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III. Commento alla traduzione

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III. Commento alla traduzione

Introduzione al commento

Trovandosi a dover affrontare la traduzione di un’opera letteraria, il traduttore sa che nel corso della sua impresa, più di una volta sentirà rispetto al testo su cui sta lavorando un senso d’incompiuto, di “non raggiunto”. La riflessione sulla traduzione, che assurge al rango di scienza linguistica a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, ha concentrato gran parte delle proprie energie nell’individuazione delle cause di questa impossibilità di creare equivalenze che siano, secondo la terminologia elaborata da Nida39, contemporaneamente formali e dinamiche, ossia di senso, stile e effetto. Si rafforza dunque la coscienza, già riscontrabile nelle osservazioni di alcuni esponenti della scuola romantica tedesca, del fatto che una traduzione non è solo il passaggio da una lingua a un’altra in quanto essa veicola dei significati, materiali o metaforici, che sono espressione di tradizioni, di una storia, di una visione del mondo, in una parola, della cultura del popolo che la parla. Uno dei primi teorici a esprimere la necessità della mediazione culturale, oltre che linguistica, insita nel processo traduttivo è il filosofo tedesco Friedrich Schleiermacher:

O il traduttore lascia stare il più possibile lo scrittore e sposta il lettore verso lo scrittore, oppure lascia stare il più possibile il lettore e sposta lo scrittore verso il lettore (1813).40

Ciò che Schleiermacher propone come intuizione, come riflessione senza pretesa di scientificità, è ripreso dalle nuove teorie sulla traduzione, che cominciano a includere criteri non prettamente linguistici bensì sociologici, etnologici e antropologici, nel tentativo di creare un sistema con fondamenti scientifici. L’aver rifondato una teoria della traduzione su base scientifica ha come principale conseguenza quella di ricondurre tutte le osservazioni possibili a una dimensione non più normativa bensì descrittiva, tale per cui la norma non può più essere considerata una prescrizione bensì il riscontro di regolarità empiriche basate sull’enorme quantità di testi tradotti in tutti i secoli. Questo approccio alla questione traduttiva non elude tuttavia il tradizionale problema per il traduttore della direzione verso cui orientare le proprie scelte, se verso la cultura emittente o quella ricevente, ovvero il problema di produrre una traduzione etnocentrica o non-etnocentrica41.

39 E. Nida, Toward a science of translating, Leiden, E. J. Brill, 1964, cit. in J. Podeur, La pratica della

traduzione. Dal francese in italiano e dall’italiano in francese , Napoli, Liguori, 2002, p. 15.

40 F. Schleiermancher, cit. in B. Osimo, Il manuale del traduttore, Milano, Hoepli, 2011, p. 6.

41 Terminologia impiegata da A. Berman in La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza,

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Il dibattito teorico a riguardo è tutt’oggi centrale in ambito traduttologico. Entrambe le posizioni hanno i loro sostenitori. Alcuni autori sostengono la fedeltà alla lettera anche a costo di produrre un testo del tutto straniante. Uno fra questi, Antoine Berman, sulla base di un corpus di testi, traccia un’analisi delle pratiche di traduzione, in cui rileva una serie di pratiche traduttive diffuse, che definisce “tendenze deformanti”42. A queste, Berman oppone il concetto di “traduzione etica”, secondo cui la fedeltà non può essere accordata che alla lettera:

[…] c’è fedeltà solo alla lettera. Essere “fedele” a un contratto significa rispettarne le clausole, non lo “spirito” del contratto. 43

L’obiettivo di fedeltà, proprio della traduzione etica, consiste dunque nell’accogliere questa letteralità e nell’apertura della lingua materna all’estraneo.

Su posizioni per certi versi in netto contrasto, Umberto Eco cerca di superare la tradizionale opposizione tra fedeltà alla lettera o al lettore secondo:

Di fronte alla domanda se una traduzione debba essere source o target oriented, ritengo che non si possa elaborare una regola, ma usare i due criteri alternativamente, in modo molto flessibile, a seconda dei problemi posti dal testo a cui ci si trova di fronte.44

Il concetto di fedeltà è posto da Eco in strettissima relazione con quello di

negoziazione. Di fronte a un brano, una metafora, un’espressione, anche una sola parola

che presenti almeno due livelli di significato, negoziare significa selezionare le proprietà pertinenti rispetto al contesto e alle finalità che il prototesto si propone45. In Dire quasi la

stessa cosa, basandosi sulla propria esperienza di autore tradotto, Eco fornisce degli

esempi di traduzioni di alcuni dei suoi romanzi dai quali emerge che lo stesso autore ha in più di un’occasione incoraggiato i traduttori a essere fedeli non tanto alla lettera quanto all’intenzione del testo, all’effetto che il testo originale intendeva suscitare nel lettore, ricreandolo nelle diverse lingue. Non è possibile stabilire una regola, le licenze che può prendersi un traduttore vanno negoziate caso per caso:

42 Cfr. A. Berman, op. cit., cap. 2. Nello specifico, Berman individua quattordici tendenze deformanti:

razionalizzazione, chiarificazione, allungamento, nobilitazione, impoverimento qualitativo, impoverimento quantitativo, omogeneizzazione, distruzione dei ritmi, distruzione dei reticoli significanti soggiacenti, distruzione dei sistematismi, distruzione o esotizzazione dei reticoli linguistici vernacolari, distruzione delle locuzioni, cancellazione delle sovrapposizioni di lingue.

43

Ivi, p. 63.

44 U. Eco, Sulla traduzione, in S. Nergaard (a cura di), Teorie contemporanee della traduzione, Milano,

Bompiani, 1995, pp. 121-146.

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Il traduttore deve decidere quale sia il livello (o i livelli) di contenuto che la traduzione deve trasmettere, ovvero, se per trasmettere una fabula “profonda” si possa alterare la fabula “di superficie”.46

Rifacendomi alla visione espressa da Eco, posso affermare che la macrostrategia adottata in questa traduzione è probabilmente più tendente al non-etnocentrismo ma che essa è il risultato di una somma di decisioni, di microstrategie raramente omogenee, le quali dipendono da una molteplicità di fattori che mi propongo di illustrare nel corso di questo capitolo.

Nel primo paragrafo giustificherò le scelte adottate in merito ad alcuni elementi testuali che l’analisi traduttiva ha messo in luce, vale a dire la tendenza all’elencazione, l’alternanza dei tempi verbali e la presenza di un sistema di deittici; nel paragrafo seguente, dedicato alla traduzione degli elementi metaforici, analizzerò, secondo la classificazione elaborata da Podeur47, la traduzione delle metafore consuete, con particolare attenzione alle locuzioni idiomatiche, tradotte secondo i procedimenti di modulazione metafora/altra metafora e metafora/assenza di metafora, e quella delle metafore originali, create dall’autore. Sempre rifacendomi a Podeur, introdurrò nel terzo paragrafo il concetto di

elemento metalinguistico, definito in questo commento anche culturospecifico,

applicandolo immediatamente all’ambito della cultura linguistica. Si tratterà nel quarto paragrafo della questione dell’onomastica e della toponomastica; nel quinto verrà invece presa in considerazione la traduzione dei rimandi intertestuali ad altre opere letterarie. Nel paragrafo dedicato alle perdite e alle compensazioni si analizzerà nel dettaglio il primo caso di difficoltà traduttiva che presenta il romanzo, coincidente con la frase che lo apre, e le tecniche utilizzate per evitare l’eccessivo appiattimento delle variazioni di registro di alcuni termini che si incontrano nel testo. In conclusione, un paragrafo sarà dedicato al linguaggio specializzato, con un’attenzione particolare ai termini marinareschi, cui l’autore ricorre in maniera massiccia lungo tutta la prima delle tre parti che compongono il romanzo.

Di volta in volta verranno messe in luce le caratteristiche generali degli elementi analizzati, le difficoltà che essi presentano in ambito traduttivo e, in breve, i diversi approcci che le teorie sulla traduzione o le evidenze empiriche, sulla base ancora una volta dall’analisi effettuata da Podeur su un’antologia di testi, propongono per risolverle. Si passerà poi ad analizzare in ogni paragrafo i casi di difficoltà riscontrati nell’ambito della

46 Cfr. U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, Milano, Bompiani, 2006, p. 155. 47

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traduzione di Au bord de la mer violette, di cui verranno evidenziate tutte le specificità che hanno influenzato la scelta della strategia da adottare, sottolineando i pro e i contro delle soluzioni proposte.

III.1 Alcuni tratti di stile

Prima di cominciare la fase di traduzione vera e propria, il testo viene sottoposto a un’analisi propedeutica, volta a evidenziare elementi dominanti e tratti caratteristici dello stile, per permettere al traduttore di elaborare una strategia adeguata. Tale analisi, applicata al prototesto di Sulle sponde del mare viola, ha messo in luce alcune caratteristiche testuali rispetto alle quali è stato necessario prendere una posizione: in alcuni casi la scelta oscillava fra l’addomesticamento e lo straniamento ma in altri mi sono trovata di fronte alla tentazione di intervenire sul testo di partenza per migliorarlo.

Il caso più evidente, anche a una prima lettura, è quello costituito dalla spiccata tendenza all’elenco per giustapposizione, cui sono legati fenomeni di punteggiatura e di suddivisione dei capoversi. Una seconda caratteristica, anche questa abbastanza visibile, riguarda l’uso dei tempi verbali rispetto ai diversi piani temporali connessi alle frequenti analessi, per cui al continuo alternarsi dei piani temporali non corrisponde un sistematico alternarsi dei tempi verbali, fra i quali domina il presente. Infine, il terzo elemento era in principio limitato alla sola presenza dell’aggettivo dimostrativo ce, per tradurre il quale ero dapprima convinta di ricorrere a procedimenti che potessero accentuare maggiormente la distanza tra tempo della narrazione e tempo della storia, salvo poi intuire un’implicazione di questo elemento nel sistema di deittici che attraversa il testo.

La presenza di numerosi elenchi è sicuramente riconoscibile come una cifra stilistica dell’autore, peraltro riscontrabile anche in opere precedenti48

. Che siano essi elenchi semplici, come quelli costituiti da una sequenza di soli sostantivi, o più complessi, in cui si susseguono sintagmi nominali anche molto ramificati, o ancora un misto dei due, questo tratto dello stile non può andare perduto in traduzione. La tendenza all’enumerazione riflette un principio compositivo della scena che si potrebbe quasi paragonare all’horror

vacui in campo artistico, per cui le descrizioni vengono stipate di elementi fittamente

48

Cfr. A. Jaubert, Val Paradis, Paris, Gallimard, 2004, pp. 9-10. Per fare un esempio, nelle sole prime due pagine del romanzo è possibile riscontrare : un elenco lungo quindici righe, che costituisce l’incipit; un elenco di aggettivi di nazionalità composto da dieci elementi; un elenco di quattordici nomi di località subito seguito da un breve elenco di tipi di barche.

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accostati. Questo tratto estetico è infatti connotato a livello sintattico da un’accentuata coordinazione per asindeto. Dal punto di vista della punteggiatura, qualche intervento è stato fatto rispetto al testo originale, soprattutto attraverso l’inserimento dei due punti, a indicare l’inizio dell’elenco, laddove nel testo di partenza veniva impiegata la virgola: Quelques étrangers se mêlent à leur

groupe, un vrai Américain, un Italien, deux Maltais, des Grecs éphémères. (BMV, 51)

Qualche straniero si unisce al loro gruppo: un vero americano, un italiano, due maltesi, dei greci di passaggio.

Des bovos italiens […] filent joliment de toute la puissance de leur voilure baroque, voile latine, tapecul, deux focs amurés sur un long bout-dehors pointu et même parfois un petit hunier au sommet du mât.(BMV, 62)

Bovi italiani […] scivolano graziosamente con tutta la potenza della loro velatura barocca: vela latina, mezzanella, due fiocchi murati su un lungo buttafuori appuntito e talvolta persino un basso parrocchetto in cima all’albero.

Les édiles ont tout tenté, d’énormes tuyaux dévalant à travers la ville depuis le palais de Longchamp, pour amener l’eau du canal de la Durance et purger un bon coup le bassin engorgé, ça n’a fonctionné qu’une courte saison. La drague qui travaille tout le jour et souvent même la nuit, le ramassage des déchets des bateaux, rien n’y a fait. (BMV, 64)

Le autorità cittadine hanno tentato di tutto: gli enormi condotti, che attraversavano la città scendendo dal palazzo Longchamp per trasportare l’acqua del canale della Durance e spurgare una buona volta il bacino ingorgato, hanno funzionato solo per un breve periodo; la draga che lavora tutto il giorno e spesso anche la notte, la raccolta dei rifiuti delle navi, tutto inutile.

L’ultimo esempio mostra anche un altro degli interventi effettuati sulla punteggiatura, vale a dire l’inserimento del punto e virgola negli elenchi complessi, in cui vengono coordinati per asindeto interi periodi:

I ragazzi della sua età non oziano ai tavolini dei caffè. Corrono lungo le tartane, affaccendati dagli ultimi lavori della sera, oppure stanno chinati sulla banchina a impilare le ceste vuote, a saltare furtivi sulle tavole di legno malferme; a tirare le cime per dipanarle meglio e addugliarle, tutto dev’essere pronto per l’indomani prima del sorgere del sole; a far risse con i loro rivali per un nonnulla, per delle stupidaggini, delle rivalità idiote; a caracollare intorno alle file di barili poste direttamente sugli ampi lastricati della banchina; ad apostrofarsi con quel loro accento così buffo e quell’arte di saper inventare ogni sera una canzonatura diversa; a guardare le belle pescivendole che passano, piegate sotto le ceste di vimini, fischiando loro, lanciando occhiate e sorrisi, inventandosi avventure scottanti di una sera.49

o sintagmi nominali articolati:

ponti su cui si poteva giocare a badminton o a piastrelle, riposare su comode sdraio o giocare al tiro al piattello; infilate di corridoi decorati, grandi saloni baroccheggianti con vasi di cicadi e cactus, pianoforti a coda, piste da ballo, divani di cuoio rosso per ricchi viaggiatori oziosi; bar lunghi venti metri, con sopra una muraglia di bottiglie variopinte; sale da pranzo imperiali, che potevano accogliere trecento ospiti; scalinate da gran teatro, con doppia rampa e cariatidi; cabine confortevoli, rivestite di mogano e con oblò di rame. (SMV, 117)

49 A. Jaubert, Sulle sponde del mare viola, p. 39. D’ora in avanti i riferimenti alla traduzione che qui

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Alcune sequenze descrittive, costruite facendo sfilare davanti agli occhi del personaggio una carrellata di elementi dello stesso tipo, possono raggiungere anche una lunghezza considerevole; capita allora che queste vengano interrotte andando a capo. A questa separazione dei capoversi non corrisponde però un cambiamento del contenuto e l’elenco viene di fatto continuato, identico a prima. Un esempio di questo fenomeno si ritrova in Au bord de la mer violette, alle pagine 61-62-63, in cui, durante la descrizione delle barche che è possibile ammirare nel porto di Marsiglia si va a capo tre volte senza però mai cambiare di argomento. Non potendo stabilire se si tratti di un procedimento intenzionale o di un refuso che l’autore cambierebbe se gli fosse sottoposto, la suddivisione in capoversi è stata mantenuta come nell’originale.

Au bord de la mer violette è un testo in cui l’intreccio è costruito mediante un

sistema di continue analessi e ritorni al presente della storia. L’avvicendarsi dei piani temporali non sembra tuttavia essere sostenuto da un’impalcatura verbale sempre adeguata. Le analessi possono essere anche molto lunghe e raccontare di eventi che a loro volta non si trovano sulla stessa linea temporale. Il tempo verbale più diffuso risulta essere l’indicativo presente, utilizzato anche all’interno delle analessi. Questo irrompe anche quando l’evocazione di un ricordo o di una fantasia inizia con un tempo diverso:

Il aimait se perdre dans les pinèdes, suivre les chemins incertains, faire craquer les aguilles sèches, il jouait à être perdu, imaginant des aventures, la nuit tombant, à la recherche d’un refuge, la faim, la soif… Il continuait. Des crêtes calcaires dressées, pelées, à peine quelques arbustes de maquis. Parfois un vignoble où l’on achève la vendange. Il fait un grand geste pour saluer les ouvriers agricoles. Ils lui répondent, il s’approche, on lui offre quelques grappes. Il

continue en grignotant son raisin. (BMV, 104)

Un altro esempio abbastanza palese è costituito dalla lunga sequenza che racconta del primo imbarco a lunga tratta del giovane protagonista, che si estende per sei pagine (BMV, 77-83). La narrazione, cominciata al trapassato prossimo, passa dopo meno di una pagina al presente, per parlare della quotidianità a bordo. Poi, per raccontare un evento che spezza la routine in mare si ricorre nuovamente al trapassato prossimo, con l’irruzione di alcuni passati remoti.

Dal momento che lo studio degli usi e delle funzioni dei verbi nella costruzione dei diversi piani temporali non ha mostrato nessun sistema di fondo, ho stabilito che la scelta più adatta fosse quella di non modificare il testo e lasciare in traduzione i tempi verbali così come sono nell’originale.

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L’ultima caratteristica testuale rilevata coincide con la forte presenza dell’aggettivo dimostrativo ce, flesso nelle sue varie forme cet/cette/ces, che indica vicinanza nello spazio e nel tempo rispetto a chi lo utilizza. Il francese vi ricorre più di frequente rispetto all’italiano, che differenzia maggiormente ricorrendo, a seconda dei casi, ai dimostrativi “questo” o “quello”. Trattandosi di un romanzo, avevo inizialmente scelto di tradurre i dimostrativi francesi attraverso procedimenti che accentuassero la distanza tra il tempo della narrazione e quello della storia, utilizzando, a seconda dei casi, traducenti come l’articolo determinativo o indeterminativo e naturalmente l’aggettivo dimostrativo “quello”. Eppure, rileggendo la prima stesura della traduzione, la presenza di quegli interventi apportava una nota di estraneità alle scene descritte. Ho capovolto la strategia, provando a mantenere il tratto di vicinanza, traducendo il dimostrativo francese con “questo”. Ho collegato la presenza insistente del dimostrativo ce con un tratto stilistico, precedentemente rilevato, che prevede un ricorso importante a elementi deittici che indicano vicinanza con il personaggio cui fanno riferimento. La deissi può riguardare la sfera spaziale, con l’utilizzo soprattutto dell’avverbio di luogo “qui”, ma anche quella temporale:

No, a quest’ora le navi grosse sono ancorate lontano da qui, vicino alle isole, nell’attesa del mattino seguente e dei piloti dell’alba […] (SMV, 39)

Un volto particolare, quasi asiatico, zigomi alti, occhi lievemente a mandorla, sguardo azzurro, capelli lunghi tagliati sulla nuca. E una specie di gravità che non è di qui. (SMV, 41)

Ieri, i falò di San Giovanni. Tutto il quartiere era in festa. […] Konrad si è arenato con il suo gruppo in un ultimissimo bistrò e hanno bevuto abbastanza. Il risveglio è stato difficile

stamattina. (SMV, 167)

E il suo amico, così bello e sorprendente, lo ritroverà fra sei mesi forse, qui o a Parigi o altrove. (SMV, 171)

Non potendo decidere se l’uso dell’aggettivo dimostrativo dipendesse da un’adesione alla norma linguistica o da una scelta dell’autore di inserire questo elemento nel sistema dei deittici, ho ritenuto che il mantenimento di questo tratto tipico della sintassi francese non fosse in contrasto ma, anzi, si integrasse bene con l’elemento stilistico della deissi. Per questo motivo, ad esempio, nella lunga sequenza che coinvolge i primi due esempi forniti, gli aggettivi dimostrativi sono stati resi con “questo”:

È come se non avesse mai lasciato questo posto. (SMV, 37)

Come ogni sera, vuole approfittare da solo di questo particolare momento. […] Di questo tramonto languido e lento che si sarebbe ancora prolungato a lungo, con questo cielo turchese tutto acceso da strisce malva o rosa. (SMV, 39)

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[…] oziosi di tutte le classi sociali che accettano di mescolarsi e condividere questo misterioso appello del finire del giorno e la consumazione illimitata di bevande alcoliche. (SMV, 41)

La presenza dei deittici nel romanzo è una spia del passaggio dal discorso del narratore al discorso diretto libero nel monologo interiore. Le espressioni deittiche sono infatti orientate verso un centro di riferimento, detto origo50, che è di solito il parlante. Essendo Konrad il personaggio di cui si assume più spesso il punto di vista, è per la maggior parte delle volte lui l’origo dei deittici:

Konrad contempla a lungo questo muro orrendo, scorticato, scheggiato da decine di impatti, in fondo ai quali, qua e là, intravede il piccolo cerchio metallico della pallottola sfuggita. […] E ciò è accaduto appena qualche tempo fa, in questa dolce Provenza cantata dai poeti.

E i marinai? Non hanno forse la fortuna di vivere sull’acqua, lontano da tutte queste inquietudini? Konrad comincia a dubitarne… perché erano proprio pescatori e marinai che erano stati fucilati lì senza esitazioni… Viva Gesù e il Sacro Cuore… anche da lui, nel suo paese glaciale e fortemente cattolico, avrebbero potuto gridare questo genere di professione di fede. (SMV, 67)

Ma possono essere anche altri personaggi, come nel passo seguente, in cui si parla dei ricordi che Thérèse conserva del periodo della Comune:

L’assedio, poi la Comune. Al mercato Saint-Germain si potevano comprare castori, gatti, cani e persino, verso la fine, dei topi! E poi più niente… Dopo, alla fine di quel tragico mese di maggio, per tutto il quartiere sono risuonate le fucilate dei giardini Lussemburgo. Per molti giorni. Il massacro era tale che, nel canale di scolo dalla rue Tournon, davanti casa dei Chodzko, un ruscello insanguinato scorreva fino al viale. Restavano rintanati, imposte chiuse, non osavano più uscire. E quando erano comunque obbligati a farlo, non fosse che per cercare rifornimenti, dovevano scavalcare i cadaveri impilati sul marciapiede e attraversare quel torrente rosso. Thérèse fa un gesto con la mano, mostrando tutto il paesaggio. Come immaginare scene simili quando ci si trova davanti a tali splendori? (SMV, 99)

La presenza in questo brano di elementi quali esclamazioni e frasi interrogative dirette corroborano l’impressione che non sia più la voce del narratore ma quella del personaggio stesso che evoca i propri ricordi. In questo particolare contesto, la traduzione adottata per l’aggettivo dimostrativo ce non rispecchia la caratteristica di vicinanza tra

l’origo e i nomi cui i dimostrativi si riferiscono: il traducente “quel” è stato preferito per

sottolineare la distanza temporale tra i fatti che costituiscono il ricordo e il momento in cui questi vengono narrati.

Per tutti gli elementi testuali analizzati ho avuto l’impressione che una modifica avrebbe permesso di migliorare il testo, tramite l’inserimento di qualche congiunzione per rendere meno serrato il ritmo delle descrizioni, o forse la sistematizzazione dei tempi

50 Cfr. la definizione della voce deittici dell’Enciclopedia Treccani, URL:

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verbali. Eppure, nella maggior parte dei casi, la mia strategia finale è stata quella di mantenere l’aderenza al testo di partenza. A conclusione di questo paragrafo vorrei quindi citare l’opinione di Eco riguardo al miglioramento del testo da tradurre, che riassume l’orientamento della mia strategia:

In linea di principio, direi che il traduttore non deve proporsi di migliorare il testo. Se crede che quella storia, o quella descrizione, avrebbe potuto essere migliore, si eserciti nel rifacimento d’autore, […] che il lettore di destinazione sappia che cosa aveva fatto l’autore.51

III.2 La traduzione degli elementi metaforici

Un primo ambito in cui si rende necessario scegliere fra l’adozione di una strategia addomesticante o di una straniante è rappresentato dalla traduzione dei concetti espressi in forma metaforica. La metafora è una delle figure retoriche fondamentali, cui si ricorre al fine di esprimere un concetto in forma non neutra. Associare due concetti attraverso l’uso della metafora significa creare fra essi una relazione per somiglianza omettendo i nessi logici che giustificano tale accostamento.

È necessario operare una distinzione tra le metafore non culturali, quelle intese in senso stretto, creazione originale di chi produce il messaggio, e quelle culturali, che comprendono anche similitudini fissate dall’uso, espressioni idiomatiche, detti e proverbi. Le seconde sono quelle che in ambito traduttivo causano maggiori problemi. Il concetto di similarità che sta alla base dell’analogia fra i due elementi messi in relazione dallo slittamento metaforico non è scontato, naturale, ma culturospecifico. La visione del mondo cui ogni individuo è abituato, quella che è percepita come “naturale”, è in realtà l’interiorizzazione di una cultura madre che ha spezzettato la natura, organizzandola in concetti. Secondo la teoria della relatività linguistica di Benjamin Lee Whorf52, i rapporti tra lingua e pensiero sono di reciproca influenza: le lingue, in quanto sistemi illimitati, possono potenzialmente esprimere qualsiasi concetto, tuttavia, dal momento che la lingua costituisce il mezzo per descrivere il mondo dal punto di vista di una data cultura, si verifica che due lingue si approccino allo stesso concetto da prospettive differenti. Per questo motivo la metafora culturale e i suoi derivati sono uno dei punti in cui l’incongruenza interlinguistica è maggiormente manifesta. Questi rappresentano il modo specifico di una cultura di cogliere una situazione e, secondo Podeur, non possono essere capiti se non da un membro di quella cultura. La traduzione letterale, produrrebbe un

51 U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, Milano, Bompiani, 2006, p. 118. 52

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enunciato corretto nella forma ma dal contenuto poco idiomatico, se non addirittura oscuro. Si rende necessario di conseguenza ricorrere a un procedimento addomesticante, un cambiamento di prospettiva che porta alla sostituzione della metafora propria della cultura emittente con una specifica della cultura ricevente. Podeur, riprendendo la terminologia già usata da Vinay e Darbelnet in Stylistique comparée du français et de l’anglais53, si riferisce a questa variazione di punti di vista con il termine di “modulazione”.

Sul versante teorico opposto, Berman individua nella modulazione una tendenza deformante, etnocentrica, che definisce “distruzione delle locuzioni”:

Gli equivalenti di una locuzione o di un proverbio non li sostituiscono. Tradurre non significa cercare equivalenze. Inoltre, volerle sostituire significa ignorare che esiste in noi una

coscienza-di-proverbio che percepirà immediatamente, nel nuovo proverbio, il fratello di un

proverbio nostrano.54

Per quanto riguarda gli elementi metaforici presenti nel prototesto di Sulle sponde del

mare viola, la strategia adottata in questa traduzione riflette la tendenza registrata da

Podeur sull’analisi di un corpus di testi tradotti: le metafore consuete e le locuzioni idiomatiche sono state tradotte facendo ricorso alla modulazione mentre per le metafore originali, quelle create dall’autore, è stata preferita una traduzione semantica.

III.2.1 La modulazione metaforica

Tra le metafore che si incontrano nel testo, le più diffuse sono quelle che vengono comunemente definite expressions figées, locuzioni idiomatiche, ossia espressioni figurate convenzionali, più o meno cristallizzate. Questa etichetta racchiude sia le locuzioni il cui significato è non-composizionale, cioè non prevedibile a partire dai significati dei suoi componenti, che quelle locuzioni il cui significato è desumibile dalla somma degli elementi che le compongono ma che risultano essere peculiari di una lingua perché consolidate dall’uso. Tratterò unitamente questi due tipi di locuzioni idiomatiche perché per la loro traduzione si è ricorso in entrambi i casi alla modulazione e non alla traduzione letterale. La scelta di adottare una strategia addomesticante però deriva da due cause diverse: nel primo caso, infatti, la traduzione letterale sarebbe risultata oscura al lettore italiano; nel secondo, la letteralità, pur conservando la metaforicità del prototesto, sarebbe andata perduta la connotazione di familiarità e frequenza e si sarebbe creato un effetto

53 J. Darbelnet, J.-P. Vinay, Stylistique comparée du français et de l’anglais, Paris, Didier, 1977. 54

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straniante, assente nel testo di partenza, che avrebbe dato luogo, a mio avviso, a un’infedeltà maggiore di quella che deriva dalla sostituzione dell’espressione.

Per la traduzione delle metafore consuete, le soluzioni traduttive proposte rientrano tutte nei procedimenti che Podeur classifica come modulazione metafora/altra metafora e modulazione metafora/assenza di metafora.

III.2.1.1 Modulazioni metafora/altra metafora

Quando si decide di tradurre una locuzione idiomatica con un’altra equivalente nella lingua ricevente, accade spesso di avere a disposizione più di una espressione corrispondente dal punto di vista semantico. Nella scelta di una di queste dal ventaglio di possibilità che la lingua offre, alcuni criteri importanti di cui tenere conto, oltre all’equivalenza di senso, sono il registro dell’espressione e la frequenza. Tradizionalmente, le locuzioni idiomatiche ricorrono più di frequente nella lingua parlata. Nei testi scritti, dunque, non di rado esse ricorrono nei discorsi diretti. In questi casi è necessario fare ancora più attenzione ai criteri di registro e frequenza nella scelta del traducente, di modo che la locuzione risulti adeguata all’idioletto del personaggio.

Tra le locuzioni idiomatiche che si presentano nel discorso diretto di uno dei personaggi o in sequenze composte con la modalità del discorso indiretto libero, incontriamo le espressioni C’est de l’histoire ancienne (BMV, 98), tradotta con un equivalente dal contenuto lievemente più metaforico, ossia “è acqua passata”; être dans la

lune (BMV, 84, 97), ripetuta per due volte, sempre in riferimento allo stesso personaggio,

quindi resa in entrambi i casi con l’immagine dell’avere “la testa fra le nuvole”; infine une

chatte n’y retrouverait pas ses petits (BMV, 51), utilizzata per esprimere quanto fossero

aggrovigliate le vicende legate alla questione della successione spagnola dopo la morte di Ferdinando VII, per la quale l’equivalente proposto è “non trovare più il bandolo della matassa” che, pur cambiando completamente l’immagine, restituisce l’idea di una situazione ingarbugliata in cui è difficile raccapezzarsi.

Altre metafore consuete si trovano poi nelle parti narrate. Un caso in cui, pur di mantenere in traduzione l’aspetto idiomatico, si è deciso di tralasciare il criterio di adeguatezza di registro e frequenza è costituito dalla locuzione avverbiale francese di uso comune entre chien et loup (BMV, 109), con la quale si indica un momento del giorno in cui la luce è incerta, generalmente il calare della sera ma anche appena prima del sorgere del sole. È appunto per indicare il finire della notte che l’espressione appare nel testo. L’equivalente italiano “tra il lusco e il brusco” risulta più ricercato a causa della bassa

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frequenza d’uso oltre che molto meno figurato, essendo composto da due aggettivi il cui significato originale è rispettivamente “losco” e, con riferimento al cielo, “rannuvolato”.

Una leggera perdita di metaforicità si registra anche nella traduzione dell’espressione

avoir le coeur qui bat la chamade (BMV, 113), resa con l’immagine del “cuore che

martella in petto”. Il significato del verbo martellare nella sua forma intransitiva non è infatti considerato figurato in italiano quando è in riferimento al sangue. Tuttavia l’espressione ha una forma abbastanza cristallizzata da poter essere definita idiomatica.

La modulazione porta a un totale cambiamento di immagine per quanto riguarda la resa dell’espressione montrer patte blanche (BMV, 48), che veicola il significato di “fornire la prova di appartenere o di essere degno di appartenere a un gruppo”55

, a partire da un’immagine ispirata al mondo degli animali, la cui origine è rintracciabile in una favola di La Fontaine. Il campo semantico della modulazione proposta, “avere le carte in regola”, dal significato equivalente, rileva invece da un contesto tutt’altro che favolistico, più connotato in senso burocratico; la soluzione ha comunque il merito di mantenere il livello di metaforicità.

Un caso interessante è rappresentato dalla modulazione proposta per tradurre la locuzione ne plus savoir à quel saint se vouer (BMV, 110), che, secondo la definizione del

Trésor de la langue française informatisé, indica il non sapere come uscire da una

situazione. L’equivalente letterale di questo modo di dire in italiano, “non sapere più a che santo votarsi” ha significato e frequenza simile. Tuttavia, secondo la mia interpretazione del contesto in cui ricorre, il significato veicolato dall’espressione idiomatica italiana non sarebbe del tutto appropriato. Infatti, la locuzione indica nel testo la perdita di punti di riferimento che possano fornire un aiuto per prendere un partito in maniera decisa, non, come indicherebbe la locuzione italiana, l’averle tentate tutte e il ricorrere a un’estrema, irrazionale soluzione. Alla traduzione letterale è stata allora preferita un’espressione italiana dal significato più adeguato all’interpretazione che ho ipotizzato per la locuzione francese, ossia “non sapere più che pesci prendere”.

In due occasioni si trovano nel testo le traduzioni francesi di modi di dire già latini: il primo, le sort en est jeté (BMV, 78), tratto dalla celebre frase che si fa risalire a Cesare “alea jacta est”, il secondo, di cui si esplicita l’origine romana, le nom est destin (BMV 88), dalla locuzione latina “nomen omen”. Una volta riconosciuta l’origine dell’espressione idiomatica e realizzato che si tratta di elementi appartenenti a un patrimonio comune a tutte le lingue romanze e non solo, è stato fornito il traducente

55Traduzione mia della definizione dell’espressione fornita dal Trésor de la langue française , URL:

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199

italiano dell’espressione latina: nel primo caso, l’unica traduzione possibile, ossia “il dado è tratto”; nel secondo, date le diverse traduzioni esistenti, tra le quali “di nome e di fatto”, “il destino nel nome”, “il nome è presagio”, ho scelto “un nome, un destino”, dalla forma più incisiva, che permetteva tra l’altro di evitare la ripetizione di “presagio”, che appare qualche parola dopo, nella forma del verbo “presagire”.

Concludo questo paragrafo con due metafore consuete che mi sembrano mettere a fuoco due aspetti importanti del concetto di specificità culturale in ambito metaforico. Nel primo caso, a essere messo in luce, è il processo per cui, nel passaggio da una lingua a un’altra, lo stesso contenuto viene veicolato da immagini diverse a seconda delle culture, che guardano al medesimo fenomeno assumendo due prospettive differenti. Nel corso del romanzo tradotto, in un contesto in cui si parla di contrabbando, possiamo leggere:

Ils parlent à voix basse, à l’abri du fracas des dominos, surveillent l’entrée de la gargote, se méfient des mouches et des espions, prennent des mines de conspirateurs. (BMV, 49)

Parlano a voce bassa, protetti dal rumore delle tessere del domino, sorvegliano l’ingresso della bettola, diffidando dei

canarini e delle spie, assumono un’aria da

cospiratori.

Per indicare una spia, l’argot francese utilizza il termine mouche, mosca, selezionando una caratteristica del fenomeno per cui, come riporta la definizione del

Trésor de la langue française, colui che spia “comme les mouches, entoure et suit ceux qui

lui sont signalés pour les espionner”. Sullo stesso registro, dal gergo della malavita, l’italiano usa la metafora dell’uccello che canta, identificando quasi sempre questo uccello con il canarino, metafora in cui il perno dell’analogia è costituito dall’associazione del parlare con il cantare. Una traduzione letterale sarebbe possibile e grammaticalmente corretta ma, come si accennava già nell’introduzione a questo paragrafo, il significato sarebbe opaco per un lettore estraneo alla cultura emittente.

La seconda metafora, invece, è un esempio di come la specificità culturale possa derivare dalla presenza di un termine metalinguistico, di cui si tratterà più approfonditamente in seguito, ossia di un elemento tipico della cultura emittente che per questo non ha spesso un traducente nelle altre lingue. Nello specifico, viene fatto un uso figurato di un termine tipico della cultura gastronomica francese:

[…] plusieurs parlent même un drôle de sabir, ratatouille insolite de maltais, de génois, de corse, de nissard, où surnagent quelques mots de français. (BMV, 79)

Il carattere composito della ratatouille giustifica l’uso figurato del termine per indicare una miscela eterogenea di elementi che esulano dall’ambito culinario. Nell’esempio tratto dal prototesto, inoltre, l’autore elabora la metafora in maniera

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personale, proseguendola con l’immagine delle parole francesi che surnagent sulle altre componenti. È stato possibile formulare una modulazione che rispettasse l’ambito metaforico dell’originale, quello della gastronomia, grazie alla sostituzione del termine connotato culturalmente con un termine universale come “calderone”, che viene utilizzato in italiano con la stessa accezione con cui il francese impiega ratatouille, e permette inoltre di mantenere l’elaborazione successiva della metafora con la stessa immagine che aveva creato l’autore, tramite la traduzione letterale di surnager/galleggiare:

[…] in molti parlano persino uno strano sabir, un calderone in cui si mescolano inusitatamente maltese, genovese, corso, nizzardo, su cui galleggia qualche parola francese.

III.2.1.2 Modulazioni metafora/assenza di metafora

Pur non essendo il livello metaforico uno dei principi fondanti del testo, è stato considerato prioritario mantenere la metaforicità dell’originale nel testo tradotto, rispettando quando possibile il registro e la frequenza delle espressioni figurate utilizzate. Nei casi in cui non si è riusciti a trovare delle locuzioni idiomatiche equivalenti, è stata praticata una traduzione che non riproducesse un’immagine ma solo il senso non figurato. È questo per esempio il caso della locuzione avverbiale con cui la voce narrante definisce i capelli delle ragazze di vita, à la chien e à la mouton (BMV, 92). Queste espressioni figurate designano una capigliatura non acconciata, che presenta solo una frangia liscia nel primo caso o dei riccioli nel secondo. In questa occasione l’aspetto metaforico mi è sembrato meno importante di quello denotativo e, non potendoli mantenere entrambi, il primo è stato sacrificato nella traduzione proposta: “giovani senza acconciature, solo con

la frangia liscia o con un casco di ricci” (corsivo mio).

La modulazione metafora/assenza di metafora è stata applicata infine a delle espressioni idiomatiche che compaiono nel discorso diretto di due personaggi. La prima delle locuzioni in questione, dormir à la belle étoile (BMV, 42), che Arthur utilizza durante il racconto del suo viaggio per arrivare in Italia, poteva essere resa tramite la locuzione avverbiale italiana “a cielo aperto” ma la perdita di figuratività si sarebbe verificata comunque; ho preferito allora snellire la traduzione e renderla più naturale, soprattutto in considerazione del fatto che la locuzione occorre in un discorso diretto, mantenendone solo il significato, ossia “all’aperto”. La seconda, ce n’est pas sorcier (BMV, 47), viene utilizzata, sempre dal personaggio di Arthur, in risposta alla sorpresa manifestata dall’interlocutore riguardo un’impresa piuttosto difficile da compiere. La traduzione del puro senso “non è poi così difficile”, causa in questa circostanza non solo la

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perdita di una metafora consueta ma anche una normalizzazione del registro familiare che connota l’espressione francese. Questa perdita risulta ancora più pesante dal momento che essa è inserita all’interno di un passo in cui compaiono altri elementi connotati dal registro familiare, a loro volta normalizzati, per i quali si è provveduto tuttavia a fornire una compensazione, che verranno analizzati nel penultimo paragrafo.

Un’ulteriore soppressione del contenuto metaforico si registra nella traduzione del passo che chiude il discorso di Baptistin a proposito della causa carlista e delle opportunità che essa offre ai giovani intraprendenti:

Et certains agents de Don Carlos à Marseille

ont pratiquement pignon sur rue. Ils engagent

des hommes avec des primes intéressantes pour aller faire le coup de feu chez les partisans du Prince dans les montagnes… (BMV, 53, corsivo mio)

E alcuni agenti di Don Carlos a Marsiglia agiscono praticamente allo

scoperto. Ingaggiano degli uomini con

incentivi interessanti per andare sulle montagne a combattere con i partigiani del Principe…

Le due locuzioni presenti nel testo di partenza sono entrambe state tradotte mediante l’esplicitazione del loro significato. Tuttavia, se nel caso di faire le coup de feu il senso era evidente, per tradurre avoir pignon sur rue si è reso necessario scegliere un’interpretazione fra le possibili, in base al contesto. Secondo la definizione del Trésor de la langue

française informatisé, in senso figurato, l’espressione può indicare il possesso o la gestione

di un’attività commerciale ben avviata oppure, più in generale, l’essere noto e riconosciuto a livello pubblico in un qualsiasi campo d’attività56

. Dal momento che, come si evince dalla spiegazione precedente di Baptistin, gli agenti carlisti erano tollerati dal governo francese ma non in veste ufficiale, la sfumatura di significato più adatta al contesto mi è sembrata quella proposta dal Bob, Dictionnaire d'argot, de français familier et de français

populaire: “Avoir une activité très officielle, non dissimulée”57. È basandomi sull’aspetto

del “non dissimulato” che ho deciso di tradurre “allo scoperto”. L’idioletto del personaggio di Baptistin è spesso caratterizzato dalla presenza di metafore personali e espressioni idiomatiche, la soppressione del contenuto figurato causa dunque, in questa circostanza, una perdita più grave perché lo impoverisce.

56Cfr. la voce pignon2, URL:

http://atilf.atilf.fr/dendien/scripts/tlfiv5/visusel.exe?12;s=1972004250;r=1;nat=;sol=1 (Consultato il 27 luglio 2015).

57 Cfr. la definizione di Avoir pignon sur rue, URL: http://www.languefrancaise.net/Bob/38760 (Consultato il

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III.2.2 Le metafore universali

La scelta di adottare una strategia addomesticante per la traduzione delle metafore consuete deriva dalla necessità di riprodurre nel testo di arrivo, oltre che un significato, una riconoscibilità culturale dell’immagine utilizzata. Nel momento in cui un autore crea nel proprio testo un’associazione metaforica originale, l’effetto di familiarità viene meno tanto per il lettore della lingua emittente quanto per quello della lingua ricevente:

Si può dire che quanto più la metafora si discosta dalla norma linguistica, tanto più è necessaria la traduzione semantica, perché il lettore della lingua d’arrivo resterà stupito, sconcertato, con la stessa probabilità con cui lo è stato quello dell’originale.58

L’approccio sostenuto da Newmark è confermato dalla prassi traduttiva, come dimostra ancora Podeur attraverso l’analisi di un numero consistente di testi tradotti: di fronte a una metafora creata ex novo, i traduttori ricorrono a una traduzione diretta che, nonostante gli aggiustamenti morfosintattici, lascia inalterati i termini-chiave della metafora e il modo in cui viene sviluppata.

Questa è la linea adottata anche in questa traduzione nei riguardi di metafore e similitudini frutto di un accostamento originale di termini e concetti da parte dell’autore. Così, il personaggio di Marie-Thérèse sarà paragonato a “un frutto ricoperto di bucce di seta” (SMV, 151) tanto nell’originale quanto nel testo tradotto e allo stesso modo le venature dei tronchi tagliati, dal legno scuro o rosso, saranno sempre associate a “segni cabalistici dipinti col catrame o col minio” (SMV, 171). Alcune di queste associazioni non presentano forme cristallizzate ma fanno parte di un immaginario abbastanza comune, come nel caso della similitudine creata per descrivere le albe in mare, in cui si accosta il sole a un uovo luminoso che schizza fuori dal mare/magma di tenebre; altri accostamenti sono invece più arditi, come quello che si instaura implicitamente tra le forme delle attrezzature nautiche, e delle barche stesse, e le specie animali, in ragione della notevole varietà di entrambi i termini di paragone: “La fastosa diversità degli scafi e delle attrezzature ha da subito affascinato Konrad. Si direbbe una nuova storia naturale in attesa soltanto del suo Darwin” (SMV, 107); altri ancora sono retoricamente più elaborati, come nel caso del “lezzo denso come una zuppa di piselli” (SMV, 107) che emana dalle acque del porto, in cu la similitudine si innesta su una sinestesia.

58

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203

In conclusione a questo paragrafo, presento l’analisi di tre circostanze in cui, per ragioni differenti, la traduzione diretta di metafore originali, da sola, ha creato un residuo traduttivo.

In ordine di apparizione, la prima difficoltà riscontrata nella traduzione di una metafora creata dall’autore è causata dal coinvolgimento di alcuni elementi culturospecifici:

[…] ils sont assez éclectiques dans leurs goûts politiques. Ils chantent aussi bien La Canaille ou Le Temps des cerises que La Marseillaise des Blancs ou l’hymne de Don Carlos ! (BMV, 48)

I nomi trascritti sono i titoli di tre canzoni storiche francesi. In particolare, La

Canaille e Le Temps des cerises sono due canti rivoluzionari, il primo del 1865, l’altro del

1866-’68, entrambi fortemente associati alla Comune di Parigi; al contrario, La

Marseillaise des Blancs è un testo antirivoluzionario, del 1973, creato in risposta all’inno

patriottico della Rivoluzione francese. Per creare questa metafora, l’autore fa un uso metonimico dei nomi propri, che impiega per evocare in realtà il complesso di ideali e il conseguente orientamento politico che i canti rappresentano. Dato lo stretto legame di questi elementi con eventi fondamentali nella storia di Francia, di poco antecedenti al momento in cui si ambienta l’azione della prima parte del romanzo, piuttosto che generalizzare traducendo “Cantano tanto inni comunardi quanto antirivoluzionari”, i titoli sono stati trascritti e il supplemento di informazione necessario al lettore per comprendere la metafora è stato fornito in una sintetica nota a piè di pagina.

Nel secondo caso, la difficoltà riscontrata riguarda la polisemia di un verbo, per tradurre il quale si è resa necessaria una negoziazione. Spiegando la complessa situazione legata alla successione spagnola, cui si faceva riferimento già nel paragrafo precedente, Baptistin paragona la regina Isabella di Borbone a un’ape regina, per la sua capacità di mettere al mondo una prole numerosa:

Entre-temps la petite Isabelle […] s’est enfuie en France où, telle la reine de la ruche, elle a continué à pondre. (BMV, 52)

Nel frattempo la piccola Isabella, […] È fuggita in Francia, dove, come l’ape regina, ha continuato a sgravare.

Pur mantenendo l’immagine originale, la traduzione si discosta dalla lettera in due punti. Il primo è quello in cui si traduce reine de la ruche come “ape regina” e non come “regina dell’alveare”, mantenendo il referente ma presentandolo in una forma più idiomatica in italiano. Il secondo punto riguarda invece il verbo francese pondre. La polisemia di questo verbo prevede che, quando il soggetto è una femmina ovipara, come in

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questa circostanza, il significato proprio sia quello di “deporre” le uova; per analogia, però, il verbo assume anche il significato figurato di “partorire” quando il soggetto è rappresentato da una donna. In questo senso, il verbo ha valore spregiativo e registro popolare. Essendo i due termini del paragone, per l’appunto, una donna e una femmina ovipara, il verbo pondre è pertinente in riferimento a entrambi. Al contrario, il verbo “deporre”, l’unico indicato a veicolare il senso proprio di pondre, non avrebbe mantenuto la connotazione dispregiativa/popolare, mentre “partorire” sarebbe stato incompatibile con l’immagine evocata dalla metafora. La soluzione proposta, “sgravare”, è stata considerata un buon compromesso in quanto, nonostante la perdita del riferimento alla femmina ovipara, si rivela pertinente in riferimento a tutti gli animali, siano essi ovipari o mammiferi, genere umano compreso, e permette, al contempo, di mantenere la connotazione popolare59.

Infine, la terza circostanza in cui una traduzione diretta ha causato un residuo è rappresentata dall’uso creativo che l’autore fa di un’espressione idiomatica consueta:

Le port est devenu une lagune putride, un bouillon gras et gris où même Pasteur ne

retrouverait pas ses microbes. (BMV, 64, corsivo mio)

Per costruire questa metafora, l’autore rielabora la locuzione cristallizzata une chatte

n’y retrouverait pas ses petits, sostituendone le parole-chiave. L’espressione consueta, per

altro già utilizzata una volta nel testo e tradotta attraverso una modulazione metafora/altra metafora, ha i significati di “grande disordine” e di “situazione molto complessa”. La variante proposta dall’autore coinvolge il nome di un celebre scienziato, Luis Pasteur, che proprio nel periodo in cui Jaubert ambienta la prima parte della sua storia godeva di fama internazionale dovuta alle sue scoperte nel campo della microbiologia. Tra le tante, si deve a Pasteur la scoperta del ruolo giocato da agenti viventi nella fermentazione che, in precedenza, si pensava essere effetto della decomposizione di una materia organica. In riferimento alle acque mefitiche del porto, l’evocazione di Pasteur e dei microrganismi può essere giustificata sulla base dei meccanismi che regolano il processo di eutrofizzazione. L’eutrofizzazione consiste nell'eccessivo accrescimento delle alghe microscopiche che si ha per effetto di dosi troppo elevate di sostanze nutritive, in bacini idrici a debole ricambio, dovuto all’inquinamento prodotto da attività umane o rifiuti industriali. Quando le alghe muoiono, vi è una conseguente forte diminuzione di ossigeno a causa della loro

59

A questo proposito, non tutti i maggiori dizionari di lingua italiana si trovano concordi. Secondo il dizionario Treccani, infatti, l’uso del verbo sgravare in forma riflessiva è considerato comune in riferimento al parto e addirittura raro e letterario nella forma intransitiva. La connotazione popolare è invece registrata da

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decomposizione e dei processi di putrefazione e fermentazione associati. Ai microrganismi aerobici subentrano quelli anaerobici che sviluppano sostanze tossiche e maleodoranti60. Quale che sia la ragione testuale e metatestuale dalla quale la metafora scaturisce, appare evidente che la traduzione diretta, soluzione pur necessaria, e per questo adottata, al fine di mantenere la metafora originale, presenta l’invalicabile limite di non rendere completamente merito alla creatività dell’autore a causa del mancato riconoscimento da parte del lettore della struttura soggiacente, che limita la possibilità di interpretarne appieno il significato.

III.3 La traduzione degli elementi metalinguistici

Rimanendo valido quanto detto per la specificità culturale della metafora, si tratta in quel campo di anisomorfismo linguistico in rapporto alle categorie di pensiero. La lingua, in quanto mezzo di espressione di una cultura, ha il compito di veicolare non solo la visione del mondo di una data cultura ma anche tutta una serie di elementi sociali, antropologici e materiali che non sono reperibili in altre culture, e che non hanno quindi un traducente nelle altre lingue, definiti da Podeur fattori metalinguistici. Rifacendosi a Mounin e Nida, Podeur61, individua quattro ambiti del metalinguismo che, nel passaggio dal francese all’italiano (o viceversa), rivelano differenze culturali fra i due popoli tali da rendere impossibile stabilire delle equivalenze. Questi ambiti riguardano le sfere della vita materiale quotidiana, della vita sociale, della cultura religiosa e della cultura linguistica. È soprattutto in questi campi che si pone di fronte al traduttore il tradizionale bivio, cui si faceva già cenno nell’introduzione a questo commento, che oppone equivalenze formali e equivalenze dinamiche, strategie etnocentriche e non etnocentriche. Nel passaggio da una lingua all’altra, quando un elemento metalinguistico non presenta alcuna affinità con la cultura del lettore del testo d’arrivo, la decisione di adottare una strategia etnocentrica, consiste nel mirare a sostituire elementi familiari al lettore della lingua emittente con altri familiari al lettore della lingua ricevente, sopprimendo così le differenze a scapito della cultura di partenza. Al contrario, decidere di rinunciare all’etnocentrismo, mantenendo a livello testuale le caratteristiche della cultura emittente, porta alla produzione di una traduzione dall’effetto straniante ma, allo stesso tempo, permette di spostare l’operazione

60

Cfr. la voce eutrofizzazione, URL:http://www.treccani.it/enciclopedia/eutrofizzazione/ (consultato il 5 marzo 2015).

61

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di mediazione culturale dal traduttore al lettore del testo di arrivo, dando a quest’ultimo la possibilità di arricchire la propria conoscenza dell’altro. A queste due strategie traduttive corrispondono dei processi in grado di orientare il testo verso l’addomesticamento o lo straniamento.

Uno dei principali procedimenti addomesticanti è rintracciabile nell’adattamento, che, secondo la terminologia di Vinay e Darbelnet62, produce una traduzione obliqua, vale a dire non letterale. L’adattamento è tipicamente adoperato in tutti quei contesti in cui l’interesse a produrre un determinato effetto sul lettore è prominente rispetto alla volontà di veicolare un messaggio, ad esempio nelle pubblicità, nei fumetti, in alcuni casi di giochi di parole o di parlate vernacolari.

Sul versante della traduzione non etnocentrica, invece, una delle tecniche cui il traduttore può ricorrere è rappresentato dal prestito. Per indicare questo procedimento in traduzione, Podeur adotta il termine trascrizione63. Effettivamente, la trascrizione è un prestito, dal momento che il traduttore che vi fa ricorso prende in prestito un termine o un’espressione dal prototesto stesso, rinunciando così di fatto a tradurlo. Parlare di trascrizione più che di prestito, che è termine linguistico non specifico dell’ambito traduttivo, permette di includere nella definizione non solo i casi di forestierismo, ossia prestiti entrati stabilmente nell’uso senza avere adattato la propria struttura fonetica e/o morfologica alla lingua d’arrivo, ma anche il problema dell’onomastica e, come si diceva, quelli di prestito ad hoc per intraducibilità.

Nonostante la cultura francese e quella italiana siano strettamente apparentate, esse presentano alcune divergenze rispetto alle quali il traduttore deve prendere posizione. Basandomi sulla casistica analizzata e classificata da Podeur, presenterò nei prossimi paragrafi i casi presenti nel prototesto di Sulle sponde del mare viola per cui si è reso necessario adottare in traduzione strategie addomesticanti o stranianti, con il ricorso talora a procedimenti di adattamento o di trascrizione, illustrando di volta in volta i fattori che hanno influenzato e, in alcune circostanze, condizionato, la scelta della tecnica da adottare.

III.3.1 Cultura linguistica

Nella classificazione di Podeur, i casi in cui è più frequente riscontrare problemi traduttivi relativi alla sfera della cultura linguistica possono essere ricondotti a due ambiti:

62 Cfr. J. Darbelnet.- J.-P. Vinay, op. cit., pp. 11-12. 63 Cfr. J. Podeur, op. cit., cap. 4.

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207

quello dei giochi di parole e quello delle parlate vernacolari. Per quanto riguarda il nostro testo, come sosterrò nel paragrafo 3.3.1.2, la presenza del provenzale e il modo in cui questo si inserisce nella narrazione rendono più pertinente parlare di sovrapposizione di lingue che di reticoli vernacolari.

III.3.1.1 I giochi di parole

Nell’ambito dei giochi di parole è innanzitutto necessario fare una distinzione tra quelli che operano sul piano del significante, in cui le associazioni fra parole sono basate principalmente sull’allitterazione e l’assonanza, e quelli che si situano a livello semantico, sfruttando soprattutto l’opposizione senso proprio/senso figurato o l’ambiguità che deriva dall’omonimia fonetica, spesso con fini umoristici. Sono questi ultimi a essere soggetti ad adattamento culturale, dal momento che la loro dominante è l’effetto prodotto sul lettore. Per i primi, invece, quando non si è obbligati a ricorrere alla trascrizione, si parla di sostituzione. I giochi di parole presenti nel prototesto appartengono entrambi al primo gruppo.

Per quanto riguarda il primo gioco di parole in cui ci si imbatte, quello tra i termini

Prêcheur e pêcheur, la scelta della tecnica da adottare è stata influenzata dalle riflessioni

sulla lingua che l’autore fa seguire al gioco di parola. Riporto di seguito un estratto dal dialogo fra Konrad e Arthur, in cui vengono associate le due parole, e la soluzione proposta:

K.: “[…] Quant à Jean, tu es ici en ton pays, tout le monde se nomme Jean quelque chose. Jean-Marie, Jean-Jacques, et pourquoi pas Jean-Arthur ! Jean c’est le patron des pêcheurs. Et c’était aussi le Prêcheur. Il y a peut-être là une sorte de jeu de mots… ”

A. : “Pas mal, l’idée. Prêcheur, pêcheur… On enlève une lettre et que reste-t-il ? De pauvres racleurs d’écareste-t-illes !”.(BMV, 35)

K. : “[…] Quanto a Jean, qui sei nel tuo paese, tutti si chiamano Jean qualcosa. Jean-Marie, Jean-Jacques, perché non Jean-Arthur! Giovanni è il patrono dei pescatori. Ed era anche il Predicatore. Forse c’è una specie di gioco di parole…”

A.: “Non male come idea. Predicatore, pescatore… Cambi poche lettere e che resta? Dei poveri raschiatori di squame!”.

Dopo aver associato il primo nome di battesimo di Arthur, Jean, a san Giovanni, Konrad passa a notare la somiglianza tra due parole collegate al santo, Prêcheur, Predicatore, apposizione tipica di san Giovanni, e pêcheurs, pescatori, di cui san Giovanni è il protettore. Questa osservazione viene ripresa e articolata da Arthur nella battuta successiva del dialogo, che evidenzia come la presenza o l’assenza di una sola lettera causi

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un radicale cambiamento di significato. L’assonanza tra i traducenti italiani delle due parole ha reso naturale optare per la traduzione letterale piuttosto che per una sostituzione. Questa scelta permette di mantenere invariate le condizioni da cui il gioco di parole scaturisce, con la sola modifica della riflessione che ne consegue: tra i traducenti, lo scarto di materiale fonico è più importante infatti che tra i termini originali. Il risultato è meno incisivo, l’osservazione di Arthur meno acuta. Tuttavia, quello che conta in questo scambio è principalmente la funzione che esso riveste nella dinamica relazionale fra i personaggi più che l’effetto creato nel lettore dal gioco di parole in sé: quest’ultimo è infatti un pretesto per sottolineare da subito come i giovani condividano una sensibilità particolare per le parole e gli usi che si possono fare della lingua.

Il piano del significante è nuovamente al centro della catena associativa che Konrad crea giocando con il nome dell’innamorata, accostandovi parole assonanti o allitteranti:

Thérèse, Teresa, Teresita, Thérèse, terre rêve, très rêve, trésor, trêve, très… (BMV, 89)

Thérèse, Teresita, Thérèse, Teresa, terra resa, trascesa, tesoro, tregua, tersa…

In questo caso la sostituzione era la scelta più pertinente. La catena parte con l’evocazione del nome dell’amata sotto diverse forme, l’ultima delle quali dà il via all’associazione di altri termini. Nell’originale l’ultimo dei nomi propri è Thérèse, che condivide con tre dei i termini che seguono la caratteristica della sillaba finale in -e muta. In italiano, le sillabe finali di parole polisillabiche sono aperte (tranne in caso di troncamento o elisione), finiscono cioè con una vocale, che, a differenza del francese, si pronuncia. Per mantenere l’assonanza tra il nome proprio che apre la catena e le parole che seguono, ho fatto sì che quel nome fosse la forma italiana “Teresa”, che pure appare nell’originale, ma in seconda posizione invece che in quarta.

A partire da questo punto, la catena è proseguita accostando dei termini selezionati in base a tre criteri: l’assonanza e l’allitterazione tra il nome proprio e le parole a esso associate ma anche fra le singole parole e il rispettivo traducente; l’aspetto semantico, con termini necessariamente connotati in maniera positiva e dal significato quanto più possibile aderente al testo di partenza; l’andamento calante del ritmo, costruito contraendo progressivamente il numero delle sillabe e delle lettere. Per quanto riguarda il ritmo, da sottolineare che questo viene leggermente interrotto in traduzione a metà della catena con la traduzione letterale di trésor : tesoro, l’unica parola non accentata sulla prima sillaba e che non contiene i fonemi /t/ e /r/ all’interno della stessa sillaba.

(23)

209 III.3.1.2 La sovrapposizione di lingue

Da sempre la prosa ha stretti rapporti con le lingue vernacolari, che appaiono nei testi di narrativa a vario titolo: danno colore locale, caratterizzano l’idioletto di alcuni personaggi, la loro essenza corporea e iconica può prestarsi più della lingua standard quando l’obiettivo è la concretezza, la ripresa dell’oralità vernacolare può addirittura essere il principio estetico-stilistico dell’intera opera. Le realtà linguistiche italiana e francese presentano da questo punto di vista una differenza tale da rendere la traduzione dei reticoli vernacolari uno degli ostacoli maggiori da affrontare per un traduttore. Questa difficoltà è solitamente riconosciuta più al traduttore francese che traduce dall’italiano, che si trova di fronte a un mosaico linguistico infinitamente complesso e variegato, le cui tessere sono saldamente ancorate al territorio. Le difficoltà che sorgono sul versante opposto, sono invece maggiormente legate alla resa di un’oralità substandard, l’argot, che, rispetto alla lingua nazionale, risulta essere più una variazione diastratica, raramente diatopica.

Questo principio generale non è valido per il nostro testo. In esso, infatti, il linguaggio substandard si limita a qualche termine sparso, dal registro familiare. Si ricorre più volte, invece, al provenzale, ossia a una realtà linguistica legata alla localizzazione geografica, caratteristica che condivide con i dialetti italiani. Tuttavia, come emergerà dall’analisi dei contesti in cui l’autore fa uso del provenzale, questo è trattato più come una lingua altra che come una varietà locale della lingua standard. Tant’è vero che in diversi punti del testo ci si riferisce al provenzale come a una langue64, non un dialecte, non un

parler, non un patois. Questo atteggiamento non è difficile da spiegarsi per una ragione

prettamente filologica: il provenzale è sì un dialetto, ma dell’occitano, non del francese. L’effetto di esotico straniamento creato dell’autore, poi, è ancora più comprensibile se pensiamo che, benché Konrad, il personaggio di cui spesso si assume il punto di vista, parli benissimo francese, egli non è di madrelingua francese ma polacca. Sul suo taccuino, infatti, il giovane annota, oltre ai termini che appartengono al linguaggio specializzato della marina, parole non francesi ma provenzali:

Konrad note au cours de ses promenades quelques mots de Provence qu’il trouve élégants ou amusants. Chatouneto, c’est une fillette, panturlo, une femme perdue, catoun, le chaton,

boufo-troucho, un goinfre, grafioun, la cerise, damisello, mademoiselle, poulassiero, la marchande de

64 Un esempio su tutti, il brano che fa riferimento a Frédéric Mistral e alla sua associazione, le Félibrige :

Un po’ come oggi i difensori del provenzale, sulla scorta di Mistral e i suoi filibri , conducono una crociata in Provenza affinché la loro lingua non scompaia. Ha visto dei manifestini, delle scritte sui muri col gesso o il carbone, delle proclamazioni infiammate, guerresche a volte. Dei militanti marsigliesi si rifiutano di parlare francese. (BMV, 46)

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