere lo statista democristiano su quella strada scivolosa erano stati prima di tutto i risultati delle elezioni amministrative del 1950 e 1951. Registra- vano un calo di consensi del partito cattolico mas- siccio e nel sud clamoroso. L’eventualità di doversi alleare con la destra monarchica e neofascista per dar vita a una maggioranza era concreta. Nel 1952, a Roma, De Gasperi aveva resistito a pressioni inaudite del Vaticano perché si alleasse nelle ele- zioni comunali con quella destra. A Napoli una coalizione di destra guidata dall’armatore Achille Lauro aveva conquistato il Comune. Le mediazio- ni con gli altri partiti di governo, il Pli, il Pri, e il Psli, si erano rivelate defatiganti. Pur essendo la vittoria della Dc praticamente certa, De Gasperi scelse di provare a risolvere il problema di una possibile in- stabilità con una mossa drastica.

Anche il Pci, e a ruota il Psi, si trovarono di fronte a un bivio. La legge avrebbe ridotto all’osso la lo- ro rappresentanza parlamentare, ne avrebbe ridi- mensionato peso e forza di pressione. Del resto anche questo era uno dei principali obiettivi di De Gasperi, pressato in questo senso dal Vaticano, ma anche dagli Usa e da settori della Dc che chiede- vano la messa fuori legge del Pci. Opporsi alla leg- ge principalmente nelle piazze avrebbe signifi cato offrire l’occasione per quella messa fuori legge che, nel momento più surriscaldato della guerra fredda, con la Corea in fi amme, era tutt’altro che impossi- bile. Il Pci scelse dunque la strada di un’opposizio- ne durissima alla proposta di legge materialmente presentata nell’ottobre del 1952 dal ministro degli Interni Scelba, ma giocata essenzialmente proprio in Parlamento.

La legge arrivò a Montecitorio nei primi giorni del dicembre 1952 ma il Parlamento di allora non era l’attuale collegio di educande. Volarono subito botte da orbi. I fratelli Giancarlo e Giuliano Pajetta usarono le tavo- lette

dei seggi abitualmente adoperati per poggiare i gomiti come manganelli. Si contarono feriti e con- tusi. La sinistra ricorse all’ostruzionismo, allora il- limitato e non regolamentato, presentando mille emendamenti e intervenendo su tutti con lunghis- simi discorsi. Il 14 gennaio 1953 il governo decise di aggirare l’ostacolo di un ostruzionismo strenuo ponendo la fiducia sulla legge elettorale: un’al- tra forzatura estrema che si sarebbe ripetuta solo dopo oltre 6 decenni. Ci furono manifestazioni di fronte alla Camera, la polizia manganellò pesante- mente. Pietro Ingrao, allora direttore dell’Unità fu preso a botte in testa nonostante si fosse qualifi ca- to come parlamentare e rientrò in aula, nella notte, spettacolarmente sanguinante. Però Togliatti insi- stette per uno scontro durissimo in Parlamento ma contenuto, respingendo anche la proposta del du- ro Pietro Secchia di abbandonare il Parlamento, in una sorta di nuovo Aventino.

Approvata alla Camera, la legge passò al Senato, dove lo scontro fu anche più violento. Il presidente Paratore, contrario alla fi ducia, si dimise. Nessuno volle sostituirlo. Alla fi ne la palla avvelenata toccò a Meuccio Ruini, 76 anni, ministro delle Colonie per meno di un mese nel 1920, antifascista, depu- tato alla Costituente, iscritto al gruppo Misto. Il 29 marzo, domenica delle Palme, Ruini, su mandato del governo, mise ai voti con una sorta di colpo di mano la fi ducia sulla legge elettorale. Per ore l’aula di palazzo Madama diventò teatro di una rissa da strada.

Il futuro presidente Pertini aprì le ostilità rivolgen- dosi a Ruini: “Lei è un porco”. Successe di tutto.

L’anziano Emilio Lussu volò con agilità giovanile di banco in banco per prendere a schiaffoni Ugo La Malfa. Come lui ex azionista. I parlamentari comu- nisti diedero l’arrembaggio alla presidenza scon- trandosi fi sicamente con i commessi. Il governo abbandonò l’aula lasciando a presidiarla solo il gio- vane sottosegretario Andreotti: indossò un cestino della carta straccia come elmo e tenne la posizione.

Nella scazzottata generale i commessi cercarono di portare in salvo Ruini: il lancio di oggetti contun- denti raggiunse il presidente proprio mentre fuggi- va dall’aula squarciandogli la fronte. Scapparono in massa anche i funzionari e nel verbale della seduta fi guravano di conseguenza macroscopiche irrego- larità, come il voto a favore della legge del comu- nista Scoccimarro, che al contrario era stato uno dei più duri in aula e aveva addirittura guidato l’as- salto alla presidenza. Contestare il verbale fu però impossibile: il presidente Einaudi sciolse subito le camere, indisse le nuove elezioni e non ci furono altre sedute in quel- la legislatura.

La campagna elettorale fu tesissima. La nuo- va ambasciatrice Usa Clare Boothe Luce, la più determinata nel chiedere la messa fuori legge del Pci, entrò in campo a gamba tesa mi- nacciando la sospensione degli aiuti america-

ni se la Dc non avesse vinto. La strategia di Togliatti, basata su una battaglia essenzialmente parlamen- tare, si rivelò vincente. Spezzoni della maggioranza contrari alla legge diedero vita a piccole formazioni, tra cui la “Unità popolare” di due padri della patria come Ferruccio Parri e Piero Calamandrei. Quelle formazioni minori decisero il risultato del voto del 7 giugno. Il listone di governo, del quale la Dc era spi- na dorsale, mancò l’obiettivo per meno di 54mila voti. Si fermò al 49,85%, a un soffi o dal quorum del 50%.

Le schede annullate, rispetto a cinque anni prima, raddoppiarono: furono oltre 900mila. Con una di- stanza dal quorum così ridotta De Gasperi, per cui la sconfi tta elettorale equivaleva a una defi nitiva uscita di scena dalla politica, avrebbe potuto chie- dere il riconteggio. Non lo fece perché sapeva che a quel punto Togliatti non avrebbe potuto più evitare il ricorso alla piazza, con esiti imprevedibili ad altis- simo tasso di rischio.

In fondo la vicenda della legge truffa, sia per la na- tura dello scontro, sia per il teatro parlamentare sul quale fu combattuto, sia per la essenziale lungimi- ranza dimostrata sia dal Pci evitando lo scontro di piazza, sia da De Gasperi non chiedendo il ricon- teggio segna la vera nascita della Repubblica par- lamentare italiana, la fi ne reale del dopoguerra, il consolidamento della prima Repubblica, destina- ta a sopravvivere per quaranta anni esatti. Fino al referendum che non 1993 introdusse in Italia un si- stema maggioritario.

LE GRANDI BATTAGLIE A DIFESA DEL PARLAMENTO

PERTINI GRIDÒ A RUINI:

SEI UN PORCO! E FU RISSA

David Romoli

In alto La copertina della “Domenica del Corriere” con le

immagini disegnate della rissa alla Camera In basso a sinistra

La prima pagina dell’Unità dopo le elezioni del 1953 che segnarono la sconfi tta della “Legge Truff a”

Sotto Il direttore dell’Unità, Pietro Ingrao, entra alla Camera sanguinante dopo essere stato

manganellato dalla polizia

È stata la madre di tutte le battaglie parlamentari.

Togliatti voleva vincere ma non voleva muovere la piazza. Anche

De Gasperi. Il vecchio Lussu (quello che aveva resistito a Caporetto) volò tra i banchi

per picchiare Ugo La Malfa.

Andreotti usò un cestino come elmetto. I fratelli Pajetta staccarono le tavolette dei banchi

e giù botte. La legge non scattò

Ostruzionismo

La chiamavano “Legge truffa”, eravamo nel 1953. Era la legge elettorale voluta da De

Gasperi che premiava la maggioranza. In Parlamento fu l’inferno. Urla, scontri fi sici. Ma è in

quei giorni che nacque davvero la Repubblica e si affermò il nostro sistema parlamentare

(7)

I

l “controllo“ della Procura di Reggio Emilia è l’ultimo, in ordine di tempo, terreno di scontro fra le forze politiche. Nel mirino, il procuratore Marco Mescolini, uno dei tanti magistrati che chattavano con lo zar delle nomine al Csm Luca Palamara. Dopo l’attacco dei Cinquestelle, la so- lidarietà del Pd, la richiesta di dimissioni da parte di Fratelli d’Italia, ecco arrivare ieri la maxi inter- rogazione fi rmata da tredici senatori di Forza Ita- lia. Il promotore è stato Maurizio Gasparri.

«In questi questi giorni - si legge nell’interroga- zione indirizzata al Guardasigilli - su molti quo- tidiani nazionali e locali, sono state pubblicate le chat tra Palamara e Mescolini relative al periodo (giugno/luglio 2018) in cui Palamara, membro del Csm, riesce a far promuovere Mescolini a ca- po della Procura di Reggio Emilia».

Il vertice della Procura di Reggio Emilia era va- cante da giugno del 2017, allorquando era anda- to in pensione per raggiunti limiti d’età Giorgio Grandinetti. «Per oltre un anno fu rimandata la

nomina del capo della Procura di Reggio Emi- lia anche a causa delle trattative per la designa- zione», proseguono i senatori forzisti, secondo i quali «il fatto appare ancor più grave in conside- razione che proprio Reggio Emilia era l’epicentro degli interessi malavitosi del clan ‘ndranghetista contro il quale proprio il pm Marco Mescolini di- resse le indagini sfociate nel processo “Aemilia“.

Il lungo rinvio infatti coincise con la mancata no- mina di altro magistrato candidato proveniente dalla Procura di Napoli con maggiori titoli». Il ri- ferimento è ad Alfonso D’Avino, vicino a Cosimo Ferri.

I senatori azzurri citano, poi, un libro del 2019 scritto da Giovanni Paolo Bernini dal titolo “Sto- rie di ordinaria ingiustizia” in cui «l’ex assesso- re di Parma poi indagato, processato e assolto dalle accuse (concorso esterno in associazio- ne mafi osa e voto di scambio politico mafi oso) formulate, con grande risalto mediatico, dal pm Mescolini, denunciava gravissime anomalie nel- la conduzione delle indagini e poi della pubblica accusa nel maxi processo “Aemilia”.

Nel libro sono pubblicate molte intercettazio-

ni telefoniche ed ambientali che coinvolgeva- no esponenti nazionali e locali del Pd, raccolte dall’Arma dei Carabinieri ma che non furono prese in considerazione dalle indagini della ma- gistratura». In particolare, si legge, «molti ammi- nistratori locali e nazionali come l’ex sindaco di Reggio Emilia hanno avuto rapporti continuativi nel tempo con il clan di Cutro e le imprese del clan mafi oso hanno lavorato per anni e anni sul territorio da loro governato». E poi «un altro sin- daco di Reggio Emilia ha acquistato un immo- bile da persona che è risultata poi coinvolta nel maxi processo Aemilia».

I senatori ricordano che «Mescolini fu consu- lente del governo Prodi del 2006 in particolare fu capo uffi cio del vice mini-

stro dell’Economia sen. Ro- berto Pinza del Pd». «Perché a fronte delle intercettazio- ni telefoniche ed ambientali agli atti delle indagini in cui si parla di appalti pubblici, di voti, di richieste di favori, non siano stati emessi avvi-

si di garanzia o richieste di arresto nei confronti degli esponenti del Pd ma solo di esponenti del centrodestra peraltro con sentenze di assoluzio- ne dei reati contestati», domandano quindi gli azzurri al ministro della Giustizia, chiedendo pu- re «se alla luce delle intercettazioni con Palama- ra e dei fatti esposti non si ritenga di avviare una azione disciplinare nei confronti di Mescolini il cui operato sta suscitando una ampia e pubblica critica, recando danno evidente alla reputazio- ne della magistratura». Nella serata di ieri, infi ne, sono intervenuti Cgil, Cisl e Uil (Emilia Roma- gna e Reggio Emilia) con una nota congiunta di solidarietà a Mescolini: «È sconcertante registra- re nel dibattito politico di questi giorni il tenta- tivo di delegittimazione nei confronti del procuratore e di tutta la Procura di Reggio Emilia. In particolare, tale campagna di delegittima- zione pare volersi estendere al modo nel quale sono stati condotti l’indagine Aemilia e i successivi processi».

FI CONTRO MESCOLINI: “PERCHÉ IL CSM NON LO PROCESSA?

Tredici senatori azzurri presentano un’interrogazione a Bonafede, sul caso dello scambio di messaggi whatsapp fra il procuratore capo di Reggio Emilia, e l’ex consigliere del Csm Luca Palamara. “Era vicino al Pd, da pm risparmiò i dem”

Pa. Co.

P

reg.mo Direttore

Le scrivo in merito all’arti- colo apparso sul suo gior- nale nella giornata del 15/8 con il titolo “Emilia: Pm servi di Pa- lamara” in cui compare il mio nome.

Lo faccio perché, riservata ogni altra iniziativa, intendo contestare alcu- ne, a mio avviso, gravi affermazioni che compaiono in detto articolo. La mia domanda per l’incarico diretti- vo di Presidente di Tribunale di Pia- cenza non ha nulla ma proprio nulla a che vedere con la vicenda del con- ferimento dell’incarico di Procurato- re della Repubblica di Reggio Emilia e di Procuratore della Repubblica di Parma. E ci tengo massimamente a tale distinzione.

Non posso accettare di essere, di fat- to, inserito fra i “tanti promossi gra- zie all’ex leader di Unicost”, per la semplice ragione che sono stato no- minato Presidente del Tribunale di Piacenza dal Csm con delibera una- nime dopo che, sempre all’unanimi- tà, la competente Commissione mi aveva proposto per detto incarico.

Nessun ricorso è mai stato proposto avverso detta delibera.

Nell’articolo si parla del dott. Cero- ni che - se non ho inteso male- nel- la sua veste di “uno dei pretoriani di Palamara nella città delle due torri...”

avrebbe “indica(to) un elenco di col- leghi di Unicost che devono essere sistemati”, e in detto elenco compa- re anche il mio nome, il tutto dopo la affermazione che

“la lista della spe- sa è lunga”. Con- testo anche dette gravi affermazioni in quanto:

-l’unica “lista del- la spesa” che co- nosco è quella che uso per fare acquisti in salu- meria o dal frut- tivendolo. Nulla

sapevo delle iniziative del collega Ceroni al quale non ho mai chiesto di raccomandare la mia domanda.

-non avevo alcun bisogno di essere

“sistemato” in quanto – al momento della mia domanda- ricoprivo il pre-

stigioso incarico di Presidente della Sezione Lavoro della Corte di Appel- lo di Bologna che – grazie anche ai colleghi componenti della stessa- ho portato (mi permetta l’immodestia) a risultati qualitativi/quantitativi di assoluta eccellenza ed oggetto di unanime apprezzamento. Ed anche per questo ero stato onorato dal Pre- sidente della Corte di Appello con la nomina, altrettanto prestigiosa, di Vi- cario dello stesso.

Contesto anche la altrettanto grave affermazione secondo la quale “Pala- mara prende i suoi colleghi per mano e li conduce alla vittoria”. Ovviamen- te non sono mai stato condotto per mano dal dott. Palamara né mai l’ho chiesto. Nello sterminato elenco del- le chat scaricate dal telefono cellu- lare del dott. Palamara (e diffuse più o meno lecitamente) non ne troverà nessuna da me spedita o ricevuta. E lo stesso dicasi per le telefonate. Men che meno troverà traccia di contatti personali.

A sostegno della mia domanda ho confi dato esclusi- vamente sul mio curriculum pro- fessionale, sui ti- toli previsti, sui risultati raggiun- ti nei vari Uffici Giudiziari in cui ho lavorato. È, se vuole, a Sua com- pleta disposizione.

Ho atteso serenamente la decisio- ne del Csm con la altrettanto sere- na convinzione (chi mi conosce può confermare pienamente) che in caso

negativo non l’avrei mai impugnata anche perché i prestigiosi incarichi di Presidente della Sezione Lavoro della Corte di Appello di Bologna e di Vicario del Presidente di detta Corte continuavano a darmi grandi gratifi - cazioni professionali ed umane.

Lo stesso comportamento l’ho tenu- to anche con riferimento alla conco- mitante domanda di conferimento dell’incarico di Presidente del Tribu- nale di Modena, che è stato assegna- to – con delibera dello stesso Csm e su proposta della medesima Com- missione – ad un degnissimo collega e non ho mai neppure pensato che il suo noto impegno in MD/Area possa avere anche solo parzialmente infl u-

ito su detta nomina. Chiedo, quindi e cortesemente, la pubblicazione di questa mia lettera per una più com- pleta ricostruzione dei fatti e a tute- la della mia reputazione personale e professionale e di trentasei anni di più che specchiata attività come Magistrato.

Risponde Paolo Comi

P

rendiamo atto delle sue pre- cisazioni. La invitiamo, co- munque, a rivolgersi al dott.

Roberto Ceroni e al dott.

Gianluigi Morlini, esponenti di pri- mo piano di Unicost, il gruppo al quale lei aderisce, affi nché spieghi-

no - pubblicamente - le ragioni del pressante interessamento “motu proprio” a conforto di una domanda che non aveva bisogno di alcuna se- gnalazione in quanto i titoli allegati, tutti prestigiosi, sarebbero bastati di per sé soli ad ottenere il meritatissi- mo incarico di presidente del Tribu- nale di Piacenza.

Il dott. Roberto Ceroni, referente di Unicost nel distretto di Bologna, se- gnalò il suo nome al dott. Luca Pa- lamara, all’epoca presidente della Commissione per gli incarichi di- rettivi del Csm e capo delegazione di Unicost a Palazzo dei Marescial- li, per ben sei volte in circa due mesi.

“Su Brusati non possiamo perdere.

Il gruppo ne pagherebbe le conse- guenze”, scrisse, alla vigilia del voto del Csm sulla sua domanda, Ceroni a Palamara.

Secondo il codice etico dell’Anm, che lei conoscerà molto bene aven- do per anni svolto un ruolo di primo piano nell’associazionismo giudi- ziario, quando il dott. Marcello Ma- tera è stato il segretario generale di Unicost, “Il magistrato che aspiri a promozioni, a trasferimenti, ad as- segnazioni di sede e ad incarichi di ogni natura non si adopera al fi ne di infl uire impropriamente sulla relati- va decisione, né accetta che altri lo facciano in suo favore”.

P.s. Perché subito dopo essere stato nominato presidente del Tribunale di Piacenza ringraziò calorosamen- te Luca Palamara? Ricorda? Era il 31 marzo.

«IO PROMOSSO SENZA AIUTI»

PERÒ RINGRAZIÒ PALAMARA

Stefano Brusiati, presidente del Tribunale di Piacenza, ci scrive per contestare le chat che gli avrebbero fruttato la nomina, grazie al pressing di Ceroni sull’ex leader Unicost. “Non chiesi nulla”

LE NOMINE E I VELENI, GIUSTIZIA SOTTOSOPRA

Stefano Brusati

In foto

Il presidente del Tribunale di Piacenza, Stefano Brusati

«Non troverete telefonate o messaggi all’ex leader dell’Anm:

sono stato nominato soltanto grazie al mio

curriculum»

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