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I racconti dei Battuti AL LIMITARE. di Fabio Metz. a cura del CENTRONOVE Circolo Aziendale di San Vito al Tagliamento

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I racconti dei “Battuti”

AL LIMITARE

di Fabio Metz

a cura del CENTRONOVE

n. 8 - Dicembre 2015 Circolo Aziendale di San Vito al Tagliamento

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Prefazione

Poi che sollecitato, mi sono permesso di scrivere queste poche righe convinto, come sono, di aver raggiunto oramai più di un limitare della mia vita. Si sa benissimo, o meglio, si dovrebbe sapere, che si vive di confini e dentro confini che appunto sono i limitari. E che il primo confine è proprio quello di faticare a comprendere come per tutti ci siano dei confini. Di molteplice natura e di maggiore o minore significato ed importanza.

In quest’ottica – e non perché io sia più furbo di altri, ma semplicemente per il fatto di trovarmi ad accettare ed a vivere limitari impostimi dalla natura – si colloca questo scrittarello. Che è stato steso, per buonissima parte al limitare delle mie giornate, dopo cena, quando tacciono finalmente le telefonate ed ho il coraggio di rimandare alla veniente giornata letture, raccolta di immagini, correzione di qualche articoletto, fastidiosi programmi televisivi.

E poi perché queste righette avrebbero la pretesa di attingere al limitare primo della mia esistenza - a quando le giornate sembravano eterne: senza limitare appunto – ed ai quei ricordi che di tempo in tempo ancora riaffiorano. Di giorno, ma soprattutto di notte.

Ed in questa sorta di rincorsa verso un oramai lontano limitare, per una ancora più arrogante pretesa, sempre queste righette vorrebbero attingere il limitare di una San Vito che sta oltre il limitare della San Vito odierna. Che, per alcuni versi almeno, mi permetterei di definire:

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sorniona e gigiona: Come la mia gatta che mi ha fatto compagnia durante le plurime serate passate, da me, dinanzi al computer:

acciambellata sulle mie carte, reduce dalla cenetta serale, in attesa di raggiungere il divano per il lungo riposo notturno.

Anche lei, come me, per la veneranda età, giunta al limitare. Ma a differenza di me, felicemente incosciente. O almeno, per tale, mi ostino a crederla.

LA BICICLETTINA AZZURRA Nel 1951 la mia famiglia, dalla abitazione originaria di già sita in via Pomponio Amalteo, immediatamente di fronte alla ex chiesa di San Lorenzo, si trasferiva all’imbocco del viale Madonna di Rosa – per chi veniva dal centro cittadino - in una nuova dimora che mio padre aveva potuto realizzare.

All’epoca del trasferimento, avvenuto il 13 dicembre, giorno di santa Lucia, già dal primo ottobre di quel 1951 i miei genitori mi avevano iscritto alla scuola media. Nella piccola San Vito dell’epoca, terminata la frequenza alla Scuola Elementare (ma nell’immediato dopo la guerra v’era la possibilità di frequentare delle sezioni scolastiche denominate seste e settime che fungevano da “posteggio”

per alunni ed alunne impossibilitati, per molteplici motivi, a proseguire gli studi), alla nutrita popolazione scolastica si aprivano due percorsi. Uno era costituito da “L’avviamento al lavoro”. L’istituto trovava sede, in maniera abborracciata (all’inizio le strutture edilizie avevano

ospitato un convento di frati Domenicani e quindi, durante la prima metà dell’Ottocento un “collegio maschile di educazione” frequentato persino da alunni nobili austriaci) in un corpo di fabbrica e in locali aggiuntivi nelle immediate adiacenze della sede municipale.

Dalle finestre della casa in cui allora abitavo, potevo riguardare tutte le mattine il cortile della scuola formicolante di scolari (maschi, sanvitesi e non) che poi, allo squillare del campanello di avvio delle lezioni, per il tramite di percorsi di cui non ho mai avuto precisa cognizione, in un baleno sparivano lasciando la spianata deserta e silenziosa.

La Scuola Media invece aveva sede nei locali messi a disposizione dall’Istituto Falcon Vial che, oltre ad una serie di locali più o meno decorosi (ma all’epoca a questi particolari di carattere logistico poco o nulla si guardava e men che meno ai servizi), si affacciava su un ampio cortile inghiaiato chiuso, nel lato che affiancava la strada pubblica da un muro di cinta, che tuttora sussiste. Si distendeva quel muro, aperto al centro da un solenne cancello con battenti in ferro e concluso alle estremità da due piccoli edifici in mattoni rossi a vista (quello di sinistra ospitava un’osteria):

una soluzione arredativa di una qualche dignità messa in atto – credo – fra le due Guerre con la demolizione di un lungo, ed anonimo, edificio che le antiche mappe sono ancora in grado di restituire. Andrà subito avvertito come allora, a differenza di quanto appena detto accennando all’Avviamento, la popolazione scolastica

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degli iscritti alla Scuola Media si riduceva ad una minuscola pattuglia suddivisa in due corsi: uno tutto maschile organizzato in tre classi, ed uno femminile del pari articolato in tre classi. Quasi inutile aggiungere che questa popolazione presentava percentuali nettamente sbilanciate a favore dei ragazzi.

Dal cortile, si accedeva alle aule per il tramite di una ristretta porta ricavata all’incontro delle pareti settentrionale e orientale delle fabbriche costituenti il fabbricato principale. Allo squillare della campanella, femmine e maschi, si assiepavano sui due marciapiedi cementizi che mettevano capo, da due diversificate direzioni, alla porta. Guidate dalla bidella, e sotto l’occhio vigile delle insegnanti di materia, per prime entravano le ragazze. Poi toccava ai maschi che superavano la soglia affiancati dal bidello ed accolti (ogni tanto però) dai rispettivi insegnanti. Dopo di che, quei plotoncini raggiungevano le rispettive aule nelle quali si dava avvio alla normale attività didattica. Il corpo insegnante, sia maschile che femminile, con non insignificante rappresentanza proveniente dal Meridione d’Italia, costituiva per me una sorta di Olimpo. Probabilmente aiutato, se non condizionato, in questo dal fatto di aver respirato in casa da parte di mio padre un profondo rispetto per l’autorità costituita e da parte di mia madre, forse perché figlia di un professore universitario, una sorta di riverenza per la scuola e per quanti in quella operavano. Mi ritraevo in silenzio, con l’eventuale berrettino in mano, quando ne avessi incrociato uno od una; mi appiattivo lungo la parete se, casualmente, ne avessi

incontrato uno od una andando o rientrando dai servizi durante l’orario scolastico; li citavo sempre per nome e cognome – nella citazione non mancava mai un riverente:

professore/professoressa - ogni volta che avessi avuto modo di parlar di loro con i compagni. Alcuni dei quali, soprattutto se ripetenti, devo dire che, nei confronti di alcuni dei docenti, si permettevano, dietro le spalle, frizzi e lazzi ed epiteti coloriti, salvo poi salutare con deferenza si fossero trovati di fronte uno o più di uno di quei signori. Per me sono rimasti sempre dei lontani personaggi. I rapporti erano improntati (e credo non solo per me) in un profondo senso di estraneità (e lo dico da ex insegnante) che l’ostentazione da parte degli insegnanti del rapporto gerarchico contribuiva ad aggravare. Mi limitavo a fare al meglio il mio dovere e ad osservarli con sottomessa curiosità.

Frutto di quegli insistiti sguardi furtivi me ne è rimasto impresso nella memoria uno:

avevo notato come i professori – non so se per una qualche loro decisione collegiale – usassero tutti esibire un identico tipo di calzature che prevedeva una spessa suola di gomma coronata da una tomaia rialzata e sul lato superiore impunturata fino a creare, al di sopra del piede, una sorta di ghirlandina intrecciata con un robusto cordone di spago. Tutte quelle scarpe erano di color marrone. Solamente monsignor Pietro Corazza, che evidentemente aveva titolo in quel consesso quale insegnante di religione cattolica, ne utilizzava un paio di colore nero.

Le aule erano dei disadorni ambienti

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pavimentati tutti con dei tavoloni di legno che non facevano fatica a dichiarare un ben protratto stato di servizio. Dalle pareti pendevano più o meno malandate carte geografiche e dietro la cattedra troneggiava un Crocifisso nero. Sempre quelle pareti, almeno ai miei tempi, dichiaravano a stento di essere state dipinte di bianco. Il bianco era solidamente virato verso il giallognolo che, in prossimità del pavimento, cedeva il posto ad una sorta di fascione grigiastro su cui, oltre a ditate, manate, orme di scarpe, segni tracciati con il gesso, trovavano posto messaggi, (più o meno corretti sotto il profilo grammaticale), disegnini, suggerimenti regalati a possibili lettori (ma soprattutto lettrici), commenti sulla vita privata di scolari e scolare. Ed altro ancora.

Illuminavano quei vani finestre serrate all’esterno da scuri in legno a doppio battente e all’interno da fragili telai in legno dotati di lastre di vetro più o meno pulite.

Nelle giornate nuvolose o piovose, per dar luce alle cattedre ed i banchi, venivano accesi dei globi che spandevano una fioca e nebbiosa luminosità tale da contribuire a rendere ancora più tristi ed affaticate quelle interminabili lezioni.

Di palestra, dopo un ventennio di retorica muscolare fascista, nemmen parlare. C’era, quando le condizioni atmosferiche lo permettevano, il ghiaioso cortile. Altrimenti si rimaneva in aula facendo qualche piegamento a fianco del banco ed ascoltando qualche sermoncino sull’igiene personale o dell’ambiente di vita.

Se non vado errato, durante le vacanze

estive intercorse fra la seconda e la terza, la direzione provvedeva a piazzare due (se non tre) pertiche a ridosso della parete posteriore di quel piccolo edificio in mattoni rossi che, come di sopra detto, concludeva sulla destra il muro di cinta anteriore della mia scuola. Per tutto l’anno di terza quelle pertiche hanno rappresentato la mia croce e la mia delizia. Di norma non riuscivo, nelle gare competitive non mi riusciva a superare la metà del palo nel mentre il compagno o i compagni arrivavano a toccare la cima. Una volta però ce la misi tutta e raggiunsi ad agganciare la vetta. Fu fausto evento di breve durata. Ammesso, poi che primo classificato, alla gara successiva che prevedeva una corsa sulla ghiaia del cortile, fui squalificato e dovetti ritornare, malinconicamente, ad occupare la platea consolandomi con il fatto che avrei preso un buon voto nel compito di latino.

Durante i mesi invernali (che cominciavano sempre molto in ritardo rispetto a quelli annunciati dal calendario) al necessario (ma più che altro sospirato) riscaldamento di quegli ambienti provvedevano troneggianti stufe, a più ripiani, in cotto rossastro che, prima dell’inizio delle lezioni, il bidello o la bidella si incaricavano di mettere in funzione.

Durante l’anno di prima e seconda media, l’aula era sistemata al primo piano, dell’ala volta a levante dell’edificio. Il mio banco si trovava nei pressi di una di quelle benedette stufe onde l’insegnante di lettere non aveva trovato nulla di meglio che incaricare me dell’alimentazione del casalingo calorifero.

Ruolo, quasi inutile dirlo, di cui mi sentivo

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particolarmente gratificato ed orgoglioso.

Era per altro quel professore persona di antichissima sterminata cultura (il poco latino che conosco me lo ha insegnato tutto lui), saggezza e parsimonia onde aveva deciso che, quando il freddo non avesse ad essere troppo intenso i ciocchi di legno si dovessero nascondere sotto la pedana della cattedra per poterne poi fare opportuno utilizzo nelle giornate più rigide. Proprio quelle che l’ottuso calendario burocratico dei bidelli non riservava nessuna eccezione in merito alla fornitura di combustibile.

Sant’uomo quel mio insegnante che, però non aveva prevista la mia stupidità. Una mattina - se ricordo bene frequentavo la seconda media - la temperatura della giornata era piuttosto rigida. All’inizio della prima lezione, con i miei compagni, avevo al solito raggiunta, in fila, l’aula. Il silenzio era totale. Si aspettava, impalati a ridosso dei banchi, l’entrata dell’insegnante che era poi quello di lettere. Approfittando dell’attimo di pausa io, da cretino quale sono sempre stato, mi avvicinavo alla stufa per verificare che il carico di legname fosse sufficiente a riscaldare una trentina di scolari nel corso di almeno di un’ora. E però, forse perché in merito assalito da qualche dubbio, ricordo che ebbi a rivolgermi ad un mio compagno che si trovava nelle vicinanze della cattedra dicendogli:

“tira fora do legni da soto la pedana par ‘sta stua”. Immediatamente però mi accorgevo come quella mia richiesta fosse caduta nel silenzio totale dell’aula. Molti miei compagni si erano rigirati verso di me. Era infatti accaduto che, mentre io

armeggiavo attorno alla stufa, l’insegnante aveva raggiunto la cattedra E di là mi guardava. Mi sono assicurato due giorni di sospensione con effetto immediato.

Le conseguenze di quell’operazione al giorno d’oggi, se date in pasto alla stampa, avrebbero un effetto meraviglioso.

Allora invece mio padre, rientrando a casa in sul mezzo giorno, prendendo atto della decisione dell’insegnante, diceva semplicemente: “te la sei meritata. Almeno utilizza questi due giorni per studiare”.

E tutto (anche se in seguito sono venuto sapere come si fosse recato a colloquio con il professore) finì lì. E però, dopo anni che ho abbandonato l’insegnamento, ancora adesso, se dovessi ricominciare, continuando quello che per anni mi sono ingegnato di fare, testardamente riterrei necessario pretendere che gli scolari avvertissero l’aula quale spazio sacro, al pari di quello di una chiesa: ordine, silenzio, attenzione, fervore operativo, rispetto dei ruoli.

In terza media la presidenza decideva di relegare la mia classe in un locale lungo e stretto al secondo piano dell’edificio che dava immediatamente sul cortile dell’adiacente latteria. Quell’ambiente bislungo costringeva noi scolari ad occupare tre file di banchi di cui due, le laterali, aderivano alle pareti. Con il risultato che l’insegnante era costretto ad allungare costantemente il collo per farsi vedere da tutti e, in occasione di compiti in classe, a pattugliare i due ristretti corridoi allo scopo di evitare (e però vanamente) il tradizionale copiaticcio.

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La parete di sinistra, confinava con l’adiacente aula delle ragazze esse pure di terza media. Il mio banco si trovava nella fila di centro, ma ricordo come il setto che divideva il nostro spazio da quello delle ragazze, tirata su con un cannicciato (vulgo: “sturini”) appena rivestito da una sorta di carta velina di malta, all’altezza dei banchi, era tutto traforato da buchi e pertugi il cui scopo riesce molto facilmente comprensibile.

Tutti i giorni, a metà della mattinata, nel sottostante cortile della latteria veniva riversato in una capace vasca di cemento lo “scolo” risultante dalla lavorazione mattutina del latte. Su quella vasca si avventavano, a mo’ di poiane, una turba di donne che, con secchi e tanichette, intendevano recuperare una parte di quel liquido per nutrire il maiale o i maiali di casa. L’urlio e lo schiamazzo ed il cozzare dei secchi l’un contro l’altro era talmente possente che l’insegnante era costretto a sospendere la lezione o l’interrogazione sino a quando la situazione si fosse calmata. Per calmarsi ci voleva all’incirca una mezz’ora.

Pausa che a noi scolari affatto dispiaceva, ma che spesso veniva turbata dal vederci assegnato, giusto per non perdere tempo, da un esercizietto scritto di grammatica latina, di francese, di matematica, di traduzione e via perseguitando.

La ricreazione era un esercizio collettivo che si svolgeva in quell’unico cortile di cui si fatta a più riprese citazione.

Gli insegnanti, quando scendevano in quello spazio vagamente rettangolare, stavano tutti in circolo nei pressi della

porta d’entrata alle aule. I professori, per lo più, fumavano, le professoresse chiacchieravano più o meno animatamente fra di loro. Una parte degli scolari, quelli meno portati al movimento – tra i quali pure io figuravo – sostavano, allineati, lungo la parete di sinistra del fabbricato. In silenzio.

Le ragazze si ammucchiavano invece di contro l’ala di destra dello stabile cicalando sommessamente e ridacchiando. I maschi più vivaci invece si avventuravano in corse e rincorse nello spazio centrale vociando e caracollando.

Ora bisognerà ricordare come bordasse il lato occidentale del cortile un loggiato, molto profondo, al di sotto del quale i ragazzi, specialmente quelli che venivano, nei mesi autunnali e primaverili, dai paesi circonvicini posteggiavano le loro biciclette. Ce ne erano di tutti i tipi. Molte erano dei ferri vecchi senza campanello o fanale anteriore o posteriore, senza carter o senza dinamo. Arnesi insomma che solamente mani sapienti riuscivano ancora a far funzionare. All’avviarsi della buona stagione, durante il primo anno di frequenza, mio padre ritenne opportuno dotarmi di una bicicletta onde potessi arrivare a scuola senza dover fare troppa strada a piedi. E perciò si era recato presso il negozio Cusinato ove comperava una biciclettina azzurra, “da maschio” e di seconda mano. La portò a casa. Me ne innamorai da subito perché era azzurra e perché finalmente avevo una cosa tutta mia.Cominciai ad andare a scuola con la mia biciclettina che ovviamente posteggiavo

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al di sotto della tettoia. Sarà a motivo del fatto che io ero, come ancor oggi, di non particolarmente impegnativa struttura fisica, sarà perché ero stato educato ad un certo riserbo nei rapporti interpersonali con il rifiuto – non so quanto obbligato – delle violenze verbali e fisiche, e quindi venivo riguardato come un “debole”, sarà perche quella biciclettina spiccava per il suo colore delicato nell’ammasso rugginoso della ferraglia degli altri velocipedi, veniva da subito notata da alcuni dei maschi che frequentavano (si fa per dire tanto lo facevano a modo loro) la terza media. Erano questi dei piercoloni muscolosi ed aitanti, con i capelli tagliati piuttosto corti che, come avviene spesso nelle migliori caserme, usavano del tempo della ricreazione per esibizioni circensi accompagnate da sonori vocii, simulazioni di incontri di boxe e rintronanti risate. La mia biciclettina fu subito individuata quale ottima variazione nel repertorio dei fin troppo utilizzati numeri da spettacolo. Perché in effetti di spettacolo si trattava. Il palcoscenico era costituito dall’area centrale del cortile. La platea, sistemata lungo i marciapiedi, era occupata dai maschi e dalle femminucce.

Gli attori, appunto erano i piercoloni. Il tempo assegnato per le rusticane pièces non poteva superare i minuti destinati alla ricreazione. Ed allora uno cavalcava la mia biciclettina e con quella iniziava una sorta di rodeo con accelerazioni, frenate, piroette di tra la ghiaia. Poi chiamava un compagno che saliva sul parafango posteriore moltiplicando la coreografia con i benefici facilmente immaginabili per quel

mio modesto veicolo. Ma assicurando, in contemporanea, uno spasso enorme alle ragazze – soprattutto quelle di terza – che assistevano alla pagliacciata con risolini e gridolini e ritraendosi tutte fintamente spaventate ogni qual volta il piercolone (o i piercoloni) si avvicinavano al marciapiede in un nugolo di ghiaino e di polvere. Io non potevo fare altro che assistere. Muto. Di avvertire la direzione nemmeno se ne parlava tanto grande era il rischio di ritorsioni: pericolo che si sarebbe ripresentato se della faccenda avessi fatto discorso in casa oppure ne avessi fatto cenno – stante il fatto che allora figuravo tra i chierichetti – a monsignore. “Tacere bisognava e andare avanti” in attesa che l’anno scolastico avesse a concludersi, i piercoloni riuscissero ad ottenere il diploma di licenza media e io fossi passato in seconda. Poi tutto ebbe termine. Ma mi è rimasto nel cuore un rancore sordo per la violenza subita, una vergogna particolare per l’essermi sentito impotente, l’odio per la prepotenza. Tutti sentimenti repressi che ancor oggi, di tanto in tanto, rischiano di esplodere quando, per diversi motivi ed occasioni, mi ritrovi ad affrontare situazioni similari. Con il risultato che chi mi sta di fronte, alcune volte, mi guarda esterrefatto perché non riesce a capire. E nello stesso tempo mi ritrovo nell’impossibilità di spiegarmi.

LA MESSA ULTIMA

Dalla metà del Settecento, a conclusione delle mattutine liturgie domenicali e

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festive (di là da venire all’epoca erano le messe vespertine), si celebrava in duomo la “messa ultima”. La messa ultima per tale si definiva in quanto immediatamente celebrata alla conclusione della “messa grande”: la messa cantata. Che era celebrazione solenne (ma ebbi modo di venirne a conoscenza in seguito), in canto, con tanto di suono dell’organo, con l’intervento di cantori, con l’incenso, con la partecipazione di tre preti di cui due in funzione di diacono e di suddiacono.

Con mia madre andavo in duomo.

A piedi. Da casa alla chiesa infatti erano poco più settecento metri, tutti all’interno dell’antico centro urbano. Mia madre amava la puntualità per cui alle undici meno un quarto mi trovavo, con lei, di fronte al portale della chiesa.

Ricordo ancora che ella, arrivati sul sagrato a fianco del campanile, rassettandomi il colletto della camiciola, mi sussurrava: “Ancora un momento:

Non è ancora finita la messa cantata”.

E per qualche anno ancora quella famosa messa cantata è rimasta per me una sorta di mistero. Non c’ero mai stato. Di messa ultima, che era la mia messa festiva e domenicale ed alla quale intervenivo (non partecipavo) con grande impegno, invece prima di tutto conservo nelle orecchie il suono della più piccola campana delle cinque sistemate allora come oggi sulla torre campanaria: un bronzo del 1565 dotato di una voce piuttosto chioccia che petulantemente estendeva, in diebus festis, sui tetti delle abitazioni più vicine al campanile.

Dopo che dalla chiesa sfollavano i devoti della messa grande, mia madre prendeva posto nelle immediate vicinanze del secondo altare di destra della navata che allora – ed ancora oggi, ma la memoria si va sempre più stemperando in una sorta di nebbia – si chiamava “altare delle Anime”.

C’era all’epoca, immediatamente a ridosso della predella di quell’altare, una panchina nella quale mi accomodavo nel massimo silenzio e con passo estremamente cauto.

Per inginocchiarci, invece, durante il momento dell’elevazione, si poteva fruire delle fredde pietre della predella dell’altare. Ricordo quel rito domenicale come una prassi da espletare, con estremo decoro, prima del pranzo. Dalla mia panchetta contemplavo un altare che, all’epoca, mi appariva lontanissimo ed in rapporto al quale mi si richiedevano alcuni gesti quali l’inchinarmi, il genuflettere, il segnarmi con il segno della croce, il tracciare su di me, al vangelo, tre piccole crocette, il sedere composto durante un sermone di cui nulla comprendevo anche a motivo della rudimentalità dell’impianto di amplificazione o dello scarso possesso della lingua italiana, alle volte, da parte dei vari celebranti. E soprattutto in un composto silenzio. Io facevo tutto quello che faceva mia madre per cui, a sua imitazione, stavo in piedi, sedevo, mi inginocchiavo, mi inchinavo, mi segnavo.

Era sempre lei che, siccome avevo imparato a leggere prima di frequentare la prima elementare, mi poneva tutte le domeniche tra mano un libriccino intitolato “Massime Eterne” nel quale

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la celebrazione della messa era scandita da vignette nelle quali si potevano vedere i singoli passaggi del rito affidati ad un pretino, bardato di tutto punto dei paramenti liturgici assistito da un chierichetto del pari abbigliato di talare nera e cotticciola bianca (personaggio questo che io moltissimo invidiavo per l’immaginaria possibilità di muoversi mentre io dovevo stare impalato sulla panchina). Si trattava di un libercolo che io leggevo attentamente cercando di controllare, di volta in volta, che le vignette avessero a corrispondere con le manovre che il celebrante compiva, in un silenzio impressionante per il fatto che nessuno in chiesa fiatava, sull’altare. Di norma alla messa, oltre che come già avvertito veniva recitata da un cappellano, non si distribuiva la comunione. Io sul libretto, seguendo l’

indice di mia madre, leggevo la piccola formula della Comunione Spirituale. Uno squillo di campanello avvertiva che ci si avviava alla conclusione. Tutti sedevano compunti (o almeno per tali mi apparivano) aspettando che il sacerdote arrivasse all’Ite missa est. Allora i partecipanti si alzavano per ricevere la benedizione. Alla quale, secondo l’antico rito, seguiva la lettura sommessa del Prologo del vangelo di San Giovanni. Era il momento che tutti aspettavano. Con qualche frettoloso segno di croce, la massa si cominciava ad assiepare alle tre uscite della chiesa scambiando, se del caso, qualche convenevole o qualche rapida stretta di mano. Io chiudevo il mio libretto, facevo il segno della croce e mansueto mi accodavo avendo cura di non spingere e di non pretendere

corsie preferenziali. Ho dimenticato un particolare. Durante quelle gelide funzioni, io attendevo con ansia il momento di poter mettere nella borsa delle elemosine i soldini che mia madre mi poneva tra mano. Il rito non era semplice. Finita la predica – quando c’era – dalla sacrestia uscivano Pauli il sacrestano titolare e Titta o Baschiera scaccini domenicali oppure festivi. Armati di borsette agganciate a lunghe aste, prendevano a percorrere la navata lungo i lati destro e sinistro agitando ritmicamente quei loro aggeggi onde la monete avessero a risuonare. Quasi sempre dal lato in cui io mi trovavo capitava Baschiera che, oggi, ripensandoci, mi vengo immaginando dotato di sottile fiuto finanziario. Fatti pochi passi e superate le primissime file di banchi, ritengo capisse se la questua avrebbe dato buoni risultati oppure la tirchieria dei fedeli avrebbe prevalso sulle esigenze caritative. Onde lo strattagemma. Rallentava il passo, scuoteva con vigore e con ritmo intensificato la sua borsa e sostava, con faccia truce, in capo ad ogni panca. E otteneva lo scopo. Fosse per un sussulto di devozione, fosse per la mortificazione di vedersi catalogati tra quelli che non volevano scucire una lira per la chiesa, tutti qualche cosa gettavano nella sua bisaccetta di velluto rosso. Quando arrivava alla mia postazione, prontamente protendevo il braccio e versavo quanto di dovere. In ricambio egli rivolgeva a mia madre un timidissimo sorriso.

Ormai avanzato in età quale mi ritrovo, al limitare appunto della mia giornata, non provo nessunissima vergogna nel

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rimpiangere la mia piccola messa. Non è un problema di natura religiosa. Per pregare, quando mai avessi a desiderarlo, a ben pensare nemmeno mi serve. Mi serve invece, alla fine della settimana, una pausa che sia diversa dalle mille pause che i sei giorni, quotidianamente mi offrono, mi impongono, mi infliggono e che mi annoiano, e dalle quali vorrei rifuggire alla ricerca di una spiaggia soprattutto silenziosa in cui provare a rivedere la contabilità della vita senza prefiggermi particolari orizzonti. E vedere se mi sia possibile di fare di nuovo, con Dio, la Comunione Spirituale.

IL VESPRO

E’ dalla fine degli anni Novanta, sempre che la non più robusta memoria non abbia ad ingannarmi, la pratica di cantare il vespro nel primo pomeriggio dei giorni domenicali e festivi nel duomo di San Vito è venuta a cessare. Per una sorta di progressivo esaurimento. E’ un fenomeno di cui qui non mi interessa di venire ad analizzare le cause. Così è e così sia. Eppure la scomparsa di quella pratica liturgica domenicale mi dispiace.

Il ricordo più remoto dei miei vespri risale al primo inizio degli anni Cinquanta.

Mia nonna, durante i pomeriggi domenicali estivi, soprattutto, mi portava in duomo.

Prendeva posto, in navata, di fronte a quello che, con qualche lettura, venni più tardi a sapere esser l’altare degli Altan (il secondo lungo la parete di sinistra della navata). Io mi accomodavo, composto, al suo fianco

sulla panca. Di tutta la cerimonia ricordo due sole cose: la luce che inondava la navata entrando dal finestrone della facciata e la voce di mia nonna: molto acuta, per me inedita poi che in casa ella non cantava mai, intonata, capace di pronunciare quelle misteriose parole latine di cui io allora non conoscevo il significato (e che fatico a conoscere, nella loro profonda ricchezza, pur oggi), tutta concentrata su una sorta di piccolo libro cui io non avevo alcun accesso e perciò ai miei occhi straordinariamente misterioso in considerazione pure del fatto che, una volta rientrati in casa, ella riponeva quel libriccino in un armadio della sua camera all’interno del quale io andavo immaginando altri gelosissimi segreti.

Ma mi è rimasta nel cuore – sì, proprio nel cuore – la nostalgia di quegli assolati pomeriggi estivi, così pigri e dal trascorrere delle ore secondo ritmi così lenti passati sulla panca in chiesa a fare una cosa che non capivo, ma che era avvolta dalla musica. O più che dalla musica da una sorta di nenia dolcissima che straniava da tutto quello che avveniva al di fuori della chiesa.

Poi sono cresciuto. E sono seguiti i vespri che – in sostituzione del maestro Ferruccio Maronese troppo stanco e stufo per poter sedere alla tastiera dopo troppi anni di puntuale servizio – ho accompagnato saltuariamente domenica dopo domenica, festa dopo festa.

Dopo il canto solenne del Magnificat, ripetuta l’antifona stabilita dal rituale per quella singola domenica, muggito con voce baritonale il Benedicamus Domino e quindi mugolato con intonazioni soffocate

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il Et fidelium animae per misericordiam Dei requiescant in pace per obbedire alla rubricistica liturgica che voleva quel versetto pronunziato gravi et supressa voce, monsignor Corazza si portava alle balaustre per quel sermoncino che la normativa sinodale diocesana (1937) pomposamente definiva quale “catechismo”. Monsignore – è pressoché inutile il dirlo e il ripeterlo - era un oratore nato. E però sono convinto che desse il meglio di sé nell’attimo improvvisativo. Ed improvvisati di certo erano quei “catechismi” tirati su in qualche maniera, con una sorta di pantomima alla fine persino gradevole, ricucendo assieme qualche pezzetto del catechismo con ricordi di oramai lontani, e nemmeno troppo approfonditi, studi seminariali.

Di tutto blaterava, toccava molteplici tematiche, ogni tanto tirava fuori, più o meno a proposito, qualche citazione latina e concludeva, ben spesso, con la promessa di un gelato alle garrule ragazzuole che, opportunamente interrogate, riuscivano a ripetere qualche definizione del catechismo oppure una peregrina battuta di Monsignore. Ma, ripeto sapeva incantare con la sua fluidissima prosa che rimandava ad una intelligenza estremamente acuta, ad una memoria vivissima e ad una capacità percettiva della natura e degli umori dell’uditorio indubbiamente eccezionale.

Un pomeriggio, che benissimo potrebbe essere quello durante il quale si cantavano i vespri della consacrazione del Duomo celebrata già il 25 gennaio 1752 con l’obbligo della memoria di tanto fausto avvenimento ogni terza domenica

del mese di settembre, ricordo che Monsignore arditamente si era imbarcato nel tratteggiare la personalità del patriarca di Aquileia cardinale Daniele Delfino (del quale fermamente credo sapesse poco o nulla) e di come quel prelato si fosse reso benemerito, tra il 1746 e il 1750, della riedificazione della chiesa. Ed andava, con profluvio di acconce parole, illustrando puntualmente (o quasi) i meriti di quell’oramai lontano Principe della Chiesa dilungandosi sulle benemerenze artistiche di cui erano documento ancora da tutti visibile, oltre alla sonora fabbrica, gli altari, le statue, i dipinti del duomo. Per poi arrivare a far memoria di come la vicina sacrestia ancora conservasse delle pianete già appartenute di tanto splendido patriarca che egli – monsignore - annunciava di poter esibire dalle balaustre. Per la bisogna si rivolgeva a me, allora capo dei chierichetti e cerimoniere, incaricandomi di ricercare con il sacrestano una di quelle benedette pianete. Gongolante per tanta fiducia, mi precipitavo in sacrestia dove, incontrato il buon Pauli, presentavo, affannato, la richiesta di Monsignore (il quale non so con quale tematica intanto andasse intrattenendo i pazienti ascoltatori).

Pauli, aperti i cassetti dell’armadio dei paramenti, tirava fuori una pianeta di color rosso fiammante fregiata, sul retro, dello stemma dei Delfino coronato dal cappello patriarcale. Con quel prezioso tesoro, raggiungevo monsignore alle balaustre.

Monsignore si voltava, guardava il trofeo che orgoglioso gli presentavo e, gelando i miei entusiasmi, mi sibilava in un orecchio:

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“No se pol mai fidarse de nisun”. E’

intuibilmente evidente che ci sono rimasto male, ma in verità aveva ragione lui. Quella pianeta che tutto trionfante gli avevo recato era un falso storico poi che, in anni abbastanza recenti, completamente rifatta (e male) con il solo riporto, dall’antico parato, del blasone dei Delfino. Quella che egli avrebbe voluto che io avessi a recargli era un’altra completamente originale di uno splendido damasco verde e con tanto di stemma. Rimasta purtroppo in sacrestia. Ma tant’è. Monsignore, se aveva una virtù era quella di non perdersi mai per strada. Mostrando la pianeta e dichiarandone la natura pasticciata, e dando la colpa del disguido alla mia intemperanza adolescenziale e al fatto che il sacrestano stava in sacrestia e non ascoltava la predica, trovava comunque modo di attaccare un pistolotto sulla necessità di frequentare assiduamente un tanto splendido edificio sacro, quale era appunto il duomo, non solo durante la celebrazione delle messe festive e domenicali, ma pure durante i vespri, le novene, i mesi di maggio, giugno ed ottobre, le processioni che, a suo parere, non registravano più quella calca devota che, in tempi non troppo remoti, aveva fatto attribuire, in ambito diocesano, alla parrocchia di San Vito il brand di Vandea della Diocesi.

Questi piccoli flasch della memoria, sono come le ciliegie: una tira l’altra.

Eccone un’altra.

Monsignore, al solito parlando a braccio, sempre a conclusione del vespro, in altra occasione aveva avviato

un “catechismo” sugli evangeli e sugli evangelisti. In merito ai quali ultimi veniva elencando i quattro simboli caratterizzanti tradizionalmente gli autori di quelle sacre pagine e provandosi a riconnetterne – ma l’impresa, se non ricordo male, da subito aveva incontrato una qualche difficoltà di carattere culturale – l’immagine con il contenuto dei singoli testi evangelici. A conclusione, monsignore, con consumata ed alata parola, dopo aver sollecitato il diradato uditorio a leggere quelle pagine santissime ed a farne oggetto di costante meditazione, dichiarava come i simboli degli evangelisti fossero visibili nelle quattro vele che coprivano il presbiterio del duomo. Concluso il fervorino, monsignore raggiungeva l’altare ove gli ponevo sulle spalle il bianco pluviale ed assisteva, inginocchiato nel gradino inferiore dell’altare, all’esposizione del Sacramento. Che era compito affidato al cappellano inginocchiato alla destra del celebrante, mentre quello sistemato alla sinistra si limitava ad un ruolo assimilabile alla comparsa. Durante il rito era prassi usuale cantare l’ O salutaris Hostia in attesa di procedere all’incensazione del Sacramento. Avviluppato nel pluviale, monsignore innalzava lo sguardo ai dipinti che decoravano la volta del presbiterio per controllare, mi immagino, se davvero tra il nugolo di putti e di angioletti, vi si potesse ravvisare il tetramorfo evangelico di cui appena prima era andato disquisendo Pur compuntamente prostrato in adorazione del Santissimo, il cappellano che lo affiancava alla sinistra si permetteva di

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sommessamente suggerirgli: “Monsignore, guardi che i simboli degli evangelisti non sono dipinti nella volta del presbiterio di San Vito, ma in quella della parrocchiale di Gleris”. Ineffabile e mellifluo come da prassi, monsignore, recepito il messaggio, rispondeva: “Bravo nino, me pareva de averli visti in qualche banda qua da visin”.

Dopo di che, con la voce calda e baritonale che usava sfoggiare durante i Prefazi delle messe delle feste solenni, dava di piglio al Tantum ergo il cui canto proseguiva, con affettata compunzione, tra le nuvole dell’incenso e le note dell’organo.

Mentre scribacchio queste cosucce, mi viene da sorridere: sunt lacrimae rerum avrebbero saggiamente commentato i latini.

Eppure ancora oggi – chiedo scusa per la ripetizione del concetto già più sopra esposto - mi accade che durante pomeriggi domenicali soprattutto estivi, mentre magari riposo nel piccolo giardino mi ritrovo, nel silenzio, ad avvertire la mancanza del

“campanon” del duomo che, durante la mia adolescenza, annunciava, con lentissimi e prolungati rintocchi, la benedizione con il Santissimo impartita a conclusione del vespro. Voleva, nel 1587, il vescovo di Concordia Matteo Sanudo il Vecchio (per distinguerlo dall’omonimo ed immediato successore Matteo Sanudo il Giovane) che quanti si trovassero nell’impossibilità di partecipare alla funzione in chiesa avessero ad alzarsi nelle proprie abitazioni e, là dove si trovavano per diverse ragioni, a prostrarsi in adorazione del Sacramento.

Non si canta più, se non in rari casi e

comunque con modalità liturgiche di molto diverse dalla antiche, il vespro. Non suona più il “campanon” della benedizione. Forse è necessario rassegnarsi, almeno da parte di chi come me è arrivato al limitare, che le cose vadano a questo modo. Ma, pur non riuscendo a credere più a certe cose di un mio oramai lontano passato, tanto vorrei che mi fosse offerto un tempo ed uno spazio in cui veramente riposare. Che non vuol dire necessariamente che abbia quello spazio ad essere un luogo in cui pregare, ma sicuramente un’oasi in cui sostare, magari con la compagnia di un pochina di buona musica, in pace senza dover accendere quel maledetto televisore.

Mi pare che i preti qualche volta manchino di fantasia.

LA GATTA

La mia gatta (che è anche di mia moglie, ma un pochino meno) si chiama Siba, Termine che è il risultato di una corruzione, per comodità di pronunzia, del termine dialettale toscano “ziba” significante una persona non maritata: zitella, appunto. La Siba di fatto è, non per volontà sua, ma per volontà mia una gatta castrata. E credo che di questa mia scelta, ancora me ne voglia.

E parecchio. Siba è arrivata nel praticello dietro casa, assieme alla sorella gemella Bat, quale grazioso regalo di un cialtrone/

cialtrona che non mi è stata data la grazia di poter ringraziare da almeno ventuno anni. Bat ha levato le tende or è all’incirca un triennio. Siba vive ancora con noi, o, forse meglio, come dicevo, vive con me.

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Tutta la casa è sua con l’eccezione della camera da letto che è locale in cui essa non può e non deve entrare. E di fatto non ci mette mai piede. Tutt’al più, verso mattina, se ha dormito in casa, si affaccia sulla soglia e con un rapido miagolio, mi avverte che desidera uscire. Altra cosa, la cui comprensione che invece mi è da moltissimi anni preclusa, riguarda il che cosa essa pensi di me. Probabilmente, come molti altri che mi conoscono, mi sopporta in vista del succulento padellino che, tre volte al giorno, le faccio trovare in cucina. La invidio. E sarà dunque perché preservata dal dover procreare, sarà perché sempre vissuta tra le mura domestiche, sarà per il rispetto con cui è stata trattata, Siba, l’antichissima, gode di ottima salute, di mente lucida, di memoria ferrea, di appetito invidiabile accompagnato da vergognose pretese alimentari, di spietata attenzione alla pulizia della livrea. Se un difetto, di questi ultimi tempi, può esserle accreditato riguarda questo il progressivo indebolimento dell’uso degli arti posteriori.

Per modo che è diventata pigerrima.

All’avviarsi dell’autunno, anche questo anno, ha cominciato ad insinuarsi, a mo’

di anguilla, or sotto l’uno or sotto l’altro dei caloriferi di casa, rivoltandosi a pancia in su per meglio godere a pieno del tepore e fors’anche – immagino – per ottenere un effetto benefico sulle sue articolazioni posteriori.

Nel corso delle lunghe serate durante le quali, inchiodato davanti al maledetto computer in quello stanzino che mi ostino a chiamare studiolo, nel mentre

vado, obtorto collo, stendendo questo scrittarello, Siba ben spesso mi ha degnato della sua compagnia. Essa, per una qualche sua maligna capacità intuitiva, da sempre ha saputo che, dopo l’ascolto delle poche notiziole del telegiornale e dopo qualche rancoroso commento e dopo la deliziosa visione del programma “Il posto al sole”, se non decido di staccare la spina e di ritirarmi in camera con un qualche buon libro, ho la pessima abitudine di ritirarmi in quel bugigattolo. Fra quei libri accatastati sul pavimento, di tra buste e fascicoli, su plichi di carte e cartelline, Siba trova modo di aggirarsi nell’attesa di rinvenire conveniente covacciolo. Siba mi conosce e conosce il mio disordine ed a quello si adatta anche se con un qualche miagolio di fastidio. Ho notato che predilige i plichi di fogli destinati agli appunti che, non so come, riesce ad individuare quasi di colpo.

Qualora la pila dovesse risultare troppo alta, con le zampe anteriori sprimaccia le carte onde eliminare possibili dislivelli.

Quindi vi si accomoda al di sopra con una soddisfazione che le fusa manifestano. Mi riguarda soddisfatta, alquanto si stiracchia e quindi appicca un primo leggero sonno pronta a risvegliarsi ad ogni mio movimento finalizzato alla ricerca di una penna o allo sfoglio di una cartellina o al funzionamento del mouse. In assenza di particolari problematiche immediatamente contingenti, piano piano si immerge in un suo pacifico riposare ritmato dal lentissimo alzarsi ed abbassarsi della pelosa cassa toracica. Da qualche tempo mi sono convinto che a Siba di quegli appunti,

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di quelle date, di quelle indicazioni bibliografiche, di quel mio mondo noioso non interessa nulla. Ogni volta che la riguardo, le invidio quella sua capacità di abbandonarsi alla sicurezza dell’ambiente ed all’assenza di specifiche problematiche.

Non sono per nulla convinto, come ho appena detto, del fatto che essa sia particolarmente affezionata a me. Sono invece convinto di rappresentare il suo riferimento tutelare preciso. E questo credo le basti. Ma, devo confessare, che pure essa basta a me. E’ per questa sua indipendenza e per il conseguente non aggravarmi di responsabilità – siccome invece potrebbe succedermi con un cane - che mi piace. Da anni.

Essa pure, come me, è arrivata ora molto prossima al limitare della sua vita.

Quando adesso la riguardo acciambellata e pulitissima, sono certo che essa sa, salvo errori ed omissioni, che la accompagnerò a varcare la soglia conclusiva del suo tempo. E per altro, sempre salvo errori od omissioni, mi rattrista il fatto che essa non potrà fare altrettanto nei miei confronti. Ma lo dico solamente per scaramanzia.

Vivete dunque felici.

Fabio Metz

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