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Castelli in aria

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Academic year: 2021

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Castelli in aria

Se mai vi capitasse di scoprire Bruxelles dall’alto – chissà – scaraventati giù da una nuvola, precipitati da un aereo o magari paracadutati da una mongolfiera, insomma, se vi capitasse di sbarcare a Bruxelles per via aerea, senza passare per Zaventem, se foste degli angeli, per esempio, scesi dritti dritti da una nube bianca e calda, un serafino, un cherubino, lo stesso Cupido, chissà, e se nella discesa verso terra miraste proprio al centro della città, allora ci sarebbero buone possibilità che il primo personaggio incontrato nella vostra caduta fosse un San Michele tutto dorato, appollaiato in cima ad una torre. Un collega, in qualche sorta. Appollaiato sul suo campanile, potremmo dire. O sulla sua torre campanaria. D’ogni modo non vi direbbe proprio un bel nulla perché, con tutta la sua aria brillante e dorata, lui resterà pur sempre muto, rigido e immobile. Forse è immobilizzato dalle vertigini, o più probabilmente irrigidito dagli anni di posa e dalle intemperie. Fatto sta che non avrebbe molto da offrirvi.

Sarebbe quindi giudizioso da parte vostra proseguire il tragitto intrapreso, da lassù in alto fino a giù giù in basso, dalle nubi grigie fino alle fogne grondanti,

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passando davanti agli sguardi vuoti di queste statue di pietra, di recente ripulite, che si ammassano agli angoli del municipio. Ce ne sarebbero centinaia, di notevoli e di nobili, quelle che posano per mestiere e quelle che rappresentano la loro famiglia, file e file in ogni caso, rigide e mute come delle gargouille senza acqua piovana. Neppure loro vi direbbero alcunché. Qui il silenzio è d’oro, e ciascuno si addormenta sul bordo del cornicione, sordo e cieco alla vita che brulica qualche metro più in basso. Proprio laggiù dove vi conviene scendere se volete veramente incontrare qualcuno in carne ed ossa. Qualcuno con dei piedi pesanti che raschiano la pietra curva e bluastra. Laggiù dove fino a qualche anno fa passavano ancora le automobili, mentre ora si incontrano solo tante paia di suole importate da ogni angolo del mondo, ferme per qualche minuto davanti alle facciate sovraccariche. E se a vostra volta voleste indugiare là davanti, non potreste non notarlo. Sarebbe lì, a sorridere in mezzo alla folla. Con un completo marrone. Camicia bianca e cravatta beige. Bello come un autista di corriera in un pomeriggio di primavera. Non molto più di cinquanta anni. Forse di più, forse di meno, denti bianchi come le pagine di un quaderno nuovo e scarpe nere, banali, con i tacchi consumati, ma tirate a lucido come per una prima comunione. Delle mani spesse, con dita rosse e peli scuri. Andrzej, è questo il suo nome. Non potreste mancarlo. Ancora meglio se arrivaste in bus, come i Giapponesi, o in taxi come gli Americani, o in treno come gli scolaretti di tutto il paese. Di sicuro si offrirebbe di aiutarvi con la macchina fotografica. Coppie e sconosciuti,

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calvi e barbuti, bambini completamente nudi, lui tutti questi li ha immortalati sulla pellicola, accompagnando il movimento del dito sullo scatto con un comunicativo “Sorridete!”. Sarebbe facile riconoscerlo: se ne starebbe lì in piedi davanti al municipio, non lontano da una decapottabile grigia, con addosso il suo completo a tre pezzi e una macchina fotografica in mano.

Mi piace fotografare la gente. Così ti rendi utile. Anche perché ce ne sono di coppie che vengono da in capo al mondo per vedere la Grand-Place. Allora sarebbe un peccato che sulla foto ce ne fosse uno solo dei due. O solo i palazzi. Allora tanto vale comprarsi una cartolina. Perché gli scatti ritardati e tutta ‘sta roba tecnologia non è che funzionino benissimo. L’ideale è avere qualcuno che ti aiuta. Che fa la foto al posto tuo. E il posto, quello è sempre e solo uno: la Grand-Place. È per questo che sono lì. Okay, no, non sono lì per questo, ma visto che sono lì, tanto vale che mi renda utile. Lo faccio spesso durante il week-end. Il sabato e la domenica qui c’è pieno di gente. E in quei giorni non si vendono i fiori. Ci sono i matrimoni e compagnia bella, là in comune. C’è persino gente che affitta decapottabili e vecchi modelli dell’anteguerra. Per i matrimoni, ovviamente, mica i turisti. Con i turisti è diverso. Prima di tutto, sono molti di più che le coppie che si sposano. I Giapponesi, per esempio, loro sono sempre in gruppo, un’ora di sosta tra Bruges e Parigi, giusto il tempo di comprare delle praline e un coprivaso ricamato. Gli altri restano un po’ di più. Gli Americani con i loro berretti ridicoli e le guide turistiche più spesse di un elenco telefonico, i Russi e tutti quelli dell’Est con le solite giacche di cuoio e gli stivali fuori moda.

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Io non faccio mica differenze, sorrido a tutti e, se uno me lo chiede, gli presto il dito per qualche istante. Tutto ciò non richiede un grande sforzo, e aiuta a passare il tempo.

Prima il tempo lo passavo con Maryse. Non venivamo sulla Grand-Place, no, avevamo di meglio da fare. Andavamo in Place du Béguinage, di fronte alla chiesa e alla sua facciata un po’ gialla, un po’ marrone. Bevevamo una birra o due, a volte tre. Parlavamo piano piano. Guardavamo la Vergine sulla facciata della chiesa e la Vergine ci guardava con un’aria triste. Come se avesse voluto venire a sedersi lì fuori con noi ma non avesse potuto, per colpa di quel barbuto che la costringeva a portare il velo e a restarsene lassù sul suo cornicione. Io le raccontavo della Polonia, perché è da là che vengo. Maryse, lei parlava del Canada, perché è là che sognava di andare. Io le giuravo che ce l’avrei portata, un giorno, non appena avessi trovato i soldi. Ma i soldi mica si trovano, si guadagnano. Allora lavoravo in nero, come un tipaccio losco, un clandestino o qualcuno che a scuola non c’è andato. Perché avevo studiato, sì, ma in polacco, e a forza di essere lontano dal mio paese da troppo tempo, avevo finito per dimenticare come si legge il francese. Insomma, non so se è a causa di questo o dell’incidente, non importa, fatto sta che non potevo lavorare, visto che prendevo ancora un po’ di soldi della mutua, quello che restava del mio incidente in fabbrica. Ma dato che non bastavano, lavoravo lo stesso. In nero. Pulivo dove potevo. Nessuno voleva un Polacco per fare le pulizie, così passavo lo straccio in una sauna per uomini, all’alba. Ricordo il freddo che a volte tendeva la pietra quando gettavo il mio secchio di acqua insaponata sul marciapiede bianco.

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Non come oggi, oggi si sta quasi bene, con le nuvole ma senza pioggia, non ci si può lamentare. Nella sauna, un tizio o due mi hanno anche proposto dei soldi, e non per farmi passare lo spazzolone o il raschietto – quelli che vengono alla sauna non lo fanno mica solo per una doccia fredda, e penso che paghino bene – ma no, questa roba non fa per me. Quello che volevo io era portare Maryse in Canada. Lavoravo sodo. Dopo la sauna, quando c’era già un po’ di luce, scaricavo dei camion. O distribuivo il Vlan nelle cassette delle lettere. Avevo un amico con un camioncino, e insieme affittavamo le nostre braccia a chi ne aveva bisogno. Ma non ai clienti della sauna, perché tutto questo io lo facevo per Maryse, per bere delle birre in Place du Béguinage, sedermi al sole nel parco del Giardino Botanico, o, quando volevamo veramente stare da soli, nel giardino del palazzo delle accademie, sul prato verde come un biliardo, tra due funzionari fiamminghi e un banchiere che mangiava il suo sandwich con la cravatta ripiegata sulle spalle. Maryse mi sorrideva. Aveva i capelli bruni come lo sciroppo d’acero e sognava il San Lorenzo e le balene che la gente saluta agitando la mano. Le raccontavo delle passeggiate che avremmo fatto lungo i laghi, e le descrivevo tutto questo mischiando i laghi della mia infanzia in Polonia con metri e metri di neve. E questo le piaceva tantissimo. Ma quello che le sarebbe piaciuto ancora di più era di vederli per davvero questi posti. E poi, i soldi non li guadagnavo mica velocemente come avrei voluto. Avremmo dovuto pagare l’aereo, e l’albergo, la roba da mangiare, le cartoline con i francobolli per il Belgio, e poi i berretti e i guanti, e magari anche delle giacche a vento e una macchina fotografica. Certo, tutto questo potevo anche rubarlo, e così sarebbe stato più veloce, non sono certo le giacche a vento e le macchine fotografiche a mancare.

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Basta vedere qui, guardate, ce n’è pieno anche quando non piove. Ma io non sono così. Allora ho continuato a lavorare più che mai. A volte lavoravo tutta la notte e tutto il giorno. Ormai non facevo altro. Finché un giorno Maryse non è venuta al nostro appuntamento. L’ho aspettata, ma lei non è mai arrivata. C’era solo una lettera. L’aveva lasciata al barista. Freddy, è così che si chiamava. Questo è successo dodici anni fa. Saranno dodici anni fra tre giorni. C’eravamo visti tutti i giorni per sedici mesi. Tutti i giorni, vi rendete conto? Ci eravamo visti quasi tutti i giorni. E, alla fine, c’era solo una lettera. Una lettera che non potevo leggere, a causa dei miei studi in Pologna o forse a causa dell’incidente in fabbrica. Allora ho chiesto a Freddy, con un po’ di vergogna, gli ho detto che avevo dimenticato gli occhiali e che comunque capivo meglio il polacco. Lui mi ha sorriso e me l’ha letta. E ha pianto insieme a me. Me lo ricordo come se fosse ieri, dei grossi lacrimoni che gli scorrevano sulle guance fino ai baffi rossicci, quasi bruni. E quel rosso quasi bruno mi ricordava i capelli di Maryse. Ma Maryse, lei aveva incontrato un tizio del Québec. Un pescivendolo. Me lo ricordo bene. Mi sono detto che un pescatore l’avrei capito, un pescatore è muscoloso e magari anche dolce, in un gran letto di legno tutto caldo. Ma un pescivendolo, no, quello è come un assicuratore o un caporeparto: ha il cuore duro, i piedi freddi e russa. Ero dispiaciuto per Maryse che fosse finita con un canadese che russa. Anche Freddy lo era. Poi scriveva che si sarebbe sposata là in Canada e che forse avrebbe avuto dei bambini. Mi avrebbe mandato delle foto. E io sarei potuto venire a trovarli, se volevo.

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Ma io non ho mai ricevuto nulla. Neppure il suo indirizzo o un biglietto d’auguri per Natale. Freddy mi ha detto che le donne sono tutte così e mi ha parlato della sua, che diceva che lui beveva troppo e se ne era andata via senza neppure partire per il Québec. Abitava a Saint-Gilles, lei, e non era certo meglio. In quel momento mi sono detto che barista non era poi meglio che pescivendolo, anzi, forse era anche peggio. Me ne sono andato, sicuro che sarei morto da solo. Che non avrei vissuto un’ora di più. Ma ci si abitua a tutto. Il giorno dopo, sono venuto sulla Grand-Place, volevo vedere se era possibile buttarsi giù da quella torre lassù, là accanto al tizio tutto dorato con lo scudo. Proprio allora una vecchia signora con un accento strano e i capelli grigi mi ha chiesto se potevo farle una foto davanti a un poliziotto. È così che ho iniziato. E mi ha fatto un bene della madonna. Le ho domandato se veniva da lontano. Mi ha detto che abitava a Montréal. Allora le ho detto di sì. Ho stretto la macchina fotografica contro il cuore e ho fatto due foto. Poi ho sorriso e ho aspettato che qualcun altro venisse a chiedermelo. Ci ho preso gusto. Ora conosco tutti i trucchi del mestiere, i gesti che capiscono tutti, anche gli sceicchi velati e le suore della Bolivia. Sono così servizievole! Per dodici anni, questo mi ha aiutato a tirare avanti. Bastava il pensiero che la mia protesi alla cassa toracica avrebbe mandato a puttane l’intero rullino per darmi uno sprazzo di felicità. A volte mi sono chiesto che ne sarebbe di me oggi, se la macchina non mi avesse maciullato due costole in un colpo solo. Se non avessero dovuto operarmi d’urgenza e avvitarmi le placche magnetiche al torace. Forse lavorerei ancora al banco di montaggio. Non riceverei il mio assegno d’invalidità, e magari vivrei già da tempo in Canada con Maryse.

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La verità è che non ne ho la più pallida idea. E in fondo non me ne frega niente, perché mi diverto a mandare a puttane i rullini dei turisti. Il bello è che la mia placca è così spessa che altera anche le schede di memoria delle fotocamere digitali. Sono un vero parassita elettromagnetico, mi hanno detto. Allora uso le risorse che ho. Ma non durerà ancora a lungo, perché la settimana scorsa ho finalmente ricevuto una lettera dal Canada. A leggermela questa volta non è stato Freddy – lui è da un secolo che non lo vedo. la vicina che mi ha aiutato. una lettera dal Canada, ha detto. Le ho risposto che non ci credevo. Maryse Declerck, mi dice. Declerck? ho domandato, vuol dire che non è sposata! Non ne ho idea, ha continuato la vicina, vuole che gliela legga? E me l’ha letta. La lettera più bella di tutta la mia vita. Non posso dirvi le parole che c’erano scritte, ma era bella come la facciata della chiesa del Béguinage al tramonto. Tornava. Per davvero. E mi chiedeva di fissarle un appuntamento. C’era un numero di telefono. Ho chiamato e le ho dato appuntamento. Qui. Oggi. Ora. È per questo che ho messo il mio completo più bello. Per lei. E lì, nella tasca, c’è un anello d’argento. Con un cuore infilato nel centro. Tra poco, quando la vedrò arrivare, avrò la voce tutta singhiozzante, lo so, e quando mi avrà stretto tra le braccia, allora le dirò che ha qualcosa al dito. Lei si guarderà la mano, io la prenderò nella mia e le farò scivolare l’anello all’anulare. Allora lei alzerà su di me i suoi occhi scuri e io le dirò con calma: “Maryse, vuoi essere mia moglie?”. Se mi risponde di sì, se non dice nulla, o se mi dice una cosa qualsiasi, tutto tranne che di no, poco importa, la stringerò così forte da farla scoppiare.

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Poi insieme entreremo in municipio e ci informeremo su cosa bisogna fare per sposarsi. Guardate, ecco che torna il sole, ve l’avevo detto che era una bella giornata. Ora devo lasciarvi, Maryse arriverà a momenti. Vi auguro una buona giornata!

Chissà. forse avreste preferito non arrivare dal cielo, forse lì nel cielo avreste preferito non farci neanche ritorno. Forse avreste preferito non essere degli angeli in visita a Bruxelles, ecco tutto. È troppo tardi, e siete già a qualche metro da terra. Da lì intravedete una coppia di novelli sposi che scendono le scale. Qualcuno li fotografa, e la gente lancia il riso. Eccoli mentre si avvicinano alla decapottabile grigia. Andrzej apre loro la portiera e si mette in testa un berretto scuro. Intanto voi salite sempre più in alto. Andrzej si siede al volante e mette in moto la vettura. Dal cielo, potete ancora vedere la decapottabile che si allontana e la folla che saluta tra lo scoppiettio dei flash. Un raggio di sole rimbalza sul parabrezza. È quasi mezzogiorno. Tra qualche istante avrete raggiunto le nuvole. In Québec, sono appena le sei del mattino. Anche là, penso, ti puoi fare delle capanne sugli alberi e dei castelli in aria. Perché i sogni, quelli non mi pare che costino di più in dollari che in euro.

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