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NOTA A CORTE COSTITUZIONALE SENTENZA 17 marzo 2015, n. 37
A cura di DARIO GIUNTA
Principio del concorso pubblico e nomine dirigenziali illegittime
1. Ricostruzione della vicenda
La questione di legittimità costituzionale su cui la Consulta si è pronunciata ha ad oggetto l’articolo 8, comma 24 del decreto legge 2 marzo 2012, n. 16 recante “Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento”, convertito, con modificazioni, dall’articolo 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44.
Tale norma, in relazione alla <<esigenza urgente e inderogabile di assicurare la funzionalità>>
delle strutture delle amministrazioni che seguono e al fine di <<garantire una efficace attuazione delle misure di contrasto all’evasione>>, autorizza l’Agenzia delle entrate, delle dogane e del territorio ad espletare procedure concorsuali, da completarsi entro il 31 dicembre 2013, per la copertura di posizioni dirigenziali vacanti e, nelle more dello stesso espletamento e salvi gli incarichi dirigenziali già affidati ai propri funzionari, a conferire incarichi dirigenziali a propri funzionari mediante la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura dei posti vacanti tramite concorso.
La disposizione aggiunge, altresì, che ai funzionari cui sia affidato l’incarico dirigenziale spetta lo stesso trattamento economico dei dirigenti e che, comunque, le menzionate Agenzie non potranno attribuire nuovi ed ulteriori incarichi dal momento della <<assunzione dei vincitori delle procedure concorsuali>>.
La questione di legittimità costituzionale della norma in oggetto è stata sollevata dalla quarta sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato in sede del giudizio d’appello avente ad oggetto tre ricorsi, proposti dall’Agenzia delle entrate, avverso altrettante sentenze del T.A.R. Lazio che dichiaravano l'invalidità di tutte le nomine dirigenziali effettuate senza l’esperimento di un regolare concorso.
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Inoltre, mediante una delle sentenze impugnate, era stata dichiarata l’illegittimità della delibera n.
55 del 22 dicembre 2009 del Comitato di gestione dell’Agenzia delle entrate che prorogava al 31 dicembre 2010 i termini previsti dall’articolo 24 del regolamento di amministrazione della stessa Agenzia; quest’ultima disposizione prevede, infatti, che, per inderogabili esigenze di funzionamento dell’Agenzia ed entro un termine (che, successivamente, è stato oggetto di numerose proroghe), l’amministrazione può provvisoriamente coprire eventuali vacanze di posti dirigenziali conferendo incarichi a propri funzionari con contratti di lavoro a tempo determinato.
Dunque, già in sede di giudizio di primo grado, il T.A.R. Lazio aveva annullato la suddetta delibera in quanto ritenuta in contrasto con gli articoli 19 e 52, comma 5 del d.lgs. 165/2001.
E in effetti, la norma tacciata di incostituzionalità è entrata in vigore dopo le statuizioni del Giudice di prime cure e durante la fase d’appello dinanzi al Consiglio di Stato e con essa, sembra che il Legislatore abbia voluto “ratificare” in sede di normativa primaria il contenuto della norma
contenuta nel già citato articolo 24 del regolamento dell’Agenzia delle entrate, tanto che, i Giudici di Palazzo Spada classificano tale intervento legislativo quale “factum principis sopravvenuto” che determinerebbe la declaratoria di improcedibilità dei ricorsi in appello per sopravvenuto difetto di interesse, posto che, la norma oggetto di giudizio, farebbe salva la delibera già censurata dal giudice di primo grado.
2. L’ordinanza di rimessione e le censure avanzate
Come sopra accennato, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 8, comma 24, del decreto legge 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dall’articolo 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44, è stata sollevata dalla sezione quarta del Consiglio di Stato con ordinanza del 26 novembre 2013 (r.o. n. 9 del 2014).
In primo luogo, il Giudice ha ritenuto sussistente un contrasto con gli articoli 3 e 97 della
Costituzione, poiché quanto previsto dalla norma censurata farebbe sì che la regola del concorso pubblico venga aggirata, regola che, non solo costituisce la forma generale ed ordinaria di reclutamento nell’ambito del pubblico impiego ma, altresì, deve trovare applicazione anche nell’ipotesi di passaggio del dipendente ad una fascia funzionale superiore.
Secondariamente e sempre in relazione agli articoli 3 e 97 della Costituzione, la sezione rimettente ritiene che la violazione della regola del pubblico concorso determinerebbe un vulnus al principio di buon andamento della P.A., costituendo, il concorso, uno strumento di selezione che dovrebbe
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assicurare l’efficienza dell’amministrazione; inoltre, sembra del tutto palese la violazione dei principi legalità ed imparzialità poiché la norma censurata consentirebbe di preporre ad incarichi dirigenziali personale privo dei requisiti necessari, diminuendo, di conseguenza, le garanzie per i cittadini.
Infine, il C.d.S. ha ritenuto sussistente il contrasto con gli articoli 3 e 51 della Costituzione poiché la norma oggetto di giudizio consentirebbe l’accesso all’ufficio di dirigente in violazione delle
condizioni di uguaglianza dei cittadini che aspirano all’accesso ai pubblici uffici e in violazione dei requisiti che la legge ritiene necessari per la copertura di posti dirigenziali.
3. La decisione della Consulta
La Corte Costituzionale ritiene fondata la questione di legittimità costituzionale, argomentando come segue.
I giudici costituzionali non esitano a ricordare che per quanto previsto espressamente dalla legge e confermato da copiosa giurisprudenza in merito (sentenze nn. 194/2002, 271/2012, 7/2011,
150/2010, 293/2009), la regola del concorso pubblico costituisce meccanismo generale per
l’accesso al lavoro nella P.A., sia qualora si tratti di primo accesso sia quando si tratti di passaggio da una fascia funzionale ad altra superiore.
La Consulta prende atto del fatto che l’Agenzia delle entrate, dapprima in virtù del già richiamato articolo 24 del proprio regolamento e, secondariamente, in virtù della norma oggetto di censura, ha proceduto all’affidamento di incarichi dirigenziali a propri funzionari mediante la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato e fino al momento dell’assunzione dei soggetti vincitori della procedura concorsuale all’uopo espletata e, comunque, fino ad un termine finale
predeterminato; tuttavia, tale termine è stato oggetto, mediante atti della stessa Agenzia, a molteplici proroghe.
Posta tale situazione di fatto ormai consolidatasi nel tempo, i giudici constatano l’illegittimità di tale modalità di copertura facendo un interessante riferimento a due istituti che potrebbero sembrare affini.
In primo luogo, il meccanismo in discorso si discosta dal modello dell’affidamento di mansioni superiori a impiegati appartenenti ad un livello inferiore, previsto dall’articolo 52 del d.lgs. n.
165/2001 il quale dispone che solo nel caso di vacanza di posto in organico e per un periodo non
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superiore a sei mesi (prorogabile fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti) parte del personale possa essere adibito allo svolgimento di mansioni superiori ma, e qui sta la profonda differenza col sistema oggetto di censura, solo nell’ambito del passaggio da un livello inferiore ad uno superiore e non da una qualifica ad un’altra (ad es. funzionario – dirigente).
Secondariamente, si potrebbe provare a trovare delle affinità con il modello della c.d. reggenza, prevista dall’articolo 20 del D.P.R. 8 maggio 1987, n. 266; secondo tale modello, è possibile coprire posti dirigenziali momentaneamente vacanti solo se sia già stata avviata la procedura per
provvedere alla copertura e se la vacanza sia determinata da cause imprevedibili. I caratteri di tale sistema sono, dunque, la straordinarietà e la temporaneità (cfr. Cass. SS.UU. civili, sentenze 22 febbraio 2010, n. 4063, 16 febbraio 2011,n. 3814, 14 maggio 2014, n. 10413) caratteri che, le reiterate proroghe del termine previsto dal regolamento dell’Agenzia delle entrate, hanno indotto la giurisprudenza amministrativa a non ritenere sussistenti nel modello di copertura oggi censurato.
Il sistema adottato dall’Agenzia delle entrate rimane illegittimo anche dopo l’entrata della norma oggetto di censura che sostanzialmente traspone il contenuto dell’articolo 24 del regolamento sopra menzionato in sede di norma primaria. Non solo: l’articolo 8, comma 24, d.l. n. 16 del 2012 (come convertito e modificato) introduce un ulteriore elemento di incertezza; infatti, la possibilità di ricorrere alla copertura dei posti di dirigenza con propri funzionari non è prevista solo fino e non oltre un termine certo ma fino al momento dell’assunzione.
Ora, a bene vedere, anche dopo l’espletamento della procedura concorsuale non è certo sapere quando potrebbe avvenire l’assunzione posto che tra il momento dell’approvazione della graduatoria e l’assunzione effettiva può intercorrere anche un notevole lasso temporale.
In definitiva, l’articolo 8, comma 24, d.l. n. 16 del 2012 (come convertito e modificato) <<ha contribuito all’indefinito protrarsi nel tempo di un’assegnazione asseritamente temporanea di mansioni superiori, senza provvedere alla copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura concorsuale aperta e pubblica>>. Per quanto detto, la norma oggetto di giudizio è dichiarata incostituzionale per violazione degli articolo 3, 51 e 97 della Costituzione.
Ma la Corte effettua un passo in più, riconoscendo che ad alimentare un sistema illegittimo hanno contribuito anche altre disposizioni, ossia quelle che hanno permesso la proroga o, per meglio dire, le proroghe, dei termini. Così, in applicazione dell’articolo 27 della legge 87 del 1953, la Consulta, riconoscendo un rapporto di concatenazione tra le seguenti norme e quella oggetto principale del giudizio, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 14, del d.l. 30 dicembre 2013, n.
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150 (Proroga dei termini previsti da disposizioni legislative) e dell’art. 1, comma 8, del d.l. 31 dicembre 2014, n. 192 (Proroga dei termini previsti da disposizioni legislative).
4. Considerazioni conclusive
Ponendo lo sguardo in modo esclusivo sulla decisione oggetto di commento, sembra quasi trasparire una “banalità” delle statuizioni in essa contenute poiché espressioni non solo di regole giuridiche espresse e ribadite da copiosa giurisprudenza di merito e di legittimità oltre che costituzionale ma anche, si potrebbe dire, espressione di regole sociali che sembra quasi
impensabile che, ancora oggi, ci sia il bisogno di riportare all’attenzione sia delle possibili parti di una controversia, come nel caso di specie, sia e soprattutto del legislatore che purtroppo, a volte,
“partorisce” disposizioni di legge contrastanti con norme costituzionali che, più di tante altre, sono espressione non solo di volontà legislativa costituente ma anche di regole di civiltà.
Dunque, tralasciando ogni commento non strettamente giuridico che in questa sede non trova opportunità di residenza, si può ben osare col dire che la decisione in commento nulla di nuovo contiene rispetto a regole ormai consolidate; il concorso pubblico costituisce lo strumento ordinario per la selezione del personale che aspira ad occupare posti di lavoro nel settore pubblico; esso deve trovare applicazione non solo nelle ipotesi di nuovo ingresso ma anche in quelle in cui si tratti di passaggio da una qualifica ad una superiore e ciò ai fini del buon andamento e della imparzialità della P.A., in sé considerata ma anche nel rapporto con i cittadini che hanno interesse a che un pubblico dirigente abbia le specifiche competenze dalla legge richieste per l’espletamento delle mansioni che egli è chiamato a svolgere.
L’esigenza si sopperire ad eventuali e temporanee vacanze in organico affinché venga assicurata la continuità delle attività istituzionali deve trovare una soluzione ben definita e collocata
temporalmente, evitando che meccanismi non ordinari rischino di diventare “prassi d’organizzazione”.
In conclusione, di non poco rilievo è la questione riguardante la sorte degli atti posti in essere dai funzionari preposti ad incarichi dirigenziali alla luce della pronuncia in commento.
A parere della Direzione centrale Affari legali e contenzioso dell’Agenzia delle Entrate, “la pronuncia di illegittimità della Consulta non produce effetti sugli atti firmati dal personale incaricato di funzioni dirigenziali. In termini molto chiari, nella decisione è affermato che gli atti emessi sono legittimi.[…] Ai fini della legittimità dell’atto, è sufficiente che lo stesso provenga e sia
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riferibile all’ufficio che lo ha emanato […] La sentenza non si riflette sulla funzionalità dell’Agenzia né sulla idoneità degli atti emessi ad esprimere la volontà all’esterno
dell’amministrazione finanziaria la cui legittimità è pertanto fuori discussione […] Sarebbero prive di fondamento e, quindi, perdenti le iniziative di contribuenti che intendessero far valere in giudizio l’illegittimità degli atti firmati da personale incaricato di funzioni dirigenziali”.
Tuttavia, sulla base di un’analisi più dettagliata, sembra non potersi condividere tale posizione.
Innanzitutto, in via generale, gli atti dell’Agenzia delle entrate devono essere firmati dal Direttore dell’ufficio e non da altri soggetti a meno che non siano muniti di apposita procura. Se così non è, l’atto è illegittimo, come, peraltro, confermato dalla giurisprudenza orami consolidata (cfr. ex multis, Cass. n. 14942/2013). Si aggiunga che, per quello che può maggiormente interessare, ai sensi dell’art. 42 D.P.R. n. 600/1973, l’avviso di accertamento è nullo se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva dallo stesso delegato; in caso di contestazioni, grava sull’Amministrazione finanziaria la prova del corretto esercizio del potere di delega (Cass. civ. n. 18758/2014).
Ciò detto e ritenuto che, alla luce della decisione in commento, i funzionari che esercitavano mansioni dirigenziali sono equiparabili a soggetti sprovvisti di delega da parte del capo ufficio, sarebbe interessante capire la sorte degli avvisi di accertamento e delle conseguenti cartelle esattoriali.
Ebbene, la giurisprudenza maggioritaria ha sempre configurato l’inesistenza dell’atto adottato da chi non fosse investito dai poteri prescritti dalla legge per la sua adozione. Se in tal modo dovesse configurarsi il vizio degli atti di accertamento firmati dai “falsi dirigenti”, i suddetti atti sarebbero improduttivi di qualunque effetto. Tuttavia, crea problemi anche il profilo “temporale” in merito ai tempi per far valere tale esistenza. Infatti, l’inesistenza può essere fatta valere in ogni stato e grado del giudizio e anche d’ufficio. Ma non è chiaro se debba comunque essere intrapreso un giudizio e ciò, ovviamente entro i termini di legge, poiché, in caso di risposta affermativa, coloro che non hanno impugnato i provvedimenti entro i termini nulla potranno per eliminare gli effetti eventuali lesivi; di conseguenza, potrebbero essere verificati gli effetti dei soli provvedimenti, firmati dai funzionari – non dirigenti, che possono ancora essere impugnati.
Tuttavia, la categoria dell’inesistenza è alquanto evanescente e di difficile inquadramento; pertanto è comunque opportuno attendere i risvolti di eventuali (ma molto probabili) ricorsi proposti dai contribuenti contro gli atti firmati da funzionari illegittimamente investiti di qualifica dirigenziale che, allo stato attuale, risultano essere (cifra non indifferente) circa un migliaio.