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CAPITOLO IV

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Academic year: 2021

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CAPITOLO IV

I TANTI VOLTI DEL FILM

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1. L’EVOLUZIONE DELL’ESPRESSIVITA’

Nella storia del cinema si sono susseguite varie correnti artistiche figlie, ognuna, di autori dalle formazioni più disparate e contorte. Alcune pellicole si rivelano veri manifesti artistici poiché contengono l’essenza di idee e concezioni profonde, legate a momenti storici e artistici specifici.

La storia del cinema è dunque scandita da un continuo susseguirsi di stili, concetti e visioni diverse ma tutte necessarie allo stesso modo. Dai primi brevi film “documentari” dei fratelli Lumière, l’arte cinematografica ha sviluppato un’espressività nuova, fantastica e illusionista grazie a Georges Méliès, poi ha raggiunto una dimensione narrativa con Griffith, per arrivare successivamente all’Espressionismo tedesco, al Neorealismo italiano, fino alla più recente scoperta del 3D. In ognuno di questi casi il volto umano ricopre il ruolo di protagonista e soprattutto si evolve e si adatta allo stile di ogni pellicola divenendone il simbolo primario. Dal muto al sonoro, dai primi cortometraggi sperimentali ai lunghi film autoriali i tratti somatici dei personaggi ne sono l’espressione più manifesta. A ogni momento della storia della cinematografia equivale un determinato volto ed esso viene trattato differentemente in base al periodo storico-artistico in cui ci troviamo.

Di seguito viene proposta una breve carrellata di opere cinematografiche che hanno scandito la storia del cinema attraverso un uso sempre nuovo e diverso del primo piano e quindi del volto degli attori.

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Un punto fermo all’interno della storia del primo piano è rappresentato dal contributo apportato da David Wark Griffith, il quale introdusse l’uso del primo piano e del dettaglio all’interno delle sue pellicole, di stampo narrativo. Egli non fu l’ideatore di questo taglio cinematografico, ma certamente colui che lo utilizzò con maggiore consapevolezza. In Nascita di un Nazione, celebre pellicola del 1915, è possibile notare l’uso disinvolto che l’autore fa del dettaglio e del primo piano. Ciò fu possibile grazie all’utilizzo di tecniche all’epoca ancora in fase “rudimentale” ma che esprimevano dignitosamente il concetto di dettaglio isolato dal contesto. Più che un vero e proprio primo piano, in Nascita di una Nazione vediamo l’intenzione di evidenziare i volti tramite l’uso dell’iris, un foro circolare che si allarga e stringe in base all’esigenza, evidenziando un volto o un frammento dell’inquadratura. Per la prima volta viene sondata da vicino la psicologia dei personaggi attraverso uno sguardo “ravvicinato”. Sotto un aspetto del tutto inedito, dramma collettivo e dramma personale si alternano e si fondono. Da qui in poi ci sarà dunque un atteggiamento diverso nei confronti del volto, che verrà “trattato” con maggiore consapevolezza, cercando di spingere sempre più le sue potenzialità espressive.

“Espressione”, appunto, è ogni sentimento visibile, che si rispecchia cioè sul volto e che quindi modifica la normale condizione di esso. Per gli espressionisti, come il termine stesso indica, tutto ciò che conta è proprio l’espressione, intesa come manifestazione fisica dell’anima e dello spirito. Essi considerano la materia anatomica di cui è fatto il viso un ostacolo, poiché viene percepita come vincolo della completa espressività. Gli espressionisti – anch’essi sbarcati sul pianeta cinema intorno agli anni Venti – puntavano, infatti, a liberarsi dai limiti della

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materia fisica per far esplodere l’espressività. Soprattutto nel campo della pittura, partono dal presupposto che un artista non deve lasciarsi soggiogare dai lineamenti naturali del volto; se un sorriso può superare la normale dimensione di una bocca naturale, perché non allargarlo per esprimere un concetto di sorriso ancor più eccessivo?

I sentimenti degli uomini sono sempre più grandi di quelli che essi riescono a esprimere attraverso la loro povera e limitata fisicità […] i nostri illimitati sentimenti sono prigionieri della fisicità, ma il cinema rende plausibili le deformazioni espressionistiche.1 L’intenzione del cinema espressionista è insomma quella di creare delle forme spinte e forzate verso un’espressività eccessiva e la rottura degli schemi attraverso la distorsione delle linee e dell’inquadratura. Lo stile espressionistico risulta essere, così, più di ogni altro particolarmente persuasivo ed efficace.

Un esempio di espressionismo totale e puro è certamente il capolavoro di Robert Wiene, del 1919, Das Kabinett des Dr. Caligari, ovvero Il Gabinetto del Dr.

Caligari. In quest’opera la fisionomia e la mimica degli oggetti hanno la stessa

diabolica vivezza. L’espressività dei volti e dei gesti è estesa a tutto il quadro. Su uno sfondo “spiritualizzato” come fondamento dell’intera opera si realizza l’inquietante storia del dottor Caligari e del suo sonnambulo Cesare, bizzarro personaggio capace di predire il futuro. Nella pellicola gli oggetti hanno volti e sguardi umani con i quali interrogano prepotentemente i personaggi; atteggiamento col quale l’autore vuole sottolineare, metaforicamente, il concetto di persecuzione. Le inquadrature non deformano gli oggetti, semplicemente

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B. BALÀZS, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Piccola biblioteca Einaudi, Torino, 2002, p. 102

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documentano delle forme espressionistiche già compiute grazie all’opera degli scenografi. La stilizzazione del tutto, però, raggiunge il suo massimo grado di espressività grazie al supporto dell’illuminazione e della scelta del taglio. Con l’Espressionismo, infatti, la luce acquisisce una funzione narrativa e diviene dramma.

Il gabinetto del dottor Caligari è il miglior esempio dell’abuso della scenografia al

cinema. Caligari rappresenta l’ipertrofia di un accessorio, l’eccessiva importanza accordata ancora una volta a un “accidente” a scapito dell’essenziale. È quasi soltanto la fotografia di un insieme di scenografie. Tutto in Caligari è scenografia: prima di tutto la scenografia stessa, poi il personaggio, che è dipinto e truccato come la scenografia; la luce – sacrilegio imperdonabile – dipinta anch’essa, non è altro che una natura morta in cui tutti gli elementi vivi sono stati uccisi a colpi di pennello.2

La razionalità della descrizione precisa non rappresenta più una regola da seguire a ogni costo. Il cinema espressionista adotta un linguaggio di cui non è semplice spiegarne il contenuto razionale e si abbandona così alla regola che non importa ciò che accade ma solo le impressioni, appunto. Giocando sul motivo che, lasciando qualcosa alla libera immaginazione, l’impatto con l’immagine sarà più forte e si otterranno così effetti poetici, come le parole non dette ma comunque espresse. L’Espressionismo parla di realtà distaccandosi da essa e questa è forse la conseguenza inevitabile delle psicosi nate dopo la devastante prima guerra mondiale. È, cioè, la traduzione della tanto desiderata fuga dalla realtà e dalla coscienza, si oppone alla letteratura e al contenutismo e favorisce la visività assoluta. Insegue insomma una verità più viva e immediata.

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Quindi: se – riferendoci alle origini di questo stile – gli impressionisti volevano riprodurre fedelmente le impressioni naturali ricevute dalla realtà, gli espressionisti, invece, intendevano proiettare verso l’esterno le proprie interiori immagini psichiche. Più che rivelare l’anima come appare inserita nel mondo, intendevano mostrare il mondo riflesso nell’anima. Non l’anima sul volto, ma il volto dell’anima.

Quando Louis Delluc parlava di maschera dell’attore, intendeva la stilizzazione del personaggio; egli credeva nella capacità di stilizzare l’attore e la natura come su di una tela, ma ciononostante credeva impossibile poter stilizzare l’attore in mezzo alla natura, «poiché non si possono stilizzare gli alberi, la strada, i cavalli come su di una tela».3 Ma la celebre pellicola di Robert Wiene darà prova dell’esatto contrario. Con questo film verrà alla luce la possibilità del regista di far vedere allo spettatore cosa vuole che egli veda.

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B. FALASCHI, C. PALLAVIDINO, La realtà fotogenica di Louis Delluc, «Cinema&Cinema», 1992, p. 79

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2. SILENZIO E AZIONE

Negli anni della scoperta e del fermento cinematografico molte furono le novità inserite nelle varie pellicole, sempre più numerose nelle poche sale cinematografiche del primo Novecento. Nell’ambito dell’espressività è impossibile non menzionare l’enorme contributo apportato da Charlie Chaplin all’arte del film. L’artista inglese portò la gestualità su un livello diverso rispetto ai suoi predecessori; con lui si assiste alla scomposizione dei movimenti dell’espressività umana in una serie di piccolissime innervazioni. Ogni suo movimento è costituito da tante particelle in moto; minimi movimenti si susseguono bruscamente sotto gli occhi dello spettatore. È come se applicasse la legge della successione filmica delle immagini sul gesto motorio umano. Nella personalità di Chaplin, milioni di spettatori videro qualcosa che aveva un senso per tutti, qualcosa che va oltre il fascino personale e soggettivo. Come sostiene Epstein, Chaplin è una sinossi della sua nevrastenia fotogenica.

La scenografia è la visione stessa del mondo di Charlot, con la scoperta della meccanica e delle sue leggi; essa ossessiona il protagonista a tal punto che, per una inversione di valori, ogni oggetto inanimato, diventa per lui un essere vivente; ogni persona un manichino, di cui bisogna trovare la manovella.4

Insieme a Chaplin anche il giapponese Sessue Hayakawa rappresenta l’essenza di ogni intellettualità. Entrambi oltrepassano l’arte dell’attore. Il primo con i suoi

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L. ARAGON, Du décor, in “Le film”, n. 131, 1918, p. 9, in R. ABEL, Fotogenia e cinegrafia,

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tratti orientali, il suo nervosismo e la sua malinconia, il secondo con la sua rigorosa ingenuità. Dolci e feroci, aperti ma chiusi nel loro mondo.

Negli scritti relativi al movimento espressivo, risalenti agli anni ’20, Ejzenstejn aveva elaborato una concezione del corpo dell’attore come un corpo attraversato da conflitti e tensioni che dovevano essere dominati in modo pienamente consapevole, sfruttando tutta la carica energetica del “movimento del rifiuto”.5 Come sostenuto nei capitoli precedenti l’arte deve riattivare le forme espressive e di pensiero appartenenti a uno strato profondo e deve utilizzarle per conferire efficacia alle proprie opere, sintetizzandole dialetticamente. Ejzenstejn propone di sintetizzare l’ora e l’allora in un equilibrio vivo e dinamico. È dunque fondamentale avere ben chiaro che l’opera d’arte deve apportare in sé la stratificazione della coscienza che l’ha generata. Nel film muto, nonostante l’assenza dell’espressione verbale, ciò veniva e viene percepito; si potevano comprendere dialoghi e pensieri senza parole, ma solo con il movimento degli occhi dei personaggi, i cui sguardi comunicavano una profondità umana ineguagliabile.

Un tempo la mancanza di parola equivaleva alla possibilità di fare arte, di questi tempi, invece, l’eventuale mancanza di parole viene percepita come difetto. I toccanti primi piani di Charlie Chaplin raggiungevano un livello di liricità ed emozione ineguagliabile; la sua espressione comica e commovente, goffa e astuta si conferma impareggiabile. I suoi film recenti, dunque sonori, hanno raggiunto comunque il piano dell’arte non grazie alla parola ma nonostante la mancanza di

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A. SOMAINI, Ejzenstejn. Il cinema, le arti, il montaggio, Piccola Biblioteca Einaudi, 2011, Torino, p. 197

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essa. Perché Charlot ha comunque lasciato ampio spazio all’espressività mimica relegando l’audio a semplice elemento accessorio; egli doveva tacere, perché l’anima del personaggio rimaneva chiusa nella maschera. Quel che viene da pensare è che, probabilmente, Chaplin era prigioniero di Charlot poiché la maschera era il suo stesso volto.

Oltre ai grandi attori sopraccitati, anche altri divi del muto quali Buster Keaton, Douglas Fairbanks, Asta Nielsen, Lillian Gish o Conrad Veidt, più che interpreti di un qualche personaggio, nelle loro pellicole interpretano se stessi. Ciò accadeva, secondo Béla Balàzs, perché nel quadro a dominare non era il personaggio ma la loro fisicità. Essi non assumevano il volto del personaggio ma i personaggi venivano creati su misura per il loro fisico. E per il pubblico era inevitabile subire il loro fascino. Considerati grandi poeti lirici della mimica e dei gesti, i film erano per loro occasione per esprimere la loro reale anima, dietro il nome e la vita di personaggi inventati.

Osservando e analizzando i volti degli attori, si ha la possibilità di esplorare un intero universo, fatto di sentimenti e prove tangibili della loro esistenza. Nella figura di Greta Garbo, ad esempio, è racchiusa un’interiore nobiltà, una fragile sensibilità. La sua fisionomia, indubbiamente simbolo di indiscussa bellezza, parla di contrasto e passiva protesta verso il mondo. La sua bellezza è sofferente e avvolgente. Il suo sguardo cupo e desolato urla e ammalia in un unico istante.

Per quanto armoniche possano essere le linee di un viso che sorride serenamente ed esprime felicità e letizia, null’altro possono svelare – nella società in cui viviamo – che l’immagine di un uomo spiritualmente “primitivo”. Anche il piccolo borghese, privo di coscienza politica, sente che quella bellezza triste e sofferente, la quale non può

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nascondere il ribrezzo di vivere in questo sporco mondo, è l’immagine di una umanità più altamente organizzata, spiritualmente più pura e moralmente più nobile. La bellezza della Garbo è, nel mondo borghese, una bellezza di opposizione.6

Paradossalmente con l’avvento del sonoro il cinema è come se fosse diventato più semplice, “esplicito” potremmo dire, avvicinandosi nuovamente alla dimensione teatrale. Il linguaggio visivo tipico del muto venne meno per lasciar spazio a metodi espressivi più razionali a scapito di quelli sentimentali. Il silenzio divenne azione. Un’azione che possiede ed esprime specifiche condizioni psicologiche, grazie, ovviamente, al supporto dell’espressione mimica. Ma nonostante l’evoluzione tecnica del mezzo cinematografico continuano a esistere dei fatti specificamente visivi che nel film sonoro non possono trovar posto.

Dopo la prima guerra mondiale l’associazione dei “Gueules Cassées” produsse un film dal titolo Puor la paix du monde, il cui regista fu il colonnello Piquard, presidente dell’associazione dei “Senza volto”. Egli si servì del materiale cinematografico dell’archivio di guerra per raccontare uno dei momenti più crudeli della storia dal punto di vista di coloro che devono vivere nascosti perché la guerra li ha resi insopportabili alla vista degli altri uomini. Il film si apre proprio col primo piano di questi reietti mentre si tolgono la maschera che nasconde i loro volti deturpati. Tolgono così anche la maschera dal volto della guerra, poiché smascherano, appunto, la vera fisionomia della strage. «Coloro che la guerra ha privato del volto ci mostrano ora il vero volto della guerra». Chi ha veramente vissuto su di sé la tortura della guerra mostra cosa è stata veramente e dona un volto a quel fenomeno pieno di morte e distruzione.

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Nella pellicola del regista russo Turin, dal titolo Turksib (1928-29) vengono narrati i giorni di lavoro durante la costruzione della prima linea ferroviaria fra la Siberia e il Turkestan. Dotato di una notevole tensione drammatica il film porta un’essenziale novità: il sorriso. Prima di allora mai si erano visti volti così sorridenti in situazioni simili. In quei sorrisi lo spettatore apprende la rivelazione di un spirito nuovo. In uno dei paesi che vide la più feroce persecuzione fascista, il sorriso sembra rischiarare quei volti che hanno subito sofferenza e inauditi soprusi. Metafora della democrazia o semplice sentimento momentaneo, il sorriso sboccia su volti rigati dal sudore e si fa portatore di uno dei più grandi avvenimenti nella storia dell’umanità. Come dice Béla Balàzs, un avvenimento più grande di quello dell’esplosione della bomba atomica.

Come già detto precedentemente, la cosa straordinaria del cinema muto – che si è rivelata tale anche in quello sonoro – è l’aver reso lo spettatore consapevole della sua capacità di comprendere i sentimenti umani anche senza comprende il senso delle parole dette dagli attori, per questo le parole spesso risultano semplice materiale d’accompagnamento per le più inconsce inflessioni espressive. Sappiamo bene che l’avvento del cinema sonoro ha portato con sé lo sviluppo tecnico, ma ciò che di più innovativo troviamo è l’aver insegnato ad afferrare l’intima connessione esistente fra la mimica e il linguaggio parlato. Coglie il parallelismo fra ciò che c’è tra la micromimica del volto e il movimento di ogni singola parte del corpo. Sostanzialmente il film sonoro dona alla parola un’ “intonazione ottica”.7

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Il critico cinematografico Jean Choux ha scritto a proposito del film Coeur fidèle parole che potrebbero essere applicate anche ad altri film ed esprimono concretamente il “miracolo” del primo piano cinematografico:

Apoteosi del primo piano. Oh, quelle figure di uomini e di donne, esibite con crudezza sullo schermo, solide come smalto e molto più potentemente scultoree delle creature michelangiolesche sulla volta della Sistina! Vedere mille teste immobili i cui sguardi puntati, concentrati, allucinati convergono tutti insieme verso un unico volto, enorme, sullo schermo. Spaventoso faccia a faccia. Un idolo e la folla. Come nei culti dell’India. Ma qui l’idolo è vivo, e quell’idolo è l’uomo. Da quei primi piani si sprigiona un significato inaudito. L’anima ne resta isolata, così come si isola il radio. L’orrore di vivere è denunciato, l’orrore e il mistero. Quella pietosa Marie, quel Jean e quel Petit-Paul, hanno l’unico fine di essere quella Marie, quel Jean e quel Petit-Paul? Non è possibile! Ci deve essere dell’altro!8

Quell’ “altro” c’è e il cinema lo rivela.

I baffetti di Charlot e la risata di Fernandel non devono trarre in inganno. Sotto quelle maschere si scoprono i tratti di un’anarchia profonda, la minaccia di uno sconvolgimento che ha già reso pericolanti le più profonde e antiche fondamenta dell’ideologia. Attraverso le prodezze e le spaccature degli eroi dello schermo si intuiscono, come in filigrana, la vera forza, il coraggio reale del cinematografo che si lancia in questa grande guerra, in questa grande avventura dello spirito che, dalla rivolta degli angeli, guida il primo degli avventurieri.9

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J. EPSTEIN, L’essenza del cinema..., p. 61

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Carl Theodor Dreyer, regista de La passion de Jeanne d’Arc (La passione di

Giovanna d’Arco) diede vita, nel 1927, a un vero e proprio inno al primo piano

cinematografico. Questa antica pellicola rappresenta ancora oggi uno dei migliori poemi cinematografici sulla sofferenza e sul volto umano. L’autore tedesco volle infatti creare una "sinfonia" di primi e primissimi piani dell'eroina quattrocentesca, dei suoi accusatori e degli altri personaggi, prescindendo quasi completamente dal tempo e dal luogo della rappresentazione. Il risultato fu così un film senza tempo, dove il tema assoluto è il dolore nelle sue diverse forme. Questa pellicola è il miglior frutto della riflessione sul volto umano e sul primo piano fiorita in quegli anni in Francia e rimane tale tutt’ora. Una riflessione che sfociò inevitabilmente nella teoria della fotogenia, che, come è già stato detto, in Francia assunse un ruolo centrale negli sviluppi teorici della critica cinematografica.

Dreyer compose un poema cinematografico usando soprattutto il primo e primissimo piano di protagonisti e oggetti di scena (come gli strumenti di tortura), ricorrendo a una vicinanza e una durata delle inquadrature quasi insopportabile anche per lo spettatore moderno. I suoi piani sono talmente ristretti da non fornire a quest’ultimo sufficienti inquadrature di contesto per capire con esattezza la scena. Il processo alla giovane martire è narrato da lunghissime e terribili sequenze. In tal modo l’autore conferisce la massima potenza ai dettagli e dona un senso di smarrimento che trascina lo spettatore dentro i fatti e dentro la sofferenza della protagonista. L'invisibile diventa altrettanto pauroso del visibile e forse anche di più: i luoghi nell'immaginazione si dilatano e la cinepresa insiste su situazioni immobili e fisse, negando l'essenza stessa del cinema che è il

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movimento. In tal modo le poche azioni acquistano una forza inaudita, come fossero urla che esplodono nel silenzio. Neanche una volta vediamo per intero l’ambiente nel quale ha luogo il processo; la macchina da presa passa tra le file dei banchi e percorre, sempre con una serie di primi piani, la lunghezza reale dello spazio, che non ci è dato vedere interamente. Lo spettatore può guardare negli occhi gli inquisitori e avvertire l’effetto che esercitano su di lui, oltreché sulla protagonista. Venendo proposta una lunga serie di fisionomie caratteristiche lo spettatore si ritrova a dover vivere quasi insieme alla protagonista lo strazio del processo. Questo capolavoro dimostra che il movimento di macchina può rivelarsi, come in molti altri casi, il veicolo ideale per far comprendere l’atmosfera all’interno dello spazio, e lo fa meglio di come si vedrebbe in un campo totale.

La figura della Giovanna dreyeriana è certamente influenzata da quella tradizione iconografia cristiana in cui il santo, sia al momento del martirio che no, volge gli occhi in cielo in un'espressione dolorosa: Giovanna è santa prima del sacrificio compiuto, ma anche imago Christi, molte sono, infatti, le sequenze che richiamano alla memoria la passione di Cristo così come ci è tramandata dai Vangeli e dall'iconografia tradizionale (l'incoronazione di Giovanna e lo sbeffeggiamento da parte delle guardie carcerarie ricorda l'incoronazione di spine di Gesù Cristo; tutta la scena finale – Giovanna condotta al rogo – si svolge sul modello della salita al Calvario: dall'anziana che porge da bere a una stremata Giovanna, alle pie donne, che piangono ai piedi della pira, al cartello su cui campeggiano le parole di "idolatra spergiura" che viene inchiodato nella sommità del palo della pira e che rimanda alla tabella affissa alla croce di Cristo).

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Marie Falconetti svolse dunque un ruolo di profonda verità drammaturgica. L'attrice uscì dall'esperienza del film devastata psicologicamente e resta nell'immaginario collettivo come allucinata maschera di dolore, i cui occhi riescono a parlare, a urlare, a sorridere nonostante la totale assenza sonora. Sguardi, sorrisi, gesti valgono più di mille parole. «Dreyer segue la sofferenza di Giovanna; non è più espressione, è realismo anzi iperrealismo» sostiene Pino Farinotti. Quelle di Dreyer sono istantanee di sofferenza e intensa agonia; che riflettono un’estetica, un’impressione, un’immagine, una comunicazione fortissima, solida e senza dubbi, che è tipica di Dreyer. La forte espressività, data dalla radice espressionista dell’autore, supplisce la mancanza di parole. Non ha parole pronunciate ma urla. Il volto di Marie Falconetti diviene così un paradigma, un esempio citato ancora oggi. Occhi profondi e allucinati, labbra che supplicano e pregano pur senza muoversi.

Nel film «ci si muove unicamente nella dimensione spirituale dell’espressione» dice Balàzs. La lotta fra passioni sfrenate, dolore e paura emerge dal volto di ogni personaggio, gli sguardi dei protagonisti lottano fra loro spietatamente. Un dramma di anime, come Balàzs lo chiama, è inciso su questa struggente pellicola.

Un’altra peculiarità del cinema, presa probabilmente dalla più antica pittura, è quella di aver creato e di conseguenza sottolineato una tipologia del volto e dell’espressione delle differenti classi sociali. Con questo non si intende la rappresentazione di banali stereotipi ma l’intenzione di scovare sotto i segni esteriori i segni nascosti e più impersonali di una determinata classe. In tal modo si può mostrare al pubblico diversi tipi di umani: il minatore, l’aristocratico, il barbone. «Non esiste analisi teorica che sappia “registrare” gli strati della società

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con maggior esattezza di quanto faccia la tipologia di alcuni film sovietici».10 Siamo difronte una equazione chiara ed evidente: ideologie diverse in diverse fisionomie. Esempio calzante a tal proposito è una scena del film Arsenal di Alexander Dovzhenko, del 1929: Kiev è avvolta nel silenzio della notte prima della rivolta; la macchina da presa coglie una serie di momenti e movimenti compiuti da personaggi di ogni estrazione sociale. L’operaio si alza, il soldato sta all’erta, l’artigiano aguzza l’occhio, il commerciante tende l’orecchio, il professore, l’artista, il bohémien guardano ansiosi la notte. Chi sono loro non è specificato in nessuna didascalia, la loro identità è scritta sui loro volti. Le fisionomie «non rivelano l’uomo nella classe sociale, ma la classe sociale nell’uomo». E quando scoppia la lotta in strada «non combattono soltanto le mitragliatrici e le baionette, ma anche i volti di uomini vivi».11

10

B. BALÀSZ, Il film…, cit., p. 78

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3. IL KAMMERSPIEL

Protagonista dei floridi anni Venti, insieme al cinema espressionista, fu il

Kammerspiel, un’altra fondamentale corrente cinematografica europea che prese

ispirazione dal teatro da camera e dalla nota Kammermusik, ovvero la musica da camera. Le sue origini giustificano l’intenzione di creare uno sguardo che sia più “ravvicinato”; il principio del teatro da camera è, infatti, quello di confezionare un’esibizione per un pubblico ristretto, ciò che ne consegue è un rapporto attore-spettatore meno distaccato e per questo la percezione della mimica è più dettagliata. Quando tale principio viene applicato al film l’obiettivo si avvicina e l’espressione degli attori diviene protagonista poiché è molto più percepibile di quanto potesse essere nell’Espressionismo. Differentemente da quanto accade nei film espressionisti, il Kammerspiel vede gli attori come “perseguitati” dalla macchina da presa; la sua caratteristica precipua è proprio la volontà di far vedere sempre da vicino le immagini e i personaggi, attraverso uno sguardo ravvicinato e dunque più intimo e gli attori vengono osservati come da un microscopio avido di dettagli. Ciononostante lo sguardo del Kammerspiel non è emotivo bensì distaccato e descrittivo. Se nell’Espressionismo i movimenti di macchina erano quasi inesistenti, col Kammerspiel la cinepresa è più mobile e fluida. Nasce insomma un inedito rapporto tra attore e macchina da presa. Inoltre, alle scenografie cariche di contrasti illuministici, alla recitazione esasperata e al trucco eccessivo delle pellicole espressioniste, si oppongono immagini verosimili. Come afferma Sandro Bernardi, autore del libro L’avventura del cinematografo.

Storia di un’arte e di un linguaggio, questo movimento diviene apoteosi del volto umano, dei sentimenti muti, dei conflitti invisibili ma percepibili a occhio nudo.

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Dato che la macchina da presa segue più maniacalmente l’attore, la mimica è perfezionata e più raffinata sul piano psicologico. Il Kammerspiel designò insomma l’inizio di una nuova epoca per il volto umano, poiché esso acquisì per la prima volta un grande valore espressivo. Uno degli autori chiave nella storia del

Kammerspiel fu Friedrich Wilhelm Murnau, regista e sceneggiatore tedesco che

contribuì notevolmente all’evoluzione di questo stile oltreché a quella della produzione cinematografica tedesca. Nella pellicola del 1924 dal titolo L’ultimo

uomo Murnau affronta la tematica della privazione dell’identità e del conseguente

rapporto con la società, lo fa attraverso l’uso della soggettiva e di svariate carrellate, novità assolute in quegli anni in cui l’Espressionismo aveva imposto camere fisse e inquadrature per lo più totali. È l’inizio di un cinema usato come sguardo. Emil Jannings, uno dei più grandi attori tedeschi del tempo, capace di portare sullo schermo forti caratterizzazioni psicologiche, fu il protagonista de

L’ultimo uomo, nel quale esprime magistralmente lo stato del cittadino medio – in

questo caso si tratta del portiere di un albergo – fortemente legato al suo status, che gli garantisce un ruolo privilegiato all’interno della società. Tutto questo Murnau lo spiega attraverso intensi primi piani che vedono l’umile portiere, a tratti intenso e a tratti grottesco, prima rispettato e stimato, poi dover eseguire un mestiere umiliante e per il quale viene deriso. Il film è come diviso in due metà, la prima vede la completa soddisfazione nel volto del protagonista, orgoglioso di ciò che rappresenta all’interno di una società giudicante, piena di etichette.

Nella seconda ha luogo il declino e la disperazione. Jannings esalta la drammaturgia dei sentimenti. Il volto, la postura e la camminata dell’attore parlano della decadenza di un uomo, dello struggente declino di un personaggio

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che si aggrappa alla propria divisa come alla propria dignità. L’andatura del protagonista – come avviene nella vita reale – è una confessione, un monologo che esprime le reazioni dell’uomo a quanto è accaduto, in modo completo e sincero.

Lo sbigottimento che precede la disperazione lo si percepisce nell’inquadratura in cui l’uomo apprende la notizia di licenziamento dalla lettura di una lettera e con rassegnazione si sfila gli occhiali come in segno di resa. Dalla compostezza iniziale, il protagonista acquisisce presto un aspetto disordinato e sconvolto, sintomo inevitabile di una intensa delusione. Evidentemente disorientato oltreché disperato, l’uomo accetta la sconfitta ma non si rassegna. L’attore, spesso ripreso nella sua desolazione disperata, teatralizza le sue espressioni, isolate in marcati primi piani. Il legittimo riscatto avverrà quando l’umile portiere erediterà una grossa cifra di denaro da parte di un ricco parente. A quel punto, l’uomo ripristina quell’aspetto distinto che aveva perso, riacquisendo la sua dignità.

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4. IL CINEMA DELLO SGUARDO

In un mondo che ha sete di storie e di immagini sempre nuove la struttura e le tecniche del cinema crescono sempre più. Sorgono nuovi punti di vista che aprono lo sguardo di autori e spettatori verso universi sconosciuti e lontani. Nell’arco di pochi decenni il cinema ha fatto vedere cose impensabili e al contempo ha svelato racconti semplici, comuni alla vita di tutti, ma comunque straordinari nel loro genere. La grande tradizione cinematografica prosegue, continua a evolversi costantemente attraverso intuizioni e adattamenti di grandi autori che non hanno voluto vanificare l’operato dei loro predecessori. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta arrivano nelle sale storie reali, tangibili e molto vicine alle vite di chi si relaziona col film come semplice spettatore. Dopo gli scenari surreali e i volti caricaturali, in Italia emerge il Neorealismo e in Francia muove i primi passi la

Nouvelle Vague. Sorge un modo del tutto nuovo di fare cinema, nel quale le

“sporcature” sono ammesse e necessarie.

I protagonisti del Neorealismo esprimono se stessi così come sono, senza orpelli e sovrastrutture; l’attore non è più “attore”, « […] è prima di tutto uomo. Possiede qualità umane chiave» dirà infatti Luchino Visconti. E così, a questo genere cinematografico dal gusto semplice, non poteva non essere confacente la semplicità del primo piano. Ai soggetti prescelti non era richiesta la necessità di recitare, dovevano semplicemente mostrare il proprio volto. Nonostante le grosse differenze espressive e stilistiche tra l’Espressionismo, il Kammerspiel e il Neorealismo, questi movimenti cinematografici sono accomunati da una certa inedita violenza, assolutamente non gratuita ma legata alla tematica dominante: la vita di strada, la solitudine dell’uomo, l’alienazione e la crudeltà della guerra.

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Sono la rappresentazione delle voci di chi è sopravvissuto, di chi vuole raccontare e denunciare ciò che c’è prima, durante e dopo la guerra. Sguardi molto diversi ma che guardano e urlano con eguale intensità.

Un volto su tutti è forse l’emblema e insieme la sintesi del cinema neorealista, quello di Anna Magnani. Musa di De Sica, Rossellini, Lattuada, Visconti, Renoir, Monicelli, Pasolini e molti altri, la Magnani rappresenta il volto dell’Italia di quel tempo; un’Italia alle prese con la guerra, la carestia e la disperazione. Una delle prime donne “in carne e ossa” del cinema; lontana da quell’immagine composta e impeccabile che il cinema hollywoodiano aveva sempre ostentato. Nelle pellicole neorealiste il suo e i volti della gente comune sono incorniciati all’interno di inquadrature profondamente dinamiche, che contengono il dramma di quelle vite drammaticamente reali, quelle immagini attraverso cui il popolo italiano scorge se stesso.

In quegli anni il cinema percorre una fase in cui trucchi, costumi e pompose scenografie non trovano spazio. Emerge solo la verità, quella cruenta, quella di tutti. Anna Magnani, come Chaplin, diviene portabandiera di uno specifico momento storico, di profonda svolta sociale. Il suo viso “vero” viene esaltato da struggenti primi piani che trascinano in qualcosa di estremo ma concreto. Nel film del 1964 dal titolo Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini, vien fuori tutta l’intensità, la dignità e la disperazione di una donna di provincia dedita alla crescita del proprio figlio. Più che un film neorealista la pellicola rappresenta un passaggio verso una fase nuova del cinema; sente l’eredità neorealista ma si proietta verso qualcosa che non lo è più, che va oltre quello stile.

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Il film si chiude con dei primi piani nei quali emerge la disperazione di una madre che scopre la morte del figlio tanto amato. Nella fase finale del film sia il volto della donna che quello del ragazzo sono caratterizzati da forti contrasti chiaroscurali. Ettore giace sul letto di contenzione – ricordando un po’ il Cristo del Mantegna – mentre Mamma Roma, al mercato, apprende della sua morte; in entrambi i casi i loro volti sono come immersi in un’ombra disperata e oscura, che li aliena da ciò che hanno intorno. Nel primo piano al mercato il volto della Magnani è isolato nell’ombra, in contrasto con lo sfondo, sul quale i personaggi in movimento sono illuminati dal sole. E nel finale una skyline ripresa in campo lungo si alterna al volto dell’attrice la quale, con occhi sbarrati, disperati e rassegnati, osserva la cupola della basilica di San Giovanni Bosco.

Come accennato precedentemente, l’Italia esprimeva se stessa attraverso lo sguardo del Neorealismo, mentre, circa quindici anni più tardi – sul finire degli anni Cinquanta – la Francia sperimentava linguaggi nuovi, uno di questi si chiama

Nouvelle Vague. Sconvolgimento narrativo e tecnico accompagnavano pellicole

sovversive che raccontavano di un momento storico rivoluzionario. Per la prima volta il cinema parla di se stesso. Trame più “colte” si fanno spazio in un mondo cinematografico strabordante di rigore accademico, crolla la cosiddetta sceneggiatura di ferro e le produzioni cinematografiche si affidano al “caso”, alle sensazioni del momento e quindi anche all’improvvisazione. Le pellicole francesi del periodo sono costellate di attese, sguardi, tensioni, pensieri e azioni mancate.

Come accade col Neorealismo, gli autori vanno alla ricerca di volti che possano rappresentare persone e non divi. Cambia l’immaginario, le ambientazioni e dunque i volti. Uno di quei volti è quello di Antoine, il bambino protagonista de I

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quattrocento colpi di François Truffaut, pellicola del 1959, divenuta icona della Nouvelle Vague. L’ultima immagine del film è un primo piano del ragazzino che,

dopo esser stato letteralmente seguito da una celebre camera car, raggiunge una spiaggia e, una volta entrato in contatto con l’acqua del mare, si volta e rivolge lo sguardo in macchina. Il momento si cristallizza in un fermo immagine, creando contrasto con l’audio di sottofondo che invece procede. In un unico istante si condensa quello che forse è l’incontro di Antoine con se stesso, con la sua solitudine e il suo coraggio. Come la metafora del mondo aperto davanti a lui, il mare, ovvero la vita, lo attendono.

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5. IL SOLCO TRA INNOVAZIONE E TRADIZIONE

La fine del Neorealismo – e dunque l’inizio di una nuova era cinematografica – è segnata dall’arrivo di Michelangelo Antononi. Il punto di vista che propone è ben diverso dai colleghi prima di lui; il suo è un uomo slegato dalla propria realtà, un uomo le cui certezze crollano e vengono messe in discussione. Quella società dei consumi sviluppatasi dopo le guerre mondiali viene analizzata dal suo obiettivo con sguardo critico ed estraniante. Propone un’analisi “atipica” del mondo e il suo istinto opera su un piano figurativo intricato ma anche esplicito. I film di Antononi, carichi di silenzi, lasciano parlare i gesti e le espressioni rivelando, così, la vera natura del regista, ovvero quella di «sottile analista dei sentimenti»12, come lo definisce Alain Resnais. Basti osservare l’introduzione priva di dialoghi di Zabriskie point (1970), nella quale un insieme di primi e primissimi piani esplica chiaramente l’ambiente in cui ci troviamo. Una rassegna di volti è il disegno di quella generazione rivoluzionaria e anticapitalista che mise in discussione ogni regola imposta dalle istituzioni.

Spesso i suoi personaggi sono immersi in inquadrature paesaggistiche entro cui si può percepire la solitudine e il distacco; la sovversione e la paura. Come se fosse un fedele allievo della scuola ejzenstejniana, Antonioni riprende quella “tradizione” tipica del regista sovietico di unire in un’unica inquadratura primo piano e campo lungo, dando vita, di nuovo, a un accostamento vincente e inaspettatamente eloquente.

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Come gli anni Venti, anche gli anni Sessanta pullulano di creatività e rivoluzione cinematografica. Sempre più numerosi sono i volti che in quel periodo segnano la storia del cinema, rimanendo nell’immaginario comune come veri e propri affreschi storici. Oltre a quelli già citati, non si può sorvolare su colui che fece del primo piano la sua personale cifra stilistica, il suo marchio. Sergio Leone, massimo esponente del genere “Spaghetti western”, fece del volto dei suoi attori la sua firma. Il suo approccio sfiora l’animo di ogni personaggio con delicatezza e profondità, attraverso inconfondibili close-up che creano un’affascinante tensione e grazie ai quali lo spettatore ispeziona il personaggio fino all’epidermide.

Le sue pellicole vedono un continuo alternarsi di inquadrature contrastanti: campi lunghissimi si oppongono a primissimi piani e viceversa. In una danza contrappuntistica volti e immensi paesaggi raccontano il far west con un’eleganza rimasta impareggiabile.

Come un omaggio al cinema antico emerge l’intensità del silenzio, preziosissimo mezzo esplicativo, attraverso il quale affiora anche il valore e il significato intrinseco degli oggetti – di cui si è parlato nei capitoli precedenti – i quali spesso “agiscono” come personaggi. Quegli oggetti-agenti di cui sopra sono largamente presenti nelle pellicole del regista romano; le mani, le pistole, i sigari divengono personaggi, oggetti che significano, spiegano e agiscono. Lo sguardo corrucciato di Clint Eastwood è sinonimo di minaccia e la sua fondina, isolata in piani ravvicinati, commenta l’azione imminente. I personaggi nati dalla penna di Leone si guardano a lungo, guardano noi in atteggiamento di sfida e di attesa. Il semplice

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movimento di un sopracciglio – perfettamente documentato dalla macchina da presa – è l’allarme di qualcosa che accadrà presto.

Anche lui, come un moderno Ejzenstejn, rivela così grandi capacità analitiche attraverso la scomposizione dell’azione.

Al di là di ogni corrente cinematografica e di ogni certezza, si colloca poi il viso estatico, folle e inquietante di Klaus Kinski, attore di origine polacca giunto al grande pubblico soprattutto grazie alle collaborazioni realizzate col regista Werner Herzog. Oltre ogni contegno, oltre ogni schema e stereotipo si trova lui, un uomo che, come una Greta Garbo al maschile, non lascia la possibilità al pubblico di scindere il personaggio dalla persona. In un unico e indissolubile matrimonio di anime collega se stesso alla follia oscura dei suoi personaggi, a lui perfettamente conformi. Il suo volto è il ritratto di forti disagi interiori. Basti pensare a Lope de Aguirre, personaggio interpretato da Kinski nella pellicola herzogiana Aguirre,

furore di Dio (1972), uomo spietato alla guida di una spedizione di conquistadores

spagnoli che vanno alla ricerca della leggendaria El Dorado. L’attore concentra nel ruolo la propria ferocia, calma ma violentissima. Un caso più unico che raro di sguardo allucinato e violento, che catapulta lo spettatore in un inevitabile stato di ansia. Disadattato, maschera inquietante e cupa, mostro (nel senso antico del termine) provocatorio e delirante; ritratto di una profonda inquietudine.

Forse l’unico che possa avvicinarsi a cotanta spaventosa follia sarà, più tardi, Anthony Hopkins, attore inglese che, nel ruolo del terribile dottor Hannibal Lecter, rese celebre le sue capacità di seminare terrore e inquietudine grazie ai sui occhi vitrei, pieni di spropositata crudeltà.

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Una follia e un’inquietudine percepibile anche nel personaggio di Walter E. Kurtz, celeberrimo colonnello interpretato da Marlon Brando nel film del 1979

Apocalypse now, di Francis Ford Coppola. Anch’egli personaggio enigmatico alle

prese col delirio e la crudeltà, morale e fisica. Una sorta di semidio freddo e misterioso, avvolto nella penombra di uno dei più celebri primi piani della storia del cinema, ovvero quello del suo lungo monologo. È la fotografia – scaturita dalla visionarietà di Vittorio Storaro – di un volto chiuso nell’ermetismo impenetrabile dell’orrore.

Il primo piano resta un’inquadratura “superiore” alle altre, in quanto superiore è il significato che un volto contiene al suo interno. Il cinema contemporaneo continua a farne largo uso e nuove sperimentazioni mettono alla prova il paesaggio-volto, confermando sempre la sua incontrastabile potenza.

A questo proposito, un’indicazione esemplificativa dell’uso incisivo del primo piano nel cinema contemporaneo è quello realizzato da Steve McQueen nel film

Shame (2011), in una sequenza nella quale l’attrice Carey Mulligan canta “New

York New York”.

Il volto dell’attrice viene ripreso per lungo tempo facendo sì che lo spettatore possa seguire l’evoluzione della sua emozione.

Al suo si alterna un altro intenso primo piano, che vede suo fratello, interpretato da Micheal Fassbender, alle prese col tentativo di celare la sua evidente commozione nell’osservarla e ascoltarla. Due incisivi primi piani si alternano creando un’intesa speciale e segreta, che rimbalza da un personaggio all’altro con eguale delicatezza.

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In questa breve rassegna esemplificativa sono stati riportati, brevemente, solo alcuni esempi dell’immenso repertorio di volti che l’arte cinematografica ha donato all’umanità. Sono esempi di quella fotogenia che racchiude in sé il perfetto connubio di scenografia, luce e montaggio che creano l’espressività di una maschera. Sono l’incarnazione di quel matrimonio magico di cui parlavano Epstein e Delluc; quella fotogenia inspiegabile ma che definisce ciò che osserviamo. Sono quei volti le cui qualità morali sono esaltate attraverso la riproduzione cinematografica.

Il cinema continua a regalare piccoli ma immensi paesaggi, naturali e soprattutto umani, e la sua crescita porta con sé personaggi ormai impressi nella storia delle arti visive. Una storia iniziata con i geroglifici e ancora, costantemente alimentata da un’evoluzione irrefrenabile.

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