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LA NOTTE DELLA LUNA. incipit

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Academic year: 2022

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(1)

LA NOTTE DELLA LUNA

Questa storia la conosco bene, non ricordo tutto, ma quel che basta sì.

Intanto devi sapere del posto, Pellestrina, che è un’isola, lunga dodici chilometri e larga in media un cinquecento metri, posta lì, stesa, tra il Lido di Venezia e Chioggia, formando così il confine della Laguna sud di Venezia con il mare.

Una striscia di terra, sì, percorsa per tutta la sua lunghezza da un muro, anzi i “Murazzi”, una diga, in pietra d’Istria, costruita dalla Serenissima nel ‘700 per proteggere l’isola e la laguna, e Venezia, dall’Adriatico che a volte è distruttivo, come nel 1966, quando il mare superò quel muro, anche se è alto ben cinque metri, inondando e rovinando tutto.

Pellestrina è Venezia, ma lontanissima da Venezia, lontana dal turismo, dai negozi, dal mondo. I suoi pochi abitanti - un paese di circa tremila persone - vivono da sempre pescando nell’acqua bassa della laguna con i piccoli pescherecci, o lavorando al Lido negli alberghi, o fino a Venezia i più avventurosi. Ma tutti, la sera, tornano alle casette in riva al mare, e qui il tempo è diverso, un altro, rispetto alla città. Tutto è rimasto lento, sui ritmi del giorno e delle stagioni, e con il sottofondo continuo della risacca. Gli abitanti sono isolani, isole loro stessi, prigionieri del mare, ma liberi di vivere il loro tempo nel contatto perenne con l’acqua, verde d’estate, nera e cupa d’inverno.

• incipit

Il dolore è insopportabile, mi toglie il respiro, neanche urlare serve, non più.

Inizia dalla schiena, come un’onda, sale al diaframma, scende tra le gambe, ogni volta un’onda più alta, più vicina, che mi dilania, mi rompe, e non si può fermare, e tra un’onda e l’altra nulla. Il viso della suora sopra di me sorride, mi asciuga il viso sudato, “brava” mi dice, scompare. Provo a respirare ma ecco, un’altra onda, più alta, più immensa, che sento un crack là sotto, morirò, lo so, morirò per i miei peccati non commessi non voluti. Mia madre non c’è. La suora riappare, spinge sulla mia pancia, come non bastasse l’altro dolore, “su da brava” dice. Qualcosa più forte di me più grande di me mi ha presa, mi strizza, mi stende, mi riempie di dolore, non mi dà tregua, ancora una ancora una ancora una. Un’onda che sale da dentro di me e, finalmente, lo sento scorrere, saltare, come un pesce… Mi svuoto, di colpo, tremendamente vuota, come non avessi più corpo, e il dolore cessa improvviso, per tornare ridotto come un’eco, dolente, potente. Basta, vi prego basta… Ora riesco a respirare. La suora torna, sorride, con un fagotto in mano che urla, “è un maschio”, ma ho solo sete, una sete tremenda, e non voglio nulla, solo che passi tutto, che passi presto. E mi sveglio.

Il dolore è rimasto, basso, pulsante, di schiena, di pancia, dove qualcuno ha infilato una mano dentro di me e mi spreme, mi strappa la vita. Ogni volta è così. Sento che scende. Mi butto giù dal letto, sul pavimento freddo, mi stringo le gambe e cerco di non pensare al dolore. Poi cessa.

Tra le gambe ancora una volta quel sangue, che mi dice fertile, io che non voglio essere fertile, io che non voglio non conosco rifiuto questa parte del mio corpo, che nemmeno mi tocco, mi lavo veloce, che… Mio Dio non indurmi in tentazione.

(2)

Miodio fammi passare presto questo male. Amen.

Lucia riesce ad alzarsi, piano, va ad un cassetto dell’armadio, cerca ma non trova.

Lucia ha quarant’anni, è una bella donna, piena, alta, con un viso luminoso incorniciato da capelli neri e lucidi, salvo un piccolo ciuffo, bianco, curioso, sulla tempia. Ora veste un camicione bianco, e si tiene una pezza tra le gambe, mentre esce a piedi nudi nel chiostro che è ancora buio, e va ai bagni.

• posta

Una bella giornata di sole. Il gattone nero sta nel suo angolo preferito del chiostro, all’ombra, da do- ve può controllare tutta l’area, e finge di dormire, con gli occhi a fessura. Tiene d’occhio possibili lucertole in fuga dal lavoro che la vecchia monaca sta facendo sul roseto. Sulla tonaca ha il grembiule a strisce bianche e azzurre da lavoro, e sul velo porta un cappellaccio di paglia. Taglia cura pota il lungo roseto che fa tutto il perimetro, di belle macchie rosse gialle e bianche posate sul verde scuro delle foglie. È un bel chiostro, del ‘500, con le colonnine ed il tetto spiovente, il pozzo al centro, ma soprattutto quel roseto, e lei, la monaca, ne è orgogliosa.

La pace claustrale del luogo cessa improvvisa per le grida che vengono dal corridoio che porta al convitto: appare un diavoletto nero con le treccine raccolte sul capo ed un vestitino rosso, è una bambina magrolina ma piena d’energia, ed infatti urla, ride, urla “postaaa postaaa postaaa”, e corre, inseguita da una suor Maria settantenne, bassa e cicciottella, poverella, che non ce la fa a starle dietro.

“Damme quella busta, mannaggia a te, quando te prendo... Dammelaa! Denise fermati che me fai morì anticipata..”

Ma anche lei ride e urla nella sua parlata veneto/pugliese. Non ce la fa più, si ferma appoggiata al muro, respira con fatica. Denise svolta l’angolo, ma poi torna indietro, fa capolino, spia suor Maria, le si avvicina.

“Suor Maria… Ehi… Ce la fai?”

Ha lo sguardo preoccupato, il diavoletto rosso, e guarda da sotto in su quella suora sofferente, le si avvicina ancora, ed è allora che suor Maria ha lo scatto del cacciatore e l’acchiappa, e ride, e ride anche Denise, che è un bellissimo gioco.

“Eeeh, sei veloce, ma io so’ più furba!”

“Mollami mollami” urla la piccola ridendo “la voglio portare io”

“Che t’insegno io a rubare la posta dalla mia scrivania!”

“So leggere so leggere.. È per suor Luciaaa”

E ridono. Suor Maria riesce a recuperare la busta spiegazzata e cerca di aggiustarla. Prende Denise per mano.

“Chi comanda sto’ convento? Eh?”

“Il buon Dio!” Risponde lesta la piccola.

“Furbacchiona, il buon Dio comanda su tutto, ma qui comando io! Se te dico fermate te devi ferma’…”

E così ridendo e giocando vanno verso un corridoio di pietra.

(3)

È tutto di pietra il convento delle Serve di Maria, a Rovigo. Un’imponente costruzione medievale fatta di camminamenti, chiostri, orti, la chiesa, le celle. Tutto destinato a durare per sempre, se piacerà a Dio, finché piacerà a Dio. Pochi, pochissimi, gli arredi, ma enormi gli spazi, che incutono deferenza, timore, consolazione, a seconda delle anime e della propria inclinazione spirituale.

Ci si perde là dentro, ma se ne apprezza il fresco d’estate, ed il silenzio totale d’inverno, specialmente quando ci si alza alle quattro per il Mattutino. Alzarsi per le Lodi al Signore è una tortura solo per le novizie, poi se ne apprezza invece il significato, e quella sensazione di vegliare per il bene del mondo, mentre il mondo dorme, inconsapevole. Forse immeritevole. È una sensazione comune a molti lavoratori notturni, come negli ospedali, nelle carceri, nelle caserme, nei panifici, nei conventi, dove sempre c’è chi veglia sul sonno altrui.

Molti anni fa c’era un programma radiofonico che andava in onda dalla mezzanotte alle sei del mattino. Si chiamava “Notturno dall’Italia”. La voce dell’annunciatore ripeteva “Notturno dall’Italia” in più lingue: Nocturne from Italy, Nocturne d’Italie… Poi c’era l’inno nazionale, il giornale radio di mezzanotte, e poi musica. Era un programma in onde medie - ancora non c’era la modulazione di frequenza - ed il sonoro andava e veniva, vi si sovrapponevano altre onde radio, interferenze, voci: era un’avventura sonora dovuta alle onde ionizzanti, per le quali voci lontanissime arrivavano, in idiomi sconosciuti, specialmente d’estate.

Forse così si ascoltava Radio Londra, tu tu tu tùn, di nascosto, durante la seconda guerra mondiale, e con lo stesso spirito, come di clandestinità, quel “Notturno dall’Italia” univa tutti i lavoratori della notte, e gli insonni, con un unico, continuo, commento sonoro.

Anche l’aula è di pietra, e grande. Contiene decine di piccoli banchi scolastici, ma solo pochi, forse otto, sono occupati da bambini di varia età ed etnia. Si riconoscono subito i neretti con gli occhi grandi, un paio di indiani, una lunga lunga, forse bosniaca, ed altri con gli occhietti vispi e poco attenti alla lezione.

Alla cattedra sta Lucia, in abito grigio monacale, con i capelli scuri raccolti e fissati con le mollette, senza velo. Sta facendo lezione in piedi, davanti ad una grande carta geografica affissa alla parete dietro la cattedra.

“… Cristoforo Colombo arrivò così in vista della terra.. Che terra era Malì? Dove era arrivato?”

Malì, la piccola indiana, sprofonda nel suo posto, cercando con gli occhioni neri aiuto dai compagni.

“Su, è facile. Che ha scoperto Cristoforo Colombo? Ne abbiamo parlato ieri.. Una terra grande… Di là del mare…”

Ma bussano alla porta che si apre senza attendere risposta, ed entrano suor Maria e Denise.

“Denise!” Fa Lucia “che hai combinato stavolta? Non eri andata in bagno?”

“See” risponde suo Maria “altro che bagno! Sta diavola era venuta in ufficio da me a cercare caramelle!”

E Denise, che in un primo momento faceva la timida, riprende improvvisamente vita, spingendo verso l’alto la mano di suor Maria che tiene la busta stropicciata.

“Postaaa postaaaa postaaaa per suor Lucia”

“Che te possino..” Ride suor Maria “ma che ha magnato questa? Dai, dalle sta lettera”

E finalmente Denise riesce a prendere la busta e la consegna a Lucia.

“Una letteraaaa, una lettera per suor Luciaaaa” e via a ridere con tutti gli altri.

(4)

Lucia anche ride, prende la lettera, legge il mittente, e sorride timida rivolta ai bambini.

“È mio fratello, dal Brasile..”

“Brasileeee Brasileeee” riparte Denise.

“Dai, vediamo, dov’è il Brasile?” Dice Lucia cercando di riprendere il controllo della situazione.

Denise è in difficoltà, si zittisce e si nasconde dietro suor Maria.

“Ah! Mo fai meno la spiritosa eh? Su.. Dove sta il Brasile?” Suor Maria cerca di stanare Denise dalla sua gonna.

“Chi lo sa dov’è il Brasile?” Ripete Lucia.

Un bambino, Moreno, alza la mano.

“Bravo Moreno, dillo tu, dov’è il Brasile?”

“Da dove vengo io” dice il bambino con un filo di voce, e tutti i bambini ridono. Lucia li zittisce.

“Bravo. E da dove vieni tu?”

“…Dalla mia mamma” e giù altre risate.

“Bravo. E tu e la tua mamma da dove venite?”

“Dal Brasile”

Interviene suor Maria.

“Vabbè, s’è capito, ma dove sta ‘sto Brasile? Ce lo voi dì?”

“Da dove viene Moreno” trionfa Denise. E diventa una festa di frizzi e lazzi dei bambini che trascinano nelle risate le due donne.

“Dai dai zucconi!” Lucia tenta di riprendere il controllo “ma dov’è il Brasile? In sud… In sud…”

“In Sudamerica” urla Denise.

“E dov’è il Sudamerica signorina so-tutto-io?”

Tutti si zittiscono e fissano Denise che però tace, confusa.

“Me sa che dopo pranzo bisognerà ripassare geografia..” Dice suor Maria “Vabbè, vado…”

“Mi sa anche a me” ribatte Lucia “su, salutiamo suor Maria che torna a fare il suo lavoro”

E tutti in coro salutano suor Maria che esce di scena, mentre Denise va ad abbracciare le gambe di Lucia che le arruffa i capelli crespi.

Notte nel chiostro. Alla luce dell’unico lampioncino sta seduta Lucia, con uno scialle nero sulle spalle. È seduta sul muretto che regge le colonnine del tetto spiovente, e legge la lettera del fratello, più visto da ormai trent’anni. Era uno scricciolo, nero e moccoloso, ora ha quarant’anni, e tre figli, e vive lontanissimo, in Brasile, in una cittadina ai confini con la giungla. È una lettera sgrammaticata, a mezzo tra italiano e portoghese, che va decifrata, ma le cose che dice sono semplici, si capiscono:

va tutto bene, arriva un altro figlio, tu come stai, la più grande va a scuola ed è brava. In una lettera precedente c’era anche una fotina di lui e la famiglia, una foto sfocata, una Polaroid, lontani fantasmi di una lontana terra, e tempo. Lucia lo sa che è suo fratello, ma non ricorda niente di lui, o poco, e non conosce certo questo signore barbuto che sorride sull’uscio di casa. Anche questo è quel che resta di quella notte di luna piena, maledetta notte. Ma senza acredine, solo un maledetta perché ha spostato tutto, ed è costata molto dolore, a tutti. Lucia annusa la lettera, come le portasse un profumo di terre lontane, lei che è sempre vissuta tra queste mura di pietra, ma non c’è profumo, né odore, sulla lettera, solo poche lacrime, sue, per questo pezzo di lei fantasma, che ogni tanto si fa vivo con una lettera, alla quale risponde, ma non sa che dire di vero, e si resta nelle formule astratte, inutili. Lui pensa di avere una sorella suora, in Italia, lei sa che quello è suo fratello, ma è un’altra

(5)

vita, lontanissima vita, altrui. Lucia ripone la lettera nella tasca della tonaca e sospira. È una bella sera di primavera, che invita al riso ed all’amicizia, alle parole leggere, ma, ogni volta, quelle lettere sono invece di piombo, che la tengono attaccata alla terra, al passato, per nulla che dicono, solo per esserci, ricordarle, dell’altra vita possibile ed ora impossibile.

Una campanella suona, continua, din din din din... Da una porta sul fondo esce una suora, poi un’altra, poi tutte e sei. Vanno lungo il colonnato verso la cappella, e Lucia si unisce a loro. Hanno tutte il loro velo nero, meno Lucia che l’ha bianco.

La cappella delle Laudi è più raccolta, più piccola del resto del convento, in stile romanico, con un piccolo altare spoglio, una lanterna rossa accesa che pende dal soffitto, e poca luce che viene da una lampada all’ingresso. Anche le pareti sono spoglie, bianche, e ci sono due panche, una di fronte all’altra, sulle quali le monache prendono posto. Suor Maria entra, s’inginocchia passando davanti all’altare, e va ad un piccolo leggio con una lucetta, da dove guida le orazione del Mattutino.

Il coro delle monache intona le lodi al Signore, con quel tono argentino, ed ognuna sta con gli occhi chiusi, o fissi sul breviario, rapita nel momento per il quale è monaca, serva di Dio.

Le preghiere si snodano per quasi un’ora, intervallate da momenti di meditazione, che si fanno in ginocchio sulla pietra del pavimento.

Suor Maria scende dall’altare e si inginocchia per l’ultima devozione a fianco di Lucia, e restano così, fino a che la campanella batte tre rintocchi, che indicano la fine del Mattutino, e che si può andare a dormire per qualche ora.

“Domattina, dopo la colazione, passa da me” dice sottovoce suor Maria, e Lucia fa un cenno del ca- po di risposta. Ora, ordinate, ognuna si alza, ed esce. Vanno verso le celle cantando l’ultimo inno, che si alza da quelle donne votate alla privazione, e batte l’eco sulle alte volte, scorre nei grandi vuoti, decresce mentre una ad una scompaiono nelle loro celle. Lucia è l’ultima e scomparire dietro la pesante porta della sua stanza.

È proprio una cella la sua stanza, di carceraria memoria, piccola, stretta, con un lettino, un armadio, un tavolino con un grande crocefisso, ed una fessura nella pietra che dovrebbe essere una finestra verso la valle. Alle pareti fogli attaccati con l’adesivo, i disegni dei bambini. Un altro giorno è passato.

• cambiamenti

La cella di suor Maria è più grande, come spetta ad una badessa, ma è solo per contenere una grande scrivania piena di carte, ed armadi con tante altre carte ed i documenti del convento, e la sua storia.

“Vieni, vieni Lucia.. Siediti” dice suor Maria seduta alla scrivania, e Lucia si siede.

“È ancora freddo la notte” dice, per rompere il silenzio. E suor Maria la guarda e sorride.

“Si, davvero. Qui il freddo è di casa”

Le due donne si guardano, suor Maria è restia a parlare, infine si decide.

“Senti, Lucia, so’ trent’anni che stai con noi…”

“Trenta?”

“Sì cara, so’ trenta. Sei arrivata che eri una bambina spaventata de tredici anni, ora sei ‘na donna fatta, guardate un po’!” e ride.

Ma Lucia abbassa invece il capo.

(6)

“Sono una vecchia ormai”

“Ma quale vecchia! Sei una donna, potevi essere madre, avere un marito, vivere la tua vita. E lo puoi ancora”

“Ma che dici? Io sto bene qui con voi. Perché tiri fuori queste storie? Che è successo?” Ed ora Lucia è allarmata per la piega che sta prendendo il discorso di suor Maria.

“Lucia! Calmate figlia mia. Ti abbiamo accolta, sei una nostra sorella in Dio, ma non sei una suora”

“Avrei voluto! L’avevo chiesto. Lo sai, sei tu che mi hai sconsigliata, anni, fa, proprio tu!”

“Eeh subbito che te scaldi! Ascolta! Sei una brava insegnante, i bambini ti adorano, hai il modo giusto, ora hai la possibilità di vivere la vita tua, che non ho mai pensato fosse qui dentro come suora. Non ti puoi nascondere per sempre. Il tempo è passato, trent’anni!, E non c’è più ragione che tu viva qui dentro. E poi”

Lucia l’interrompe alterata, si alza in piedi.

“Che ho fatto!? Perché mi vuoi mandare via? Che posso fare lì fuori? Non c’è niente per me là fuori..”

“Ma non lo vedi? Siamo rimaste in sei. Non ci sono nemmeno più i bambini. Non ci sono più soldi.

Questo convento viene chiuso, e noi inviate in altri conventi. Siamo rimaste in trecento divise in sessanta conventi! Ma ti pare?! E tu non puoi essere inviata da nessuna parte perché non sei nemmeno suora…”

“Ma mi posso fare suora! Voglio restare con voi.. Ti prego…”

“Lucia… Questa è una via della vocazione, bisogna essere fatte in un certo modo per essere suore.

Forse anche un po’ stupide. Ti ho molto osservata in questi anni, e tu non sei qui per vocazione, ma solo per paura, per fuga. È una non scelta. Ti ci hanno portata”

“Non puoi farmi questo.. Non saprei che fare là fuori. Non sono adatta ad essere libera. Ho paura…”

“Vedi? Lo ammetti tu stessa. Sei qui per paura, non per amore di Dio...”

E Lucia si volta di scatto, trattiene le lacrime, per quel mondo piccolo che le cade addosso, va verso il crocefisso e parla piano, per non lasciar sfuggire il pianto.

“Non potete farmi questo a quarant’anni. Non saprei che fare, dove andare..”

“Siamo nelle mani di Dio, di che aver paura? Ascolta. C’è una piccola comunità che ti può accogliere, non come suora, e là potresti continuare ad insegnare. Hanno un asilo, e bisogno di una brava come te. E puoi anche guardarti attorno, sei una bella donna, se ti tiri un po’ su, e magari potresti avere una famiglia tua, figli tuoi..”

Alla fine Lucia torna a sedere di fronte a suor Maria, e non trattiene più le lacrime.

“Su, Lucia, dai, Lucia, non far piangere anche me. Mi dispiace davvero tantissimo de perderti, ma qui non c’è nessun futuro. Nessuno. Forse ce faranno un albergo di questo convento”

“Un albergo? Chi ha deciso tutto questo? Chi?”

“Il buon Dio, non è ciò che insegni ai tuoi bambini? Che ne sappiamo noi di ciò che è giusto o sbagliato? Le cose cambiano, non lo sapevi?”

“Non lo so.. Non so.. Tu dove andrai? Vengo con te..”

“Vado dove mi mandano, non so dove, e non è importante. E tu non puoi venire, lo sai”

E qui si forma del silenzio, che nessuna delle due sa come continuare.

“Dove.. Dove mi manderesti?”

(7)

“Ho parlato anche con il padre spirituale.. Stai là qualche tempo.. Se proprio vuoi prendere i voti, prendilo come esercizio spirituale, se proprio vuoi prendere i voti. Poi parli con il tuo padre spirituale, e lui ti consiglierà per il meglio. Lucia.. Non è un obbligo, è un’opportunità, una possibilità di scelta che finora non hai avuto. Se poi vuoi fare altro sei libera di farlo”

“Non so fare altro che stare con i bambini. Che altro posso fare?”

“Su, dai. Abbi fede in Dio, prega, vedrai che ti arriverà l’illuminazione. Non è oggi, nemmeno domani. Hai tempo di pensarci, di decidere. Ma entro un paio di mesi dobbiamo andarcene. Ognuna per la sua strada”

Lucia abbassa il capo, le mani chiuse in grembo. Suor Maria la guarda con affetto, capisce.

“Dove mi mandate?” E lo chiede con un filo di voce.

“Non ti ho sentita figlia mia..”

“Dove mi mandate?”

“È la parrocchia di Pellestrina..” Risponde suor Maria, e sa che è una grande prova per Lucia.

“Pellestrina?? Ma se è da là che scappo!”

“Daii.. Figlietta mia. Su. So’ passati trent’anni anni, non ti riconoscerà nessuno, e tu non conoscerai nessuno. Il mondo è cambiato in questi anni. Ed anche noi.. C’è una nuova cooperativa che ha preso la gestione dell’asilo..”

“È una cattiveria..”

“Lucia, è gente che conosco, brave persone, e l’asilo è in un bellissimo posto. Pensa, in mezzo alla laguna di Venezia, in mezzo al mare, starai bene. Penso sia ora che tu debba affrontare i tuoi fantasmi, ed andare oltre. Vivi benedetta figlia! Vivi, sii felice finalmente, te lo meriti tutto...”

“Che Dio mi aiuti..”

“Amen. Con tutto il cuore.”

Lucia dorme rannicchiata, si agita. Tutti i suoi mostri ed i fantasmi si son dati appuntamento per stanotte, e le frugano l’anima, cercando un varco per il terrore. C’è l’uomo senza volto, nero pece, alto, scontornato nel cielo della luna, che le strappa gli abiti, e le infila una spada seghettata nel suo sesso virginale, e nemmeno può urlare, deve solo cercare di respirare, respirare, non c’è altra aria per urlare. C’è quel dolore infinito che le squassa le viscere, ben più forte di quello mensile. C’è quel povero padre che scende nel gorgo muto, mentre il mare, e le alghe, lo avvolgono, lo trascinano. E quella madre sfortunata, dal viso bello quanto triste, ed il ventre enorme, di un altro figlio ancora, un altro ancora. Ed il sangue, che le scorre lungo la coscia, scende fino ai calzetti bianchi, e non si può trattenere, e tutti ridono, la canzonano, Lucia la matta Lucia la torda tarda. C’è tutta l’isola, tutti in fila lungo la sponda, che la vedono andar via, la testa bassa della colpa, della puttana, che non ho fatto nulla, ma invece hai fatto, hai fatto, se no uno non ti viene addosso così.

Troia.

Ed apre gli occhi.

Una lama di luce bianca entra nella cella, una lama di luna piena, ancora, entra e colpisce Lucia giusto negli occhi chiusi, fino a spalancarli, ora spalancati. Che non capisce che sia quella luce fredda, indagatrice. Che mette a disagio, fa sentire enorme la colpa. Domine non sum dignus…

Sono sudata, e non è caldo. Umido sulla pelle, umidi i capelli, diomio diomio, non finirà mai.

Ave Maria, gratia plena, dominus tecum, benedicta tu in mulieribus, et benedictus fructus ventris tui, Jesus. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae.. In

(8)

hora mortis nostrae… Nell’ora della nostra morte. Portami via mio buon Gesù, Madre Santissima, portami via. Portami via.

Resta così, Lucia, stesa come una bambola di pezza rotta, sul letto, la camicia aperta, e si solleva, si strappa la lunga benda che le appiattisce il seno, e quel seno di femmina si libera, tondo, pesante, e piange Lucia, che ha perso l’unico punto fermo che la assicurava sicurezza, il punto su cui era fermo il suo mondo. Ed ora tutto precipita. Pellestrina! Pellestrina!!! Non finirà mai.

Si alza dal letto, accende un lumino sul tavolo, va all’armadio, cerca, tendendosi verso l’alto, in punta dei piedi, scarmigliata, un’altra Lucia, una donna appassita ma ancora bella. Cerca, trova la maniglia della valigia, la tira giù con fatica, quella valigia di cartone avvolta nel nylon, e toglie la protezione del nylon, e riappare, dopo trent’anni quella valigia, nascosta come un cadavere indicibile, e l’apre.

Dentro c’è un abitino da ragazza, di cotone chiaro, una sciarpa, una scatola di latta grande, da biscotti, con la scritta MELLIN, e lì dentro una bambola di pezza con la testa di ceramica, carte, conchiglie, due foto. In una ci sono un uomo e una donna, stile anni ’60, con dei bambini attorno, dai visetti seri e curiosi. In un’altra c’è la stessa donna, più sciupata, che ha una mano sulla spalla di una ragazzina che pare una piccola sposa, seria, senza un sorriso: Lucia, in abito bianco da cresima.

Lucia bacia le foto, le ripone nella scatola, carezza la bambola spelacchiata, rimette tutto nella valigia.

Va all’inginocchiatoio, prega.

C’è una donna, che è ancora ragazzina, che nulla conosce del mondo, se non i torti ed il dolore patiti, ed è inginocchiata a pregare quel Dio che non ascolta, che non dà soluzioni, nemmeno questa volta. Ed anche la lama della luna, fatta la sua opera, ora si ritrae, scompare, lascia la cella alla sua disperazione.

Sale la scala, Lucia, che porta ad una parte del convento poco o nulla frequentata. Vi va suor Maria, sicuramente, e suor Francesca, la vivandiera. Lei ci va solo in momenti come questi, di panico, e ce ne sono stati un paio nella sua vita monacale. La scala porta ad un’unica porta, una saletta, poi un’altra stanza, luminosa, con un letto d’ospedale, di quelli attrezzati. Là, da ormai dieci anni, sta la precedente badessa, madre Teodora. Soffre di una degenerazione del sistema nervoso, per la quale perde sempre più capacità di muoversi, ma la mente è lucida, e suor Maria sale lassù quando si devono prendere decisioni importanti, e madre Teodora ascolta, poi parla, lei che vede oltre il presente.

“Ho saputo figlia mia” dice madre Teodora prima ancora che Lucia parli.

“Ho paura” risponde semplicemente Lucia “ho paura e non so di che”

“Ti ricordi quando arrivasti? Allora avevi paura di questo posto, di noi, di ciò che ti aspettava. Ora hai paura di andartene. Capisci? È normale il timore di ciò che ci è sconosciuto. Ma se a tredici anni era comprensibile, ed anche ora, lo so, un po’ lo è, ora che di anni ne hai quarantatré è tempo che tu sia l’adulta che sei”

“Lo so, ma non vorrei”

“Ma ti senti? È la bambina che parla”

“È troppo grande questo cambiamento, e tornare a Pellestrina, voi lo sapete madre, con tutto quanto quel posto significa per me. Ma perché per me è tutto così difficile, che ho fatto di male?”

“Lo so figlia mia. Sono io che ti ho accolto quando sei arrivata, e mi ricordo bene in che stato eri, e..”

(9)

Ma qui la madre si ferma, è qualcosa di doloroso anche per lei. Tace.

“Che posso fare madre? Che devo fare?”

“Puoi solo accettare quel che Dio ti manda, ed aver fiducia nella sua decisione, e bontà. Sono convinta che qualcosa accadrà, e sarà bene. Ne sono convintissima”

“Siete stata come una mamma per me. Non lo dimenticherò”

“Ora vai figlia mia, ti ricorderò nelle mie preghiere. Abbi fiducia. Si apre per te una nuova vita, forse finalmente ciò che davvero vuoi, anche senza saperlo, e ti meriti”

Sembra che la conversazione sia terminata, non c’è altro da dire, ma Lucia ha quel groppo alla gola da sempre, e forse oggi è il momento.

“Madre, ora che me ne sto andando, e forse non ci vedremo più…”

“Lucia, non fare una domanda alla quale non posso rispondere”

“Ma…” Abbassa il capo, vinta.

In fondo forse non vuole saperlo, ma una parte di lei lo vuole, fortissimamente, inutilmente. Nella mente pensa sempre ad un bambino, quel figlio che le è capitato, ma lo sa che oggi lui ha trent’anni, è un uomo, avrà una vita, e sarebbe squassante ritrovarsi, chissà, forse tremendo, forse inutile, ma non riesce a non pensarci, a volte anche a sentire, come mancasse una parte di sé stessa.

“Sì, ha ragione. Preghi per me, io l’avrò sempre nel mio cuore”

“Da madre a figlia, dammi un bacio, e vai in pace”

E così Lucia lasciò i suoi primi quarantatré anni per vedere che ci fosse nel resto, oscuro, della sua vita.

• zanchetta

Laguna sud di Venezia, quella parte che sta a sud della città, che confina a nord con la Romea, e Marghera, e che si chiude a sud ovest a Chioggia. In ordine, la laguna sud confina appunto con Chioggia, l’isola di Pellestrina, e l’isola del Lido. Da lì in poi diventa laguna nord, chiusa a sud dal litorale di Cavallino e Jesolo, e a nord dalla terra ferma, compreso l’aeroporto Marco Polo.

Una grande laguna quindi, che respira aspirando ed espirando acqua dal mare Adriatico, attraverso le tre bocche di porto di Lido, Malamocco e Pellestrina, al ritmo delle maree.

Le laguna è fatta di terra ed acqua, acqua bassa, e terra bassa, le “barene”, e fu il primo sistema di difesa delle popolazioni che andarono a rifugiarsi sulle isolette che poi diventarono Venezia, perché solo chi conosceva il labirinto di canali poteva arrivare alla città.

Nella laguna sud si pesca, con piccoli pescherecci, adatti ai bassi fondali, e si allevano cozze e vongole; il pescato si vende a Venezia, al mercato del pesce, o si conferisce a Chioggia, sempre al mercato del pesce, o direttamente ai ristoranti. In terra ferma si mietono i campi per avere il grano, in laguna la mietitura del mare porta al pescato.

Il “Marina II” va nel bel tramonto estivo, con la calura del giorno che ha ceduto il passo alla brezza serale. Il piccolo peschereccio dirige verso Pellestrina, che si vede in pieno sole, a neanche un chilometro. A bordo stanno pulendo il pesce, e gabbiani a frotte seguono la scia a caccia delle interiora che vengono buttate a mare, lottando uno contro l’altro, stridendo ad alta voce, imperiosi.

Uno riesce a prendere un bel boccone e si alza veloce, per trovare un posto dove ingurgitarlo.

(10)

Da lassù si vede la striscia di luce dorata che tocca le case verso la laguna, e, di qua del muro, l’ombra scura, ed il mare aperto. Alcune petroliere sono alla fonda, in distanza, in attesa del loro turno di passaggio lungo il Canale dei Petroli.

L’isola è idealmente divisa in quattro parti: Santa Maria del Mare, dove attracca il traghetto che viene dal Lido, San Piero in Volta, con le prime case, poi Pellestrina, che è il centro dell’isola, infine il lungo muro che scorre solitario fino all’oasi di Ca’ Roman dove un pezzetto di mare divide Pellestrina da Chioggia. Tutto qui. Mezz’ora di bicicletta, da un capo all’altro.

Le case sono basse, bianche, alcune invece molto colorate, con le imposte azzurre o verdi. E la gente d’estate vive fuori dagli usci protetti dalle tende: le donne a fare i merletti con il tombolo, i bambini a gridare e giocare, tutti a scrutare i “foresti” che si avventurino fin quaggiù. Ed è così da sempre.

Verso la laguna sono attraccati i pescherecci, e le barche, ormeggiati ad un basso muro che protegge, poco, dalla marea.

Ed è qui che il “Marina II” è diretto, passando a lato delle “peocere”, che sono lunghe corde tese tra pali, dalle quali altre corde sono legate e vanno verso il fondo, cariche di migliaia e migliaia di cozze in crescita.

Il capitano è Manuel, detto “Manolo”, sui cinquant’anni, sigaretta in bocca e mano sul timone. Un bell’uomo consumato dal sole e dalla salsedine, la pelle come cuoio. Oggi sorride, perché la pesca è andata bene. A poppa un ragazzo, Giacomo, mozzo tuttofare, che sta riponendo gli attrezzi e le reti.

Il peschereccio si avvicina all’isola, al pontile ACTV, la linea di trasporto passeggeri di Venezia, pontile che consiste in uno zatterone ancorato a riva da grosse catene nere; su di esso una copertura in tela protegge chi sale e scende dalla pioggia e dal sole, mentre una stretta passerella in legno lo collega a terra. Il pontile sale e scende, in perpetuo, seguendo le onde che s’infrangono a riva, e le maree.

Ad un angolo del pontile, verso mare, su una grossa bitta d’approdo sta seduto un uomo, Zanchetta, settant’anni portati molto male. È secco, alto, in un completo di lino bianco anni ‘60 di almeno tre taglie più grande, con un cappellaccio nero calato sugli occhi, ed un bastone da passeggio con il po- mo d’argento a forma di testa di cane. Al collo un foulard, e dita tatuate dalle unghie lunghe, sporche. Ha i capelli bianchi, radi e lunghi, mossi dal vento, i denti guasti, un paio di baffetti sottili, alla Clark Gable.

Zanchetta sta con il mento appoggiato al pomo del bastone, sale e scende sul mare assieme al pontile, e fissa con attenzione il peschereccio che viene verso riva.

Maledetti. Pensa Zanchetta. Lo pensa sempre, e non solo del peschereccio che si sta avvicinando.

Anche sul “Marina II” hanno visto il vecchio con il bastone.

“Ehi” fa Giacomo a Manolo “hai visto? C’è Zanchetta”

“Sai che novità!”

“Che voglia fare ancora storie?”

“Non è giornata.. Se ha voglia oggi le prende, anche se ha settant’anni, anche se è suonato!”

“Così dopo ci vai di mezzo..”

“Ha già avuto due diffide, non credo voglia ancora grane. Ma tu taci, e basta. Chiaro? Non voglio sentirti dire una parola!”

“Io? Io non parlo mai. Ma se comincia lui…”

“Tu taci! Che a quello ci penso io. Chiaro?”

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“Il capo sei tu!”

“Ecco, bravo!”

C’è solo il rumore del motore, che sale e scende, nella manovra di avvicinamento al pontile, e gli sguardi che s’incrociano, come fosse un duello western, tra i due del peschereccio e Zanchetta, immobile, dorato come tutto il mondo dorato dal lento tramonto.

Giacomo con un salto è sul pontile con la cima d’ormeggio, e la fissa ad una bitta. Ignora volutamente Zanchetta, che prende vita.

“Lo sapete che non potete ormeggiare qui? Che questo è un pontile dell’ACTV? Che è proibito ai privati?”

Ha parlato con una voce bassa, maschia, che deve essere stata un bella voce un tempo, e con un tono minaccioso, arrogante, il suo. Ma i due pescatori lo ignorano. Giacomo prende dalla poppa tre cassette di pesce che scarica sul pontile, e Zanchetta indica il pesce con il bastone.

“Guarda ‘sti sgombri! Sono piccoli, troppo piccoli, non si possono pescare! Se la guardia vi”

Ma Manolo lo interrompe, ed ora ha voglia di litigare.

“Signor sapienza, non avete altra gente da infastidire stasera!?”

“Tu! Quando lavoravi per me ti avevo insegnato per bene cosa va fatto!”

Manolo lo ignora, scende dal peschereccio ed aiuta Giacomo a mettere le cassette su un carrettino a due ruote posteggiato in un angolo. Zanchetta non demorde, e si mette a mezzo della passerella.

“Dai!” Gli dice Manolo spazientito “Dai che ho da lavorare!”

“Marina II! Quel peschereccio era mio! Aveva il nome del vento! Libeccio si chiama no Marina II!

Che nome del casso.. E guarda in che condizioni lo avete ridotto..”

“Ti sposti?! Non ho voglia di litigare e devi anche starmi lontano, lo sai!”

“Aaah che paura!”

“Vuoi un altro pugno sul muso?”

Così dicendo Manolo va quasi petto a petto con Zanchetta, furente, ed un bel pugno glielo darebbe volentieri a quel brutto muso, ma arriva Giacomo che lo tira per la camicia.

“Daii che lo fa apposta!”

Manolo dà uno spintone a Zanchetta che già non sta ben in piedi, e quello cade sul pontile perdendo il cappello. Manolo passa oltre e va verso il peschereccio.

“Te l’avevo detto!” Gli sibila voltandosi mentre va al peschereccio.

Zanchetta cerca di alzarsi, raccatta il cappello e se lo rimette in testa. Giacomo lo aiuta a rimettersi in piedi.

“Hai visto!?” Mugola il vecchio “hai visto? Tu mi fai da testimone! Che vigliacco, contro un povero vecchio zoppo..”

“Signor Zanchetta! Deve smetterla, se no finisce male prima o poi..”

Manolo intanto ha tolto l’ormeggio, aumenta i giri del motore, si allontana.

“Ma hai visto no? Mi ha aggredito, guarda il vestito! Potevo morire!”

“Ogni volta ‘sta storia?? Deve stargli lontano, ha l’ordine del giudice”

Il vecchio già non l’ascolta, borbotta, si rassetta la giacca, minaccia con il bastone Manolo ormai lontano.

“Mi avete rubato tutto.. Qui era tutto mio, tutti i pescherecci, tutti lavoravano per me..”

“Si è fatto male? Vuole che l’accompagno?”

Ed il vecchio si calma, lo guarda meglio.

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“Sei il figlio della Bice vero?”

“Signor Zanchetta… Sono sempre io…”

Giacomo ha pietà per il vecchio, gli ricorda il nonno, un altro duro, secco, ed anche quello così, che ha perso la testa, bruciata dal sole e dal mare che si muove in continuazione. Sta sulla passerella, in dubbio se aiutarlo ancora o farsi i fatti propri, che è sempre una buona idea.

“Ma sì” continua Zanchetta “tu sei un bravo ragazzo. È quel ladro che… Come fai a lavorarci assieme?”

“Signor Zanchetta.. Il lavoro è lavoro. Ringrazio sempre che ci sia. Devo andare, vuole che l’accompagno?”

“Sapessi come era bello qui, e quanto lavoro c’era”

“Buona sera. Devo andare a consegnare il pesce..”

“Avevo otto pescherecci.. Tutti nomi dei venti. Li conosci i nomi dei venti?”

Ma Giacomo se ne è già andato, trascinando il carrettino, verso la piazza di fronte alla chiesa.

Il vecchio è rimasto solo sul pontile. Si accendono i lampioni della sera, ed una campanella suona, argentina, den den den, chiama per il vespero.

Sì, era tutto bello qui, pensa Zanchetta, ma non ricorda bene cosa, e perché fosse così bello, è una sensazione quella del com’era bello, questo lo sente, ma i dettagli gli sfuggono. Ricorda i nomi dei suoi pescherecci, i venti, e quanta più gente c’era che lavorava in mare, e che lavorava per lui. Era bello. Ma non ricorda poi che è successo, che le cose cambiano, quello lo sa, ma come sono cambiate? Un passo alla volta, reggendosi al corrimano della passerella, anche lui va verso la piazza. Si sistema la giacca, che ci tiene ad essere ben vestito, per essere il padrone, per distinguersi da questi, ma li hai visti?

Zanchetta va, a volte si ferma a questionare con un interlocutore immaginario, è un uomo solo che va verso la piazza di Pellestrina, verso le luci delle case che una ad una si accendono.

Fa un giro su sé stesso, agitando il bastone.

“Era tutto mio… Tutto mio…”

Ed ancora agita il bastone, contro i Manolo, i Giacomo, i tutti di Pellestrina, più verosimilmente contro i suoi fantasmi, e sono tanti. Anche contro il gruppo di bambini che arriva urlando nella piazza, gli gira attorno, quasi lo investe, e lui agita il bastone, novello don Chisciotte, e quelli ridono ridono, sfuggono, scompaiono strillando tra le case.

E lui si trascina lungo la via, tra le casette bianche, zoppicando, biascicando, e lo ignorano, gli altri, come ignorano il vento della sera, come fosse una parte del paesaggio, che non ci si può far niente.

E lui ogni tanto si ferma, si asciuga il sudore e la bocca con un grande fazzoletto bianco.

Allo slargo, vicino alla fontana, si ferma. Ancora bambini che giocano, ma per lo più strillano, e tre ragazzine che scherzano tra loro, non più bambine, non ancora signorine. Una di queste, Magda, è china nello sforzo di spostare un secchio con una grossa anguria, fin sotto la fontana, per rinfrescarla, e nel movimento scopre le cosce abbronzate, fin quasi alle mutandine di cotone a fiori.

Questo vede il vecchio, quasi abbagliato dalla visione, e si avvicina, e le altre ragazzine se ne accorgono, e ridono, avvisano l’amica che resta però in quella posizione, in virtù di un potere che sente di avere, che ha, maliziosa, anzi, guarda il vecchio abbagliato avvicinarsi, lo guarda al rovescio, tra le proprie gambe, e quello si avvicina, fino a bagnare il fazzoletto alla fontana, ansimante.

(13)

“Magda! Che ti ho detto!? Vieni a casa subito” la madre dalla finestra ha visto tutto, e chiama la figlia.

“Ma mamma” dice la piccola Lolita fingendo di non sapere che sia il peccato “è venuto lui! Ha messo il fazzoletto sporco sopra l’anguria!”

“Vieni a casa che ti ho vista, brutta sporca! Vien subito dentro!”

E niente, Magda fa un gesto di ribellione, che il bel gioco è finito, ma passa sotto il naso adunco di Zanchetta guardandolo con sfida, mentre le altre ridono e vanno con lei.

Lui strizza il fazzoletto, se lo passa sul viso, fresco, e ricambia lo sguardo d’astio della madre di Lolita.

Le ragazzine arrivano alla porta di casa, e la madre allunga uno scappellotto alla figlia mentre quella le passa accanto.

“Dovete stargli lontane! Come lo devo dire?! Lontane!”

Le altre ragazze ridono, ed entrano con Magda, mentre Zanchetta, che un po’ ha capito che sia successo, parla da solo, mima dei gesti, forse delle maledizioni, e riprende il suo cammino incerto.

Le ragazzine, gli son sempre piaciute. Carne fresca, diceva, non la carne frollata delle vecchie. Era tanti anni fa, non ricorda bene, ma qualcosa deve essere successo, perché tutto sia cambiato così, così malamente.

Anche il padre di Magda guarda dalla finestra quel vecchio, mentre si sta asciugando le ascelle in cucina, in una casa piccola e povera, con la tavola apparecchiata per la cena.

“Esagerata” dice alla moglie “ormai è un povero vecchio innocuo. Bada a tua figlia invece! Che va in giro in mutande!”

“Il lupo perde il pelo, ma non il vizio, ricordatelo!” Ribatte la moglie, con fine sapienza della tradizione.

“Ma se sta in piedi per miracolo!”

“Non lo voglio intorno alle ragazze, avesse anche cent’anni, mi fa schifo… Schifo!”

E questo chiude la discussione

È notte fonda. Silenzio rotto solo dalla risacca e da un esercito di grilli. Un cane, un bastardone secco e nero, va peregrinando da un uscio all’altro, cercando tra i rifiuti. Rovescia un sacchetto, vi infila il muso. Poi riprende il suo giro, arriva alla casa di Zanchetta.

È una casa grande, l’unica a tre piani dell’isola, su uno slargo in fondo alla via. Tutte le finestre ed i balconi sono chiusi, a parte un balcone a piano terra, aperto per far passare un po’ del fresco notturno.

Da lì si può vedere una grande stanza spoglia, una cucina che è anche camera ed anche soggiorno, ed un vecchio lampadario veneziano che pende dal soffitto ed illumina, poco, la scena. Sullo sfondo un armadio anni ‘60, con un’anta a specchio. Di fronte allo specchio c’è Zanchetta, nudo di spalle, che vi si guarda.

Zanchetta guarda muto nello specchio la sua magrezza, i tatuaggi carcerari su gran parte del corpo, le mani, apre la bocca sdentata, abbassa lo sguardo al misero pene rattrappito tra peli bianchi del pube, lo tira, lo smuove inutilmente. Poi passa a guardare una foto di sé stesso fissata con una puntina su l’altra anta dell’armadio, tra molte altre foto della Pellestrina che fu, dove ha un sorriso sfrontato in un viso abbronzato. È in piedi sullo Zefiro, l’ultimo peschereccio acquistato, e trasuda vittoria. Poi passa a guardare nello specchio il suo viso, oggi. Chiude l’anta dello specchio con un

(14)

gesto secco, rabbioso. Si appoggia ad una sedia, prende un lenzuolo bianco con il quale asciuga il sudore del corpo, vi si avvolge. Accenna passi sgraziati di danza. Borbotta tra sé. Si siede sul letto, si guarda attorno con gli occhi acquosi, la sua casa odierna, ma chissà che vede davvero, chissà che sta pensando, se pensa. Infine va alla parete, spegne la luce, e resta un chiarore che viene da fuori, dalla finestra aperta. Si stende sul letto, ci prova, come ogni notte. Si agita, si schiaffeggia imprecando contro le zanzare. Si copre con il lenzuolo fino al mento, volta la testa verso la parete dove c’è un grande calendario con la pubblicità Algida, dove una giovane coppia di ragazzi si gusta il gelato. Sono abbronzati, in costume, ridono, sono felici.

Zanchetta è un bozzolo nel letto, un bozzolo di lenzuola con solo il viso che sporge, e gli occhi fissi ai ragazzi felici Algida, e la desidera, quella felicità, desidera quella modella perfetta che sorride al ragazzo, desidera essere quel ragazzo. Ma non si può, e non sa perché non si possa. Forse un tempo sì, si poteva? Avere la modella Algida, e tutta quella felicità zuccherina? Ma che ne so, pensa Zanchetta, al sicuro dalle zanzare nel suo sudario, che appunto lo fa sudare, ma meglio degli odiati insetti. Non ricordo, non ricordo, di quanto tempo, di che sia accaduto. E mia sorella? Forse, qualcosa indistinta, buffa, forse una sorella. Forse no. Voglio addormentarmi, stanotte, e non svegliarmi più. Mai più in questa vita. Voglio l’altra vita, quella bella. E scivola nel sonno, agitato, da molto, da quanto ricordi, e nel sogno. Gli piace dormire sognare, perché lì è spesso il capo, anzi, il capitano, con il suo berretto bianco, e comanda i venti, ed i suoi pescherecci che riversano pesce e denaro sulla banchina, e lui ha la catena d’oro, e può comprare ogni cosa desideri. In altri sogni, incubi, è invece in una stanza stretta ed alta, dove appena può girarsi, e sa che è un carcere, dove lo tengono incatenato, perché è rabbioso, ed appena può rompe uccide spacca, come un dio della guerra, e questa parte gli piace, sentirsi dio della guerra, ed anche quando gli portano le vergini, il suo tributo annuale, e ne può fare quel che ne vuole, e poche sopravvivono, perché la bellezza lo spaventa, non sa come gestirla, come rapportarsi, e la vuole negare, distruggere. E’ un Moloch cui vanno attribuiti sacrifici, giustamente, per il suo lignaggio, il suo livello di padrone dell’isola, di re dell’isola, di dio dell’isola. Altre volte ancora è la madre che lo insegue con il frustino, che fa male, ma lui è più veloce, e ride della madre mai amata, brutta, che non capisce come suo padre ci si possa essere accoppiato per generarlo, e mai lo saprà, perché il padre non ha nessuna stima di lui, e lo vedesse ora! Con tutti i pescherecci, ed i soldi che sa fare!, E sempre dice che lui è un rammollito, figlio della sifilide, e che non ne verrà mai niente di buono, e regalerà tutti ai preti per farsi dire messe ad perpetuum. Ma la fortuna, la fortuna per lui, è stata che invece al padre si fermò il cuore, pare in un casino a Venezia, e lui così ebbe tutto. In questo sogno Zanchetta ride, e gli piace proprio, lo sogna spesso. Poi sogna di volare, come i gabbiani, ma poco. Poi sogna di alzarsi per andare al cesso, invece era solo il sogno, e si piscia nel letto, a settant’anni, e se ne frega, lui, che verrà la donna a pulire, e gli piace che quella sia lì, umile e servile, a pulirgli la piscia.

Insomma, sono inferni, raramente purgatori, i sogni di Zanchetta, ma a lui piacciono, ci si ritrova, e dorme di gusto, specialmente se è ubriaco. Da ubriaco gli vengono i sogni migliori.

Al mattino presto, molto presto, Martino, il garzone del panettiere, suona insistente alla porta della canonica. La porta si socchiude e mette fuori la testa don Sergio, per il resto in maglietta e mutande.

“Cos’è ‘sta furia alla mattina presto? Che succede?”

(15)

“Don Sergio! Zanchetta! Gli ho portato il pane stamattina e l’ho trovato morto sul letto!” Dice il ragazzo tutto d’un fiato, perché non ha mai visto un morto, e vedere un morto alla mattina presto ti sposta la giornata, no?

“Zanchetta? Morto?” Cerca di connettere mente e corpo don Sergio.

“Morto don Sergio, mortissimo!”

Come cominciare male una giornata... Sospira don Sergio, lascia la porta aperta e rientra per vestirsi.

“Vieni, mi fai tu da chierichetto”

“Don Sergio, e no! Devo andare a dormire, ho fatto la notte, son stanco”

“Questo è il rispetto per il tuo parroco e per i morti?”

“El me scusa don Sergio, ma proprio…”

“Dai, facciamo presto”

E don Sergio rientra in canonica, cerca la tonaca, la stola viola, l’aspersorio da viaggio, e l’olio santo, insomma quel che serve per i morti. Martino, imprecando sottovoce, entra, si toglie grembiule e cappello bianchi di farina, e aspetta il prete per andare da Zanchetta. Ma porca puttana ambrosiana, proprio stamattina, proprio a me? Che i morti mi fanno pure impressione…

Arrivati alla casa del vecchio, don Sergio sulle punte dei piedi guarda dentro, e dentro è tutto come ieri notte, compreso Zanchetta nel suo bozzolo di lenzuola illuminato ora dal riflesso del sole.

“Visto?” Dice Martino “mortissimo”

“Ma come fai a dire che è morto?”

“Gli ho tirato anche un sasso, un paio di sassi, niente. Di solito gli lascio il pane sulla finestra, e lui è sveglio e si muove. Mortissimo”

“Sarà” considera la situazione il parroco, dubbioso “dai, monta su e vieni ad aprirmi”

Martino salta dentro, va alla porta, la apre al prete e fa per andarsene.

“Resta qua, dove vai?”

“Vado in letto, non voglio aver a che fare con i morti..”

“Sta qua ti dico!”

E Martino resta fermo alla porta. Il prete entra, va al letto guardandosi attorno, tocca la fronte del vecchio, poi la gola, e lì Zanchetta spalanca gli occhi, vivissimo, ed i due si guardano.

“Buondì. Avete fatto prendere uno spavento a Martino, si credeva che eri morto”

“L’è vivo” fa Martino “allora vado in letto”

“Sémpio!” Gli ribatte don Sergio “va in letto, va. Che l’è mortissimo! Sémpio tre volte..”

Martino se ne va, ed i due uomini restano a guardarsi. Don Sergio si siede a bordo letto.

“Tutto ben?”

Zanchetta è insolitamente presente, e lucido.

“Come sei entrato?”

“Come state? Stai bene?”

“Sì sì, sto bene. Ancora non è ora, che fretta avete?”

Don Sergio si guarda attorno, e sospira.

“Un disastro qua dentro. Non si era detto di tener pulito? La signora Aida non è venuta?

“Non voglio vecchie per casa, mi arrangio da me”

“Sì, si vede. Vi serve qualcosa?”

“No, non mi serve niente”

(16)

“Come sperate di vendere la casa? Se la gente viene e la vede così e normale che non la vendete”

“Non viene nessuno”

“Perché non lasciarla alla Chiesa? Vi farebbe tanto bene all’anima, e potremmo farci un bell’oratorio, con la targa ed il vostro nome sulla facciata. La gente vi sarebbe molto grata”

“La gente era in fila al pontile, a maledirmi, quando mi hanno portato via”

“Ma la Chiesa..”

“La Chiesa che dite non l’ho vista al pontile, e nemmeno in carcere. Trent’anni. Quanti anni hai tu?”

“Ma, benedetto uomo! Vi sorprende? Dopo quel che avete fatto?”

“Ho pagato tutto, io. Non ho debiti con nessuno. Trent’anni tondi di galera, senza sconti”

“Con Dio siamo sempre a debito, tutti. Volete confessarvi?”

“Non ho niente da confessare, e niente da dare. Tornate alla vostra chiesa, che resto con i miei peccati. Inutile insistere ogni volta che venite qui..”

“Zanchetta, non fate il duro con me, e soprattutto non con nostro Signore. Tutti abbiamo bisogno di tutti, e del perdono di Dio”

Il vecchio si alza in piedi, supera di molto l’altezza del prete.

“Si ricorda l’ultima volta che è venuto qui? Che mi ha detto?”

“Che ho detto?”

“Di aver fede, di pregare. Be’, don Coso, ho pregato tutti i giorni e tutte le notti..”

Volta le spalle al prete, abbassando il lenzuolo, per mostrare una macchia scura sulla schiena.

“La vedi questa? Non c’era” apre il lenzuolo, ed indica un’altra macchia a livello dell’inguine “Pure questa non c’era. Sai che significa?”

Il prete distoglie gli occhi dal corpo nudo, emaciato, del vecchio, e lo guarda ora dritto negli occhi.

“Significa che il tumore procede, caro don Sergio, il tumore sta benissimo, ed ammazza me. Quindi prete, prenditi il tuo dio e portatelo in parrocchia, qui non funziona, e ci arrangiamo a modo mio..”

“Non bestemmiare! Che ne sai, che ne sappiamo dei disegni della Provvidenza?”

“Questo disegno mi sta fregando, non c’è molto da capire, e tu e tutte le tue ciaccole non contate niente. Un casso! Niente!”

Ora il prete non sa come prenderlo quest’uomo già tanto punito, e disilluso.

“Zanchetta.. Marco.. Senti..”

Ma Zanchetta Marco non sente, si è voltato di spalle, si è richiuso nel suo bozzolo di lenzuola e malattia, e forse piange. Indica al prete la porta, ed il prete va verso la porta, si ferma, si volta.

“Se hai bisogno fammi chiamare.. Dio c’è sempre..”

“Prete.. Va via, lasciami in pace..”

Il prete esce. Dopo un po’ il vecchio si asciuga le lacrime nel lenzuolo, se lo tira sulle spalle, e così conciato va alla finestra.

Fuori è estate, un’estate di un’isola tra mare e laguna, con bambini che urlano - urlano sempre i bambini - e corrono per le viuzze dell’isola. Il vecchio resta un po’ a guardare tutto quel sole che non gli dice nulla, poi chiude la finestra, il balcone, la porta, e la stanza resta al buio, salvo piccole fessure che fanno passare raggi impudenti di sole. Lo si sente ciabattare per casa, urtare contro i mobili, fino a che accende la luce. Va ad un’anta della credenza e prende un cartone di vino, lo versa in una ciotola, apre il sacchetto lasciato da Martino, prende un pezzo di pane e lo inzuppa nel vino, mangia.

(17)

Che ne sanno loro di come si senta un uomo che muore? Solo chi sente l’alito freddo della vecchia sdentata lo sa. E sì, ora ricorda, di come tutto è cambiato, delle ragazze, le ricorda, di come abbia barattato dieci minuti di follia per tutto quel che aveva e credeva di essere. Perché? E che ne so perché. Capita mille volte, a tutti, che basta superare il limite e poi si è in un altro mondo, solo che di solito quel limite gli altri non lo superano, e lui invece sì. Se sapessi perché mi aiuterebbe, ma non c’è un perché non c’è mai un perché preciso. Forse il destino, deve andare così, e non ci scampi, se ti tocca non ci scampi. Basta poco a fare un assassino, un ladro, un rapinatore. Basta l’occasione, forse la predisposizione al rischio, forse la voglia di rischio, di sapere che effetto fa, com’è, forse non avere il freno, o l’avviso che si accende, lampeggia, e ti dice STOP, vietato, pericolo.

Davvero non lo ricordo, di una neanche ricordo il nome…

E dopo il pane il vecchio beve vino, dal cartone, tutto quello che riesce ad ingurgitare, fino a che gli brucia lo stomaco, chi se ne importa?, Fino a che lentamente la realtà sbiadisce, e si sta meglio nel mondo fumoso, nebuloso, dei confini incerti, in cui tutto è vero e tutto è falso. Dimenticare. È meglio.

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