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Forme, generi e sottogeneri auto/biografici

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Academic year: 2021

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GLOSSARIO

Forme, generi e sottogeneri auto/biografici

Il presente glossario è stato redatto sia per facilitare la comprensione di alcuni termini comparsi nei precedenti capitoli1, sia per contribuire a una maggiore chiarezza e completezza terminologica relativa al repertorio del life narrative, che, come si è visto in particolare nelle sezioni introduttive, annovera al proprio interno un numero alquanto eteroclito di generi e forme di rappresentazione del sé, alle quali è corrisposto negli ultimi decenni un dibattito generalmente intenso.

Il glossario comprende molte voci conosciute a chi si interessa di life writing2 (autobiografia, memoir, confessione, per citarne soltanto alcune), più un’ampia serie di vocaboli il cui recente conio è da attribuire in prevalenza ai Paesi anglosassoni, che li hanno introdotti e usati per descrivere aspetti inediti (si pensi alla rifunzionalizzazione del dettaglio topologico, che è stata materia di ampia trattazione nelle pagine precedenti) o misconosciuti delle narrazioni di vita sotto il profilo tematico (per esempio, il grado di significazione simbolica ascritto al cibo) o formale (tipica è in questo caso l’intermedialità caratteristica di generi quali l’autographics), producendo così ulteriori e potenzialmente inesauribili ramificazioni di generi e sottogeneri auto/biografici.

Nel redigere il presente glossario si è in primo luogo proceduto con lo spoglio di alcune principali fonti nazionali e internazionali di natura essenzialmente accademica, operazione questa cui ha fatto seguito, in secondo luogo, il vaglio dei materiali delle definizioni in esse contenute sulla base della loro coerenza con le finalità dell’intera sezione.

Tra quelli presi in esame, il principale studio di riferimento è stato la seconda edizione del già menzionato volume Reading Autobiography di Smith e Watson, che non a caso completano il proprio bilancio sui recenti sviluppi dell’autobiografia con un’appendice

1

Trauma narrative, autothanatography, autosomatography, autography, autobiographics, alter-biography, testimonio, gastrography, autographics (cap. 2); racconti di viaggio, ecoalter-biography, memoir (cap. 4).

2

Riguardo al complesso delle pratiche di rappresentazione auto/biografica e alla terminologia idonea per fare a esse riferimento, o meglio e ben più correttamente, riguardo all’uso delle parole life writing e life narrative, accogliamo qui le restrizioni lessicali addotte da Smith e Watson, e poi recentemente riprese da Couser, il quale specifica: «the term life writing can be confusing. One problem is that it is meant, counterintuitively, to refer to ways of representing lives that do not always take written form – at least not exclusively [e.g. autographics/graphic memoir, performative auto/biographics, oral history]» (G.T. COUSER, Memoir. An Introduction, Oxford UP, Oxford-New York 2012, p. 24. Corsivi nel testo).

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dove vengono annoverati sessanta generi di life narrative, tutti accomunati dalla facoltà di rispecchiare i caratteri distintivi di una data epoca – con precipuo riferimento a quella contemporanea – secondo variabili parametrizzate su elementi culturalmente e socialmente specifici, come la memoria, l’esperienza, l’identità, lo spazio3

: Smith e Watson constatano, infatti, che i soggetti autobiografici «register, consciously and unconsciously, their complicity with and resistance to the terms of cultural self-locating they inherit. In the contexts of those tensions they give shape to alternative modes of address, each with its own defining characteristics. Established generic templates mutate and new generic possibilities emerge»4.

Al glossario di Reading Autobiography, già arricchitosi nel passaggio dalla prima alla seconda pubblicazione di tredici nuovi termini (academic life writing, addiction narrative,

adoption life stories, autie-biography, autographics, digital life stories, ecobiography, filiation narrative, gastrography, jockography, nobody memoir, prosopography, war memoirs), sono state aggiunte ulteriori voci (autobibliography, autobiographical essay, autocritography, autohistoria, autopics, euthanography, histoire de vie/récit de vie, meta-auto/biografiction, misery memoir, personal criticism, science autobiography/scientists’ autobiographies, stunt memoir), al cui reperimento ha contribuito la lettura di saggi e

articoli non contemplati nella pur ricca bibliografia che le sue due autrici hanno redatto e aggiornato nel corso dei dieci anni intercorsi dalla comparsa dell’edizione originale del volume.

Ove possibile le definizioni forniteci da Smith e Watson sono state integrate, da un lato, con informazioni ed esempi supplementari – il cui fine è quello di illustrare in modo ancora più compiuto le peculiarità della voce in questione, qualora soprattutto essa corrisponda a forme di scrittura di larga significazione teoretica –, dall’altro, con note che cercano di rendere più esaustiva la trattazione mediante citazioni e supplementi bibliografici, soprattutto per quanto riguarda argomenti meno noti.

Da una prima lettura delle voci che compongono il glossario, si noterà che è l’autobiografia nelle sue varie declinazioni ad assumere maggiore rilevanza rispetto alla biografia5, sebbene ciò non escluda la presenza di forme e sottogeneri ibridi (da qui

3

Cfr. S.SMITH –J.WATSON, Reading Autobiography, cit., p. 253. 4

Ibidem. 5

Per sopperire a tale lacuna, si rinvia sin da ora agli studi condotti da Donald Winslow nel dominio delle scritture di vita (cfr. rispettivamente D.J.WINSLOW, «Glossary of Terms in Life-Writing. Part I», Biography, 1(1), 1978, pp. 61-78 e «Glossary of Terms in Life-Writing. Part II», Biography, 1(2), 1978, pp. 61-85), che pur se datati offrono una prima panoramica sulla terminologia più frequentemente adottata in riferimento al genere auto/biografico. Attenendoci ai sondaggi di Winslow – studi, si è accennato, paralleli e complementari all’analisi qui condotta – possiamo segnalare come interessanti alcune voci relative a forme e sottogeneri biografici. In particolare: autonovel (una riflessione condotta sul proprio sé attraverso il punto di vista di altre persone, come in Notes from Another Country [1972] di Julian Symons); biografiction (in alternativa a novelized

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appunto la dicitura «auto/biografici» presente nel titolo della sezione), per i quali non pare possibile avanzare un’esatta categorizzazione nei termini dell’uno o dell’altro genere.

Oltre a quanto appena rilevato, sarà possibile osservare che la maggioranza delle voci del sottostante elenco rivela una sostanziale attinenza al panorama terminologico e letterario anglofono, salvo alcune “incursioni” riguardanti la letteratura di Paesi nei quali sono maturate forme particolari di narrazione auto/biografica, come è avvenuto nel caso delle histoires de vie e dell’autofiction, entrambe appartenenti al retaggio letterario francese.

Urgono infine alcune precisazioni in merito all’organizzazione delle pagine che seguono. I materiali in esse raccolti vengono proposti in ordine alfabetico, preferendo un’organizzazione più neutra rispetto a una sistematizzazione operata sulla scorta di altri criteri: la scelta è stata dettata, in altre parole, dall’esigenza di consentire una più facile consultazione delle voci all’interno di un repertorio nel quale confluiscono generi e sottogeneri il cui alto grado di compenetrazione renderebbe eccessivamente arbitraria, se non in taluni casi forzata, una ripartizione che si attenga a parametri formali o contenutistici.

In linea di principio, si è preferito registrare ogni termine nella forma linguistica con cui è stato introdotto nell’uso e viene correntemente menzionato dalla letteratura critica: fanno eccezione tutti i termini e le espressioni ormai da tempo acquisiti nel nostro lessico, la cui trattazione andrà dunque ricercata sotto la corrispondente dizione italiana.

biography, il termine viene impiegato per connotare in senso dispregiativo le biografie romanzate sul modello di Ariel. A Shelley Romance [1923] di André Maurois, o di Lust for Life [1934] di Irving Stone); biographical novel (un romanzo scritto in forma di autobiografia o di biografia, del quale rinveniamo due tra i più illustri precedenti in opere come Tom Jones [1749] di Henry Fielding e Caleb Williams [1794] di William Godwin); bio-pic (il termine, che deriva dalla contrazione dei lemmi «biographic» e «picture», designa un genere cinematografico incentrato sulla rappresentazione della vita di uno o più personaggi storici, come per esempio avviene nei celebri film La passion de Jeanne d’Arc [1927] di Carl Dreyer e in Napoleon [1927] di Abel Gance); debunking biography (una biografia che prescinde dalla tradizionale eroicizzazione del protagonista e della sua vita, come in The Hero with a Thousand Faces [1956] di Joseph Campbell); megabiography (il vocabolo indica la raccolta in più volumi delle vite di personaggi illustri, sul prototipo del famoso Eminent Victorians [1918] di Lytton Strachey); mock biography/parody biography (una biografia scritta con intento parodico, al fine di imitare lo stile, la tecnica, il soggetto dei modelli generici tradizionali, secondo quanto avviene in Orlando [1928] e in Flush [1933] di Virginia Woolf); vituperative biography (il racconto di una vita nei confronti della quale l’autore nutre una sorta di ostilità, e che dunque viene scritta con il preciso intento di inficiare, o addirittura distruggere, la reputazione di chi ne è stato protagonista, come nel caso di molte biografie politiche).

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Academic life writing: negli ultimi decenni in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Francia e in Australia si è assistito a una vera e propria proliferazione di memoir accademici, come ben esemplificato dalla pubblicazione di opere quali Bequest & Betrayal (1996) e But

Enough about Me (2002) di Nancy Miller, The Gatekeeper (2001) di Terry Eagleton, o

ancora Bad Blood (2001) di Lorna Sage. Il memoir accademico si distingue per il sintomatico intreccio tra una serie di considerazioni di ordine teoretico e il racconto di una vita, che talvolta viene addirittura assunto come base empirica per la dimostrazione di postulati: è il caso questo di Family Secrets. Acts of Memory and Imagination (1995) di Annette Kuhn o del famoso Landscape for a Good Woman (1986) di Carolyn Steedman, la quale prende a modello la propria famiglia per refutare la tesi dell’inferiorità delle donne e dei bambini all’interno delle strutture di classe rurali. Numerosi sono i dubbi sulla

legittimità letteraria dei racconti autobiografici maturati in ambito accademico. La domanda che molti critici si pongono è, infatti, se essi debbano essere considerati come

parti integranti di un sottogenere letterario a tutti gli effetti, o se non siano altro che la conseguenza di una momentanea infatuazione «with writing about memoir through writing memoir»6. Vi è comunque chi ha preferito insistere sulla funzionalità di questo tipo di

memoir, mettendo in luce, oltre al modo in cui favorisce una maggiore comprensione

dell’universo accademico, la capacità a esso propria di affrontare problematiche di interesse umanitario, e di costituirsi quindi come possibile sito per la difesa dei diritti dell’individuo7

. Pur differenziandosene dal punto di vista strutturale ed argomentativo, il

memoir accademico rivela consonanze non trascurabili con l’autocritography (cfr. infra,

alla voce corrispondente), il personal criticism (cfr. infra, alla voce corrispondente), e il saggio autobiografico (cfr. infra, alla voce autobiographical essay), che alcuni fanno afferire alla più ampia categoria dell’autobiographical criticism.

Addiction narrative: si tratta di un tipo di narrazione il cui capostipite letterario può

rintracciarsi nelle Confessions of an English Opium-Eater (1821) di De Quincey. I cambiamenti verificatisi specialmente negli ultimi tre decenni – la diffusione di

associazioni di supporto, l’incremento nell’assunzione di droghe e alcol, l’inquadramento della dipendenza come problema medico più che morale – hanno tuttavia accentuato le differenze di tale sottogenere rispetto al modello ottocentesco, come si evince dall’inglobamento di tematiche che coinvolgono la sfera pubblica, situando il problema della dipendenza in un contesto più ampio, dominato da inuguaglianze strutturali a livello economico, sociale e politico (e.g. Bloodlines [1993] di Janet Hale e Dry [2004] di Augusten Burrough). Smith e Watson definiscono le addiction narratives una

6

S.SMITH –J.WATSON, Reading Autobiography, cit., p. 253. 7

Cfr. C.G. FRANKLIN, Academic Lives. Memoir, Cultural Theory, and the University Today, Georgia UP, Athens (Georgia) 2009, pp. 3-4.

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sottocategoria tematica del racconto di conversione (cfr. infra, alla voce conversion

narrative); in esse infatti il soggetto narra la sua “caduta” – sia fisica che morale – e la sua

successiva rinascita, che coincide di solito con la decisione di curare la propria dipendenza (più spesso dall’alcol o dalla droga, ma anche dal sesso, dal cibo, da internet). Oltre ad aderire al paradigma tematico-strutturale incentrato sul binomio caduta/conversione, le storie annoverate in tale categoria (autobiografie, diari, testimonianze di varia matrice) si articolano secondo una serie di tropi comuni, primo tra tutti il ricorso a modalità discorsive di tipo confessionale, che Suzette Henke descrive quale parte integrante del percorso di guarigione (scriptoterapia)8. Un caso esemplare di addiction narrative, famoso per le controversie scaturite in seguito alla sua pubblicazione (molte sezioni del libro sono frutto dell’invenzione autoriale), è per esempio A Million Little Pieces (2003) dello scrittore statunitense James Frey.

Adoption life stories: le studiose Emily Hipchen e Jill Deans ritengono questo tipo di storie di vita un vero e proprio genere di life writing, che si distingue per la ricorrenza di costanti contenutistiche quali la presenza della “triade” costituita da genitori biologici, genitori adottivi e figlio adottivo, il tentativo da parte del protagonista di ricostruire la famiglia d’origine, il motivo fondante della quest esistenziale9

, o ancora il superamento delle conflittualità culturali – si pensi in merito ai racconti di adozioni transrazziali, come Black

Baby White Hands (2002) di Jaiya John e The Book of Sarahs (2002) di Catherine

McKinley. Non è raro che siano annoverati tra gli adoption memoir anche i racconti redatti dalle madri che hanno dato in adozione i propri figli, come nel caso di Following the

Tambourine Man (2007) di Janet Mason Ellerby. Possibili collegamenti potrebbero essere

istituiti tra tali storie e quelle appartenenti alla categoria delle filiation narratives (cfr.

infra, alla voce corrispondente), specialmente a fronte del fatto che una delle tematiche

attorno alle quali verte la narrazione è frequentemente rappresentata dal rapporto conflittuale tra genitore e figlio, e dal desiderio di pervenire a una maggiore stabilità identitaria a partire dalla ricerca delle proprie vere origini.

Apologia: è una forma di scrittura autoreferenziale di lunga e documentata tradizione – in origine il termine indicava infatti la difesa in sede di processo di un accusato, come dimostratoci dalle orazioni greche di Socrate e Senofonte –, che dinanzi alle accuse mosse da un singolo o da una collettività prevede la giustificazione di dottrine, idee, scelte e comportamenti da parte del narratore/autore: esemplificativa al riguardo è l’Apologia pro

vita sua (1864) del cardinale Newman, in cui il famoso prosatore inglese offre un

8

Cfr. infra, alla voce scriptotherapy. 9

Cfr. E.HIPCHEN –J.DEANS, «Introduction. Adoption Life Writing: Origins and Other Ghosts», a/b: Auto/Biography Studies, 18(2), 2003, pp. 163-70 (numero speciale dedicato all’adozione).

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resoconto della sua vita dalla nascita fino all’approdo al cattolicesimo, nell’intento di difendersi dalle accuse sollevate da Charles Kingsley e dagli spiriti avversi alla minoranza cattolica inglese. L’apologia rientra tra le più frequentate modalità discorsive dei racconti di vita, e soprattutto nelle autobiografie compilate da alte cariche dello Stato, come ha opportunamente fatto notare anche Francis Hart10. Citando come esempio A Vindication of

the Rights of Women (1792) di Mary Wollstonecraft, Smith e Watson fanno inoltre notare

che di questo genere si appropriano non di rado le donne per rivendicare la propria uguaglianza morale e intellettuale.

Autie-biography: il termine viene introdotto da Couser per indicare le storie del sé scritte da persone affette da autismo, distinguendole al contempo dalle narrazioni redatte da medici o famigliari11. A questa sottocategoria di life writing appartengono i due volumi di esordio dell’australiana Donna Williams – Nobody Nowhere. The Extraordinary

Autobiography of an Autistic (1992) e Somebody Somewhere. Breaking Free from the World of Autism (1994).

Autoagiografia: è un sottogenere autobiografico dove il soggetto, spesso con intento ironico, assimila la propria vita e le proprie azioni a quelle di un santo, operando dunque una trasformazione dello statuto esemplaristico dell’agiografia (e.g. The Confessions of

Aleister Crowley [1969] dell’autore omonimo).

Autobibliography: l’autobibliografia rappresenta secondo Weintraub un tipo di scrittura in qualche modo preliminare alla stesura di un’autobiografia, della quale condivide la tendenza a fornire un resoconto che riveli il carattere dell’autore. Spesso nella forma di una prefazione, quest’ultimo illustra tramite l’autobibliografia i contenuti dell’opera che sta compilando, situandola nel contesto della sua antecedente produzione letteraria, come avviene nel caso delle descrizioni fornite da Giambattista Vico per introdurre la sua

Scienza nuova (1725), o delle indicazioni di matrice autobiografica cui ricorre Edward

Gibbon in corrispondenza della redazione di Decline and Fall of the Roman Empire (1776-1788)12.

Autobiografia in serie: è un’autobiografia realizzata in più volumi – tale è per esempio l’autobiografia di Yeats, originariamente pubblicata in sei parti (poi riunite in nel volume dal titolo Autobiographies [1955]), o quella di Sean O’Casey (I Knock at the Door [1939],

10

Cfr. F.HART, op. cit., p. 508. 11

Cfr. G.T.COUSER, Signifying Bodies, cit., p. 5. 12

Cfr. K. WEINTRAUB, «Autobiography and Historical Consciousness», Critical Inquiry, 1(4), 1979, pp. 812-48, qui p. 828.

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Pictures in the Hallway [1942], Drums under the Window [1945], Inishfallen, Fare Thee Well [1949], Rose and Crown [1952], Sunset and Evening Star [1954]) –, oppure attraverso

il ricorso a forme artistiche che, prescindendo totalmente o anche solo parzialmente dalla scrittura, si avvalgono delle immagini quali mezzi di espressione del sé (film, video, opere d’arte). Mentre alcuni autobiografi considerano i volumi che compongono l’opera autobiografica omnia come capitoli, tra loro diversi, di una vita che offre spunti narrativi sempre nuovi perché non ancora terminata, molti altri, come nel caso di Mary McCarthy (Memories of a Catholic Girlhood [1957], Intellectual Memoirs [pubblicata postuma nel 1992]) e Frederick Douglass (autore di un dittico costituito dall’autobiografia Narrative of

the Life of Frederick Douglass (1845) e dalla successiva dal titolo My Bondage and My Freedom [1855]), raccontano in ognuno di essi le medesime esperienze, presentandole

però secondo una prospettiva variabile, che dipende non soltanto dal momento della stesura, ma anche e soprattutto dalle riflessioni intercorse tra una redazione e l’altra. Tra gli autori di autobiografie in serie possiamo inoltre includere Richard Wright (autore di Black

Boy [1945] e American Hunger [opera redatta nel 1944, ma pubblicata postuma nel 1977]),

Doris Lessing (Under My Skin [1994] e Walking in the Shade [1997]), e infine Maya Angelou, il cui corpus autobiografico conta numerosi volumi: I know Why the Caged Bird

Sings [1969], Gather Together in My Name [1974], Singin’ and Swingin’ and Gettin’ Merry Like Christmas [1976], The Heart of a Woman [1981], All God’s Children Need Traveling Shoes [1986], A Song Flung up to Heaven [2002] Mom & Me & Mom [2013].

Autobiografia poetica: è un tipo di poesia che secondo Olney si contraddistingue non per il proprio contenuto, bensì per il modo in cui viene strutturato il ricordo («the formal device of ‹recapitulation and recall›»)13

. Sebbene ogni lirica sia di fatto una forma di scrittura autobiografica perché già di per sé incentrata sulla definizione di un io che si descrive tramite sentimenti, emozioni e stati intellettivi, Smith e Watson chiariscono tuttavia che è necessario porre un netto distinguo tra le poesie connotabili come autobiografie, e le poesie che invece non si propongono come tali pur attestando una qualche forma di “iscrizione del sé”14

. Dall’indagine di quello che considera un esempio sintomatico di autobiografia

13

J. OLNEY, «Some Versions of Memory/Some Versions of Bios. The Ontology of Autobiography», in Id., Autobiography, cit., pp. 236-67, qui p. 252.

14

Cfr. S.SMITH –J.WATSON, Reading Autobiography, cit., p. 277. Sulla questione si pronuncia anche D’Intino, il quale però si interroga sui fattori che dovrebbero invece contrassegnare l’autobiografia in versi e sancirne la legittimità rispetto alle forme tradizionali del genere, procedenti in direzione della prosa: «La vera distinzione sarebbe […] non prosa vs verso, ma […] narrazione vs non-narrazione, considerando legittime […] le forme di narrazione in versi, in quanto esse condividono molte delle caratteristiche della narrazione in prosa». Lo studioso si riallaccia poi alle valutazioni di Smith e Watson, concludendo: «Escluse dal genere dovrebbero invece essere le forme frammentarie di poesia genericamente “autobiografica”, che non permettono una trattazione

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poetica – La Jeune Parque [1917] di Paul Valéry – Olney perviene alla conclusione che a qualificare una lirica come autobiografia è il consistente investimento tematico sui meccanismi della memoria e sugli stati interiori dell’io poetico15

, della cui coscienza l’autore è solito illustrare il risveglio, come nel famoso Prelude di Wordsworth (non a caso sottotitolato Growth of a Poet’s Mind). Modelli antichi di «autobiografie versificate», come vengono definite da D’Intino, si trovano nel Carmen de vita sua (databile intorno all’anno 300) di Gregorio Nazianzeno, nella Vita (1636 ca.) di Secondo Lancelotti e nella

Autographie (1862?) di Jakob Joseph Matthys. Ulteriori esempi di autobiografia poetica

sono infine rappresentati dalla tetralogia Life Studies (1959) di Robert Lowell e dalla recente raccolta dal titolo Native Guard (2006) di Natasha Trethewey.

Autobiographical essay: l’autobiographical essay può presentarsi nella forma di un saggio in cui vengono inglobati riferimenti alla vita dell’autore, o in alternativa come una breve autobiografia che acquista le caratteristiche di un saggio. Nell’uno e nell’altro caso è evidente la tensione che contraddistingue questo tipo di scrittura, costitutivamente in bilico tra la forma saggistica – di matrice meditativa ed epistolare –, e la forma autobiografica – nata quest’ultima dalla confluenza di generi (per esempio l’agiografia e la biografia) e modalità narrative diverse: «If both autobiography and the essay are, broadly speaking, genres of self-representation», specifica Lydia Fakundiny, «it is the culturally and historically variable impetus to recount the writer’s own life that informs autobiography and the projection of the writer’s point of view […] that directs the essay»16

. Trattandosi di una forma ibrida, l’autobiographical essay coniuga quindi la ricerca identitaria tipica dell’autobiografia con la disamina dei piaceri e delle aporie proprie della scrittura, secondo l’indirizzo caratteristico di molta letteratura saggistica17

. Benché ne siano rintracciabili numerose testimonianze nelle epoche passate – emblematici in proposito sono gli Essais di Montaigne (1588) –, è soprattutto nel ventesimo secolo che l’autobiographical essay ha riscosso un singolare successo, vedendo altresì riconosciuto il proprio statuto teoretico di scrittura incentrata primariamente sull’atto del ricordare: alcuni esempi illustri sono le cronache redatte da Benjamin, «Shooting an Elephant» (1936) di George Orwell, «The Revolver in the Corner Cupboard» (1951) di Graham Greene, «A Bolter and the Invincible Summer» (1963) di Nadine Gordimer. A livello formale il saggio, con la sua frammentarietà e provvisorietà, viene adattato al racconto di una vita attraverso una serie di interventi destinati a modificarne l’impianto discorsivo: molti autori focalizzano così la sufficientemente lunga della materia, uno svolgimento interamente o parzialmente cronologico e così via» (F.D’INTINO, op. cit., p. 239, nota 5).

15

Si veda in proposito quanto rilevato da Olney in «Some Versions of Memory», cit., pp. 241-43. 16

L. FAKUNDINY, «Autobiographical Essay», in T. Chevalier (ed.), Encyclopedia of the Essay, Fitzroy Dearborn, Chicago 1997, pp. 86-90, qui p. 87.

17

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retrospezione memoriale su una sola esperienza significativa (e.g. «The Voyage», [1819] di Washington Irving, «My First Acquaintance with Poets» [1823] di William Hazlitt); concentrano la narrazione su una fase della vita che ha avuto un valore formativo per la personalità (e.g. «The English Mailcoach» [1849] di De Quincey, «Autobiography» [1889] di Thomas Huxley); o ancora limitano lo spettro narrativo agli aspetti di maggiore rilievo e influenza nella propria sfera esistenziale (e.g. «The Crack-Up» [1936] di Francis Scott Fitzgerald, «Out of a Book» [1950] di Elizabeth Bowen)18. L’interazione tra autobiografia e saggio è ancora più eclatante quando l’autobiographical essay si presenta come un aggregato composito di contributi (e.g. Meatless Days [1989] di Sara Suleri, In Pharaoh’s

Army [1994] di Tobias Wolff, Making an Elephant [2009] di Graham Swift), a volte

pubblicati separatamente e poi riuniti in volume in un secondo momento: in questo caso specifico, «the chapters that make up [the] books work as selfcontained essays, their internal resonances, thematic coalescences, and cumulative effects create the amplitude, if not the continuity, of autobiography»19. Attualmente il termine autobiographical essay è adottato, in modo semanticamente più circoscritto, per designare opere e contributi che rappresentano «the most focused historical enactment of the anti-systematic and antiinstitutional tendencies that have marked the essay since its beginnings»20. Per connotare invece gli interventi in cui l’attenzione ricade, in senso generale, sulla componente soggettiva a fondamento delle speculazioni autoriali, gli studiosi ricorrono sovente al termine personal essay.

Auto/biography (a/b): il recente conio auto/biography è stato proposto per sottolineare, anche a livello grafico, le interazioni tra autobiografia e biografia. Broughton fa notare come lo slash tra le due parole abbia appunto la funzione di segnale graficamente la reciprocità tra «self» e «other(s)» tipica delle contemporanee scritture del sé21, dove la presenza di biografia/e all’interno di un’autobiografia o, al contrario, l’inserimento di una narrazione autoreferenziale all’interno di una biografia – oltre a delineare il processo di trasformazione della vita in testo – rendono conto dell’estrema fluidità dei confini che separano un genere dall’altro. Nella letteratura contemporanea, in particolare, sono molteplici e variegate le narrazioni che fondono le modalità narrative dell’autobiografia e della biografia, suffragando così le tesi avanzate da Eakin in merito alla perspicua relazionalità di molte odierne storie di vita (e.g. Brothers and Keepers [1984] di John Edgar Wideman). Non mancano naturalmente esempi meno attuali di tale commistione: Margaret Cavendish, nella sua autobiografia dal titolo A True Relation of My Birth, 18 Cfr. ivi, p. 88. 19 Ibidem. 20 Ivi, p. 89. 21

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Breeding and Life (1656), include ipso facto un resoconto accurato non soltanto della sua

vita, ma anche di quella del marito.

Autobiografia alla seconda persona: più che a un vero e proprio sottogenere autobiografico, l’autobiografia alla seconda persona fa riferimento a un uso stilistico peculiare, che può avere tra i suoi vari obiettivi il coinvolgimento del lettore nelle vicende narrate22. Può accadere che il narratore si rivolga a se stesso – a un sé del passato – mediante la seconda persona per ribadire la distanza tra due diversi stati dell’io in altrettanto diverse fasi dell’esistenza, oppure per giudicare, per incoraggiare o addirittura ripudiare il personaggio che fu un tempo, come avviene nel libro IV delle Confessions (1764-1770) di Rousseau o in Moi Je (1969) di Claude Roy23. Ulteriori e più recenti esempi della non coincidenza tra persona grammaticale e identità si possono trovare in

Patterns of Childhood (1984) di Christa Wolf, o in Wasted (1998) di Marya Hornbacher, la

quale adotta la seconda persona per stabilire un più stretto dialogo con il lettore.

Autobiografia alla terza persona: nell’autobiografia la coincidenza di narratore e protagonista determina molto spesso l’adozione della prima persona: quindi, usando la terminologia genettiana, la narrazione è di tipo autodiegetico, sebbene Genette faccia in ogni caso notare che esistono racconti in prima persona che non presuppongono l’identità

di narratore e personaggio, come ben dimostra il racconto allodiegetico. Lejeune, continuando il ragionamento del narratologo, aggiunge che esistono anche

autobiografie alla terza persona, in cui personaggio principale e narratore coincidono (coincidenza di identità), sebbene non venga utilizzata la prima persona (non coincidenza di persona grammaticale)24. Il critico francese sottolinea che, anche nel caso dell’impiego – sistematico (e.g. Henry Adams, Norman Mailer), eccezionale (e.g. Stendhal, André Gide), alternato (e.g. André Gorz, Barthes)25 – della terza persona grammaticale, l’autobiografia ostenta ugualmente una maggiore precisione semantica rispetto alla fiction (più ambigua nella referenza) per quanto concerne la figura autoriale: l’autobiografia, spiega «met en lumière des phénomènes que la fiction lasse dans l’indécision: en particulier le fait qu’il peut très bien y avoir identité du narrateur et du personnage principal dans le cas du récit ‹à la troisième personne›. Cette identité, n’étant plus établie à l’intérieur du texte par l’emploi du ‹je›, est établie indirectement, mais sans aucune ambiguïté, par la double équation: auteur = narrateur, et auteur = personnage, d’où l’on déduit que narrateur = personnage

22

Cfr. P.LEJEUNE, «L’autobiographie à la troisième personne», in Id., Je est un autre, cit., pp. 32-59, qui p. 36, nota 1.

23

Cfr. P.LEJEUNE, Le pacte autobiographique, cit., p. 16. 24

Cfr. ivi, pp. 15-16. 25

Per approfondimenti in proposito, cfr. P.LEJEUNE, «L’autobiographie à la troisième personne», cit., pp. 46-49.

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même si le narrateur reste implicite. Ce procédé est conforme, au pied de la lettre, au sense premier du mot autobiographie: c’est une biographie, écrite par l’intéressé, mais écrite comme une simple biographie»26 (si pensi, tra i tanti altri esempi possibili, a Ushant [1952] di Conrad Aiken e all’ancor più nota Autobiography of Alice B. Toklas [1933] di Gertrude Stein). La scelta di scrivere la propria storia in terza persona è determinata da fattori diversi: si hanno sdoppiamenti dettati dall’orgoglio (e.g. i Commentarii [50-58 a.C.] di Cesare, le memorie storiche in senso lato), da un forte senso di umiltà (e.g. le autobiografie religiose, in cui l’autore si professa «servitore di Dio»), da una ricercata distanza ironica (e.g. The Education of Henry Adams [1907])27, o da una presa di posizione critica relativamente alla prospettiva in prima persona («the discursive, self-appraising, narcissistic “I” of the writing consciousness»)28

e alla capacità, che a essa viene notoriamente riconosciuta, di costituirsi come parte integrante di un progetto narrativo teso a ricostruire in modo veritiero il passato dell’autore (e.g. Boyhood [1997] e Youth [2002] di J.M. Coetzee)29. Starobinski specifica in merito che «though seemingly a modest form, autobiographical narrative in the third person accumulates and makes compatible events glorifying the hero who refuses to speak in his own name», cosicché il narratore pare assumere «the impersonal role of the historian» e aderire a una supposta oggettività30.

Autobiografia, varianti: critici e scrittori hanno elaborato e introdotto numerose coniazioni lessicali a partire dalle parole che compongono l’etimo greco di «autobiografia» (autos,

bios, graphos). Nell’ambito delle pratiche di scrittura femminile Stanton e Gilmore hanno

rispettivamente coniato i termini autogynography e autobiographics; Jeanne Perreault impiega il termine autography31 per designare «a kind of writing that can and should be

26

P.LEJEUNE, Le pacte autobiographique, cit., p. 16. 27

Cfr. ivi, pp. 16-17. 28

S. COLLINGWOOD-WHITTICK, «Autobiography as Autrebiography. The Fictionalisation of the Self in J.M. Coetzee’s Boyhood. Scenes from Provincial Life», Commonwealth, 24(1), 2001, pp. 13-23, qui p. 18.

29

Cfr. ivi, p. 19. Su quest’ultimo punto cfr. infra, alla voce autobiografia, varianti. 30

J.STAROBINSKI, «The Style of Autobiography», in J. Olney, Autobiography, cit., pp. 73-83, qui p. 77. Per approfondimenti sull’estensione e l’uso della terza persona e il suo rapporto con il contesto narrativo, cfr. G.MAY, op. cit., pp. 63-66.

31

In un articolo del 1988 Porter Abbott impiega il medesimo termine, dotandolo però di una diversa accezione. Con esso l’autore si riferisce, infatti, alla macrocategoria nella quale vengono comprese, oltre all’autobiografia, tutte le tipologie di scritture del sé: «The term not only identifies a valid literary attitude distinguishable from both the fictive and the factual/conceptual responses, but it sharpens and preserves the term ‹autobiography› for the more specifically narrative kinds of self-writing. […] autobiography seems inevitably to connote – if not denote – a long prose narrative. So strong is this association that the term is never without some strain used to refer to primarily nonnarrative self-writing – to meditative essays and to texts like Whitman’s Song of Myself […]. Yet there is increasing pressure to include such disparate texts in the same field with

(12)

identified in order to foreground the suggestive and flexible processes of both autos and

graphia […] a writing whose effect is to bring into being a “self” that the writer names “I”,

but whose parameters and boundaries resist the monadic»32; Jana Evans Braziel analizza l’identità diasporica delle donne all’interno di quelle che lei definisce alter-biographies33

. Altri studiosi ancora hanno distinto le occorrenze specifiche dell’autobiografia postcoloniale parlando di auto-critico-graphie (Françoise Lionnet), auto-historio-graphie (Anne Donadey), polybiographie (Daniel Maximin) e transindividual o communal

autobiography (William Boelhower)34. Scrittori e romanzieri sono parimenti intervenuti ad arricchire l’apparato terminologico usato dalla critica con parole atte a esemplificare,

all’interno delle scritture autobiografiche, costruzioni discorsive ricorrenti e peculiari. Il premio Nobel Coetzee ricorre al termine autrebiography per alludere a un’operazione

narrativa che, tramite l’uso della terza persona (cfr. supra, alla voce autobiografia alla

terza persona), tende a segnalare «un’assenza nella presenza»35, ottemperando così alla volontà dell’autore di evocare uno stadio passato del proprio sé – e insieme a esso una fase

anteriore della propria vita – e di marcarne l’alterità rispetto a quello del presente36. Linda Barry considera il proprio graphic novel, One Hundred Demons (2002), come un

esempio di autobifictionalbiography, termine con il quale l’artista indica il processo di finzionalizzazione cui sono sottoposte le esperienze di vita che vi sono ritratte.

Erratography e oughtabiography fanno invece riferimento, rispettivamente, al racconto dei

vacillamenti morali dell’autobiografo, o delle scelte che quest’ultimo avrebbe dovuto compiere nel corso della vita. Numerose altre varianti lessicali della parola «autobiografia» sono infine reperibili in Olney, la cui tassonomia di sottogeneri autobiografici prevede l’introduzione di vocaboli anche inediti, quali per esempio autosociography (autobiografia in cui le idee dell’autore-protagonista vengono presentate in costante relazione con l’evolversi di fatti ed eventi, in modo tale da offrire una panoramica sociale del mondo al quale egli appartiene, come in Beyond a Boundary [1963] di C.L.R. James);

autoautography (autobiografia dove si assiste al “raddoppiamento” del sé, allo stesso

tempo soggetto e oggetto di una narrazione paradigmaticamente incentrata, come nelle (P. ABBOTT, «Autobiography, Autography, Fiction. Groundwork for a Taxonomy of Textual Categories», New Literary History, 19(3), 1988, pp. 597-615, qui p. 612. Corsivi nel testo).

32

J. PERREAULT, «Autography/Transformation/Asymmetry», in S. Smith – J. Watson (eds.), Women, Autobiography, Theory. A Reader, Wisconsin UP, Madison 1998, pp. 96, qui pp. 190-91.

33

Cfr. J.E.BRAZIEL, «Alterbiographic Transmutations of Genre in Jamaica Kinkaid’s ‹Biography of a Dress› and Autobiography of My Mother» (2003), cit. in S. Smith – J. Watson, Reading Autobiography, cit., p. 258.

34

Cfr. A.HORNUNG –E.RUHE (eds.), Postcolonialisme & Autobiographie, Rodopi, Amsterdam-Atlanta 1998, p. 2.

35

Cfr. J.SEVRY, «Coetzee the Writer and the Writer of an Autobiography», Commonwealth, 22(2), 2000, pp. 13-24, qui p. 15

36

(13)

confessioni russoiane, sulla storia dell’anima di chi scrive); autopsychography (autobiografia che può annoverare tra i suoi fulcri tematici la messa in luce della complessità dei processi psichici, secondo quanto si verifica in Memories, Dreams,

Reflections [1962] di Carl Jung); autophylography (autobiografia nella quale l’io dello

scrivente si erge a rappresentante di una collettività); autoobituography (in alternativa ad

autothanatography37, il termine viene impiegato per descrivere le autobiografie – quelle di Darwin ed Einstein ne sono un esempio – in cui l’autore sceglie di scrivere una sorta di autocommemorazione funebre, guardando alla propria vita come se fosse già terminata);

autosoteriography (autobiografia che funge da epilogo alla vita dello scrittore e

contemporaneamente da preludio ad alcune sue significative riflessioni, in consonanza con il modello inaugurato dalle Confessioni agostiniane)38.

Autocritography: con questo termine – introdotto per la prima volta da Henry Gates Jr., il quale lo ha usato per promuovere una raccolta di saggi di Houston Baker39 – la critica indica una pratica accademica di tipo autoriflessivo e autocosciente che, in aperto contrasto con le teorie impersonali e i loro spesso sterili astrattismi, assegna una rilevanza sintomatica ad alcuni aspetti del genere autobiografico di solito posti in secondo piano nel ritratto che un autore traccia di sé40. Per autocritography si intende più esattamente il racconto delle circostanze individuali, sociali e istituzionali che hanno contribuito alla

formazione di uno studioso e alla sua specializzazione all’interno di ambiti determinati: si pensi a tal proposito a Scenes of Instruction (1999) di Michael Awkward, che

reintroduce il termine per descrivere la propria esperienza educativa, da lui vissuta con la precisa cognizione di quanto essa si sia posta in contrasto con la sua identità di maschio afroamericano, o a «Bordered and Bleeding Identities»41 (2011) di Bryant Alexander, dove l’autore racconta di come l’abbandono della natale Louisiana gli abbia consentito di intraprendere la carriera accademica alla quale si sentiva destinato. Tale sottogenere rientra nella più ampia categoria della cosiddetta critica autobiografica (autobiographical [literary] criticism), all’interno della quale studiosi come Diane Freedman situano il

personal criticism, il personalist/experimental critical writing, e il personal essay (cfr.

37

Cfr. infra, alla voce autotanatografia. 38

Per approfondimenti in merito a questa e alle precedenti voci, si veda J.OLNEY, «Autobiography. An Anatomy and a Taxonomy», Neohelicon, 13(1), 1986, pp. 57-82, qui pp. 68-81.

39

L’opera di riferimento è la seguente: H.L.GATES JR., Loose Canons. Notes on the Culture Wars, Oxford UP, New York 1992.

40

Cfr. M.AWKWARD, Scenes of Instruction. A Memoir, Duke UP, Durham 1999, p. 7. 41

Il racconto, sintomaticamente sottotitolato «An Autocritography of Shifting Academic Life», fa parte di una serie di contributi raccolti nel seguente volume: S.JACKSON –R.G.JOHNSON III, The Black Professoriat. Negotiating a Habitable Space in the Academy, Peter Lang, New York 2011.

(14)

supra, alla voce autobiographical essay)42. Data la particolare occorrenza di riflessioni autobiografiche all’interno di testi «also devoted to interpretations of African-American literary and cultural performances», Kimberly Benston propone di definire le modalità narrative del sottogenere in questione – modalità che Benston, sulla scia di Nancy Miller e Aram Veeser, propone di chiamare black autocritography – nei termini di una pratica performativa «that dramatizes the roles of memory, reading, and translation in the construction of modern African-American subjectivity»43.

Autoetnografia: introdotto nel corso degli anni ’80, questo termine si riferisce a un tipo di

life writing in cui il «bios of autobiography is replaced by ethnos or social group»44. L’autoetnografia può essere descritta propriamente come una pratica situazionale di narrazione del sé che contesta la normatività e l’ideale obsoleto di soggettività delle master

narratives occidentali: Mary Louise Pratt, ad esempio, indaga le modalità attraverso le

quali soggetti indigeni od oppressi usano i modelli discorsivi dei colonizzatori (o della cultura dominante) per poi appropriarsene e trasformarli – secondo un vero e proprio processo di transculturazione – in idiomi indigeni su cui si innesteranno forme ibride e collettive di scrittura autobiografica (e.g. i libri intesi alla trasmissione delle ricette di famiglia, le parodie – tipiche di testimonios quali Me llamo Rigoberta Menchú – dei paradigmi discorsivi autoetnografici, le storie di vita redatte da scrittrici africane emergenti). Soprattutto nell’ambito delle scienze vengono spesso impiegate alcune varianti della parola per definire forme di etnografia che, in quanto dipendenti dalla posizione dell’osservatore-autore rispetto alle pratiche discorsive e alla storia delle etnie con le quali questi entra in contatto, permettono di riflettere l’esperienza duplice dello scrivente, presentatoci sia come outsider che come insider. Marilyn Strahern impiega in questo senso il termine auto-anthropology; David Hayano parla di self-ethnographic texts; Deborah Danahay opera infine una distinzione tra native anthropology (uno studio il cui autore è un individuo che scrive del proprio gruppo di appartenenza ed è stato a sua volta oggetto di analisi etnografiche), ethnic autobiography (una narrazione di vita scritta dai membri di gruppi minoritari) e autobiographical ethnography (un resoconto in cui l’antropologo, nelle vesti di redattore, fonde esperienze personali e considerazioni di carattere etnografico)45.

42

Cfr. D.P. FREEDMAN, «Autobiographical Literary Criticism as the New Belletrism. Personal Experience», in A. Veeser (ed.), Confessions of the Critics, Routledge, London-New York 1996, pp. 3-16.

43

K.W.BENSTON, Performing Blackness. Enactments of African-American Modernism, Routledge, Abingdon-New York 2000, p. 284.

44

S.SMITH –J.WATSON, Reading Autobiography, cit., p. 258. 45

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Autofiction: il termine è stato introdotto per la prima volta da Serge Doubrovsky in occasione dell’uscita di Fils (1977), un’opera da lui etichettata in copertina come «romanzo», pur presentando al proprio interno espliciti riferimenti autobiografici a partire già dal nome del narratore e protagonista, prima chiamato J.S. D., poi Julien Serge, e infine Doubrovsky. La scelta operata dallo scrittore di rubricare la propria opera sotto la denominazione di «romanzo» piuttosto che di «autobiografia» rientra pienamente in un progetto estetico maturato pochi anni prima, durante la lettura dell’articolo di Poétique nel quale Lejeune espone le proprie teorie sul patto autobiografico, e fa dell’identità del nome il tratto caratteristico e imprescindibile di tale “forma contrattualistica”46. Doubrovsky commenta anche in seguito il termine «autofiction», racchiudendo le proprie argomentazioni in una serie di scritti – si ricordi in particolare l’articolo «Autobiographie/Vérité/Psychanalyse» comparso nel 1980 all’interno della rivista L’Esprit

créateur – che vengono ripresi da Lejeune in Moi aussi, dove il critico francese,

nell’accogliere la critica mossa in via implicita da Doubrovsky nei confronti del suo razionalistico e rigoroso sistema di classificazione, arriva ad ammettere l’esistenza di due tipi di autobiografia: uno appartenente a un sistema referenziale reale, e uno meno trasparente, che imita la scrittura e i presupposti del primo sistema47. Il fatto che la parola «autofiction» venga generalmente fatta corrispondere a una narrazione condotta in prima persona nella quale tuttavia non esiste garanzia alcuna dell’autenticità della storia raccontata, né tantomeno dell’identificazione tra narratore e protagonista, giustifica dunque il rapporto di sinonimia che essa intrattiene con la finzione autobiografica o la narrazione

fittizia in prima persona cui l’assimilano le stesse Smith e Watson48. Recenti dibattiti, come quello avviato da Paul Jay in Being in the Text (1984), hanno puntualizzato che cercare di distinguere la finzione dall’autobiografia è un’operazione non solo difficile ma addirittura inutile49, poiché quest’ultima si prefigura sempre quale risultato della trasposizione narrativa di un vissuto ri-creato e immaginato a posteriori, al quale il lettore assegna un valore di verità sulla scorta del fatto che, trattandosi di un’autobiografia, il protagonista corrisponde a un individuo reale, e la narrazione a una visione – per quanto elusiva – tendenzialmente fedele all’immagine del mondo così come quest’ultimo lo ha

46

Lejeune dedica al genere introdotto da Doubrovsky anche un intero numero della rivista Ritm (cfr. «Autofictions & Cie», Ritm, 6, 1993), dove, sulla scorta delle idee sviluppate dallo scrittore, vengono indagati ulteriori esempi di autofiction contemporanea.

47

Cfr. P.LEJEUNE, Moi aussi, Seuil, Paris 1986, pp. 22-25. 48

Sull’argomento si vedano inoltre J.LECARME, op. cit., pp. 267-83, F.D’INTINO, op. cit., pp. 148-50 ed E. H. JONES, Spaces of Belonging, cit., pp. 87-111. Altrettanto utile e interessante può risultare la consultazione del sito http//:www.autofiction.org, dove il genere dell’autofiction viene ampiamente presentato e descritto in una serie di interventi cui sono opportunamente annesse indicazioni di carattere storico, critico e bibliografico.

49

Cfr. P.JAY, Being in the Text. Self-Representation from Wordsworth to Roland Barthes, Cornell UP, Ithaca-New York 1984, pp. 16-19.

(16)

esperito. Nel caso dell’autofiction, tuttavia, è possibile tracciare una più marcata linea di confine tra autobiografia e finzione: nonostante l’autobiografia ricorra inevitabilmente a tattiche e generi finzionali, nell’autofiction si assiste infatti a un deliberato e spesso ironico

uso di marcatori testuali che segnano il passaggio da una modalità discorsiva all’altra. Il termine «autofiction», divenuto ormai di uso corrente tanto da essere inserito tra i lemmi

dei dizionari Larousse e Robert, designa oggi un numero particolarmente elevato di opere (tra di esse, quelle esemplari di Hervé Guibert e Perec), che secondo Jones attestano come tale sottogenere non comporti una rottura radicale rispetto ai modelli tradizionali dell’autobiografia, quanto piuttosto un adattamento alle dominanti socio-culturali della contemporaneità, poiché sottende la discussione relativa alla natura “costruita” dell’io e al difficile processo del recupero memoriale50.

Autographics: stando alla definizione di Gillian Whitlock, il termine «autographics» fa riferimento a un memoir il cui carattere distintivo è costituito dal rapporto tra elementi visivi e testuali, un aspetto questo sul quale si fonda uno dei suoi principali motivi di attrazione. Insieme ad autography (cfr. supra, alla voce autobiografia, varianti), il vocabolo introdotto da Whitlock viene fatto segnatamente corrispondere alle forme di life

narrative «fabricated in and through drawing a design using various technologies modes

[sic], and materials», dove il testo «is approached for texture, for the “strange alchemy” of word and image on a three dimensional page»51. Con la parola ombrello «autographics» si designa in sostanza una categoria dai confini indefiniti, nella quale rientrano forme multimediali, intermediali, e multimodali, come i social network (equivalenti visuali e multimediali degli scrapbooks), le perzines (equivalenti del diario)52, le webcam (equivalenti del ritratto), e gli avatar (rappresentazioni visuali dell’autonarrazione)53. Al momento l’ampia produzione di graphic memoirs (e.g. Maus [1973-1991] e In the Shadow

of No Towers [2004] di Art Spiegelman, Persepolis [2000-2003] della siriana Marjane

Satrapi, Stitches [2009] di David Small, Special Exits [2010] di Joyce Farmer) e graphic

50

Cfr. E.H.JONES, «Autofiction», cit., p. 180. 51

G. WHITLOCK – A. POLETTI, «Self-Regarding Art» (2008), cit. in A. J. Elias, «Virtual Autobiography. Autographies, Interfaces, and Avatars», in J. Bray – A. Gibbons – B. McHale (eds.), The Routledge Companion to Experimental Literature, Routledge, Abingdon-New York 2012, pp. 512-27, qui p. 515. Corsivi nel testo.

52

Perzine deriva da fanzine (un composto di «fan» e «magazine»), ed è un termine introdotto nella prima metà del ’900 dagli appassionati di fantascienza nordamericani, che lo hanno usato in riferimento ai formati di stampa amatoriale. Le perzines, esito della contrazione delle parole «personal» e «magazine(s)», sono realizzate dal lavoro di un solo individuo: stilisticamente meno convenzionali rispetto a quelle prodotte dalla collaborazione di più persone, tali riviste vertono solitamente sugli argomenti più disparati, arrivando anche a inglobare il racconto – organizzato spesso per frammenti e in forma romanzata – della vita di chi le ha redatte.

53

(17)

novels54 lascia presagire che le idee sulla soggettività autobiografica e i paradigmi che guidano e condizionano la lettura stiano andando incontro a un sostanziale riassestamento sulla scorta della rilevanza acquisita dalla commistione di modalità rappresentative – quella visuale e quella verbale – tra loro costantemente interagenti. In altre parole, come chiariscono Smith e Watson, «we turn to comics for not just pleasure and humor but for the unique way they […] motivate a relationality through which the graphic artist and reader co-construct narratives across gutters and frames»55.

54

Sulla valenza semantica dei sintagmi graphic memoir e graphic novel – per ciascuno dei quali la critica ricorre, alternativamente, alla parola autobiographix –, si veda M. A. CHANEY, Graphic

Subjects. Critical Essays on Autobiography and Graphic Novel, Wisconsin UP, Madison 2011, pp. 4-5.

55

S. SMITH – J.WATSON, «New Genres, New Subjects», cit., p. 24. Approfondimenti in merito sono inoltre reperibili in S.SMITH –J.WATSON,Reading Autobiography, cit., pp. 168-73.

(18)

Fig. 3. Sequenza tratta da Maus (vol. 2, 1989), il graphic memoir che nel 1992 ha fruttato allo statunitense Art Spiegelman uno speciale Premio Pulitzer, consolidandone la notorietà a livello internazionale. Ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, il fumetto illustra la tragedia dell’Olocausto in forma allegorica (i nazisti sono infatti rappresentati come gatti, mentre gli ebrei come topi), a partire dal racconto delle esperienze compiute dal padre dell’autore, un ebreo di origine polacca sopravvissuto ad Auschwitz.

(19)

Autohistoria: è un termine proposto da Anzaldúa in Borderlands come equivalente di una narrazione che, nel trascendere le tradizionali modalità discorsive dell’autoritratto e dell’autobiografia, realizza una sintomatica commistione tra la storia personale della scrittrice e quella del suo popolo. Si tratta di una forma narrativa altamente sincretistica, in cui Anzaldúa fonde generi che coinvolgono l’autobiografia, il testimonio (cfr. infra, alla voce corrispondente) e il cuento, il racconto mitico e la poesia. L’autohistoria, incentrata sul recupero e sulla ri-scrittura di storie a lungo taciute – le storie della frontiera messicana, quelle dei colonizzati e delle donne – ha come scopo principale il raggiungimento di una nuova consapevolezza politica, sociale e femminista, che Anzaldúa definisce «nuova mestiza». Nelle parole di Anzaldúa, «[l]a mestiza constantly has to shift out of habitual formations; from convergent thinking, analytical reasoning that tends to use rationality to move toward a single goal (a Western mode), to divergent thinking, characterized by movement away from set patterns and goals toward a more whole perspective, one that includes rather than excludes»56. L’autohistoria è il mezzo attraverso il quale Anzaldúa realizza l’ermeneutica della mestiza: sotto questo aspetto acquistano una nuova valenza anche le descrizioni offerteci dalla scrittrice di arti e manufatti provenienti dalla sua terra d’origine, che fungono da testimonianze evidenti della volontà di soffocare l’eredità coloniale, e con essa gli ideali etnocentrici importati per secoli dai dominatori europei.

Autopics: laddove nel gergo cinematografico il termine biopic indica un film biografico solitamente incentrato sulla vita di un personaggio storico (e.g. Gandhi [1982], The Iron

Lady [2011], Lady Diana [2013]) o famoso (e.g. The Blind Side [2009], sul campione

sportivo Michael Oher) 57, autopic è impiegato per designare l’adattamento filmico di un

memoir, come appunto dimostrano le pellicole Angel at My Table (1990, per la regia di

Jane Campion), Malcolm X (1992, per la regia di Spike Lee), Angela’s Ashes (1999, per la regia di Alan Parker) o Girl, Interrupted (1999, per la regia di James Mangold). Molti sono gli interrogativi che vengono sollevati dall’atto stesso del trasporre un’opera letteraria sullo schermo, primo tra tutti quello inerente alla forma stessa del film ottenuto, che potrebbe considerarsi un ibrido autobiografico o divenire al contrario un biopic58. Esistono tuttavia veri e propri esempi di autobiografia filmica, come riscontrabile in Les Nuits Fauves [1992]), una pellicola girata e allo stesso tempo interpretata dall’autore – Cyril Collard – dell’autofiction (cfr. supra, alla voce corrispondente) che ne ha ispirato la sceneggiatura59

.

56

G.ANZALDÚA, op. cit., p. 101. Corsivi nel testo. 57

Per quanto concerne il biopic (meno frequentemente indicato con il trattino tra i due lemmi, come invece compare in Winslow), cfr. supra, nota 5.

58

Cfr. S.SMITH – J.WATSON, Reading Autobiography, cit., p. 182. Sulla questione si veda tra l’altro quanto accennato nel cap. 2, § 3 della presente dissertazione.

59

Per approfondimenti di carattere generale sui film, i video e i documentari autobiografici, cfr. ivi, pp. 179-83.

(20)

Autoritratto: negli studi letterari per autoritratto si intende un racconto autobiografico orientato verso il presente e quindi distinto nella sua strutturazione dall’autobiografia, che è invece rivolta al passato. William Howarth, partendo dal presupposto che ogni autobiografia è un autoritratto, cerca di delineare le analogie tra gli autoritratti rinascimentali e il racconto di sé lungo un asse cronologico che include tutta la storia del mondo occidentale60. Beaujour ha contestato l’analogia dell’autoritratto con le arti visive e ha proposto dei parametri per distinguerne i tratti identificativi dal punto di vista prettamente letterario. L’autoritratto, così come inteso dal critico francese, è una forma letteraria polimorfa ed eterogenea, che si focalizza su un soggetto costitutivamente frammentato perché “dipinto” nel presente della scrittura: tale scrittura, di cui Beaujour rintraccia l’esempio prototipico negli Essais di Montaigne, nel De Vita propria [1576] di Girolamo Cardano e nell’Ecce Homo [1888] di Nietzsche, si distingue nello specifico dall’autobiografia «par l’absence d’un récit suivi [et] par la subordination de la narration à un déploiement logique, assemblage ou bricolage d’éléments sous des rubriques que nous appellerons […] ‹thématiques›»61

. Inoltre, aggiunge il critico francese, «[la] principale apparence [de l’autoportrait] est celle du discontinu, de la juxtaposition anachronique, du montage, qui s’oppose à la syntagmatique d’une narration, fût-elle très brouillée, puisque le brouillage du récit invite toujours à en “construire” la chronologie»62. Strutturato sotto il segno della discontinuità cronologica e scandito a livello contenutistico in sezioni tematiche che inficiano la possibilità di ricostruire in modo organico la storia dell’io, l’autoritratto annovera infine tra i suoi elementi più tipici e individuanti l’allusione alla spazialità («l’autoportrait littéraire est une variante tranformationelle d’une structure dont relève également le speculum encyclopédique du Moyen Age. Cette structure […] a pour trait distinctif d’être à dominante topique: elle s’oppose donc globalement à la structure narrative dont relèvent l’historiographie, le roman, le biographie et l’autobiographie»)63

e l’assemblaggio dei lacerti memoriali attinti dalla vita intima con quelli afferenti alla sfera collettiva64, tratti questi ultimi che lo rendono un’espressione calzante delle direzioni attualmente imboccate dalla letteratura autobiografica.

Autosomatography/autopatography: il secondo di questi due termini designa le narrazioni auto/biografiche che hanno per oggetto gli aspetti negativi di una vita (fallimenti, eventi

60

Cfr. W. L. HOWARTH, «Some Principles of Autobiography», in J. Olney, Autobiography, cit., pp. 84-114.

61

M.BEAUJOUR, op. cit., p. 8. Corsivi nel testo. 62 Ivi, p. 9. 63 Ivi, p. 31. 64 Cfr. ivi, p. 30.

(21)

tragici e infelici)65. Molto spesso si tratta di narrazioni il cui autore è un disabile, una persona affetta da malattia o una persona a lui prossima, che tramite il racconto delle proprie (o delle altrui) esperienze contesta l’atteggiamento discriminatorio della società nei confronti dei soggetti patologici. Couser adotta la parola «autosomatografia» per operare una distinzione – all’interno di tale ambito tematico – tra le narrazioni in prima persona e quelle in terza persona, dove a suo avviso è maggiormente evidente la volontà di opporsi alla stigmatizzazione sociale66.

Autotanatografia: la morte, al pari della nascita, rappresenta una dimensione paradossale dell’autobiografia perché costituisce un evento fondamentalmente indicibile, che solo ad altri spetta raccontare. Esistono tuttavia casi in cui l’autobiografo parla della propria malattia e della sua ormai imminente scomparsa, o magari del decesso di una persona a lui prossima (e.g. A Death of One’s Own [1978] di Gerda Lerner, dove l’autrice parla della morte dell’amato marito Carl). Egan, la quale dedica all’argomento un intero capitolo di

Mirror Talk, spiega che l’attenzione riversata nelle narrazioni autobiografiche sulle

questioni relative alle malattie terminali «intensifies the rendition of lived experience, the immediacy of crisis, and the revealing process of dying»67. In molti racconti di persone affette da AIDS, aggiunge la studiosa, «[t]he existential trauma of facing death attaches, in public perception at least, so completely to manner of life that death writing becomes preeminently life writing, and a bid to take charge of how that life writing is read»68. Un aspetto fondamentale dell’autotanatografia è costituito dalla possibilità di interazione dialogica che essa chiama in causa anche qualora la morte o l’aggravarsi delle condizioni dello scrivente impediscano il completamento della narrazione, come avviene per esempio nel caso di This Wild Darkness. The Story of My Death (1996) di Harold Brodkey: se, infatti, gli autobiografi dipendono «on the perception of others to correct and confirm their “selves” in living, so also dying, that apparent closure of subjective self-creation, depends for recognition and possible interpretation on the subject position of others to whom the dead no longer respond. […] the subject becomes an object entirely exposed to being read, entirely dependent on its reader for constructions of meaning. Dialogic autobiography […] incorporate[s] participation from the margins into the vortex of the autobiographical enterprise»69. Quand’anche il testo redatto da un malato terminale riveli un impianto

65

Di qui appunto la collocazione di questo sottogenere in un’area tematicamente finitima a quella dell’autotanatografia (cfr. infra, alla voce corrispondente). Sull’argomento cfr. inoltre D.J. WINSLOW, Life-Writing. A Glossary of Terms in Biography, Autobiography and Related Forms, Hawaii UP, Honolulu 19952, p. 47.

66

Per approfondimenti si veda quanto discusso nel cap. 2, § 1 della presente dissertazione. 67

S.EGAN, op. cit., p. 200. 68

Ivi, p. 207. 69

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sostanzialmente monologico – è il caso di The Cancer Journals (1980), una raccolta di scritti autobiografici in cui Audre Lorde narra dell’integrazione dell’esperienza di cura da lei attraversata nei molti ambiti della sua vita –, esso può comunque attestare un’intrinseca polifonia, poiché dipendente da una varietà di influenze sia sul piano personale che generico70.

Autotopography (si veda anche la voce memoir of place): il vocabolo in questione viene coniato da Jennifer González per indicare come con il tempo gli oggetti (oggetti di uso comune come abiti e mobili, oppure oggetti con cui si intrattiene un rapporto di tipo mentale, come fotografie, immagini, reliquie e souvenirs) possano trasformarsi in simulacri dell’identità, o meglio ancora in un «corpo psichico», e acquisire di conseguenza valore autobiografico. Applicando il termine all’ambito specifico delle arti visive, González chiarisce che tali oggetti personali «can be seen to form a syntagmatic array of physical signs in a spatial representation of identity»71. Investite di significati di matrice associativa che sono sottoposti a variazioni e alterazioni continue, le autotopografie godono di un certo grado di flessibilità semantica, sebbene la loro natura materica impedisca di attribuire agli oggetti in questione significati oltremodo esorbitanti dall’alveo esperienziale e dalle

idiosincrasie della persona per la quale fungono da rivelazione o da aide-mémoire. Le autotopografie, inoltre, hanno la facoltà di coincidere con uno spazio di identificazione

utopica o contribuire al risveglio di una storia mitica, ma possono anche assumere la valenza di siti di contestazione nei confronti delle immagini provenienti dalla società dei mass media72. Esse offrono infine una rappresentazione del sé a partire sia da eventi soggettivi che dalla cultura cui l’identità si ricollega: quello che ne deriva è un atto materiale e tattile di riflessione personale, come nel caso della scultura dal titolo Spider (1997) di Louise Bourgeois, che è stata considerata da Mieke Bal un esemplificativo case

study di autotopografia73. Una definizione alternativa a quella di González è stata fornita da

70

Cfr. ivi, p. 215. 71

G.BRAHM –M.DRISCOLL (eds.), Prosthetic Territories. Politics and Hypertechnologies (1995), cit. in S. Smith – J. Watson, Reading Autobiography, cit., p. 262. Javier Durán dà al termine un’accezione più ampia, usandolo come strumento di indagine delle modalità secondo le quali gli oggetti che popolano il microcosmo narrativo di Capirotada (1999) – il memoir dello scrittore chicano Alberto Ríos – possono considerarsi «counter-site[s], […] autotopograph[ies], recreated through memory and image» (J.DURÁN, «Border Voices. Life Writings and Self-Representation of the U.S.-Mexico Frontera», in A. Manzanas (ed.), Border Transits. Literature and Culture across the Line, Rodopi, Amsterdam-New York, pp. 61-78, qui p. 63).

72

Cfr. ibidem. 73

Cfr. in merito M. BAL, «Autotopography. Louise Bourgeois as Builder», Biography, 25(1), 2002, pp. 180-202. Spider consiste di una gabbia di rete metallica al cui interno è posizionata una sedia e sulle cui pareti sono visibili frammenti di tessuto ridotto a brandelli, il tutto sormontato dall’enorme ragno che dà il titolo all’installazione. Attorno alla gabbia e al suo interno vi sono oggetti appartenenti al panorama famigliare dell’artista (pezzi di ossi, ampolle di vetro, un

Figura

Fig. 3. Sequenza tratta da Maus (vol. 2, 1989), il graphic memoir che nel  1992  ha  fruttato  allo  statunitense  Art  Spiegelman  uno  speciale  Premio  Pulitzer,  consolidandone  la  notorietà  a  livello  internazionale

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