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Corte di Cassazione, Sezione Lavoro civile. Sentenza 31 maggio 2018, n

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Corte di Cassazione, Sezione Lavoro civile Sentenza 31 maggio 2018, n. 13973

Impiego privato - Superamento del periodo di comporto - Licenziamento - Inerzia del datore di lavoro - Atto d'appello - Requisiti - Interpretazione di atto negoziale - Inammissibilità REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente Dott. CURCIO Laura – Consigliere

Dott. NEGRI DELLE TORRE Paolo – Consigliere Dott. BALESTRIERI Federico - rel. Consigliere Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA sul ricorso 23390-2016 proposto da:

(OMISSIS) S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato (OMISSIS), giusta procura in atti;

- ricorrente - contro

(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall'avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;

- controricorrente - avverso la sentenza n. 337/2016 della CORTE D'APPELLO di BOLOGNA, depositata il 15/06/2016 r.g. n. 81/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/02/2018 dal Consigliere Dott.

BALESTRIERI FEDERICO;

(2)

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI FRANCESCA, che ha concluso per l'improcedibilità ed in subordine rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Modena respingeva l'impugnazione del licenziamento intimato da (OMISSIS) s.r.l.

alla dipendente (OMISSIS) con lettera del 4.2.08 per superamento del periodo di comporto;

quest'ultima lamentava la violazione del capitolo XI del contratto collettivo aziendale e la mancata comunicazione dell'approssimarsi del termine del comporto col prescritto anticipo di almeno un mese; l'avvenuta intimazione del licenziamento ad oltre tre mesi dalla scadenza (2.11.2007) di tale termine; la riferibilità di ampia parte dei periodi di assenza a patologia di carattere professionale, in quanto determinata dall'impiego della lavoratrice in violazione delle prescrizioni del Medico competente e del Collegio medico dell'U.S.L..

Proponeva appello la lavoratrice; resisteva la (OMISSIS) s.r.l..

Con sentenza depositata il 15.6.2016, la Corte d'appello di Bologna, acquisita documentazione inerente l'eventuale aliunde perceptum, in parziale riforma dell'appellata sentenza, dichiarava illegittimo il licenziamento e, per l'effetto, condannava la (OMISSIS) s.r.l., L. n. 300 del 1970, ex articolo 18, alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro e al risarcimento del danno pari alla retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento fino alla data di effettiva reintegra, detratti i redditi di lavoro aliunde percepiti nel medesimo periodo quali risultanti dalla documentazione acquisita, con rivalutazione monetaria ed interessi, oltre regolarizzazione contributiva.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la società, affidato a cinque motivi. Resiste la lavoratrice con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. - Con i primi due motivi la società ricorrente denuncia la nullità della sentenza per non aver dichiarato l'inammissibilità del gravame per violazione dell'articolo 434 c.p.c..

Lamenta che il ricorso in appello della lavoratrice non conteneva i requisiti stabiliti a pena di inammissibilità dal citato articolo 434, così come novellato dal Decreto Legge n. 83 del 2012.

Lamenta che tale norma, da leggersi in connessione con l'articolo 348 bis c.p.c., - che consente la declaratoria di inammissibilità dell'appello quando l'impugnazione non abbia una ragionevole probabilità di essere accolta- impone all'appellante, oltre che individuare con precisione i punti della sentenza non condivisi, di esporre i motivi specifici del dissenso rispetto alla sentenza impugnata e di esporre un ragionato progetto alternativo di decisione. Evidenzia di aver tempestivamente eccepito l'inammissibilità del gravame nella memoria di costituzione, rilevando in particolare che

“Non sono infatti indicate le parti della sentenza impugnata; parimenti è stata omessa l'indicazione delle modifiche suggerite al provvedimento impugnato”.

I motivi, strettamente connessi, sono infondati.

(3)

Il nuovo testo dell'articolo 434 c.p.c., è il seguente: “Il ricorso deve contenere le indicazioni prescritte dall'articolo 414. L'appello deve essere motivato. La motivazione dell'appello deve contenere, a pena di inammissibilità:

1) l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;

2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”.

Le sezioni unite di questa Corte (sent. n. 27199/17) hanno in materia osservato che gli articoli 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal Decreto Legge n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l'utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene tuttavia la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata.

Deve poi considerarsi, come evidenziato da Cass. S.U. n. 8077/12, che l'indagine della S.C. quale giudice del fatto processuale (in ipotesi di dedotta nullità della sentenza ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4) è subordinata alla condizione che la censura sia stata proposta in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice dì rito, ed in particolare dell'articolo 366 c.p.c..

A tal fine la ricorrente si limita a riprodurre l'intero atto di gravame, lamentando, in sostanza, che esso non era conforme al modello legale. In tale contesto questa Corte non può che confermare quanto al riguardo compiutamente e congruamente osservato dalla corte dì merito, e cioè che il gravame proposto risultava puntuale e congruente rispetto alla struttura della sentenza appellata.

Dall'altro lato, occorre rilevare (come evidenziato da Cass. S.U. n. 5700 del 2014 e Cass. S.U. n.

9558 del 2014), che la Corte di Strasburgo afferma che le limitazioni all'accesso alla tutela giurisdizionale per motivi formali non devono pregiudicare l'intima essenza di tale diritto; in particolare tali limitazioni non sono compatibili con l'articolo 6, comma 1 CEDU qualora esse non perseguano uno scopo legittimo, ovvero qualora non vi sia una ragionevole relazione di proporzionalità tra il mezzo impiegato e lo scopo perseguito (v. tra le altre Corte EDU Walchli c.

Francia 26 luglio 2007, Faltejsek c. Repubblica Ceca 15 maggio 2008). La stessa Corte EDU ha poi affermato che il vincolo del rispetto del diritto ad un processo equo imposto dall'articolo 6 comma 1 della CEDU si applica anche ai provvedimenti dì autorizzazione all'impugnazione (Corte EDU, Hansen c. Norvegia, 2 ottobre 2014, Dobric c. Serbia, 21 luglio 2011, punto 50).

Un eccessivo formalismo nella redazione dell'atto di appello, oltre che non prescritto dalla norma, finirebbe per contrastare con i principi esposti (cfr. da ultimo Cass. n. 11013/17).

La ricorrente non chiarisce per quali specifiche ragioni, non esaminate dalla corte di merito, l'atto di gravame risulti in contrasto col novellato articolo 434 c.p.c., non meritando così la censura accoglimento.

2. - Col terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione della L. n. 300 del 1970, articolo 18, L. n.

604 del 1966, articolo 3, articoli 2110, 2118 e 1362 e segg. c.c..

(4)

Lamenta che la sentenza, erroneamente interpretando il capitolo XI del contratto integrativo aziendale della (OMISSIS) s.r.l., ritenne che la dichiarazione in esso contenuta (“In caso di malattia o infortunio non professionale, l'azienda si impegna a comunicare la scadenza contrattuale del periodo di comporto almeno un mese prima della scadenza”) costituisse una vera e propria condizione di efficacia del licenziamento e non già, quale era, un mero intento od al più un obbligo morale.

Il motivo è inammissibile riguardando una interpretazione della clausola contrattuale da parte del giudice di merito che, implicando valutazioni di fatto, la Corte di Cassazione - così come avviene per ogni operazione ermeneutica - ha il potere di controllare soltanto sotto il profilo della giuridica correttezza del relativo procedimento e della logicità del suo esito (Cass. sez. un. 25.2.11 n. 4617;

Cass. 9 settembre 2008 n. 22893; Cass. 1 febbraio 2007 n. 2217; Cass. 22 febbraio 2005 n. 3538), nella specie sussistenti. Né la società ha chiaramente indicato quale sarebbe il canone ermeneutico violato, ed in quale passaggio argomentativo, dalla sentenza impugnata.

Questa Corte ha inoltre osservato che l'interpretazione del contenuto di un atto negoziale è compito esclusivo del giudice del merito, ed il risultato di tale operazione non è sindacabile in sede di giudizio di legittimità se sufficientemente motivato, non potendosi peraltro ritenere idonea ad integrare valido motivo di ricorso per cassazione una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice di merito che sì risolva solamente nella contrapposizione di una diversa interpretazione ritenuta corretta dalla parte (Cass. ord. 27.3.12 n. 4919; Cass. 27.2.09 n. 4851; Cass. 18.4.08 n.

10203; Cass. n. 17323/04; Cass. n. 219/04).

4. - Col quarto motivo la società denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, articolo 18, L. n. 604 del 1966, articolo 3, articoli 2110 e 2118 c.c.. Lamenta che la sentenza impugnata, nel ritenere tardivo il licenziamento in questione per essere stato intimato diversi mesi dopo il superamento del periodo di comporto, non considerò che poco dopo il suo superamento (2.11.07) la lavoratrice rientrò in servizio il 5.11.07 ed il 7.11.07 si assentò nuovamente deducendo di aver subito un infortunio sul lavoro che l'INAIL invece, con provvedimento del 17.1.08, non riconobbe, sicché la lavoratrice rientrò definitivamente in servizio il 4.2.08 e venne quindi licenziata.

Il motivo è infondato posto che, seppure il licenziamento per superamento del periodo di comporto non può in alcun caso equipararsi ad un licenziamento disciplinare (per cui vale il principio dell'immediatezza), cfr. ex aliis Cass. n. 7047/03, è tuttavia innegabile un interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale che va contemperato con un ragionevole “spatium deliberandi” da riconoscersi al datore di lavoro perché egli possa valutare nel complesso la convenienza ed utilità della prosecuzione del rapporto in relazione agli interessi aziendali (cfr. ex aliis, Cass. n. 7037/2011), sicché il comportamento, complessivamente considerato, del datore di lavoro che, al termine del periodo di comporto, si traduca in una prolungata inerzia, risulta sintomatico della volontà di rinuncia al potere di licenziamento o tale da ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente circa la prosecuzione del rapporto (Cass. n. 24899/2011, Cass. n. 19400/2014).

Nella specie deve evidenziarsi, come dedotto dalla società ricorrente, che il periodo di comporto spirò il 2.11.07, sicché la lavoratrice avrebbe potuto essere licenziata in tale data, mentre l'azienda consentì che riprendesse il lavoro e quindi una successiva assenza basata su di un dedotto infortunio sul lavoro che l'INAIL invece, con provvedimento del 17.1.08, non riconobbe; l'azienda tollerò tale ulteriore ed ingiustificata assenza, scaduto da tempo il comporto, licenziando la lavoratrice solo il 4.2.08.

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Ritiene dunque questa Corte corretta la sentenza impugnata laddove, in uno col lasso dì tempo intercorso dalla scadenza del comporto al licenziamento del 4.2.08, ha ritenuto le circostanze di cui sopra, denotanti una normale prosecuzione del rapporto, dopo il 2.11.07, con ripresa del lavoro e successiva tollerata assenza, concretare una acquiescenza datoriale.

5. - Con il quinto motivo la ricorrente denuncia la violazione della L. n. 300 del 1970, articoli 5 e 18, L. n. 604 del 1966, articolo 3, articoli 2110 e 2118 c.c.; di vari articoli di Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965 e degli articoli 39 e 40 del c.c.n.l. di categoria (gomma, materie plastiche e cavi elettrici).

Lamenta che la sentenza impugnata non considerò che l'articolo 40 del citato c.c.n.l. prevedeva che il lavoratore assente per infortunio o malattia professionale ha diritto alla conservazione del posto fino alla guarigione clinica, sicché la società non avrebbe potuto licenziare la (OMISSIS) allorquando ella risultava infortunata.

Il motivo è infondato.

In primo luogo perché la norma contrattuale invocata si riferisce chiaramente agli infortuni sul lavoro; in secondo luogo perché alla lavoratrice, spirato il periodo di comporto e cessato il lavoro, fu consentito, come detto, di riprenderlo qualche giorno dopo, e poi ancora consentito di riassentarsi per un dedotto infortunio; in terzo luogo perché, pur dubitando l'azienda che il nuovo evento denunciato dalla lavoratrice fosse ascrivibile ad infortunio sul lavoro (pag. 47 ricorso), l'azienda mantenne in vita il rapporto anche dopo che l'INAIL comunicò in data 17.1.08 che non riconosceva alcun infortunio sul lavoro, provvedendo al licenziamento diverse settimane dopo. Va da ultimo rimarcato che la prosecuzione dell'assenza per malattia dopo lo spirare del periodo di comporto non impedisce assolutamente (richieste di aspettativa a parte, nella specie neppure dedotte) il licenziamento del lavoratore.

6. - Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a.. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.

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