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PARTE SECONDA: ANALISI DELL’OPERA.

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Academic year: 2021

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PREMESSA.

IL ROMANZO STORICO OLTRE IL MANZONI.

Romanzo storico si considera quel genere misto di storia e d’invenzione, in cui una vicenda privata si va ad inserire in un ben determinato momento storico da cui il privato subisce una forte caratterizzazione; e viceversa, con questo instaura rapporti. Ciò vuol dire che l’elemento storico assumere un ruolo narrativo che vada al di là del semplice effetto scenografico; motivo per cui possiamo restringere la denominazione di romanzo storico a quel genere nato agli inizi dell’800 in seno al romanticismo, nell’ambito del generale rilancio degli interessi storici di quel periodo.

Nella sua forma classica, inaugurata da Walter Scott, tale genere mette al centro della scena personaggi di livello sociale piuttosto elevato, la cui vicenda privata (quasi sempre a sfondo erotico-avventuroso) va ad interagire con i contemporanei accadimenti storici. I protagonisti sono figure positive, esemplari, depositarie di quei valori che vanno a costituire il senso morale del racconto; mentre gli altri personaggi possono essere rappresentativi di una certa categoria sociale o contribuire alla resa del così detto colore storico.

Il Manzoni per parte sua si avvicina a questo genere per una via più complicata, meditando lungamente sul difficile rapporto tra il fine del realismo narrativo ed il vero storico.

Quindi già nel ’21, nella prima introduzione al Fermo e Lucia, difendeva il romanzo storico molto prima della sua affermazione su scala nazionale come primo genere letterario di largo consumo, e sembrava indicarlo come strumento di una consapevole avanguardia realistica.

Due anni dopo nella lettera Sul romanticismo specifica ulteriormente questa tematica e, là dove introduce i fondamentali concetti di “vero”, “utile” e “interessante”, indica il vero storico realisticamente espresso come unico mezzo atto a suscitare, sia un indiretto insegnamento morale, sia un vivo e

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partecipe interesse. In ciò risiede anche il grande senso di responsabilità etica riassumibile nel manzoniano principio di necessità: secondo cui la letteratura in generale dovrebbe “proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto, e l’interessante per mezzo”.

Nei Promessi sposi è infatti cambiato tutto rispetto alla tradizione precedente: così la presenza di protagonisti di umili origini marginali al grande flusso degli eventi storici, da una parte garantisce il rispetto scrupoloso della Storia; dall’altra fa sì che questa risulti illustrata in modo pienamente realistico, attraverso un angolo prospettico che genera nel lettore una forte identificazione, e quindi grande interesse per una vicenda sentita più vicina e verosimile. Per cui anche l’intento morale trova la sua “utilità” nella tensione al vero, o almeno nella sua illusione di realtà; così anche se qui nessun personaggio s’identifica pienamente con il punto di vista dell’autore, tuttavia questo trae maggiore efficacia comunicativa proprio dalla trama polifoniaca che percorre tutta l’opera e che ne costituisce il vero punto di forza in senso realistico.

Infatti, in nome di questa misura più quotidiana di narrare la storia, Manzoni, sempre nella stessa lettera (come poi anche in quella a Victor Cousin del ’29-’30), prende le distanze dai suoi contemporanei e dalla moda romantica dell’intreccio avventuroso e sentimentale, ricco di scene sentimentali, tragiche o eroiche, preferendo invece una storia eccezionale pur nella sua semplice e dimessa quotidianità.

Infine nel saggio Del romanzo storico (’28-’50) arriva addirittura a negare la validità stessa dei componimenti misti di storia e d’invenzione, non tanto per caratteristiche intrinseche al genere (che aveva difeso tra i primi pochi anni addietro), quanto piuttosto per esaurimento funzionale del genere stesso. Tale critica affonda le radici nella cultura moderata di quegli anni che, in Italia, venuto meno il fervore della prima stagione romantica, vede spezzato il rapporto dialettico tra invenzione e storia e spenta la tensione a rifare quest’ultima.

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Sancita la morte del romanzo storico Manzoni s’indirizza quindi verso l’incontestabilmente “vero”, verso il romanzo-inchiesta (di cui ci lascia un esempio nella Storia della colonna infame).

Tuttavia i più seguiranno invece la direzione opposta per cui il genere continuerà variamente per molti anni ancora, imponendosi come forma di largo consumo proprio nel terzo decennio del secolo, ma distanziandosi sempre più dall’esempio manzoniano. Tale presa di distanza si può determinare in primo luogo (ancor prima che in merito a ragioni formali di composizione del testo) sulla base di una diversa penetrazione realistica e di un’altrettanto diversa profondità critica.

Infatti nei Promessi sposi “la formula vulgata di storia e invenzione è esattamente rispettata da Manzoni: ma la prima non si riduce a didascalia pittoresca e la seconda non si riduce a una passeggiata della fantasia…. Il raccordo tra i due poli è capitale e…reclama dai lettori un’adesione critica, non una compartecipazione emotiva”1.

In questo senso sembra essere proprio il tipo di rapporto con il pubblico a mutare. Per cui nel successivo romanzo storico italiano, vedremo invece il narratore sempre più farsi giudice unico della vicenda, ed ergersi con aperto pedagogismo a istruttore e guida del lettore; al quale, azzerata ogni azzerata ogni dialettica polifonia, rimane appunto solo la possibilità di una compartecipazione emotiva con le sorti dei personaggi del racconto. E’ questa la finalità che il successivo romanzo storico perseguirà maggiormente tramite l’effetto garantito dalla spettacolarizzazione delle epoche passate: e da qui anche il motivo della riduzione del genere a letteratura di consumo e di facile fruizione.

Vede così la luce negli anni successivi una lunga serie di prodotti d’evasione in cui “il pittoresco scottiano si è convertito in licenza dell’immaginazione e il nesso storia-invenzione è diventato un amalgama antirealistico di fotomontaggi scenografici e decorativi”2. Quindi già in

opere coeve o di poco successive all’uscita dei Promessi sposi, 1 Gino Tellini, Il romanzo italiano dell’ottocento e novecento, Milano, Mondatori, 1998, p. 54. 2 Gino Tellini: op. cit., p. 60.

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indipendentemente dalla posizione ideologica dei singoli autori, possiamo notare, da una parte una decisa convergenza verso forme di “realismo senza censura” tipiche di un consolidato genere popolare quale la letteratura gotica, dall’altra un generale appiattimento ed una certa omogeneizzazione delle scelte operative.

Per esempio tra autori come Guerrazzi, Varese, Bazzoni, Rosini, D’azeglio, Grossi o Cantù, pur cambiando di molto quella che per ciascuno è l’idea della storia, tuttavia sono distinguibili indubbi tratti comuni, sia nell’insistenza sulla tematica della “pittura raccapricciante del male, della violenza sadica e irrazionale che sconvolge il mondo della storia”3, sia nella

tecnica compositoria affidata ad una serie di cliché standardizzati.

Già nel ‘30 il Tommaseo fa in proposito un po’ il punto della situazione e sulle pagine dell’Antologia, parlando de I prigionieri di Pizzighettone di Varese, prende le distanze da questo tipo di letteratura di facile fruizione e fornisce una sorta di ironica ricetta contenente le regole cui deve attenersi uno scrittore che voglia comporre un romanzo storico “nelle regole”.

“Primariamente tutti i capitoli debbono cominciare da una citazione o di poeta od anche di prosatore; se oscura, se impertinente la cosa di cui si tratta tanto meglio.

Poi il vostro romanzo prenderà le mosse da un bel pezzo di storia cruda, lardellata di qualche similitudine, di qualche sentenza, di qualche citazione o furtiva o patente: ovvero da una buona descrizione topografica d’una valle, d’un monte, d’una città, d’un castello. Riman libero al genio scegliere tra queste due vie: ma la regola generale si è che nel principio del romanzo si debba trovare il brano di storia e la parafrasi d’una carta topografica.

Poi venga un bel dialogo che vi faccia conoscere bene bene di che cosa si tratti. Questo dialogo può essere o serio o faceto ma faceto sarà migliore; e ciò che più importa dev’esser lungo.

La lunghezza ancor più che ne’dialoghi è di regola nelle descrizioni.Voi non dovete presentare un personaggio in iscena, senza tacerne il nome, senza darne i connotati, vale a dire statura, viso, mento, occhi, capelli, marche particolari; e sopra tutto la foggia dell’abito, dalla punta degli stivali fino all’ultima piuma dell’elmo. Se il personaggio discorrendo fa un gesto con la mano o col piede, un cenno cogli occhi, col viso, se raggrinza il naso o la fronte, e voi in mezzo al dialogo aprite una parentesi, e notate la 3 GINO TELLINI: op. cit., p. 40.

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cosa più che se si trattasse di un interrogatorio criminale: se mentre parla, gli si gira pel capo un pensiero che serve a modificare o a interpretare il senso delle sue parole, e voi coglietelo a volo quel pensiero, conficcatelo sulla carta, interrompete il dialogo per farne la sezione cadaverica. Regola generale: tanto i peli della barba, quanto i moti primi dell’anima, debbono tutti passare dal porta oggetti del vostro microscopio: quanto più la cosa da narrarsi minuta, recondita, impercettibile agli occhi stessi del personaggio in cui voi la sognate, tanto più sarà preziosa, tanto più voi parrete filosofo scrutatore delle anime e delle reni.

Quindi è necessario che i soliloqui diventano a voi necessari quanto gli a parte a un avveduto scrtittor di commedie.

Egli è inutile poi d’avvertire che se nel mezzo del romanzo, o alla fine vi capita poi di dare ai lettori una breve o lunga lezione di storia, non solo voi non dovete tramandarla, ma, come direbbe un francese, passer la chose à bout; e come si direbbe in volgare non aulico vuotate il sacco.

Ma uno degli ingredienti più sostanziosi della vostra manipolazione sarà un personaggio buffone, che sia quasi sempre in iscena, come ipersonaggi dell’Alfieri; che si attacchi agli eroi principali come un cane alla preda, e in mezzo alle paure e ai pericoli li perseguiti per farli sorridere. Di simili personaggi potrete averne nel vostro romanzo più d’uno; potrete dar loro o una monomania di ridicolo,o propriamente il mestiere e la commissione di rallegrare la scena….

Grandi e piccoli, monarchi e usurai, letterati e carnefici, siano tutti dipinti con ugual finitezza; tutti, al possibile interessanti del pari. Aggiungete un personaggio misterioso che renda lo spettacolo un po’ melodrammatico, e avrete composto un romanzo storico nelle regole”4.

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CAPITOLO PRIMO.

LA SERIE DELL’INNOMINATO: TRA ROMANZO STORICO E

ROMANZO D’APPENDICE.

Tutti gli ingredienti di questa ricetta, tutti i cliché, le regole ed i precetti che hanno caratterizzato la forma classica del nostro romanzo storico, si ritrovano con puntuale esattezza, a ben trenta anni di distanza, anche nei romanzi della serie dell’Innominato. A livello stilistico sono quindi le risorse del noir, del misterioso, del melodrammatico e del comico, nonché la continua ricerca di preziosità e analiticità nelle descrizioni, tanto degli ambienti quanto dei personaggi, a costituire il maggior legame tra il Gualtieri e la precedente tradizione italiana di romanzi storici.

Più in generale invece possiamo poi trovare motivo di continuità proprio nel modo di intendere il rapporto con le epoche passate e con il pubblico. Anche qui si ripropone la consolidata formula di uno scenografico fondale storico di sicuro effetto, in cui il lettore condotto dalla presenza costante ed invasiva di un autore sempre pronto a commentare e giudicare la vicenda e viene portato quindi ad una completa ed univoca compartecipazione emotiva con quest’ultimo e con le sorti dei personaggi.

Nel ’57, quando Gualtieri mette mano al primo romanzo della serie, si trova quindi ad avere a sua disposizione la tradizione di un genere letterario sicuramente ormai in fase di declino ma al tempo stesso ben codificato in una sorta di ricco repertorio di cliché e regole da cui attingere a piene mani. Il suo rapporto con la tradizione è quello di un vero e proprio predone che senza troppi riguardi fa razzia di situazioni e luoghi narrativi di consolidata fortuna arrivando a creare un vero e proprio collage difficilmente definibile ed inquadrabile.

Vi troviamo quindi tratti di quel pietismo remissivo e consolatorio, mediato da una lettura favolistica dei Promessi sposi, a fianco a motti d’entusiasmo patriottico o d’enfasi oratoria alla D’Azeglio o alla maniera di Guerrazzi; vi troviamo però anche scene storico-esotiche, pittoresche e spettacolari come

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nelle opere di Varese o del Grossi; oppure passi d’erudizione romanzata come in Rosini, o di teatralità eccessiva e spettacolare come, ad esempio, in Bazzoni e Cantù.

Agevolato anche dall’estrema lunghezza della serie Gualtieri riesce nei suoi romanzi a far coesistere insieme un po’ tutti i diversi modi di trattare la storia frequentati in precedenza da altri autori: vediamo insomma una vera e propria summa di tutta la precedente tradizione del romanzo storico italiano confluire in modo vario in ciascuno dei sette libri della serie dell’Innominato.

Tuttavia un confronto limitato a tale genere letterario rischierebbe di ridurre la vastissima varietà di spunti che troviamo in questi libri e finirebbe per semplificarne l’indecifrabile fisionomia.

In effetti nei trent’anni che intercorrono tra l’uscita dei Promessi sposi e la pubblicazione dell’Innominato il panorama letterario è molto mutato e soprattutto si è estremamente diversificato e ramificato in virtù anche della incontenibile e strabordante diffusione commerciale del romanzo. Anche quello storico dopo gli anni trenta, ormai in fase di declino, tenderà a rivitalizzare se stesso accogliendo nel suo repertorio temi e modi narrativi provenienti da coevi generi impegnati nella riscoperta del presente: questa è sicuramente, come vedremo, la linea seguita proprio da Gualtieri che, come sottolinea giustamente Piancastelli, opta per la scelta di una letteratura impegnata nel sostenimento delle ideologie di maggior voga in campo letterario.

Quindi nel ventennio preunitario da una parte vediamo riversarsi sul presente quel fervore etico e patriottico che si era prima applicato alla rilettura del passato. Vedono quindi la luce tutta una serie di romanzi di formazione incentrati sui temi cardine della patria e dell’amore che per tecniche e modi di composizione si possono tuttavia collocare proprio agli antipodi del romanzo storico. Si veda infatti la distanza incolmabile che separa i classici scrittori di opere storiche e anche lo stesso Gualtieri dalle opere di autori come Nievo, Tommaseo, Maffei, Ruffini o Rovani.

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Dall’altra l’appressamento al presente segue invece la via moderatamente borghese dell’ostentazione di filantropico rigore morale vestendo inizialmente di preferenza gli abiti del racconto pedagogico o della narrativa campagnola in cui il modello degli umili manzoniani è degradato in populismo idilliaco-patetico. Questo sarà il filone che, ispirato ad un realismo intimo e moderato, riceverà plauso da più parti e risulterà terreno fertilissimo soprattutto nel periodo postunitario e nell’ambito della moderna diffusione industriale della narrativa (Giocosa, De Amicis, Barilli, Castelnuovo, Rovetta). Anche tra questo tipo di letteratura e la serie dell’Innominato tuttavia i rapporti sono pochi ed essenzialmente di tipo episodico.

Al contrario possiamo trovare legami di filiazione con un genere molto meno frequentato nel nostro paese5 (almeno sino all’unità nazionale) ma di

forte risonanza a livello europeo: il romanzo sociale.

Per questo tipo di romanzo attento alle classi più povere in Italia funzionerà da modello soprattutto l’enfasi umanitaria di Sue, osannato in specie per

Les mistères de Paris apparsi a puntate sul parigino Journal des dèbats dal

19 giugno 1842 al 15 ottobre 1843. Quest’opera, tradotta in italiano nel ’48 assieme a Le Juif errant eserciterà un influsso destinato a durare nel tempo parallelamente all’espansione anche in Italia del filone popolare e d’appendice: “l’originario apostolato sociale-umanitario….si trasforma in apoteosi del senzionalismo a scopi consumistici nella miriade di misteri” e così “la denuncia della miseria imbocca la strada non dell’inchiesta conoscitiva ma del romanzesco avventuroso, del mistero melodrammatico, della commozione patetica, con condimento di aromi piccanti a uso e diletto del bel mondo borghese…”6.

5 Autori come Ranieri, Guglielmucci, Montazio, Mastriani, Emiliani-Giudici, ma anche come

Carcano, Dall’Ongaro o come la Percoto hanno imboccato con un certo anticipo questa strada; comunque, pur accomunati dal fondamentale postulato di conoscere per modificare e dall’intento dichiarato di volgere le spalle al marchio di fabbrica del paternalismo edificante, difficilmente superano i limiti di un realismo intenzionale fatto di ammiccamenti e soffocato da moralismo predicatorio e verboso.

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Un preciso rapporto di filiazione tra Gualtieri e Sue si può a mio avviso ricercare, al di là delle specifiche e puntuali riprese7, proprio in

quell’umanitarismo di impronta anticlericale e progressista espresso in forme ingenue ed esasperate.

Ma un rapporto altrettanto stretto si può trovare anche rispetto ai romanzi d’avventura storica di Dumas8, i quali, come accade anche qui, pur animati

da sentimenti repubblicani si sottraggono ad un diretto confronto con i problemi del tempo presentando caratteristiche sostanzialmente evasive. E per questa via la rete dei collegamenti a mio avviso si può estendere un po’ a tutta la principale produzione appendicistica di quel periodo, in specie quella di lingua francese. Posso citare in proposito I miserabili di Hugo che “traducono in forme romanzesche facilmente accessibili nonostante la loro frondosità il sentimento borghese d’indignazione e di deprecazione per l’egoismo delle classi agiate e le sofferenze dei ceti popolari”9; oppure

l’intera opera (benché più tarda) di Ponson du Terrail, la cui fama resta affidata alle straordinarie avventure compiute dal personaggio Rocambole su di uno scenario di storia romanzata a sfondo sociale.

In questo senso il termine romanzo d’appendice va inteso in modo più ampio, prescindendo dalle effettive modalità di pubblicazione, come genere popolare riconducibile a schemi codificati in funzione di una particolare destinazione. Per cui ad esempio possiamo definire appendicistiche anche opere che uscirono direttamente in volume come avvenne in Francia per I

miserabili o in Italia per i romanzi di Ranieri, Garibaldi, o appunto del

Gultieri10.

7 Per esempio figure simili a quella dell’abate Rodin ricorrono nei libri di Gualtieri; oppure, come

nell’Ebreo errante, troviamo più volte i gesuiti intenti ad usurpare immense fortune. Vi sono poi alcune scene, generalmente di folla, in ambientazione urbana, in cui si evidenziano i maggiori legami con Sue proprio in una rappresentazione eccessiva e iper-realistica dei più bassi strati sociali e dei loro aspetti più cruenti.

8 C’è da dire poi che legami con i due celebri feuilletonisti sono dimostrabili anche sulla base di

considerazioni esterne al testo, in ragione dell’assidua frequentazione delle loro opere compiuta dal Gualtieri: si pensi alla scrittura del dramma La morte del conte di Montecristo, o alla stesura dei suoi primi romanzi in linea con la tradizione dei Misteri.

9 ASOR ROSA: Scrittori e popolo, Samonà e Savelli, Roma, 1966, vol. I, pp.17-18; in Il romanzo

d’appendice (a cura di Giuseppe Zaccaria, Torino, Paravia, 1977), p. 27.

10 Presumibilmente i romanzi di questa serie sono usciti in direttamente in volume; solo per quanto

riguarda il primo, l’Innominato, veniamo informati da Cristaldi, di una preliminare pubblicazione in dispense, della quale tuttavia i cataloghi bibliografici non danno conferma.

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Infatti, in quasi tutti gli autori appendicisti, gli elementi caratterizzanti sono determinati non solo e non tanto dalla forma di pubblicazione, ma soprattutto dal fatto che queste opere siano rivolte ad un pubblico di non letterati11, e oggetto di una fruizione immediata. E’ il concetto della

creazione di suspence il presupposto necessario per la buona diffusione di un opera di questo tipo: fondamentale è saper sempre soddisfare le attese del pubblico, dopo averle prima opportunamente suscitate.

Come per il romanzo storico, anche per quello popolare o d’appendice, possiamo individuare una sorta di ricetta che ci dà la misura della generale omogeneizzazione culturale predominante in questo genere letterario: “Prendete, signore, prendete, per esempio, una donna giovane e infelice, e perseguitata. Le metterete vicino un tiranno sanguinario e brutale, un paggio sensibile e virtuoso, un confidente ipocrita e perfido. Quando avrete in mano tutti questi personaggi, mescolateli insieme, vivacemente, in sei, otto, dieci feuilletton: e servite caldo…E’ soprattutto nel taglio signore che si vede il vero feuillettonista. Bisogna che ogni numero cada bene, che sia legato al successivo con una specie di cordone ombelicale, che chiami, che provochi il desiderio, l’impazienza di leggere il seguito. Parlavate d’arte poco fa; l’arte è questa. E’ l’arte di farsi desiderare, di farsi aspettare”12.

Di qui il tipico carattere ripetitivo e stereotipo della narrazione appendicistica che si fonda per su di un vastissimo repertorio di luoghi comuni e cliché reperibili a tutti i livelli dell’opera: sia per quanto riguarda i temi, le situazioni tipiche ed i personaggi, sia per quel che concerne le strutture narrative e il tipo di linguaggio.

E’ proprio sulla base di questi elementi ricorrenti e comuni che possiamo collocare la serie dell’Innominato, non solo all’interno del genere storico, ma più in generale all’interno di quella vasta produzione romanzesca di tipo appendicistico e popolare, fiorita principalmente nella seconda metà dell’800 in seno alla prima moderna diffusione commerciale su larga scala del prodotto letterario. Per cui ha sicuramente ragione Piancastelli nel collocare Gualtieri tra quei tardi scrittori storici che tentano di rinnovare il genere facendone un mezzo di diffusione e promulgazione di specifiche 11 I principali destinatari dei romanzi del Gualtieri sono infatti, a sua detta, giovani e pubblico

femminile.

12 L. Reybaud: Jérome Paturot, in Il romanzo d’appendice (a cura di Giuseppe Zaccaria, Torino,

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ideologie; ma bisogna aggiungere inoltre che legami profondi tra questi libri e le più assodate tecniche appendicistiche sono riscontrabili (al di là di ogni impostazione ideologica) proprio in ciò che riguarda la costruzione narrativa e il modo di narrare.

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CAPITOLO SECONDO.

VERITA’ E FINZIONE NELLA SERIE DELL’INNOMINATO.

Visto il carattere essenzialmente appendicistico di questi libri che si presentano a tutti gli effetti come opere di semplice intrattenimento, è forse inutile insistere sul confronto costante con il grande realismo del Manzoni, poiché tra i due autori, al di là degli espliciti e ovvi richiami, c’è ben poco di comune, e non solo per quanto riguarda i risultati artistici raggiunti, ma anche e soprattutto per quel che riguarda l’aspetto teorico che sta a monte della creazione romanzesca.

Tuttavia un riferimento ai Promessi sposi è a mio avviso inevitabile, sia per il fatto che Gualtieri a Manzoni si richiama esplicitamente, sia perché in questi libri troviamo quasi uno speculare ribaltamento delle posizioni manzoniane in merito alla questione cruciale del genere, vale a dire il difficile innesto tra “invenzione” e “vero” storico. Quindi, data la scarsezza delle informazioni lasciate in tal senso dall’autore, proprio a partire da un raffronto in negativo possiamo provare a fare un po’ di chiarezza in quelle che sono le principali linee guida a livello concettuale sottese alla composizione dell’intera serie.

E’ indicativo, in questo senso, un passo dell’introduzione al primo libro, in cui Gualtieri sembra accennare ad una cosciente presa di distanza dal metodo manzoniano: “…la terza si appicca ad un’altra questione, del perchè nemmeno di altri luoghi non abbia esso voluto dirci il nome. Il qual perché forse un dì ce lo dirà il Manzoni stesso, se mai vorrà (e deh il voglia presto) far pubblico certo suo discorso sul romanzo storico, e sul difficile modo d’innestare il finto col vero, e sul determinare i confino dell’uno e dell’altro…”.

Vediamo infatti che, dopo essersi chiesto perchè Manzoni censuri i nomi e i dettagli identificativi dei luoghi, connette poi giustamente la questione al più vasto problema del rapporto tra “verità” e “finzione”; e infine dichiara tuttavia di non conoscere in proposito la posizione manzoniana.

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Indipendentemente dalla sincerità di questa affermazione, Gualtieri nella stesura di questi romanzi storici, sin dalla presentazione dell’Innominato, effettivamente si muove in direzione completamente contraria a quella tracciata in precedenza da Manzoni. Per cui il grande realismo dei Promessi

sposi cede qui il passo ad una costruzione immaginifica ed inverosimile

accompagnata tuttavia da una costante pignoleria storiografica, e sempre pronta a stravolgere liberamente precisi dati storici prima accuratamente identificati.

Piancastelli, come ho già detto colloca gli scritti del Gualtieri tra quelle opere che si proponevano di allettare il grande pubblico facendo perno essenzialmente sullo stimolo di tesi ideologicamente ben determinate; a questo filone contrappone poi tutti quegli scrittori che, col rifiutare le grandi potenzialità dell’intreccio e della promulgazione d’idee, privano il genere dei suoi connotati più propriamente romanzeschi, in favore di un gusto tipicamente archivistico e antiquario. In questo senso bisogna notare però che Gualtieri sembra non voler privarsi di nessuno degli elementi ritenuti di maggior presa: quindi, pur concordando con Piancastelli per il posto ad esso riservato, vediamo l’esistenza in questi libri di un vasto apparato propriamente storiografico che possiamo considerare quasi indipendente ed autonomo dal resto della narrazione.

Tale apparato si compone di tutta una lunga serie di puntualissime descrizioni di luoghi, persone e situazioni, nonché di molte citazioni di vario genere che rivelano il piacere per un’erudizione spesso assai ingombrante e controbilanciano (almeno nelle intenzioni) la grande quantità di pesanti falsificazioni. In questo senso gli esempi più lampanti sono costituiti dalle immancabili descrizioni archeologico-antiquarie degli edifici (tra cui spicca quella del castello di Brignano che troviamo nell’introduzione al secondo libro); oppure dalle riproduzioni integrali di porzioni, anche cospicue, di testi storiografici del passato (si pensi alle citazioni tratte dal Ripamonti, dal Brusoni, o dallo storico Capacelatro).

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A questi sfoggi d’erudizione l’autore tiene molto e lo dice esplicitamente nel proemio alla Grande illustrazione del Lombardo-Veneto, dove individua proprio nella ricerca d’archivio una delle caratteristiche principali di tutta la sua scrittura. Tuttavia a questo aspetto tipico del romanzo storico, si va a coniugare in modo inconsueto un interesse di tutt’altro tipo per un osservazione diretta e analitica della realtà contemporanea che proietta Gualtieri ben oltre i limiti canonici di questo genere.

Tale atteggiamento è determinato essenzialmente dal carattere appendicistico di questi libri nei quali, alle grandi potenzialità dell’intreccio, risulta sacrificato ogni altro aspetto della narrazione. Per cui la “storia”, con tutti i suoi elementi, risulta talvolta essere di peso al flusso del racconto e lo avverte lo stesso autore là dove mostra di mal sopportare la ristrettezza delle regole standard del genere. Un passo dell’introduzione a Pape Satan datata 1884, sebbene un po’ tarda, è utile a capire il tipo di rapporto esistente tra Gualtieri e il genere del romanzo storico forse già dagli anni della stesura dell’Innominato: “Pubblico romanzi storici perché gli editori appunto esigono questo genere antiquato. Di romanzi intimi e sociali ne ho un arsenale; ma non mi vien fatto di poterli far entrare nelle collezioni dello sbadiglio…”

Qui l’autore, lamentando il fatto di vedersi pubblicare, della sua vasta produzione, solo romanzi di tipo storico, ci dà anche la misura dell’utilitarismo commerciale e della scarsa profondità critica, che vi è dietro la decisione di scegliere tale genere.

Gualtieri infatti si accosta al genere storico in modo superficiale e poco problematico, attento più all’apparenza esteriore che alla vera sostanza di questo tipo di scrittura.

Da una parte ne rispetta scrupolosamente (come già abbiamo visto) tutte le più evidenti e distintive caratteristiche formali. Delinea così un’identità forte per le sue opere, che si inseriscono quindi a pieno titolo in una tradizione molto nota e ben consolidata, e suscitano di conseguenza nel pubblico specifiche e prevedibili attese.

Dall’altra rimane tuttavia insensibile (come d'altronde la maggior parte degli scrittori di romanzi storici del periodo postrisorgimentale) a quello che

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era originariamente il senso etico-realistico della riscrittura del passato, In questo senso potremmo vedere addirittura uno speculare ribaltamento del manzoniano principio di necessità secondo cui la letteratura in genere dovrebbe “proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto, e l’interessante per mezzo”13.

Deformazione della Storia in chiave spettacolare, scenografica o

aneddotica.

E’ facile appurare come “l’interesse” non sia suscitato nei libri di questa serie dalla constatazione di una rispondenza con il “vero” verosimilmente espresso e quindi da una sorta di spontanea identificazione tra il lettore e le sorti dei vari personaggi, bensì da una sequela di fantasiose avventure inclini allo stile dei romanzi d’appendice, in cui ogni tipo d’identificazione viene vanificato dall’eccezionalità delle figure messe in scena e il vero punto di forza si deve cercare nell’incessante ricerca di effetti di suspence perseguiti in tutti i modi possibili. In essi è inesistente quel sottofondo storico-realistico sul quale collocare i vari movimenti narrativi, si è inpresenza di opere storiche in cui il “vero” si affianca con totale disinvoltura a motivi di pura invenzione.

Il rapporto con il dato storico si riduce spesso ad una sorta di ammiccamento a fatti e personaggi più o meno noti del passato. Sia fatti che personaggi, pur essendo sempre ben determinati da puntuali riferimenti storiografici, vengono trattati tuttavia in modo del tutto romanzesco con continue concessioni a pesanti falsificazioni. Sono esemplari i casi di Olimpia Pamphili, suo figlio Camillo, sua nuora Olimpia Aldobrandini, oppure il duca di Guisa o il celebre duca d’Alba, tutte figure d’effettiva rilevanza storica, per la costruzione delle quali tuttavia la realtà biografica costituisce solo uno spunto iniziale, un riferimento occasionale e aneddotico facilmente manipolabile. Viene così falsificato il “vero” storico a vantaggio di una torbida vicenda sentimentale a tinte fosche (che occupa per quasi la loro interezza gli ultimi due libri della serie) all’interno della quale i 13 Lettera sul romanticismo.

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personaggi si muovono secondo classici stereotipi narrativi alieni ad ogni principio di verosimiglianza. Infatti troviamo qui la classica figura del seduttore, e della donna spregiudica, ma anche la figura altrettanto classica della ragazza onesta e risoluta: tutti tipici ingredienti importanti e ricorrenti nella letteratura d’appendice.

Un altro esempio può essere al pittore Salvator Rosa, per un verso presentato come artista indipendente e libertino in contrasto con la servile e ridondante estetica barocca, riveste poi nel corso dell’opera un ruolo essenzialmente di coesione tra le varie linee dell’intreccio prendendo parte a varie e fantasiose avventure. Lo stesso possiamo dire del suo maestro Falcone Aniello (nonostante la sua parte nell’economia del racconto sia di gran lunga minore rispetto a quella dell’allievo), o di don Sebastiano re del Portogallo, attorno al quale prende le mosse tutta la narrazione del secondo libro.

Ma in questo senso la figura più interessante è quella del protagonista della prima parte della serie, l’Innominato: costui infatti, pur essendo esplicitamente indicato come personaggio storico nella persona di Bernardino Visconti, tuttavia si muove sulla scena in modo non conforme alla sua vera biografia. Quest’ultima viene in parte ripresa, ma in parte sottoposta a pesanti falsificazioni (prima tra tutte la paternità attribuita al duca di Guisa) che ne cambiano i connotati rendendola una vicenda del tutto eccezionale. Il personaggio quindi, data la totale eccezionalità della sua vicenda, non può rivestire realisticamente un ruolo storico-sociale, ma può invece essere associato al classico stereotipo del “bandito generoso” o dell’eroe negativo d’ascendenza romantica.

Quanto detto sin ora per alcuni personaggi vale anche per quel che riguarda la ricostruzione che viene fatta di specifici avvenimenti storici. Questa apparentemente si rivela molto precisa e sempre accompagnata da una abbondante mole di citazioni e riferimenti storiografici; tuttavia deve cedere generalmente il passo agli sviluppi di un intreccio di totale fantasia che va sempre ad occupare il centro della scena. La verità storica di conseguenza, relegata completamente in secondo piano, finisce o per fungere da inerte

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fondale scenico della vicenda, o per essere pesantemente manipolata e distorta.

In proposito potrei citare come esempi la narrazione della rivolta napoletana del ’47 (che si sviluppa a cavallo degli ultimi due libri), quella della congiura sventata dalla repubblica veneta nel ’17 (che occupa per intero il terzo libro), o la descrizione della peste milanese del 1576 che troviamo nel primo libro.

Nel primo caso vediamo che l’attenzione viene focalizzata in parte sullo sviluppo di tre parallele storie d’amore che si intrecciano e si confondono con i tumulti della città; ed in buona parte anche sull’opera di “revisionismo” storiografico volta a porre sotto un’altra luce la figura di Masaniello. Il punto culminante della vicenda è sicuramente la grande battaglia, descritta con precisione ed enfasi, a cui prendono parte tutti i protagonisti e che funge da punto d’unione per i vari fili sciolti della narrazione. Al contrario gli sviluppi della rivoluzione e le sorti del popolo napoletano dopo la morte del leader sono completamente passati in silenzio: e questo ci dà la misura dell’utilizzo essenzialmente spettacolare della risorsa storica.

Nel secondo caso un fatto poco noto, e di per sé abbastanza particolare e controverso, come la congiura del Pierce, diviene lo spunto per costruire un intreccio labirintico e contorto su di uno scenario storico che richiama da vicino le ambientazioni urbane dei “misteri”.

Anche la peste milanese viene presa in considerazione non nella sua effettiva complessità, ma solo da un punto di vista puramente spettacolare, quindi nei suoi aspetti più macabri o prettamente aneddotici. A livello della costruzione del testo svolge poi il ruolo determinante del deus ex macchina chiudendo o riallacciando i fili sparsi della narrazione.

Riassumendo possiamo quindi dire che in tutti questi casi il dato storico (sia che si tratti di personaggi che di vicende particolari) viene sfruttato da Gualtieri principalmente per i suoi aspetti di spettacolarità e funzionalità narrativa; e viene così ridotto o ad un ammiccamento a fatti specifici, o ad uno statico fondale scenografico.

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Deformazione della Storia in chiave propagandistica.

Proprio il fatto che il vero storico e la finzione romanzesca si possano collocare su di uno stesso piano per quanto riguarda la costruzione dell’intreccio, comporta l’annullamento di quella distanza prospettica grazie alla quale l’invenzione avrebbe potuto costituire il punto di vista per uno sguardo fortemente etico sulla realtà storica rappresentata. Per cui anche “l’utile”, cioè l’insegnamento morale, non sorge come spontaneo dall’interpretazione, dal senso che la trama riesce a dare alla nuda realtà storica; non ci troviamo di fronte ad un messaggio etico che si va costituendo e definendo parallelamente allo sviluppo dell’intreccio. Qui al contrario la dimensione etica risulta essenzialmente statica e predeterminata: non si compone con lo svilupparsi della trama all’interno di un realistico tessuto storico sociale, ma sembra al contrario anteriore a qualsiasi movimento narrativo e di questi sembra essere più una funzione portatrice di un ordine di senso anziché lo scopo.

Infatti, secondo la prassi comune della forma classica del romanzo storico, la trama nelle sue linee generali si presenta come incontro e scontro di due sfere contrapposte, in senso ideologico o morale, all’interno delle quali può essere collocato ciascun personaggio: una, che possiamo definire di segno positivo, nei confronti della quale l’autore mostra in vario modo tutta la propria simpatia e solidarietà, e in cui trovano posto i protagonisti e tutti coloro che con essi hanno un rapporto di complicità; un’altra, che definiamo di segno negativo, in cui troviamo invece i principali antagonisti e quanti di volta in volta risultino a loro riconducibili. Se consideriamo, però, che la maggior parte dei personaggi principali, storici o di fantasia che siano, rappresentano inverosimili stereotipi narrativi, appare evidente come il solo intreccio con le sue dinamiche avventurose non sia in grado di dare un significato plausibile a una compatta distinzione di due sfere contrapposte.

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La dimensione storica, in cui la narrazione si muove assume quindi la sua funzione principale proprio nel dare una coerenza ideologica ai contrasti su cui si regge l’intreccio, e al contempo una certa coesione e compattezza all’interno di ciascuno dei due avversi schieramenti di personaggi. Infatti, al di là degli ovvi distanziamenti prospettici assunti dall’autore nella trasposizione storica del sentimento morale, alla sfera genericamente indicata come portatrice di valori negativi viene compattamente associato tutto ciò che in varia misura risulta essere rappresentativo del pensiero barocco: e ciò vale tanto per le principali problematiche politico-religiose quanto per le meno importanti, ma pur presenti, questioni artistiche e di costume; mentre alla sfera positiva si riferiscono invece tutti quei motivi vari ed eterogenei che possiamo considerare precursori dei tempi nuovi o risultano del tutto eccezionali. Questa lineare corrispondenza tra la situazione storico-sociale ed il giudizio morale espresso dall’autore comporta necessariamente continue deformazioni ed un uso pretestuoso del dato storico, che compromettono quindi ancor più il realismo della narrazione.

Dimostrazioni evidenti di questa visione unilaterale e semplicistica del passato si trovano in tutte quelle parti di testo in cui l’autore, prima di mettere in scena i personaggi, presenta, in modo quasi manualistico, il contesto storico dando libero sfogo a considerazioni, collegamenti e giudizi personali. Ma più in generale questo schematismo pedagogico si traduce o in un voluto confusionismo storiografico-ideologico, o in un’arbitraria ed irrealistica selezione nell’ambito del narrabile.

Un’immagine lampante di questo voluto confusionismo si trova in un passo in cui l’autore, prendendo direttamente la parola, delinea in modo evidente la trasposizione storica dell’eterno scontro tra bene e male: determina così come due squadre contrapposte all’interno delle quali confluiscono nomi e fatti vari ed eterogenei, ma meglio rappresentativi di questo conflitto, idealmente generalizzato e compattamente collocato nel XVII secolo.

“Da una parte Lutero, Calvino, Zelantone, Cromwuel, Enrico IV, Giordano Bruno, Campanella, Galileo, Abbas il grande, il gran Condè, Milton, Gustavo Adolfo, Cassini e

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Newton. E contro. Il nepotismo dei papi, la notte di san Bartolomeo, il pugnale di Jacopo Clement, il processo degli untori, il veleno dei Medici, la guerra dei trent’anni, Tilly, l’eccidio dei protestanti. Luigi XIV. Revoca dell’editto di Nantes, le guerre di successione, la tortura, la ruota, l’auto-da-fè”14.

La totale estremizzazione dei contrasti tra bene e male comporta anche, nella selezione del narrato, la netta predilezione per situazioni eccessive e poco realistiche, tanto da fare, di queste eccezioni, una normale consuetudine. In proposito si esprime chiaramente Manzoni nell’introduzione al “Fermo e Lucia” quando con queste parole prendeva le distanze da un certo tipo di letteratura di consumo: “Bastava quindi durante il seicento un leggero interesse, una piccola passione a spingere anche i meno tristi fra i tristi ad attentati, ai quali oggi si risolverebbero a fatica gli uomini più avvezzi al delitto, benché vi fossero tratti da un interesse molto maggiore, da una passione molto più violenta”.

Per quanto riguarda gli specifici personaggi bisogna sottolineare poi l’esistenza di alcune figure “positive” di notevolissima rilevanza storica caratterizzate da una presenza saltuaria ed episodica ma cariche di un’importanza da non sottovalutare. Sempre poco attive nell’ambito dell’intreccio, ma rappresentative di una posizione ideologica ben determinata, fanno generalmente da pendant dei negativi e costituiscono una sorta di polo a parte. Tra i protagonisti in questa categoria trovano posto il Borromeo, Mazzarino, Paolo Sarpi, e soprattutto Tommaso Campanella. L’immagine che, di questi personaggi, ci viene data risulta sempre molto attinente ai dati storici; tuttavia costoro sembrano trascende la loro specifica dimensione temporale per farsi portatori di una visione del mondo che, al di là di ogni mediazione storica, ricalchi il più possibile il pensiero dell’autore. Un caso del tutto particolare ed a parte si trova, a mio avviso, nella figura di Malebranche: questi pur essendo una figura di assoluta fantasia finisce tuttavia per interferire sempre e in modo diretto con importanti accadimenti storici; fino al punto in cui, usurpato il nome del suo carceriere, entra ufficialmente nella Storia come Giovan Battista Pamphili. Da qui in poi, e solo nel suo caso, a mio avviso le pesanti falsificazioni in cui il Gualtieri incorre nel riscrivere la storia possono avere un senso ed una giustificazione 14 Malebranche, vol. II, p. 61.

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in un disegno più ampio, in una sorta di schema di concordanze e opposizioni che continuamente rimanda ad un retroterra storiografico comunemente conosciuto e accettato. Sembra quasi che l’autore finga di prendere per vero il fatto del cambio di persona (di cui abbiamo appena parlato) e tenti poi di dimostrare come i dati storiografici relativi a quel periodo e a quel personaggio si possano interpretare sotto una luce completamente diversa. E’ un po’ come se alla storiografia venisse sovrapposto il rigore di un’equazione matematica in cui, una volta cambiatone un termine, tutto il resto di conseguenza muta ma non in modo casuale bensì coerente e logico. A tal proposito bisogna notare che se da una parte sono ripercorsi avvenimenti importanti o secondari della vita del Pamphili, questi sono tuttavia esaltati, censurati, o motivati secondo il nuovo taglio che si vuole dare di questo personaggio. inoltre sempre secondo tale principio è immaginato il suo coinvolgimento in altri fatti storici a lui contemporanei che in virtù di questo vengono adattati, piegati e reinterpretati conformemente alle necessità del racconto; oppure alcune sue prese di posizione risultano completamente stravolte e falsificate. Ma anche in questi casi sembra costante il riferimento a dati storiografici considerati universalmente noti e sembra quasi che l’autore voglia sottolineare lo scarto tra la verità e la sua versione quasi a voler dimostrare che cosa sarebbe successo se un’altra persona avesse rivestito quel ruolo in quel tempo. Si può arrivare alla conclusione che, messo da parte il canone della verità, la riscrittura storica perde la sua principale prerogativa trasformandosi in un libero gioco combinatorio fatto di ammiccamenti, allusioni, falsificazioni e deformazioni d’ogni genere.

Infatti nella serie dell’Innominato decade completamente il presupposto manzoniano che vede l’invenzione come tensione morale o ipotesi progettuale, sempre vigilata dalla coscienza del vero, dalla lezione amara della “storia”; e siamo anche agli antipodi di quel principio secondo cui nel vero storico e nel vero morale risiederebbe la “più ampia e perpetua sorgente del bello”15. Qui al contrario l’invenzione diviene fantasia sfrenata

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estranea ad ogni nozione di vero, ed incentrata sui motivi della suspense, del melodrammatico o dell’avventuroso; ed anche la “lezione” di conseguenza non è più la storia a darla, ma l’autore stesso che, con un uso distorto e pretestuoso del dato storico, porta avanti la sua particolare tesi.

Infatti, se da una parte mira ad ingenerare interesse puntando tutto su di un intreccio avventuroso e di sicuro effetto, dall’altra, preoccupandosi di condire la vicenda di contenuti morali, riduce questi ad un esplicito e pedagogico ideologismo. Un punto centrale sta quindi nella vistosissima tematica anticlericale intesa non come chiave di lettura critica, ma come mezzo per ingenerare nel pubblico tanto una forte compartecipazione emotiva, quanto un netto e semplicistico ammaestramento ideologico: per tale tramite infatti l’autore può in parte comunicare un particolare messaggio etico, e al tempo stesso assecondare un motivo alla moda divenuto fenomeno di costume in ambiente scapigliato.

Si chiarisce quindi adesso il già accennato ribaltamento delle posizioni manzoniane: per cui tutto ciò che riguarda l’ambito dell’interessante (e che in questi libri è affidato ai vari risvolti dell’intreccio avventuroso) perde completamente quel suo connotato di mezzo tramite il quale sviluppare un discorso morale, e sembra invece costituire il fine vero e proprio della scrittura. Viceversa “l’utile” (cioè tutto quell’insieme di motivi costituenti la visione del mondo che un autore, secondo il Manzoni, si dovrebbe in primo luogo proporre di trasmettere con il suo scrivere) si riduce qui a puro e predeterminato ideologismo e diviene quindi il principale mezzo per conferire all’intreccio uno certo spessore ed un minimo di concretezza: è così che l’innesto classico di storia ed invenzione si trasforma in un connubio antirealistico e pretestuoso finalizzato alla dimostrazione di una specifica tesi.

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CAPITOLO TERZO.

FATTI, INTRECCIO E SITUAZIONI NARRATIVE

Forse la maggior lode che viene fatta alla scrittura del Gualtieri, in particolare per i romanzi di questa serie, è quella di dispiegare sempre una fantasia molto fervida, tanto nella creazione di trame appassionanti e coinvolgenti, quanto nella costruzione di un universo vastissimo di personaggi, tra i quali spiccano figure particolarissime e indimenticabili. Nel fare questo tuttavia l’autore non porta avanti quasi mai un progetto originale ed autonomo; e al contrario la notevole ampiezza della serie consente a Gualtieri di farsi recettore attento ad ogni possibile modello letterario. La trama nel suo complesso propone tutte le principali tematiche maggiormente in voga nella moda letteraria, con una decisa predilezione per gli spunti provenienti dai coevi sottogeneri popolari.

Anche in questo senso l’autore mostra il carattere semplicistico e spettacolare del suo scrivere portando il gioco dell’accumulo tematico sino ai limiti dell’eccesso. Il risultato che ne viene fuori è quello di una summa eterogenea di molteplici e varie situazioni narrative portata avanti con voluto confusionismo, un collage complesso e informe in cui è difficile individuare un preciso filo conduttore. E’ forse questa la caratteristica più vistosa e l’unica nota originale dei libri di Gualtieri: qui infatti, nonostante vengano sempre seguite vie già battute, la specifica particolarità risiede proprio nel fatto che ne vengano portate avanti molte allo stesso tempo secondo una tecnica di accumulo, contrasto e analogia.

Dietro questa ricerca continua di ogni tipo di suggestione, e questo uso esasperatamente combinatorio di precodificate possibilità espressive, sembra esservi la precisa esigenza commerciale di suscitare e soddisfare le attese e gli interessi di un pubblico quanto più possibile ampio. Questa è sicuramente l’esigenza principale del romanzo d’appendice e del romanzo popolare; ed è proprio dal repertorio di questi generi, o sottogeneri, che Gualtieri trae, non solo alcuni contenuti ideologici preconfezionati, ma più

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in generale le strutture tematiche complessive della sua trama e dei suoi intrecci.

Il punto centrale da cui muove la letteratura d’appendice è il grande conflitto tra “bene” e “male” intesi schematicamente come valori predeterminati e immutabili a cui fanno capo con didascalica evidenza tutti i vari elementi del racconto. Tale conflitto nei libri di Gualtieri, come in tutti i romanzi di questo tipo, si realizza nei grandi temi della “persecuzione” e della “giustizia”.

La prima rappresenta l’infrazione compiuta dai personaggi negativi all’ordine delle cose, rappresenta quindi il casus belli, il pretesto da cui la narrazione prende le mosse. All’efficacia della tematica della persecuzione è affidato tutto il discorso anticlericale di matrice democratica e libertaria: da qui i classici stereotipi narrativi del prete crudele, vile e corrotto, o del nobile ricco e prepotente, che esercitano la loro autorità ai danni tanto dei poveri derelitti, che dei buoni ed operosi contadini, o dei cittadini onesti. Dalla tematica della persecuzione, legata in vario modo alla materia erotico-sentimentale, deriva dunque anche il versatilissimo tema della seduzione, e quindi tipiche figure come quella del nobile dissoluto e velleitario, che insidia tanto la bella popolana, che la donna del suo migliore amico; o come quella del religioso ipocrita e lussurioso, che si accanisce con diabolica ferocia contro angeliche ed inermi fanciulle. Si noti inoltre, a proposito di tutte queste categorie di personaggi, la grande linearità del giudizio morale e lo strettissimo rapporto tra questo e le corrispondenti descrizioni fisiche, che generalmente attingono da un repertorio di modelli letterari precodificati. La tematica della “giustizia” va invece ad occupare il polo opposto nella costruzione del racconto: costituisce il punto a cui naturalmente la narrazione tende, e che alla vicenda garantisce la sua tensione morale. Sia che venga intesa come intervento di Dio, sia che venga intesa come legge dell’uomo, o come semplice caso, la sua funzione è sempre e comunque quella di colmare lo squilibrio causato dall’originaria infrazione, e quindi di soddisfare le attese dei lettori inizialmente suscitate. Nel passaggio dall’uno

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all’altro polo della narrazione, dall’infrazione al ripristino dell’ordine, anche la vicenda generalmente segue strade molto battute risolvendosi in una serie di situazioni ricorrenti quali la fuga, il rapimento, il duello… tra cui un intera casistica di situazioni erotico-sentimentali tra il patetico ed il sublime.

Nella serie dell’Innominato, per quanto riguarda non la struttura generale ma la costruzione dei singoli intrecci, la tematica amorosa sembra essere il vero filo conduttore e l’unico vero comune denominatore di questo vasto collage di suggestioni varie. Con i suoi sviluppi costituisce infatti sia il principale propulsivo per i vari movimenti della trama, sia il pretesto per mettere in sena contrasti di tipo storico o socio-ideologico.

Tuttavia, nell’inquadrare la trama complessiva della serie dell’Innominato, le dinamiche tipiche del romanzo d’avventura balzano agli occhi come un riferimento costante e imprescindibile. In primo luogo possiamo individuare una componente genericamente avventurosa nella costruzione di quasi tutti gli intrecci principali e secondari, sempre ricchi di colpi di scena, rischio e azione. Nello specifico troviamo poi una lunga serie di situazioni e luoghi narrativi riconducibili direttamente a schemi tipici del romanzo d’avventura: si pensi ad esempio all’excursus esotico, allo stile picaresco del sommario di alcune brevi avventure, alle ricorrenti scene di evasione; oppure ai camuffamenti e ai cambi di persona; a tutte le agnizioni, agli incontri inaspettati, o ai personaggi deceduti, dimenticati e incredibilmente ripescati a distanza di anni. Inoltre, al di là di ogni riferimento specifico e puntuale, una forte dipendenza dai moduli del romanzo d’avventura si può riscontrare nella costruzione generale dell’opera. In una struttura sicuramente labirintica e ripetitiva, l’unico elemento di ordine si riscontra nella centralità dei due personaggi principali Bernardino e Malebranche: infatti attorno a costoro si snodano un’infinità di intrecci differenti secondo una tecnica di giustapposizione ed espansione riconducibile sia alla struttura ciclica del racconto classico e medievale, sia alla forma appendicistica dei coevi romanzi d’avventura e d’avventura storica.

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Elemento da non sottovalutare è tuttavia la componente espressamente ideologica improntata ad un ribellismo liberale ed anticlericale; questa dà luogo a tutta una serie di particolari situazioni narrative quando parallele, quando sovrapposte al classico intreccio sentimentale. Gualtieri, scegliendo per i suoi romanzi storici un’impostazione tipica del genere popolare (che in Italia aveva specifiche caratteristiche romantico-patriottiche), da quest’ultimo sembra derivare anche tutta una serie di tipiche situazioni narrative, rispondenti a contenuti ideologici preconfezionati, dei quali tratterò in parte nella prima parte dell’ultimo capitolo.

Gli schemi sentimentali al centro dell’intreccio.

La trama della serie dell’Innominato (secondo la prassi del romanzo d’appendice) nelle sue linee generali si presenta come una lunghissima serie di avventure variamente legate tra di loro secondo le modalità di un intreccio “labirintico” e apparentemente privo di struttura. In questo contesto uno specifico filo conduttore di tutta la vicenda si può trovare nell’assoluta centralità lasciata alla materia sentimentale e alle variazioni possibili dell’intreccio attorno all’argomento. Il trattamento di questa tematica si realizza essenzialmente nella ripresa di alcune dinamiche standard, e si risolve generalmente in una ripetizione di identiche situazioni narrative specialmente in punti cruciali dello sviluppo della trama.

In questo senso i classici binomi seduzione-vendetta e rapimento-liberazione si possono schematicamente considerare le antitesi su cui si regge il racconto; e l’intreccio si può leggere come una serie di avventure storiche a tema sentimentale giocate su tali antitesi e su tutta una serie di possibili combinazioni. La corrispondenza tra questi binomi e i concetti più generali di persecuzione e giustizia fa sì che generalmente il contrasto tutto personale dell’intreccio sentimentale diventi rappresentativo di un più ampio scontro di tipo sociale o ideologico; tuttavia in molti altri casi è assente ogni riferimento ideologico e l’intreccio sentimentale rimanda solo a se stesso nella creazione di un’avventura dai toni patetici e

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melodrammatici. Al di là di ogni finalità ideologica quindi, la tematica sentimentale si può considerare il vero filo conduttore dell’intera serie: questa determina quasi sempre l’intreccio primario muovendosi parallelamente o congiuntamente allo scontro più genericamente storico; inoltre un vastissimo numero di vicende sentimentali si ritrova poi in tutti gli intrecci secondari e a tutti i livelli della trama, tanto che questa sembra potersi caratterizzare come un'unica grande combinazione di situazioni narrative a tema amoroso.

Le dinamiche dell’intreccio incentrato sul binomio seduzione-vendetta (di centrale importanza in questi romanzi) risalgono direttamente ad un modello del romanzo sentimentale come Clarissa16. Da qui derivano infatti, nella

successiva produzione popolare e non solo, una lunghissima serie di racconti incentrati sulla virtù sublime di donne ingiustamente perseguitate che, morendo come martiri per le violenze subite, lasciano aperta la possibilità di essere spietatamente vendicate nel gran finale. Un esempio più vicino a Gualtieri, sempre incentrato su di una figura femminile molto simile si può trovare in Margherita Pusterla17: anche qui (seppure con

notevoli variazioni all’intreccio) come in Richardson lo scontro tra i due sessi si fa interprete di un più ampio scontro tra differenti classi sociali; tuttavia come valore supremo non primeggia più la verginità della fanciulla borghese: al centro della scena vi è invece il valore stesso della famiglia borghese, incarnata da Margherita e demolita appunto dal crudele Luchino Visconti.

Una simile dinamica narrativa è quella su cui si regge l’impalcatura architettonica dell’intera serie. Si ritrova infatti in punti cruciali riproposta secondo una tecnica sostanzialmente identica: si pensi alla storia di Valentina posta come antefatto in apertura della serie; a quella di Margherita318 che chiude sostanzialmente l’ultimo libro; oppure a quella di

Margherita2 su cui ruota tutto il terzo. 16 Clarissa, 1748, Richardson.

17 Margherita Pusterla, 1839, Cesare Cantù.

18 Nei sette libri troviamo tre donne di nome Margherita che indico per distinzione con un numero:

la prima è la donna amata dall’Innominato di cui si parla nel primo libro; la seconda è la figlia di Sebastiano chiamata dall’Innominato Margherita in onore dell’estinta; la terza è la figlia di questa, presa anch’essa sotto la tutela di Bernardino, dopo la morte della madre e la sparizione del padre.

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In tutti questi casi la narrazione prende le mosse dall’irruzione di un agente esterno che si interpone in una salda coppia di coniugi (generalmente moralmente esemplari) distruggendo la loro felicità. Generalmente si tratta di un uomo potente e senza scrupoli che non riuscendo a sedurre la donna decide di possederla con l’inganno o con la minaccia. La strada delle minacce contro la salute del marito è quella seguita tanto dal duca d’Alba che dal Duodo: entrambi riescono infatti a violentare le loro vittime solo dopo averle tratte nel lugubre ambiente della sala delle torture; viene così riproposto in queste scene, definite di realismo senza censura, il tipico binomio di sesso ed estrema violenza risalente a modelli del romanzo nero come “Il monaco” di Lewis. L’utilizzo del narcotico è invece la via seguita dal Guisa per riuscire a possedere la sua vittima: un espediente anche’esso risalente all’intreccio di Lewis (e prima ancora di Richardon), sfruttato qui in una ambientazione meno cupa e dai toni più sensuali

In questa prima fase la figura del protagonista maschile è sempre relegata in posizione secondaria: costui infatti è inizialmente completamente all’oscuro dei fatti; e solo in seguito si presentano i primi sospetti, proprio sulla base degli strani comportamenti generalmente assunti dalla donna. E’ lei che in questi casi riveste sempre il ruolo principale: al centro della scena vi sono dunque i toni patetici e melodrammatici dei tragici conflitti di una virtù sublime ormai compromessa. Da qui deriva il classico dilemma tipico di queste eroine del martirio tra dichiarare l’accaduto o portarsi il segreto nella tomba procurandosi una morte prematura. Non vi è spazio per alcuna soluzione positiva e la naturale prosecuzione di queste premesse porta necessariamente alla confessione e quindi alla morte, unico mezzo della donna di rivendicare il proprio onore e compiere la propria personale vendetta.

Questo è lo schema, le variabili possibili sono le modalità del decesso, e la nascita o meno di un fanciullo frutto della violenza. Così nel primo esempio il tentativo di suicidio di Valentina conferma i sospetti di Eriberto, tuttavia la gravidanza viene portata a termine e la morte dell’eroina, ormai prevedibile, sopraggiunge solo in seguito al parto per cause naturali.

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Nel terzo libro al contrario Margherita2 riesce a togliersi la vita personalmente quando sua figlia è già grande di qualche mese; tuttavia compie tale gesto solo dopo aver fatto giurare ad Ermete di proteggere la piccola, e svela così in modo ancor più tragico la vera paternità di quest’ultima.

A chiusura dell’ultimo libro, in un’altra variazione sullo stesso tema, vediamo invece Margherita3 voler portare avanti a tutti i costi la gravidanza (scoperta da un medico) spinta da un istinto materno contrario e superiore alla volontà del marito; questo tuttavia non la libera da una morte prematura e, dopo la loro definitiva separazione, sarà proprio lo spirito di Bernardino a comunicare ad Alberto il decesso della consorte.

In questo tipo d’intrecci solo in ultimo torna alla ribalta la figura maschile, segnata ormai da un destino di vendetta. Per Eriberto la vendetta rimane un proposito incompiuto e la principale eredità lasciata in dono a Bernardino [citazione dialogo]. Per il Ermete ed Alberto al contrario la vendetta è completa e molto articolata: in entrambi i casi infatti si sviluppa in due fasi successive, una immediatamente conseguente alla notizia della violenza, e una seconda che segue la notizia della gravidanza della moglie.

In tali circostanze la vicenda ruota sempre come di consueto attorno alla tipica scena del duello19 (descritta in toni accesi e drammatici), tuttavia a

questa lineare opzione si sovrappongono molteplici altre possibilità combinatorie che permettono di individuare rispetto alla tematica della vendetta personale tutta una serie di situazioni particolari.

Nel corso dei sette libri accanto a queste classiche dinamiche sentimentali connotate dalla centralità della figura femminile, e caratterizzate da un inevitabile finale amaro, trovano poi posto in posizione subordinata una serie di intrecci sempre sentimentali (e principalmente secondari), in cui è il protagonista maschile ad assumere un ruolo di assoluto primo piano. La centralità dell’eroe positivo e l’inevitabile lieto fine caratterizzano quest’altro tipo classico di trama a tema sentimentale ma dai toni meno 19 Già Lovelace, capostipite di questi persecutori, finirà per morire in duello.

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melodrammatici, costruita generalmente sul binomio rapimento-liberazione. Anche qui i modelli sono molti e diversi: in primis gli intrecci di Walter Scott, e la linea evasiva e avventurosa segnata dal Tom jones20; ma si

possono trovare riferimenti anche al più pacato intimismo di Manzoni, o viceversa agi intrecci contorti e labirintici del romanzo gotico.

Queste trame sentimentali a carattere avventuroso presentano uno schema di base fisso (suscettibile poi a notevoli aggiustamenti) così strutturato: un agente esterno (generalmente un nobile prepotente e velleitario) ostacola il coronamento del sogno d’amore di due giovani tentando con ogni mezzo di trarre a sé la donna esercitando su quest’ultima un potere costrittivo. Questa situazione produce sempre un intreccio tutto in positivo volto al superamento dell’ostacolo ed al compimento delle nozze con l’eroe positivo.

Nella storia del rapimento e della liberazione di Margherita, che ci viene narrata nel secondo libro, troviamo un chiaro esempio di tale costruzione narrativa: una fanciulla vergine e pura si trova a vivere un terribile incubo da cui riesce ad uscire solo grazie all’aiuto del suo infaticabile paladino; le nozze finali costituiscono il meritato premio del dolore subito e dell’audacia mostrata da entrambi. In questo caso l’agente esterno è rappresentato non da un altro innamorato ma da un’istituzione come l’inquisizione, che per motivi d’interessi si vuole disfare di Margherita. Le scene di sapore noir del rapimento e della prigionia danno una pieno sfogo alla polemica anticlericale soprattutto tramite la rappresentazione iperbolica delle crudeltà compiute dalle istituzioni monastiche.

Da questo punto di vista l’episodio (secondario) del salvataggio della Gilda si potrebbe collocare su di uno stesso piano; tuttavia qui l’assunzione di Malebranche a figura di paladino priva la vicenda di qualsiasi successivo risvolto sentimentale, e rende possibile la sua ripresa sul finire del settimo libro.

Una struttura simile si ritrova, scomposta e ricombinata in modo molto più articolato ed in un contesto tutto diverso, nell’intreccio secondario del 20 Tom Jones, 1749, Fielding.

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primo libro in cui viene narrata la storia del contrastato amore tra Andrea e Bianca. Qui ricorrono infatti tutti i tipici elementi: ritroviamo il finale felice, la vergine in pericolo, un paladino senza paura un po’ sui generis, e addirittura due scene di fuga e liberazione; tuttavia il panorama è completamente mutato: dallo scontro frontale contro l’istituzione ecclesiastica, si passa qui, nelle rappresentazioni di Andrea e Ramiro, a un più pacato confronto tra distinte realtà sociali improntato all’esaltazione di un filantropico pietismo di stampo cattolico-borghese.

Un largo spazio è lasciato alla narrazione dell’incontro tra Bianca ed Andrea e alla descrizione delle loro prime schermaglie amorose: predomina in queste scene un sentimentalismo tutto psicologico diversissimo dallo schematismo che caratterizza i ruoli di Ermete e Margherita del libro successivo. L’entrata in scena di Ramiro non risulta essere un’irruzione violenta di un agente esterno, si configura piuttosto come una libera scelta di Bianca, sensibile come il padre al fascino spavaldo dell’aristocrazia. Il duello e l’assalto al convento apparentemente conferiscono a Ramiro piena dignità di eroe positivo e paladino della fanciulla, relegando viceversa la figura di Andrea momentaneamente in secondo piano.

Tuttavia poco dopo, quando la condizione di pericolo determinata dal contagio mostra il rovescio della medaglia di tutta la situazione, e i veri caratteri dei due personaggi maschili, subito i loro ruoli si ribaltano completamente: Ramiro si rivela infatti codardo, prepotente e ingannatore; mentre al contrario Andrea ritorna in scena come martire dedito al sacrificio e quasi in odore di santità. Se in questo caso non vi è stato nessun rapimento, tuttavia la sua irruzione nella casa del rivale e il salvataggio fanno di Andrea il paladino liberatore destinato ad avere la mano della fanciulla: si delinea qui la figura di un eroe non cavalleresco ma borghese, e campione non di armi ma di carità cristiana. Anche qui è previsto il matrimonio come classico lieto fine, ma questo sarà lungamente differito ed annunciato per forma indiretta solo all’inizio del libro successivo; l’attenzione viene invece concentrata su di una sorta di processo di espiazione e purificazione che Bianca deve portare a termine per essere

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