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Teorie della letteratura globale. Littérature-monde e New Italian Epic

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Academic year: 2022

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35-36 | 2014

La letteratura italiana al tempo della globalizzazione

Teorie della letteratura globale. Littérature-monde e New Italian Epic

Claudio Milanesi

Edizione digitale

URL: https://journals.openedition.org/narrativa/1120 DOI: 10.4000/narrativa.1120

ISSN: 2804-1224 Editore

Presses universitaires de Paris Nanterre Edizione cartacea

Data di pubblicazione: 1 septembre 2014 Paginazione: 51-64

ISBN: 978-2-84016-192-9 ISSN: 1166-3243

Notizia bibliografica digitale

Claudio Milanesi, «Teorie della letteratura globale. Littérature-monde e New Italian Epic», Narrativa [Online], 35-36 | 2014, online dal 01 avril 2022, consultato il 20 avril 2022. URL: http://

journals.openedition.org/narrativa/1120 ; DOI: https://doi.org/10.4000/narrativa.1120

Narrativa est mise à disposition selon les termes de la Licence Creative Commons Attribution 4.0 International.

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Q

uesta comunicazione si concentra su una galassia di testi che riguardano il modo in cui nella cultura francese e nelle sue istituzioni letterarie è stata affrontata e dibattuta la questione che in francese è stata definita la littéra- ture-monde. Questo approccio verte a mettere in prospettiva, e a costituire un ter- mine di confronto fra gli atteggiamenti, le reazioni e le proposte proprie alla cultura italiana sulla globalizzazione delle lettere e le idee e il dibattito ampiamente svoltosi in Francia negli ultimi anni. In realtà, non vi è fenomeno più globale della questione della globalizzazione dei fenomeni culturali, e quindi delle sue forme e delle istitu- zioni letterarie che le inquadrano. D’altro canto, il confronto col caso francese aiuterà anche a capire quanto “nazionale” sia il dibattito sulla globalizzazione, quanto cioè variabile sia l’approccio al fenomeno e quanto in gran parte dipenda dalla configurazione culturale in cui si iscrive – ancora segnata fortemente dall’an- coraggio nazionale per temi, autori, ideologie di riferimento, paure, speranze.

In questa sede mi limiterò ad esporre a grandi linee forme e temi del dibattito francese. Senza però trascurare qualche puntata in Italia attraverso alcune cita- zioni del protocollo del New Italian Epic del collettivo Wu Ming, che presenta alcuni punti di contatto con il manifesto della littérature-monde. Sarà poi interes- sante valutare se si ritroveranno o meno echi di questo dibattito così “franco- francese” anche nelle idee così come sono espresse e tematizzate da intellettuali e scrittori italiani, e se questo confronto – e questa visione dell’altro – potrà offrire degli spunti per capire meglio le reazioni della cultura, e più specifica- mente della letteratura italiana alla globalizzazione.

Pourunelittératuremonde

Con questo nome si definisce un insieme di testi pubblicati in Francia nel marzo 2007 attraverso una sapiente operazione editoriale e mediatica. In un

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primo momento, il quotidiano Le Monde ha pubblicato un manifesto firmato da 44 scrittori, intitolato appunto Pour une “littérature-monde” en français1. Fra i firma- tari, vi erano scrittori e intellettuali francesi mainstream come il premio Nobel Jean-Marie Gustave Le Clézio e i laureati del prix Goncourt come Erik Orsenna, Eric Rouaud o Patrice Rambaud, scrittori di genere come Didier Daeninckx e Patrick Raynal, più una grande maggioranza di scrittori che erano all’epoca defi- niti scrittori francofoni, cioè o scrittori in lingua francese originari di antiche colonie o di zone di influenza o di territori d’oltre mare dove la lingua francese è ancora diffusa (sebbene in misura diversa a seconda delle situazioni), come Wajdi Mouawad per il Libano o Édouard Glissant per la Martinica, oppure scrittori originari di diversi paesi non di lingua francese, ma portati da vicende familiari, politiche o personali a scrivere in francese, come il cinese Dai Sijie, testimone della rivoluzione culturale emigrato in Francia dopo la morte di Mao, o la canadese Nancy Huston, anglofona di nascita ma bilingue anglo/francese per scelta estetica.

In seguito, due dei firmatari, lo scrittore Jean Rouaud e lo scrittore e opera- tore culturale Michel Le Bris – inventore nel 1990 della rassegna annuale degli Étonnants voyageurs di Saint-Malo – hanno raccolto, oltre ai propri due interventi, venticinque brevi saggi sulla questione della globalizzazione della letteratura in un volume intitolato ancora Pour une littérature-monde2, per la cronaca attualmente esaurito e non più ripubblicato dalle edizioni Gallimard.

L’occasione della pubblicazione del manifesto fu quella che i loro estensori chiamarono la “rivoluzione copernicana” delle lettere francesi, cioè il fatto che alcuni dei maggiori premi letterari (“cinq des sept principaux prix littéraires de l’automne”3, specificherà poi Le Bris nel libro, cioè Goncourt, Fémina, Renau- dot, Académie française, Goncourt des Lycéens) erano stati assegnati nell’au- tunno del 2006 a “scrittori francesi d’Outre-France”4, questa l’espressione usata per definire, nel manifesto, gli scrittori non nati in Francia, e il più delle volte nemmeno residenti in Francia, ma che scrivono i loro romanzi in francese.

Nota a margine: siamo ben lontani da una situazione simile in Italia, dove il massimo della trasgressione al bello scrivere italocentrato riconosciuto dai prin- cipali premi letterari è stato il premio Strega 2010, assegnato a Canale Mussolini

1. “Pour une ‘littérature-monde’ en français”, in Le Monde, 16 mars 2007.

2. le Bris, Michel et rouaud, Jean (a cura di), Pour une littérature-monde, Paris, Gal- limard, 2007.

3. le Bris, Michel, Pour une littérature monde en français, in ibid., p. 23.

4. “Pour une ‘littérature-monde’ en français”, cit.: “écrivains d’Outre-France”.

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di Antonio Pennacchi, che straniero non era ma che si contraddistingueva per la sua interlingua veneto/pontina. In effetti, da questo punto di vista, le due eccezioni sono costituite da Gëzim Hajdari, che vinse il Premio Montale (ma nella sezione “poesia inedita”!) nel 1997; e da Igiaba Scego, che ottenne il rico- noscimento del Premio Mondello 2011 con La mia casa è dove sono5.

Se andiamo a rileggere il manifesto, ci accorgiamo che diverse sollecitazioni venivano rivendicate per motivarne la pubblicazione. In primo luogo, il ritorno del racconto, della realtà, della storia che sanciva la fine di un’epoca, quella del formalismo imperante nella vulgata scolastica francese, dove solo contano “il testo” e le sua tecnicalità, indipendentemente da tutto quello che è – così si dice nelle tristi aule scolastiche – “referente”. Nel manifesto si rivendicava una reazione sia a questo strutturalismo volgare imperante nel mondo educativo sia alla versione formalistico/intertestuale/ludica del postmoderno, e questo in nome di un ritorno del “mondo”: “le monde revient”6, scrivevano i firmatari del manifesto.

Da questo punto di vista, ritroveremo la stessa reazione anti formalistica favorevole al ritorno del “referente”, nel protocollo del New Italian Epic, cui vien naturale far riferimento come termine di confronto, poiché va conside- rato il testo italiano che più si riallaccia per certi versi a questo momento fran- cese. Per esempio, gli autori del protocollo considerano che quello che loro definiscono il nuovo romanzo epico costituisca effettivamente una reazione al postmoderno, cioè al “raccontare del proprio raccontare per non dover rac- contare d’altro”7. L’aria di famiglia fra il sentire dei firmatari della littérature- monde e gli estensori del protocollo del New Italian Epic è su questo punto evidente. D’altronde, questo tema del “ritorno del reale” è stato in questi stessi anni al centro del dibattito fra gli specialisti della letteratura italiana, basti pen- sare ai convegni di Varsavia su Finzione cronaca realtà8 e di Toronto, intitolato Negli Archivi e per le strade9, oltre che al famoso n. 57 di Allegoria consacrato appunto al Ritorno alla realtà10.

5. sCego, Igiaba, La mia casa è dove sono, Milano, Rizzoli, 2010.

6. “Pour une ‘littérature-monde’ en français”, cit.

7. wu ming, New Italian Epic, Torino, Einaudi, 2009, p. 24.

8. serkowska, Hanna (a cura di), Finzione cronaca realtà, Massa, Transeuropa, 2012.

9. somigli, Luca (a cura di), Negli archivi e per le strade. Il ritorno della realtà nella narrativa di inizio millennio, Roma, Aracne, 2013.

10. donnarumma, Raffaele, PoliCastro, Gilda, taviani, Giovanna (a cura di),

“Ritorno alla realtà? Narrativa e cinema alla fine del postmoderno”, in Allegoria, n. 57, gennaio/giugno 2008.

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Una seconda sollecitazione che segnava fortemente il manifesto era quella della rivendicazione del legame fra l’insorgere del movimento letterario e i grandi eventi storici, che erano nell’ordine, per i firmatari francesi, la caduta delle ideologie, il diffondersi dei movimenti antitotalitari, la caduta del muro di Berlino. Se andiamo a leggere il protocollo di Wu Ming, vi troviamo la stessa volontà di contestualizzazione: ancora la caduta del Muro, e poi la Tangentopoli italiana, e a coronare il tutto l’11 settembre. Europa, Italia, USA, la scala degli eventi presi in considerazione va su entrambi i versanti dal locale al globalizzato.

Di comune vi è che da entrambe la parti si sia insistito sulla contestualizzazione storica e sulla aperta rivendicazione di un legame fra il contesto sociopolitico e il movimento letterario, cosa che a degli storicisti crociani o postmarxisti come gli italiani può parere un’evidenza, e che in Francia invece, dove impera (o impe- rava) l’idea dell’autonomia e dell’autosufficienza del testo, era all’epoca ancora un tabù. Quanto poi a esaminare in che modo e in che forme e con quali esiti questa rivendicazione della contestualizzazione si sia in seguito fatta letteratura, è questo uno dei compiti del volume che ospita questo mio intervento.

Terza suggestione: il manifesto riconosceva (e rivendicava) il fatto che questo

“ritorno del referente” fosse stato preparato dai generi letterari e dalla lettera- tura popolare: nel manifesto, si faceva riferimento alla letteratura di viaggio e d’avventura (che lo stesso Le Bris aveva rilanciato con la sua attività di opera- tore della cultura inventando nel 1990 con successo crescente il festival degli Étonnants voyageurs); ma anche al noir, al poliziesco e al fumetto (o per usare un’espressione più nobile alla graphic novel, usando la denominazione più colta entrata oggi in uso); più in generale, veniva poi aggiunto a questa genealogia, o ricerca degli antecedenti immediati, il riferimento alla letteratura francofona, che genere non è, ma categoria spuria all’incrocio fra l’etnico, il geografico e il sociopolitico, sotto la quale venivano raccolti l’insieme degli scrittori in francese ma non francesi/francesi, i cosiddetti francesi “d’Outre France”, come scrive- vano gli autori del manifesto.

Sull’omologia delle analisi francese e italiana, basti su questo aspetto una citazione del protocollo del New Italian Epic: “All’inizio [dopo la fine della guerra fredda] le energie si espressero con un ritorno ai generi paraletterari, principal- mente giallo e noir, ma anche fantastico e horror”11. Anche qui, l’album di fami- glia di qua e di là delle Alpi, se non perfettamente sovrapponibile, presenta punti di contatto significativi, per quanto, nel protocollo di origini italiane, sia

11. wu ming, New Italian Epic, cit., p. 20.

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notevole l’assenza di ogni riferimento, in questa genealogia, al romanzo italiano scritto dai non italiani di nascita.

Questo punto merita che si apra una parentesi: la sola scrittrice ascrivibile alla categoria di scrittori migranti (italiani fuori d’Italia, si potrebbe dire) ad apparire nel protocollo, in una nota, è Gabriella Ghermandi12. Ma la Ghermandi veniva qui evocata come autrice di un romanzo proprio della galassia del New Italian Epic e non fra gli autori di quella genealogia che avrebbe predisposto il terreno al cambiamento. L’ipotesi – banale – è che in questo caso siano i tempi di com- parsa del fenomeno a non combaciare: se, per la “francofonia”, il fenomeno di una letteratura francese proveniente da fuori dalle frontiere esagonali era datato e già ampiamente strutturato da almeno una generazione, quella che per l’Italia è poi diventata la letteratura migrante è un fenomeno più recente, più in rela- zione con le migrazioni della globalizzazione che non con la presenza di nuclei strutturati di scrittori in italiano fuori dalle frontiere, legati o meno all’espe- rienza coloniale. È questa sfasatura cronologica, fra un fenomeno pienamente dispiegatosi e un fenomeno ancora immaturo13, che pare giustificare il fatto che l’influenza di una letteratura scritta dai nuovi italiani non poteva essere rivendi- cata nella galassia cui Wu Ming poteva far riferimento per identificare i precur- sori del “ritorno del referente”. Ma si tratta per ora di un’ipotesi che rimane da verificare.

Quarta suggestione: il richiamo dei firmatari del manifesto all’esperienza inglese, da Salman Rushdie in poi, cioè a una generazione di inglesi, spesso pro- venienti da famiglie postcoloniali, che reinventano il libro di viaggio immetten- dovi le modalità del romanzo (Bruce Chatwin), o che, più annunciatori del XXI secolo che figli della postcolonizzazione, hanno reimmesso nel romanzo “le vaste monde […] la rumeur de ces métropoles exponentielles où se heurtaient, se brassaient, se mélaient les cultures de tous les continents”14. In una parola, era qui questione tematica (la littérature-monde era tale perché raccontava il mondo globalizzato), e di un punto di vista a metà strada fra il generazionale e l’etnico/

identitario (chi lo racconta è figlio di questo mondo, e questa sua condizione di

12. Ibid., nota 5, p. 13.

13. Anna Frabetti ricorda che è solo nell’ultimo decennio del secolo scorso che si è fatta strada la coscienza dell’esistenza di una letteratura italiana della migrazione (cfr.

FraBetti, Anna, Scrivere altrove / Ecrire ailleurs, in FraBetti, Anna e toPPan, Laura (a cura di), Recherches, n. 10, fevrier 2013).

14. “Pour une ‘littérature-monde’ en français”, cit.: “il vasto mondo […] il rumore di quelle metropoli dalla crescita esponenziale dove si urtavano, si mescolavano, si mischiavano le culture di tutti i continenti”.

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cittadino e scrittore che si trova “entre deux mondes, entre deux chaises”15 lo accredita per farlo). Sia detto per inciso, era questo un altro tabù della mentalità diffusa che il manifesto metteva in discussione: per una volta, il mondo anglo- sassone non veniva infatti evocato come fosse una minaccia globalizzante alla sopravvivenza delle altre lingue, e in particolare del francese – il che costituisce un fantasma ricorrente della cultura e della politica esagonale – ma come esem- pio, in positivo, della capacità di una cultura di aprirsi all’altro e al diverso.

Quinta suggestione: secondo il manifesto, dalle periferie, siano le Antille, Haïti o l’Africa, giunge una nuova letteratura francese che crea una nuova lin- gua, a scapito del centralismo culturale tipico dell’ex potenza coloniale, una lingua “creolizzata” che supera i limiti della “francofonia”, cioè di quell’idea secondo la quale la luce sui territori d’oltre frontiera si irradia dal centro, dalle sue istituzioni e dal suo sistema letterario/editoriale, e che questi non hanno che da conformarcisi. Qui il discorso si faceva pienamente e classicamente “franco- francese”: dall’interno di un mondo mediatico/letterario/istituzionale fatto di premi, media, case editrici, istituzioni governative della cultura – quel mondo che aveva tenuto a battesimo la cosiddetta “francofonia” – faceva capolino una critica che tendeva a farne implodere i criteri, dinamitandone il centralismo

“parigino” in nome di un mondo transnazionale dove gli ex colonizzati stavano lentamente scoprendo la propria autonomia. Spirito degli studi postcoloniali, terzomondismo politico trasformato in programma letterario, rovesciamento delle gerarchie in nome delle culture subalterne: tutto questo si coagulava così a creare l’automitologia, la mitopoesi della littérature-monde.

Questa profezia che si autoavvera implicava peraltro una conseguenza logica, di portata epocale, e cioè l’annuncio della fine del “lien charnel exclusif entre la nation et la langue qui en exprimerait le génie particulier”16, il legame carnale esclusivo fra la nazione e la lingua che dovrebbe esprimerne il genio particolare.

Cioè la messa in crisi senza appello del carattere di necessità del legame fra una tradizione letteraria e un’identità nazionale, tema cruciale su cui occorre insi- stere senza passare sotto silenzio il fatto che di tale legame si sono nutrite da secoli le mitologie nazionali, in Francia come in Italia e oltre: senza voler andare a scomodare i vati della Patria, siano essi Victor Hugo o Giosué Carducci, è bene ricordare che le letterature nazionali – e le lingue in cui esse si esprimono – sono fin dalle origini moderne dei movimenti delle nazionalità annoverate fra i pilastri dell’identità nazionale. Restando all’Italia, è forse necessario ricordare

15. Ibid.: “tra due mondi, col piede in due scarpe”.

16. Ibid.

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il ruolo centrale degli scrittori di epoca romantica nella costruzione della mito- logia risorgimentale17? L’apporto linguistico essenziale alla costruzione identita- ria nazionale proveniente dal canone della letteratura dell’Ottocento, Manzoni in testa? O il ruolo che Gramsci assegnava alla letteratura nazional popolare nell’integrazione delle classi subalterne nello Stato unitario? Che la littérature- monde, e più in generale, la globalizzazione della narrativa, implichino la fine di questo legame necessario, è un’altra delle questioni aperte che meritano approfondimento.

Si chiudeva così il manifesto, sull’invocazione della fine del patto esclusivo fra lingua e nazione, e l’auspicio che inedite vie romanzesche venissero aperte da una nuova generazione di scrittori che si impadronissero senza complessi degli “ingrédients de la fiction” per “donner la voix et visage à l’inconnu du monde – et à l’inconnu en nous”18.

Politica, estetica, tematica, linguistica: il manifesto concentrava suggestioni provenienti e riguardanti campi diversi e scale di analisi differenziate. La littéra- ture-monde appariva tale perché parlava del nuovo mondo globalizzato, perché era scritta da generazioni che ne incarnavano la complessità etnico/culturale, perché era raccontata da punti di vista eccentrici rispetto al centro, perché arric- chiva la lingua con l’apporto delle lingue spurie disperse nei territori al di là delle frontiere, perché rimetteva l’accento sul mondo e sulla volontà di rappresen- tarlo nella sua complessità considerando finita l’epoca della postmodernità, in cui invece la letteratura si era concentrata su se stessa fino all’autoreferenzialità.

E, infine, perché rispecchiava l’incedere della globalizzazione fino a considerare finito anche il patto fra la lingua e la nazione. La littérature-monde era l’invoca- zione per la nascita di una galassia creativa che mettesse la parola fine al centra- lismo universalista di una lingua e di un sistema di potere lasciando il campo a un vasto insieme polifonico e decentrato.

ilvolume

Dopo pochi mesi, usciva la raccolta di saggi con lo stesso titolo. I suoi due curatori – Le Bris e Rouaud – erano già stati fra gli iniziatori del manifesto. E fra gli autori dei contributi del libro, molti erano i firmatari del manifesto. Ma

17. Cfr. Banti, Alberto Maria, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2000.

18. “Pour une ‘littérature-monde’ en français”, cit.: “dare una voce e un volto all’i- gnoto del mondo – e all’ignoto che sta in noi”.

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non tutti i firmatari – Orsenna e Le Clézio per esempio – si ritrovavano nella lista degli autori dei saggi, e alcuni degli autori dei saggi – come l’azero Chan- dortt Djavann o l’ungherese Eva Almassy – non erano stati fra i firmatari del manifesto originario. I ventisette interventi spaziavano in tutto il campo delle suggestioni già proposte dal manifesto: dalla politica alla linguistica, dalla cul- tura alla letteratura.

Politica

L’ispirazione vagamente politica della raccolta era soprattutto rivolta a sotto- lineare il legame fra l’apertura mondiale della letteratura e le dinamiche postco- loniali che, venute in evidenza nel mondo anglosassone, si erano oramai allargate anche alla cosiddetta francofonia e alle sue varie sfumature. Il più deciso nel rivendicare l’aspetto politico del fenomeno era senza dubbio Édouard Glissant il quale, riprendendo alcune delle sue tematiche già sviluppate, fra l’altro, nel suo Traité du tout-monde19, insisteva sulla capacità della creazione poetica di farsi vet- tore della liberazione delle popolazioni subalterne.

Uno degli assi di oscillazione fondamentali, nell’ottica del legame fra la cul- tura e la sfera politica, era quello che finiva per opporre da un lato l’esaltazione dei localismi e della riscoperta o della creazione identitaria dei popoli sottomessi in via di liberazione e dall’altro la presa d’atto della cristallizzazione di una sorta di universalismo che, se prendeva spunto da un elogio indifferenziato delle diversità, tendeva però a implicare la dissoluzione di quello che era stato uno dei cardini delle tradizioni letterarie europee a partire dall’epoca della rivoluzione francese, e cioè il patto, o il nesso, necessario fra la nazionalità e la tradizione letteraria.

Più in particolare, in ambito francese, questo processo di dissoluzione finiva inevitabilmente per concentrarsi, più che sulle strutture istituzionali e/o econo- miche o su quelle più generalmente culturali, sulla questione – così essenziale in Francia e nel mondo francofono – della lingua. Lo scrittore haitiano Lyonel Trouillot, proclamando la fine del mito universalista della lingua francese, pro- clamava indirettamente la fine del mito universalista della Francia della Révolu- tion, rivendicando ormai la preminenza della creazione linguistica e letteraria agli antichi territori colonizzati e rimasti marginali in tutta l’epoca della colonizza- zione. Si arrivava così alla questione della lingua.

19. glissant, Édouard, Traité du tout-monde. Poétique IV, Paris, Gallimard, 1997.

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Questione della lingua

Centrale, a differenza del caso italiano, appare in vari testi della raccolta la questione della lingua. Sotto l’opposizione fondamentale fra Centro e Periferia, l’aspetto politico della questione linguistica appare evidente: da più parti si insi- ste sulla critica al centralismo parigino (ed è significativo che il più veemente in questo senso sia Jacques Godbout, canadese originario della regione del Québec) e agli accademismi delle istituzioni culturali francesi – dai premi alle case editrici, dalle pagine culturali della stampa scritta alle trasmissioni radiofo- niche e televisive che selezionano e formattano la produzione nazionale.

Assieme ad altri scrittori provenienti perlopiù da antiche colonie francesi, lo scrittore malgascio Jean-Luc Raharimanana insiste sulla necessaria riappropria- zione della lingua dei coloni da parte dei colonizzati per farne strumento di liberazione dei popoli oppressi. Tahar Ben Jalloun e Nancy Huston, franco- marocchino il primo, canadese di lingua materna inglese la seconda, tessono entrambi l’elogio del bilinguismo e del plurilinguismo come strumento di arric- chimento delle lingue e delle culture. E sempre la Huston sembra voler chiudere il cerchio facendo esplicitamente l’elogio del francese impuro dei francesi “di fuori”.

L’israeliana di origini francofone Esther Orner sottolinea un aspetto appa- rentemente marginale ma in costante aumento: l’importanza di quegli scrittori che, emigrati in un paese diverso da quello di nascita, finiscono poi per non scrivere più nella propria lingua materna ma nella lingua del paese di adozione – come il ceco Milan Kundera che adottò il francese dopo essere emigrato a Parigi da Praga. Orner non dimentica però il fenomeno opposto, quello di que- gli emigrati – come lei stessa, trasferitasi ancora adolescente dal Belgio a Israele – che continuano a scrivere nella propria lingua dell’infanzia pur vivendo nel nuovo paese d’adozione.

Se si radicalizzano queste dinamiche, si arriva allora a affermare la definitiva scomparsa del centro, a qualsiasi livello, nazionale o planetario che sia. Per Grégoire Polet, belga di lingua francese, nel mondo globalizzato ogni punto ha vocazione a diventare il centro. La mondializzazione diventa il processo che porta all’unità del globo, un’unità indifferenziata in cui ogni individuo può aspi- rare a definir se sesso come il centro, indipendentemente da ideologie, naziona- lità, cultura. Secondo Polet e altri, nella cultura francese, la lingua nazionale ha perso irreparabilmente il suo messaggio universale e il suo legame con la nazione: se per Tahar Ben Jelloun il francese non è più la lingua della nazione, ma la lingua dell’espressione poetica, per Wajdi Mouawad è la lingua della scrit-

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tura; ancora più laicamente, essa diventa per Lyonel Trouillot nient’altro che un generico strumento di lavoro, e per Esther Orner il vettore che permette la traduzione dell’espressione del proprio mondo interiore e personale. Maryse Condé, originaria della Guadalupa, insiste: la lingua non è che un mezzo, non più un messaggio in sé; su questa strada, il dogma francese è negato in blocco, e la lingua di espressione diventa per Michel Layaz indifferente, basta che si tratti di letteratura, basta che si rientri nel “monde des livres à écrire”, nel mondo dei libri da scrivere.

Questioni letterarie

Si pone allora il problema di che cosa debba dire la letteratura della globaliz- zazione e di come debba dirlo. L’abbiamo detto sopra: il punto di partenza della poetica della littérature-monde è la critica della vulgata scolastica dello strutturali- smo e la connessa critica al formalismo ironico e distaccato del postmoderno.

Questa ispirazione, specie nella sua seconda caratterizzazione che insiste sul senso di svolta dato dalla proclamata fine del postmoderno, è in tutto e per tutto analoga a quanto proclamato nel protocollo del New Italian Epic. E le implica- zioni sul piano del contenuto narrativo sono le stesse: per Patrick Raynal, la letteratura si apre (o meglio, riapre) al mondo e può così, secondo il ciadiano Nimrod, dire in francese delle realtà che sono lontane dalla cultura e dalla sen- sibilità esagonali. Raynal, che ha militato e scritto per tutta una vita a favore della cultura popolare e della rivalutazione dei generi, rivendica in quest’ottica il carattere popolare del romanzo e invoca per questa via quel ritorno del conte- nuto, delle storie e della realtà cui faceva già riferimento il manifesto.

Pochi, nel gruppo degli autori, si soffermano però a riflettere sulle concrete modalità con cui il nuovo romanzo globale dovrebbe incaricarsi di raccontare il mondo. Questo era invece il cuore della riflessione del collettivo dei Wu Ming nel protocollo del New Italian Epic, che molto aveva scritto sul rimescolamento dei limiti fra realtà e finzione, sulle narrazioni oblique, sul rovesciamento dello sguardo20. Vi è un solo scrittore che pare interessarsi alla questione da questo punto di vista ed è Grégoire Polet, il quale considera il romanzo globalizzato come una metonimia del mondo. E però, quando vuole evocare una modalità narrativa che gli sembra paradigmatica della letteratura globalizzata, si rivolge non tanto al mondo letterario quanto all’immaginario cinematografico: gli

20. wu ming, New Italian Epic, cit., in particolare nel capitolo 1.5: “Alcune caratte- ristiche del New Italian Epic”, pp. 22-47.

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esempi che cita sono infatti due film di produzione americana, Short Cuts (1993) di Robert Altman e Babel (2006) di Alejandro Gonzales Inarritu21, entrambi costruiti utilizzando quello che Polet definisce uno “sguardo panoramico”, e che in italiano chiameremmo “film corali”, in cui operano, anche se su scala locale il primo e su scala globale il secondo, modalità del racconto che adottano un punto di vista capace di abbracciare una visione panoramica delle dinamiche che guidano l’intrecciarsi delle vicende umane.

Visioni della globalizzazione. Viaggi e luoghi.

Nelle loro dichiarazioni, più che interessarsi alle modalità narrative, gli autori del gruppo della litterature-monde sembrano concentrarsi più sui contenuti dei romanzi globalizzati che sulle modalità narrative che le sarebbero appropriate:

la letteratura globalizzata appare tale, in quest’ottica, non tanto per come rac- conta la realtà ma perché mette in evidenza certi aspetti qualificanti delle dina- miche della globalizzazione.

L’idea della globalizzazione si incarna allora in certe figure che parrebbero rap- presentarla al meglio. Il viaggio innanzitutto, da cui le figure autocelebrative dello scrittore errante fra Port-au-Prince, Brooklyn, Montreal e Dublino, che se ne va in giro per il mondo invitato a tenere conferenze incontrando così studentesse, lettrici, e personaggi urbani di ogni tipo (Dany Laferrière), o spingendosi nei posti più impensati e nelle situazioni più inaspettate, mescolando magari, come fa Wajdi Mouawad, passato e presente, memoria e immaginazione. Oppure, inversamente, i viaggi “di carta”, classicamente postmoderni, compiuti attraverso l’intermedia- zione della scrittura, come per lo svizzero Michel Layaz. Entrambe le letture por- tano a una generica e piuttosto banale idea di globalizzazione che si esplica in una generica fascinazione per le diversità, all’amore per i viaggi, le lingue, la scrittura, e la letteratura, espresso in modo esplicito dallo stesso Michel Layaz.

La globalizzazione si incarna poi in luoghi particolari che ne concentrano le caratteristiche: spesso non-luoghi, rovesciano in questo modo la critica postmo- derna del non-luogo; ad esempio, la stanza d’albergo in un luogo non definito, lungi dall’apparire la concretizzazione di un’assimilazione generalizzata a criteri estetici globali che tutto uniformano, diventa il cronotipo di riferimento della littéra- ture-monde. Per Grégoire Polet, questi spazi dello sguardo panoramico, che meglio descrivono a suo modo di vedere l’essere uomo globale come “essere fra gli

21. altman, Robert, Short Cuts (1993), ed. italiana America oggi (1993), Leone d’oro alla 50 Mostra del cinema di Venezia; gonzález iñárritu, Alejandro, Babel (2006), Premio alla miglior regia al Festival di Cannes 2006.

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uomini”, sono l’hotel, ma anche la strada, il villaggio, il caffè, il villaggio globale, tutti luoghi dell’incontro e della dinamica che è al tempo stesso locale e globale.

Visioni della globalizzzazione. L’inglese.

Rispetto al predominio della lingua inglese, due visioni contrapposte si affrontano nelle pagine dei contributi al volume. Da una parte, la globalizza- zione viene identificata con il realizzarsi del predominio “anglosassone”: la mondializzazione è in tal modo diabolizzata in quanto quadro geopolitico del dominio del nord e del centro sulle periferie, duplicata in qualche modo – secondo l’haitiano Gary Victor – dalle dinamiche della francofonia in quanto espressione del preteso centralismo neoimperiale della cultura francese e pari- gina. Ma dall’altra parte, viene alla luce una considerazione del tutto opposta, consistente nell’inatteso elogio di Tahar Ben Jelloun dell’atteggiamento inclu- sivo della cultura inglese verso la generazione dei figli del postcoloniale.

Visioni della globalizzazione. Identità multiple.

Il cerchio si chiude così: se la letteratura globalizzata riflette, in positivo, le dinamiche sociopolitiche della globalizzazione, ecco allora che l’accento cade sull’elogio degli apatridi e degli espatriati, di quei senza patria che sanno trasfor- mare in un’opportunità l’esperienza della perdita del centro e dell’identità esclu- siva. Per la franco-vietnamita Anna Moï, il processo che investe la letteratura globalizzata anticipa il sopravvento delle identità mutanti, erranti, e multiple dell’uomo globalizzato, sul vecchio mondo delle nazionalità. E così, per la slo- vena Brina Svit – lei che scrive ormai in francese per poi tradurre se stessa nella propria lingua materna – l’identità mutante degli scrittori porta alla scrittura di romanzi che sono essi stessi mondializzati sotto il profilo linguistico e tematico.

Il risultato inatteso di queste analisi è che, lungi dal costituire una critica della globalizzazione analoga a quelle dei movimenti no global d’inizio secolo, degli indignados e degli anonymous del secondo decennio, lo spirito della littérature-monde è in larga maggioranza più aperto a cogliere le opportunità che non a stigmatiz- zare le ingiustizie delle dinamiche della globalizzazione.

Visioni della globalizzazione. L’esperienza umana.

Grégoire Polet tesse infatti, della globalizzazione, un elogio, in quanto essa costituirebbe ai suoi occhi l’esperienza dell’unità del mondo e quindi dell’u- mano. Vi è una metafora che ben rappresenta questa visione elegiaca della let-

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teratura globalizzata, e indirettamente della globalizzazione stessa, ed è quella elaborata dallo scrittore cinese Daj Sijie: la letteratura mondo è rappresentata nel suo racconto mediante la metafora del passaggio del sentimento di un autore francese dell’Ottocento, nella fattispecie Honoré de Balzac, nello spirito di una contadina analfabeta delle montagne del Sichuan all’epoca della rivoluzione culturale22.

È Nancy Huston a trarre le conclusioni di questo processo: la globalizza- zione è un’opportunità per accrescere la libertà della letteratura, e contribuisce a chiudere nel dimenticatoio della storia le etichette, i premi, i generi segnati dai nazionalismi e dalle identità forgiate nel lungo periodo del patto fra lingua e nazione.

Parafrasando le cinque W del giornalismo, si potrebbe dire che alla luce del dibattito svoltosi in Francia alla fine del decennio precedente, la letteratura vi è apparsa, o vi è stata considerata o annunciata come globalizzata secondo una serie di considerazioni che hanno a che fare con il cosa, il come, il chi e il perché.

La letteratura diventa globale a seconda di che cosa racconta della globalizza- zione (i viaggi, i luoghi, determinate vicende transnazionali, gli itinerari di migrazione, i grandi sommovimenti, le storie delle periferie del mondo). Oppure per come la racconta, con che lingua (l’egemonia dell’inglese nella cultura glo- bale e l’egemonia del francese parigino nella francofonia, ma anche la perdita del centro, l’influenza delle lingue altre sulla lingua un tempo egemonica) e con che forme della narrazione (la memoria, la plurivocità dei punti di vista, la visione panoramica, la visione dei vinti). Vengono presi in considerazione anche gli attori della letteratura, e si insiste allora su chi la racconta (gli scrittori di fuori, la francofonia, gli scrittori migranti, le seconde generazioni, gli scrittori

“fra due identità”, i figli del postcoloniale). E infine si è tenuto conto del perché si scrive (per salvaguardare la memoria, per esercitare una critica del neolibera- lismo, per la difesa delle identità minacciate e periferiche, per la liberazione degli oppressi, e per la costruzione di una identità globale senza frontiere).

La campagna per una littérature-monde si è presto spenta, dopo aver dato vita a un enorme numero di reazioni da parte delle istituzioni deputate – critici, uni-

22. Il racconto si rifà al primo romanzo dello scrittore sinofrancese sijie, Dai, Bal- zac et la Petite tailleuse chinoise, Paris, Gallimard, 2000 (ed. it., Balzac e la piccola sarta cinese, Milano, Adelphi, 2005).

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versitari, media, blog. Non è nelle mie intenzioni render conto anche del tenore delle reazioni, concentrate soprattutto a sottolineare contraddizioni interne dell’idea ed eccessiva vaghezza del concetto di littérature-monde23. Tengo a preci- sare che, personalmente, poiché le definizioni dei movimenti culturali non sono concetti scientifici, sono giunto alla convinzione che, se anche è indispensabile rilevarne i limiti e le mancanze e dibatterne le implicazioni, il metro di misura con cui vanno affrontate è soprattutto quello della loro produttività, della loro capacità di dare un nome a fenomeni complessi e articolati da un lato e di susci- tare dall’altro la creazione, attraverso la presa di coscienza e il riconoscimento identitario di un gruppo, di un movimento, di una generazione, cose che a volte una formula, uno slogan, un neologismo rendono possibili. E questo vale tanto sul versante francese con il concetto di littérature-monde che su quello italiano per il New Italian Epic.

Claudio milanesi

Université Aix Marseille (CAER) CAER - EA 854

23. Mi limito a citare, fra le tante reazioni, una delle più complete: Porra, Véroni- que, “Pour une littérature-monde en français: les limites d’un discours utopique”, in Intercâmbio, n. 1, 2008, pp. 33-54.

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