Capitolo 1
La Cardiomiopatia Dilatativa
Evoluzione storica del concetto di Cardiomiopatia
La concezione delle malattie primitive del miocardio è progressivamente evoluta nel corso del tempo. Alla metà del XIX secolo la miocardite cronica era l’unica causa riconosciuta di malattia del muscolo cardiaco. Il concetto di malattia miocardica primitiva fu introdotto nel 1900, mentre il termine “cardiomiopatia” fu usato per la prima volta solo nel 1957 (Abelmann et al, 1984).
I successivi 30 anni hanno visto il susseguirsi di svariate definizioni. Nel 1968 la World Health Organisation (WHO) le inquadrò come malattie a eziologia varia e spesso sconosciuta la cui caratteristica dominante è la cardiomegalia e l’insufficienza cardiaca. Nel 1980 il concetto fu esteso alle malattie del muscolo cardiaco da causa ignota, il che era compatibile con la mancanza di conoscenze su cause e meccanismi fisiopatologici di base.
Society and Federation of Cardiology (ISFC), si limitò a definirle malattie del miocardio associate a disfunzione cardiaca, e incluse per la prima volta la displasia aritmogena del ventricolo destro e la cardiomiopatia restrittiva. In base ai tre principali disturbi funzionali riconosciuti vennero ivi distinte le seguenti forme:
• la Cardiomiopatia Dilatativa (CMD), la forma più comune, caratterizzata da dilatazione ventricolare, disfunzione contrattile e frequentemente sintomi di scompenso cardiaco congestizio;
• la Cardiomiopatia Ipertrofica (CMI), che riconosce un’inappropriata ipertrofia del ventricolo sinistro, spesso con interessamento asimmetrico del setto interventricolare, con funzione contrattile conservata fino a che la malattia non si trova in uno stadio avanzato;
• la Cardiomiopatia Restrittiva (CMR), il quadro meno comune nei paesi occidentali, caratterizzata dal difficoltoso riempimento diastolico e talora associata a fibrosi endocardica del ventricolo.
Questa schematizzazione tuttavia presenta grosse limitazioni visto che considera designazioni anatomiche (ipertrofica e dilatativa) con una funzionale (restrittiva). Si rischia cioè di far confusione nei casi in cui la medesima malattia può esser classificata contempoaneamente in due categorie diverse.
Per tali motivi proprio in questo 2006 è uscita un’ultima classificazione, che definisce la Cardiomiopatie primitive come un gruppo eterogeneo di malattie del miocardio associate ad una disfunzione meccanica e/o elettrica, caratterizzate solitamente da un’inappropriata ipertrofia o dilatazione ventricolare e che sono dovute ad una varietà di cause frequentemente genetiche (Maron et al, 2006).
Meccanismo patogenetico Denominazione Forme genetiche • Cardiomiopatia Ipertrofica
• Cardiomiopatia/Displasia aritmogena del ventricolo sinistro
• Noncompaction del ventricolo sinistro • Anomalie del sistema di conduzione
• Malattie dei canali ionici (Sindrome del QT lungo, Sindrome del QT corto, Sindrome di Brugada, Tachicardia Ventricolare polimorfa catecolaminergica, Fibrillazione ventricolare Idiopatica)
Forme miste (genetiche e
acquisite)
• Cardiomiopatia Dilatativa
• Cardiomiopatia Restrittiva Non Ipertrofica
Forme acquisite
• Miocarditi (cardiomiopatie infiammatorie) • Cardiomiopatia da stress (“Tako-Tsubo”) • Cardiomiopatia port-partum
Tabella 1.1. Classificazione moderna delle Cardiomiopatie
Secondo la visione odierna, quindi, le Cardiomiopatie rappresentano un gruppo di malattie la cui caratteristica dominante è il diretto e primitivo interessamento del miocardio. Dal punto di vista eziopatogenetico si distinguono dalle altre patologie cardiache in quanto non rappresentano la conseguenza di aterosclerosi, ipertensione, alterazioni valvolari o pericardiche. Sebbene la diagnosi richieda l’esclusione di questi fattori eziologici, le caratteristiche delle singole forme, sia cliniche che emodinamiche, sono spesso già da sole sufficientemente distinte da consentire un preciso inquadramento.
Con l’aumento dell’attenzione verso queste condizioni, insieme ai miglioramenti delle tecniche diagnostiche, le cardiomiopatie vengono ormai riconosciute come una causa importante di morbilità e mortalità. I dati di incidenza e prevalenza sono in aumento negli ultimi anni, e questo soprattutto per una migliore capacità rispetto al passato di riconoscerle precocemente nella loro evoluzione naturale.
L’attenzione di questa tesi è focalizzata sullo studio della forma più comune, ovvero la Cardiomiopatia Dilatativa, per cui nelle prossime pagine seguirà un compendio di ciò che è noto finora su tale patologia.
La Cardiomiopatia Dilatativa
Epidemiologia e storia naturale
La Cardiomiopatia Dilatativa, la più frequente delle cardiomiopatie, costituisce la terza causa più frequente di scompenso cardiaco dopo la cardiopatia ischemica e l’ipertensione e rappresenta, nelle forme avanzate o refrattarie alla terapia medica, la prima causa di trapianto cardiaco. Precedentemente denominata “cardiomiopatia congestizia”, attualmente viene universalmente preferito il termine “dilatativa” dal momento che le caratteristiche fondamentali ai fini della diagnosi sono:
• l’aumento di dimensioni del ventricolo sinistro (in alcuni casi anche del ventricolo destro)
• la disfunzione sistolica, ovvero un deficit della capacità contrattile del muscolo cardiaco
Occasionalmente in alcuni pazienti il dato predominante è quello della disfunzione contrattile in presenza di minima dilatazione del ventricolo sinistro. Per contro, non è infrequente riscontrare in atleti assolutamente asintomatici uno spiccato aumento dimensionale del ventricolo sinistro in presenza di una funzione sistolica perfettamente conservata. Tale dato attualmente viene interpretato alla stregua di un parafisiologico adattamento all’esercizio fisico e non rappresenta uno stato di malattia, sebbene le conseguenze a lungo termine non siano mai state accuratamente studiate.
L’incidenza della CMD si aggira intorno ai 5-8 casi per anno su 100000 ed appare essere in aumento (Braunwald et al, 2000). Tuttavia tale dato sottostima la reale presenza della malattia nella popolazione generale a causa del fatto che molti casi non vengono riportati ai centri epidemiologici e che molte forme asintomatiche o lievi vengono diagnosticate tardivamente, quando ad esempio il riscontro di una stenosi coronarica fa classificare la malattia nel capitolo dell’insufficienza cardiaca da causa ischemica. Colpisce tre volte più frequentemente i neri ed individui di sesso maschile nei confronti rispettivamente di bianchi e femmine, e questa differenza è totalmente indipendente da differenti gradi di ipertensione, consumo di sigarette o abuso alcolico. Inoltre la sopravvivenza in neri e maschi sembra esser peggiore rispetto a quella di bianchi e femmine, rispettivamente (Dries et al, 1999) .
Non è possibile tracciare un quadro unitario della storia naturale della CMD. Alcuni pazienti sono inizialmente paucisintomatici o del tutto privi di sintomi e segni di malattia, e la progressione della malattia può essere inarrestabile verso lo scompenso cardiaco congestizio; in altri casi la disfunzione contrattile può rimaner stabile o addirittura migliorare sotto un adeguato controllo farmacologico. Tuttavia, nei pazienti che esordiscono o che, ad un certo stadio della malattia, mostrano evidenti segni e sintomi di insufficienza cardiaca, il decorso naturale è quasi sempre quello di un progressivo deterioramento che conduce a morte entro un anno dal 10 al 50% dei casi (Deedwania et al, 2003). Esiste tuttavia una porzione importante di pazienti, che secondo alcuni si aggira intorno al 20-25% che migliorano spontaneamente e in modo progressivo nel corso del tempo.
Anatomia patologica
Nella Cardiomiopatia Dilatativa il cuore ha un peso di 2-3 vote superiore al valore normale, consistenza flaccida e tutte le sue camere sono dilatate. Lo spessore del miocardio parietale può risultare minore, uguale o superiore al normale. I trombi murali sono frequenti, e possono dare origine ad emboli. Non si repertano alterazioni valvolari primitive e l’eventuale presenza di reflusso mitralico è da ascrivere alla dilatazione della camera ventricolare sinistra (reflusso mitralico funzionale). Nelle coronarie non si osservano, in genere, stenosi significative, e comunque l’eventuale presenza di lesioni ostruttive e di aspetti tipici di fibrosi cicatriziale del miocardio non è di entità tale da giustificare il grado di disfunzione cardiaca.
Le alterazioni istologiche nella CMD “idiopatica” non sono specifiche e di solito non sono indicative di un agente eziologico particolare. La loro severità non rispecchia necessariamente il grado di funzionalità e la prognosi del paziente. La maggior parte delle cellule sono ipertrofiche con nuclei ingranditi, ma molte sono assottigliate e stirate. E’ presente fibrosi interstiziale ed endocardica di grado variabile e sono spesso evidenti cicatrici fibrose, a distribuzione irregolare e a localizzazione più frequentemente subendocardica (Dec et al, 1994). Queste lesioni sono probabilmente espressione della riparazione di un danno ischemico conseguente allo squilibrio esistente fra richiesta di ossigeno da parte del miocardio e l’effettiva perfusione, a causa della ipertrofia del cuore. Particolarmente deludente è stato il tentativo di identificare un marker immunologico, istochimico, morfologico, ultrastrutturale o microbiologico utile per facilitare la diagnosi o chiarire la sua causa nelle forme idiopatiche.
Eziopatogenesi
Circa il 40% di tutti i pazienti con un quadro clinico chiaro di CMD non hanno un’eziologia identificabile, e sono perciò classificati all’interno della già citata definizione di Cardiomiopatia Dilatativa Idiopatica. E’ probabile che questa condizione rappresenti un quadro comune di danno miocardico prodotto da una varietà di insulti non ancora identificati.
Per quanto riguarda le altre cause, è noto che 4 sono i possibili meccanismi di danno: 1) fattori genetici o familiari 2) anormalità immunologiche 3) miocarditi virali 4) danno citotossico da alcool (“cardiomiopatia alcolica”). ( Figura 1.1).
25%
10%
10%
15%
40%
Familiare
Autoimmunitaria
Virale
Alcolica
Idiopatica
Figura 1.1. Distribuzione percentuale delle varie forme di Cardiomiopatia Dilatativa in funzione dell’eziopatogenesi
Forma familiare
all’interno della stessa famiglia, di almeno due individui ai quali venga diagnosticata la malattia. La prevalenza di tali forme si aggira intorno al 25-30% dei casi totali. La CMD familiare viene comunemente ereditata come tratto autosomico dominante; meno frequentemente l’ereditarietà è associata al cromosoma X, di tipo autosomico recessivo o trasmessa dal DNA mitocondriale (Mestroni et al, 1997).
Per quanto riguarda la trasmissione autosomica dominante sono stati finora identificati più di una dozzina di loci cromosomici, risultato di mutazioni di geni che codificano per proteine citoscheletriche, della membrana nucleare o contrattili. tra cui la desmina, la titina o la troponina T (Chien et al, 2003; Itoh-Satoh et al, 2002). Una forma particolare è quella dovuta alla mutazione del gene della laminina A/C, associata a difetti di conduzione, coinvolgimento muscolare scheletrico e ridotta sopravvivenza in età adulta (Taylor et al, 2003). Un’altra variante riguarda il fosfolambano e porta ad una disregolazione del calcio miocellulare (Haghighi et al, 2003).
In ordine di frequenza, dopo le forme autosomiche dominanti, si collocano quelle con ereditarietà legate al cromosoma X. Una di queste è caratterizzata alla delezione della regione promotrice del primo esone del gene che codifica per la proteina distrofina, una componente del citoscheletro miocitario (Towbin et al,
1993). Meno frequentemente mutazioni del gene dell’emerina determinano una
miopatia con blocco atrio-ventricolare che, occasionalmente, si associa alla Cardiomiopatia Dilatativa (Cartegni et al, 1997). La sindrome di Barth rappresenta un’altra forma con insorgenza tipica in età pediatrica (D’Adamo et al, 1997).
Per quanto riguarda la trasmissione di tipo autosomico recessiva, per la verità piuttosto rara, le mutazioni principali sembrano anch’esse coinvolgere, stavolta indirettamente, il sistema della proteina distrofina, in particolare determinando alterazioni delle glicoproteine ad essa associate, responsabili di miopatia periferica e cardiomiopatia (Ozawa et al, 1998).
Infine, sono state associate alla Cardiomiopatia Dilatativa, sia nella sua forma sporadica sia in quella familiare, anche alterazioni a carico del DNA mitocondriale (Arbustini et al, 1998).
predisposizione genetica alla CMD rimane ignoto. C’è un grosso interesse all’applicazione di tecniche di genetica molecolare per identificare markers di suscettibilità alla malattia in portatori asintomatici a rischio di evoluzione verso una CMD manifesta.
Fattori autoimmunitari
La prevalenza di autoanticorpi è simile nelle forme familiari e in quelle sporadiche di Cardiomiopatia Dilatativa. Essi si ritrovano anche in parenti di primo grado sani o che presentano solamente una disfunzione asintomatica.
Sono state descritte alterazioni sia dell’immunità umorale sia di quella cellulo-mediata in pazienti affetti da Cardiomiopatia Dilatativa ed è stato ipotizzato un loro coinvolgimento nell’iniziazione e nella progressione della malattia. In particolare sono stati identificati una varietà di autoanticorpi contro proteine cellulari cardiache,
tra cui recettori accoppiati a proteine G (come i recettori β1-adrenergici e
muscarinici colinergici), la miosina, proteine mitocondriali, l’actina, la tubulina, le heat shock proteins e l’ATPasi del reticolo sarcoplasmatico (Liu et al, 2002; Baba et al, 2002) . Il ruolo fisiopatologico di questi autoanticorpi è tuttavia lontano dall’esser chiarito, dal momento che bassi titoli plasmatici si ritrovano anche in soggetti sani e fanno parte del normale corredo immunologico di un individuo. L’interpretazione delle scoperte è poi ulteriormente complicata dal fatto che la CMD è una malattia eterogenea dal punto di vista eziologico, e i meccanismi autoimmuni potrebbero esser importanti solamente in un sottogruppo di pazienti.
Evidenze che gli autoanticorpi possano dar inizio alla sequenza di eventi che porta alla dilatazione e alla disfunzione contrattile provengono solamente da modelli sperimentali. Ad esempio, l’iniezione di anticorpi antimiosina nei ratti induce una miocardite autoimmune morfologicamente simile a quella umana. Recentemente è stato dimostrato che la somministrazione di due autoantigeni, i recettori muscarinici colinergici e i β1-adrenergici, determina modificazioni funzionali e morfologiche
non c’è evidenza che gli autoanticorpi possano avere un ruolo iniziante nella patogenesi della CDM nell’uomo. La loro produzione può però favorire la progressione della disfunzione contrattile. In virtù dell’interazione con componenti chiave della cellula, possono influenzare la contrattilità e il metabolismo miocardico. Ad esempio, l’interruzione della via β-adrenergica influenza sia la fase di contrazione che quella di rilasciamento, così come l’inibizione della Ca++-ATPasi o dei canali del
Ca++ del reticolo sarcoplasmatico ostacola la sua ricaptazione; è stato inoltre
dimostrato che anticorpi antimitocondrio alterano il metabolismo miocardico (Limas et al, 2002). Queste anormalità funzionali indotte da autoanticorpi rispecchiano alterazioni presenti nella Cardiomiopatia Dilatativa e perciò supportano l’ipotesi che essi abbiano un ruolo nell’induzione di danno miocardico e nel contribuire alla progressione della malattia. E’infine noto che i pazienti che presentano elevati valori autoanticorpali circolanti sono affetti da forme emodinamicamente e clinicamente più gravi, sebbene non sia chiaro se questa correlazione rifletta un loro effetto diretto oppure se essi siano solo un epifenomeno.
Forma virale
Il ruolo di agenti infettivi, principalmente di tipo virale, nella genesi e nella progressione della Cardiomiopatia Dilatativa è molto discusso. Alcune delle forme cosiddette sporadiche potrebbero trovare la loro ragion d’essere nell’attacco diretto al miocardio da parte di un virus. Recentemente Kuhl et al (1995) hanno eseguito una ricerca di genomi virali su biopsie miocardiche su 245 individui con recente diagnosi di CDM trovando che addirittura due pazienti su tre avevano positività per uno o anche più virus contemporaneamente. I virus principalmente coinvolti sono il parvovirus B19 (51,4% delle biopsie), Herpes virus umano di tipo 6 (21,6%), Enterovirus (9,4%) e poi con percentuali inferiori Adenovirus, HIV e virus di Epstein-Barr. Questi dati sono in contraddizione con tutti i precedenti studi, dove positività alla ricerca di genomi virali in cuori umani affetti da Cardiomiopatia
parvovirus B19 sia l’HH6 sono capaci di infettare diversi tessuti, tra cui cellule endoteliali e cardiomiociti fetali. L’elevata espressione dei loro recettori sulle cellule endoteliali potrebbe facilitare l’infezione dell’endotelio vascolare. L’HH6 può inoltre lisare direttamente e quindi distruggere le cellule bersaglio, oppure potrebbe indurre reazioni di tipo immune o autoimmune responsabili del progressivo deterioramento della funzione contrattile. Anche una modesta carica virale potrebbe teoricamente sostenere la progressione della malattia, o attraverso un effetto citopatico diretto, o attraverso reazioni dovute alla presenza del virus, come infiammazione cronica locale, liberazione di citochine, distruzione della distrofina, modulazione delle vie di trasduzione del segnale o alterazioni della matrice extracellulare. Ulteriori studi supportano il possibile ruolo di virus nella genesi della CMD, chiamando in causa di volta in volta il virus dell’HIV, il Cocsackievirus, il virus di Epstein Barr o l’Enterovirus.
La scoperta di genomi virali a livello miocardico tuttavia non rappresenta di per sé la prova del coinvolgimento nella patogenesi o nella ulteriore progressione della malattia. Il reale ruolo dei virus nell’eziopatogenesi è infatti ancora da definire con precisione, anche perché poco è noto riguardo alla presenza di genomi virali in cuori normali, così come poco si sa perché in alcuni casi l’infezione virale porta alla progressiva riduzione della funzione contrattile mentre in altri risulti totalmente inefficace. Il coinvolgimento di un agente infettivo si può ipotizzare in quelle forme di CMD caratterizzate dalla rapida riduzione della contrattilità e dalla progressiva dilatazione delle camere cardiache che, nel corso di mesi o anche anni, ritornano ad uno stato di buon compenso funzionale.
Cardiomiopatia alcolica
L’eccessivo consumo cronico di alcool è associato a diverse affezioni cardiovascolari, come ipertensione, eventi cerebrovascolari, aritmie, morte improvvisa e CMD. Nel mondo occidentale rappresenta la causa di CMD in circa il 15% dei casi (Piano el al, 2002). Il suo coinvolgimento nella patogenesi della malattia
è indicato dal fatto che la cessazione del consumo di alcool può bloccare la progressione o addirittura migliorare la disfunzione contrattile del ventricolo sinistro, cosa che non avviene invece nella forma non alcolica, caratterizzata da un deterioramento clinico progressivo.
Il consumo di alcool può provocare un danno miocardico attraverso tre meccanismi:
• un effetto diretto dell’alcool e dei suoi metaboliti;
• problemi nutrizionali, più comunemente associati alla deficienza di assorbimento di tiamina (beri-beri);
• raramente, effetti tossici da parte di additivi (cobalto) nelle bevande alcoliche. Per quanto riguarda l’effetto tossico diretto, è stato dimostrato che l’alcool e il suo metabolica acetaldeide interferiscono con diverse funzioni cellulari e di membrana tra cui il trasporto ed il legame del Ca++, la respirazione mitocondriale e il
metabolismo lipidico miocardico, la sintesi proteica e la trasduzione del segnale (Duan et al, 2002).
Tuttavia dal momento che non tutti gli alcolisti sviluppano la cardiomiopatia, la relazione tra lo sviluppo della disfunzione e la dose di alcool è complesso e multifattoriale, e pare esista una predisposizione genetica individuale (Fernandez-Sola et al, 2002)
Le alterazioni macro e microscopiche sono aspecifiche e simili a quelle osservate nelle altre forme di CMD, con fibrosi interstiziale, miocitolisi, rarefazione capillare e ipertrofia miocitaria (Piano et al, 2002).
Tutti i casi di Cardiomiopatia Dilatativa che non rientrano all’interno delle categorie precedentemente descritte, ovvero la forma familiare, quella autoimmunitaria, quella virale e quella alcolica, vengono generalmente definiti con il termine Idiopatica. Questa definizione viene comunemente utilizzata nel gergo medico quando non è presente una causa ben identificata che possa spiegare perché una malattia insorga e come essa progredisca nel tempo.
Cardiomiopatia Dilatativa Idiopatica, grazie alla tomografia ad emissione di positroni (PET), la presenza di una ridotta perfusione tissutale sia in condizioni basali sia durante vasodilatazione massima in assenza di stenosi emodinamicamente significative delle arterie coronarie (Neglia et al, 1995 e 2002). Questa condizione appare assolutamente speculare a ciò che avviene quando si vanno a studiare i territori definiti ischemici secondo la concezione tradizionale, irrorati cioè da coronarie in cui sia stata dimostrata la presenza di una stenosi determinante una marcata riduzione del flusso a valle (Sambuceti et al, 1993). La condizione di ridotta perfusione tissutale, che fa rientrare la Cardiomiopatia Dilatativa all’interno dell’ormai ampio gruppo di patologie caratterizzate dalla disfunzione del microcircolo coronarico, è applicabile anche alle forme non idiopatiche (ad esempio quella alcolica) ed è spesso presente anche nell’insufficienza cardiaca da causa nota (ischemica, ipertensiva, valvolare etc…) (Uren et al, 1994; Gimelli et al, 1998). Questa peculiarità comune potrebbe giocare un ruolo importante nella progressione della dilatazione ventricolare e della disfunzione contrattile nel tempo.
Un altro argomento di recente interesse riguarda il possibile coinvolgimento dell’alterazione del metabolismo miocardico nella patogenesi della disfunzione contrattile. E’ noto infatti che, mentre in condizioni normali il cardiomiocita ottiene la maggior parte della propria energia dall’ossidazione degli acidi grassi, nella Cardiomiopatia Dilatativa, e in molte altre condizioni di ridotta perfusione miocardica (Davila-Roman et al, 1996), il cuore ossida preferenzialmente substrati glucidici, ovvero glucosio, lattato e piruvato. Condizione di parafisiologico adattamento o meccanismo patologico di per sé? La conseguenza questo cronico “switch” metabolico è ancora in gran parte da studiare e da capire.
Nei prossimi capitoli focalizzeremo l’attenzione sul grosso capitolo del microcircolo coronarico, sia dal punto di vista della sua fisiologia, per come è stata studiata negli ultimi 20 anni, sia della sua disfunzione in varie condizioni patologiche, tra cui in particolare la Cardiomiopatia Dilatativa. Successivamente ci concentreremo sul possibile ruolo patogenetico dell’alterazione del metabolismo
miocardico, dapprima descrivendo il tipo di substrati di cui si serve il cuore sano per produrre energia, per poi analizzare nello specifico la condizione della CMD.