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CAPITOLO 2 – MATERIALI E METODI

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 2 – MATERIALI E METODI

2.1 Materiali

Polietilenglicol 35000:

PEG è un polimero polietereo costituito da un blocco centrale etilenico lipofilo e da due gruppi ossidrilici terminali idrofili, che rappresentano i due gruppi reattivi della catena e quindi i punti di attacco durante le reazioni di copolimerizzazione. Esso è anche conosciuto come polietilenossido (PEO) o poliossietilene (POE), a seconda del suo peso molecolare; infatti si parla di PEG quando ci riferiamo ad un oligomero o ad un polimero il cui PM è inferiore a 20.000 g/mol, mentre si parla di PEO quando il suo PM è superiore a 20.000 g/mol. Infatti nel primo caso i due ossidrili terminali assumono una notevole importanza all’interno della catena polimerica e quindi potremo parlare di “glicol”, mentre nel secondo caso prevale la porzione ossietilenica, quindi parleremo di “etilenossido”.

Dal peso molecolare dipende anche lo stato fisico del polimero:

• Se il PM è compreso tra 200 e 400 sarà un liquido; • Se il PM è maggiore di 1000 sarà un solido cristallino;

PEG è solubile in acqua, metanolo, benzene, diclorometano, dietiletere ed esano e risulta potenzialmente tossico se non purificato, in quanto può contenere residui di etilenossido e 1,4-diossano. Deriva dalla reazione dell’ossido di etilene con l’acqua, il glicol etilenico o oligomeri di quest’ultimo; a seconda del catalizzatore utilizzato, acido o basico, possiamo avere un meccanismo di reazione cationico o anionico: il meccanismo anionico è preferibile in quanto permette di ottenere un polimero

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monodisperso; lo stesso risultato si può ottenere utilizzando il glicol etilenico e i suoi oligomeri come materiali di partenza, invece che l’acqua.

A causa della sua scarsa tossicità PEG è utilizzato in una grande varietà di prodotti: lassativi (Movicol, SoftLax, GlycoLax), gocce oculari (agisce da lubrificante), preparazioni intestinali da somministrare prima della chirurgia e della colonscopia (in associazione con elettroliti); se unito a farmaci proteici, rallenta l’allontanamento delle proteine dal sangue: questo determina una maggiore efficacia del medicamento, ne riduce la tossicità e permette di prolungare gli intervalli tra le varie somministrazioni (ne è un esempio il complesso PEG-α interferone, utilizzato nel trattamento dell’epatite C). Può essere utilizzato nella terapia genica per proteggere i vettori virali a cui è legato dall’inattivazione da parte del sistema immunitario e per allontanarli dagli organi che non rappresentano un bersaglio e che potrebbero risentire dei loro effetti tossici; è un ottimo eccipiente legante e lubrificante per l’industria farmaceutica (PEG a basso PM vengono utilizzati come solventi nei prodotti liquidi orali e nella preparazione di capsule molli, mentre le varianti solide sono utilizzate come basi per unguenti e come film di rivestimento) e per l’industria cosmetica (produzione di dentifrici, creme per le mani ecc…).

Inoltre PEG viene utilizzato come agente precipitante per la cristallizzazione delle proteine nella diffrazione a raggi X, come fase stazionaria polare nella gas cromatografia e, a causa della sua flessibilità e solubilità in acqua, può essere utilizzato per creare elevate pressioni osmotiche (PEG è uno dei polimeri più utilizzati per applicare pressioni osmotiche in biochimica, in particolare nella tecnica dello stress osmotico).

Il polimero utilizzato nel presente lavoro di tesi è stato lavato due volte in etere dietilico per 15 minuti sotto agitazione meccanica, quindi è stato essiccato in stufa sotto vuoto per due ore. Il materiale si presenta sottoforma di scaglie biancastre di consistenza cerosa.

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ε

-caprolattone:

Il monomero, puro al 99%, è un liquido trasparente piuttosto viscoso (d: 1.03 g/ml, PM: 114,14 g/mol). Esso è stato utilizzato nel presente lavoro di tesi per sintetizzare il blocco poliestereo del policaprolattone.

Poly(ε-CL) è un polimero semicristallino appartenente alla categoria dei poliesteri alifatici con una struttura regolare e un grado di cristallinità del 50%.

La lunga catena alifatica impartisce al materiale polimerico alcune proprietà non comuni ad altri poliesteri alifatici, quali una temperatura di transizione vetrosa estremamente bassa, una temperatura di fusione moderata, un’elevata solubilità nei solventi organici e una notevole stabilità termica. A temperatura ambiente si trova alla stato gommoso ed esibisce un’elevata permeabilità a piccole specie molecolari, permettendone quindi l’impiego in sistemi a rilascio controllato di farmaci.

Gelatina

La gelatina è un colloide liofilo ottenuto mediante la denaturazione termica, la degradazione fisica e chimica del collagene, costituente circa il 40% del tessuto connettivo umano. Generalmente la fonte di estrazione del collagene è il tessuto connettivo e osseo animale, ma può essere anche sintetizzato da organismi vegetali. La gelatina è formata da una miscela eterogenea di polipeptidi singoli e avvolti, contenenti ciascuno dai 300 ai 4000 aminoacidi.

Ad una temperatura di 40-50 °C la gelatina forma un liquido viscoso in soluzione acquosa, mentre in seguito a raffreddamento si trasforma in una struttura semisolida; il processo ha la caratteristica di essere termoreversibile. Il processo di degradazione rompe la triplica elica del collagene e offre spirali random; durante il passaggio allo

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stato colloidale le catene subiscono una transizione dal disordine all’ordine e rigenerano parzialmente la struttura a triplica elica del collagene.

La struttura della rete polimerica e le proprietà fisiche del gel di gelatina sono principalmente condizionate dalla sorgente e dalle condizioni di estrazione della gelatina, ad esempio la gelatina estratta a temperature più basse è più rigida. Le proprietà meccaniche dei film di gelatina sono connesse al livello di rinaturazione della proteina, ovvero al contenuto in tripla elica: i film contenenti una maggiore quantità di tripla elica rigonfiano di meno in acqua e sono conseguentemente più forti.

Attualmente è possibile ottenere due tipi differenti di gelatina, in base al trattamento in fase produttiva: la gelatina di tipo A, estratta dalla pelle di maiale, è ottenuta con un trattamento acido; la gelatina di tipo B, estratta da pelle ed ossa bovine, è sintetizzata con pretrattamento alcalino, il quale trasforma i residui di asparagina in acido aspartico ed i residui di glutammina in acido glutammico. Il secondo processo offre maggiore viscosità alla soluzione gelatinosa.

In campo biomedico la gelatina è stata utilizzata per realizzare capsule, microsfere, sigillanti per protesi vascolari, medicamenti per ferite e tamponi assorbenti per applicazione chirurgica.

Per la sua caratteristica di essere un materiale altamente degradabile, la gelatina è stata inoltre utilizzata come proteina di adesione nella realizzazione di scaffolds per l’ingegneria tissutale. Dal momento che la gelatina è solubile in soluzioni acquose, quella destinata ad applicazioni biomediche deve essere sottoposta a reticolazione per migliorare sia la stabilità termica che quella meccanica. Tra tutti gli agenti chimici reticolanti, la glutaraldeide (GTA) è la più utilizzata, data la sua elevata efficacia nella stabilizzazione di materiali collagenosi, ottenuta mediante il legame tra i residui di lisina. La gelatina è utilizzata soprattutto nell’industria alimentare, farmaceutica e fotografica.

Nel presente lavoro di tesi è stata utilizzata la gelatina di tipo A, estratta da pelle di maiale.

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2.2 Solventi utilizzati

• Etere dietilico • Acetone • Cloroformio • Propanolo • Dimetilsolfossido (DMSO) • Tetraidrofurano (THF)

2.3 Sintesi del copolimero

Figura 2.3.1: Reattore utilizzato per la sintesi di PCL-POE-PCL

2.3.1

Descrizione del reattore

Il reattore si può considerare suddiviso in tre parti fondamentali:

1. Pompa turbomolecolare: fa parte di una particolare tipologia di pompe a vuoto, le quali possono essere suddivise in:

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• Pompe a spostamento di parete: sono definite anche “pompe meccaniche” in quanto utilizzano un meccanismo meccanico al fine di espellere ciclicamente e progressivamente il volume dei gas dal sistema chiuso nel quale si vuole fare il vuoto.

• Pompe a trasferimento di quantità di moto: dette anche “pompe molecolari”, utilizzano jet di fluidi densi o lame rotanti ad elevata velocità in maniera tale da imprimere un grande impulso alle molecole di gas. Esempio di tali dispositivi sono le pompe a diffusione e le pompe turbomolecolari.

• Pompe ad intrappolamento: agiscono catturando i gas residui in un solido o su una superficie adsorbente.

Le pompe turbomolecolari vengono utilizzate in serie con le pompe meccaniche per raggiungere l’alto vuoto (intervallo di pressione: 10-5-10-9 Pa); in questa configurazione la pompa meccanica ha due scopi: in primo luogo asporta le molecole di gas che si accumulano all’uscita della pompa turbomolecolare; in secondo luogo permette di raggiungere nel recipiente da vuotare il basso vuoto, condizione necessaria per innescare la pompa turbomolecolare , che non può funzionare a partire dalla pressione atmosferica.

2. Sistema in vetro per alto vuoto: è costituito da una trappola situata in prossimità del collegamento con la pompa turbomolecolare, e da una serie di valvole regolabili manualmente che consentono l’inclusione o l’esclusione del tratto successivo del sistema dal vuoto generato dalla pompa.

3. Camera di polimerizzazione: è costituita da una provetta di vetro Pyrex, nella parte inferiore, che viene assemblata con la parte superiore del sistema tramite una guarnizione in acciaio rivestita internamente da un anello di silicone in grado di sopportare temperature elevate (o-ring). La struttura è completata da una valvola in acciaio inossidabile (Valvola Swagelock), che impedisce l’ingresso di aria all’interno della camera e costituisce il punto di collegamento con il sistema in vetro.

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2.3.2

Procedura di polimerizzazione

Una quantità prestabilita di PEG 35000 (precisamente 7.27g, pari al 15 % del peso finale del copolimero) è stata introdotta nella camera di reazione, quindi collegata alla linea in vetro. La pompa è stata azionata alcune ore prima, in modo da creare il massimo vuoto possibile nel sistema al momento del collegamento con la camera. Segue l’apertura graduale e intermittente della valvola Swagelock, sino a raggiungere la completa comunicazione tra le varie parti dell’impianto.

Saranno necessarie alcune ore per ottenere il vuoto totale all’interno della provetta (ordine di 10-3 mbar); la fase successiva consiste nella chiusura della valvola Swagelock e nella conseguente introduzione del monomero (41.2g, corrispondenti all’85% del peso finale del copolimero ed a un volume di 40ml).

Si ricollega la camera di reazione al sistema e si procede nuovamente con la progressiva apertura della valvola di comunicazione, sino all’ottenimento di un vuoto adeguato, che verrà raggiunto dopo alcune ore. Per evitare l’evaporazione del monomero durante la fase di allontanamento dell’aria da parte della pompa, la provetta della camera di reazione è stata congelata per immersione graduale in azoto liquido: la miscela di reagenti solidifica formando un blocco ghiacciato nel quale non sono più distinguibili le due fasi separate, solida e liquida, corrispondenti al PEG e al caprolattone rispettivamente. In questo modo il solido ottenuto si scioglierà lentamente e ciò che verrà allontanato sarà solamente l’aria introdotta con l’apertura e chiusura della provetta.

Una volta ottenuto il vuoto desiderato la camera di polimerizzazione viene rimossa dall’impianto, previa chiusura della valvola Swagelock, e posizionata all’interno di una stufa ventilata dove un sistema di rotazione a velocità costante e controllata permetterà l’agitazione della massa reagente. Al fine di ottimizzare la preparazione del copolimero sono state adottate polimerizzazioni nelle seguenti condizioni di temperatura e tempo:

• 115 °C per 24 ore • 130 °C per 24 ore • 150 °C per 48 ore

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• 180 °C per 15 giorni

2.3.3

Purificazione del copolimero

Il materiale ottenuto al termine del processo di sintesi è di colore biancastro e di consistenza cerosa.

Sono state adottate due tecniche di purificazione, cha hanno portato a due risultati diversi in termini di resa percentuale.

Il primo metodo può essere così schematizzato:

• In un becker, sotto agitazione meccanica, 5g di copolimero sono stati sciolti in 50ml di cloroformio (soluzione al 10% W/V); la completa solubilizzazione è avvenuta in un’ora.

• La soluzione così ottenuta è stata filtrata con filtro di carta per rimuovere eventuali impurità.

• Il filtrato è stato introdotto, goccia a goccia, sotto agitazione meccanica, in una miscela di acetone/etere dietilico in rapporto volumetrico ¼, costituita da 6ml di acetone e 24ml di etere, per un totale di 30ml di volume. Si osserva che la miscela dei due solventi diventa opalescente ed inizia a formarsi un precipitato biancastro.

• Quando la miscela ha assunto un aspetto e una colorazione omogenei si procede alla sua centrifugazione per 20 minuti a 14000G; si forma un precipitato giallognolo che , una volta rimosso il surnatante, è stato essiccato in stufa ventilata a 37 °C per 12 ore.

Il processo descritto è risultato essere poco conveniente in quanto ha portato ad una resa percentuale del 31,88%.

Il secondo metodo è stato testato nel modo seguente:

• 0,75g di copolimero sono stati sciolti in 3ml di DMSO (soluzione al 25% W/V), sotto agitazione meccanica alla temperatura di 70°C. La completa solubilizzazione è avvenuta in pochi minuti.

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• La soluzione ottenuta è stata introdotta goccia a goccia in un becker contenente un largo eccesso di acqua (circa 30ml), sotto agitazione meccanica. Si nota la formazione immediata di un precipitato bianco e l’intorbidimento della miscela acqua/DMSO.

• Dopo un’ora di agitazione la soluzione è stata messa in frigorifero per alcune ore, velocizzando così il processo di precipitazione; successivamente la sospensione ottenuta disperdendo nuovamente il precipitato in acqua tramite agitatore meccanico è stata centrifugata con ultracentrifuga per 15 minuti a 14000G. Il surnatante è stato allontanato dal precipitato e centrifugato una seconda volta.

• Il solido recuperato dalle provette è stato nuovamente sospeso in acqua e il procedimento descritto è stato ripetuto una seconda ed infine una terza volta. • Il materiale raccolto è stato quindi essiccato in stufa ventilata a 37°C per 48

ore.

E’stata calcolata anche in questo caso la resa percentuale del processo di purificazione, ed è risultata essere dell’86,7%.

Confrontando questo dato con quello ottenuto tramite il metodo 1 si è giunti alla conclusione che il metodo 2 è più efficace in quanto comporta una notevole riduzione della perdita di materiale.

2.3.4

Meccanismo di reazione

Il copolimero di nostro interesse, PCL-POE-PCL, è un copolimero a tre blocchi di tipo poli(estere-etere-estere), costituito da un blocco centrale di polietilenossido e da due blocchi laterali di policaprolattone, che si ottiene attraverso una Ring Opening Polimerization, ROP, reazione di elezione per la sintesi dei poliesteri alifatici.

2.3.4.1 Sintesi di poliesteri alifatici

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• Policondensazione: questa reazione avviene a partire da un diolo e un diacido oppure da un idrossiacido;

• Ring Opening Polymerization: si tratta di una polimerizzazione per apertura dell’anello di lattoni e diesteri ciclici (lattidi); essa rappresenta il metodo di scelta per la produzione di poliesteri biocompatibili e biodegradabili.

• Nuovo approccio: polimerizzazione enzimatica dei lattoni (ad esempio il Poly ε-CL è stato recentemente preparato con una lipasi di Pseudomonas).

ROP

La “Ring Opening Polimerization” è una reazione ampiamente studiata per la sua versatilità nella produzione controllata di polimeri biomedici.

+ M O R’

R’

MONOMERO INIZIATORE POLIMERO

COMPOSTO BIFUNZIONALE

M O R O O n O R O

Il poliestere si forma quando esteri ciclici vengono fatti reagire con catalizzatori o iniziatori.

Alcune caratteristiche di questa reazione sono:

1. Forza trainante la reazione: variazione negativa di entalpia.

2. La polimerizzazione avviene in un tampone o in una soluzione di THF, diossano o toluene.

3. Alcuni lattoni polimerizzano spontaneamente o sotto riscaldamento, la maggior parte necessita di catalizzatori e iniziatori come molti composti organometallici quali ossidi, carbossilati e alcossidi.

4. Possono essere introdotti nel polimero dei gruppi funzionali per reazioni di post-polimerizzazione.

Esistono tre tipi principali di ROP:

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• ROP ANIONICA • ROP DI COORDINAZIONE ROP CATIONICA P+ + P +

O O R

O O R O O R P O R O+ O O +

Tra gli esteri ciclici, gli anelli a 4, 6 e 7 termini formano poliesteri se fatti reagire con iniziatori cationici. La ROP cationica coinvolge la formazione di una specie carica positivamente che viene attaccata da un monomero: questo attacco risulta in un’apertura dell’anello della specie carica + attraverso un processo di tipo SN2. La

polimerizzazione cationica tuttavia è difficile da controllare e spesso si formano solo polimeri a basso PM.

ROP ANIONICA

Apertura dell’ anello del m onom ero per scissione del legame ossigeno-acile

Apertura dell’ anello del m onom ero per scissione del legame ossigeno-alchile

R-M+ + 1 2 R O O-M+ R O O-M+ O CH2 O

La ROP anionica di monomeri esterei ciclici si verifica tramite attacco nucleofilo di un iniziatore carico negativamente al carbonio carbonilico o all’atomo di carbonio adiacente all’ossigeno acilico, ottenendo un poliestere lineare. La specie che si propaga è carica negativamente ed è controbilanciata da uno ione positivo. Con la ROP anionica, portata avanti in un solvente polare, si possono ottenere polimeri ad alto PM.

Come si vede nella figura, la ROP anionica di anelli a 4 termini (β-lattoni) avviene attraverso la scissione alchile-ossigeno o acile-ossigeno, portando ad un carbossilato

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o ad un alcossido. I lattoni più grandi, come l’ε-CL o il lattide, reagiscono solo con l’attacco dell’anione all’atomo di carbonio carbonilico, con formazione di un alcossido come specie in crescita.

ROP DI COORDINAZIONE

Si verifica quando la propagazione avviene per coordinazione del monomero alle specie attive, seguita dall’inserzione del monomero nel legame ossigeno-metallo, con riarrangiamento degli elettroni.

RO M

O O R’ M-OR + O O R’ R’COR O M-O

La catena in crescita rimane attaccata al metallo attraverso un legame alcossido durante la propagazione e la reazione termina con l’idrolisi formando un gruppo finale ossidrilico.

Con questa reazione si possono ottenere copolimeri a blocchi quando si utilizzano due monomeri con simile reattività.

2.3.4.2 Catalizzatori

I catalizzatori o iniziatori più utilizzati nella ROP di lattoni e lattidi sono alcossidi o carbossilati di metalli come:

Alluminio isopropossido O O O Al O Sn O O O Ottanoato stannoso

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2.3.4.3 Schema di sintesi di PCL-POE-PCL

R= (CH2)5

Meccanismo della reazione: I due atomi di idrogeno dei due gruppi ossidrilici terminali del PEG attaccano l’atomo di ossigeno estereo di due molecole di ε-caprolattone, attivandolo; questo determina l’apertura dell’anello lattonico tramite rottura del legame ossigeno-acile, ed il conseguente attacco degli ossigeni del PEG sui carboni carbonilici. Il nuovo gruppo ossidrilico formatosi nel primo step della reazione dà il via alla fase di propagazione e quindi alla formazione catena polimerica.

O

O

O

O

O

O

(R)

C

CH

2

C

(R)

H

[

]

m1

[

]

[

]

H

CH

2 (+) (-) (-) (+)

∆ T

n m2

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2.4 Caratterizzazione chimico - fisica

2.4.1

Spettroscopia IR

Le tecniche spettroscopiche permettono di misurare l’assorbimento, l’emissione o la dispersione delle radiazioni elettromagnetiche che entrano in contatto con la materia. In particolare le spettroscopie di assorbimento, quali l’IR e l’UV-vis misurano la quantità di energia assorbita dal campione come differenza tra l’intensità della radiazione incidente e quella trasmessa. Le radiazioni che vengono in contatto con la materia determinano il passaggio degli atomi da un livello energetico più basso ad uno più alto e, poiché i livelli energetici in cui si trovano gli atomi e le molecole sono quantizzati, solo la luce con opportuna energia può causare determinate transizioni ed essere assorbita; il tipo di eccitazione dipende dalla lunghezza d’onda della luce utilizzata: per determinare la transizione degli elettroni dallo stato fondamentale ad uno stato eccitato è necessaria l’energia delle radiazioni UV, mentre per determinare le transizioni tra i livelli vibrazionali e rotazionali sono necessarie le radiazioni IR (spettri roto-vibrazionali). L’intervallo di lunghezza d’onda delle radiazioni IR va dai 2,5 ai 25µ, ma le informazioni utili per il riconoscimento dei composti organici sono in genere comprese tra 2,5 e 15µ.

In un esperimento di assorbimento sono inviati sul campione in esame una serie di fotoni di diversa energia che coprono tutto l’intervallo di lunghezze d’onda dell’UV o dell’IR, e vengono misurate le intensità delle radiazioni in uscita in modo da determinare quali radiazioni sono state assorbite e in che misura.

I0 rivelatore

Uno spettro di assorbimento riporta quindi la quantità di luce assorbita in funzione della lunghezza d’onda e, poiché esso dipende dai livelli energetici che caratterizzano la specie in questione, sarà differente per ogni sostanza; ne consegue che gli spettri di assorbimento rappresentano degli utili mezzi per l’identificazione di composti organici ed inorganici.

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Inoltre è possibile avere informazioni di carattere quantitativo in quanto l’entità dell’assorbimento dipende dal numero di atomi o molecole che la radiazione incontra nell’attraversare il campione; la legge di Lambert e Beer mette in relazione l’assorbimento con la concentrazione della specie in esame: se I0 è l’intensità della

luce incidente e I è l’intensità della luce in uscita, dopo il passaggio attraverso il campione, si definisce come trasmittanza, T, il rapporto tra la prima e la seconda:

T = I0/I

L’assorbanza, A, è definita come:

A = -lnT = ln(I/I0)

e A = εcl

dove c è la concentrazione molare della sostanza in soluzione, l è il cammino ottico espresso in cm ed ε è il coefficiente di estinzione molare, caratteristico per ciascuna sostanza.

In un tipico spettro IR abbiamo sull’asse delle ascisse il numero d’onda (inverso della lunghezza d’onda espressa in cm-1), e sull’asse delle ordinate la trasmittanza. Ciò che possiamo vedere sono le bande relative all’assorbimento di determinate lunghezze d’onda da parte del campione, che corrispondono alle transizioni tra i livelli roto-vibrazionali. Le vibrazioni molecolari sono classificate in base al tipo di movimento che determinano: si parla di stretching quando la vibrazione avviene lungo l’asse del legame e determina esclusivamente un allungamento o un accorciamento del legame stesso, si parla di bending quando la vibrazione implica una variazione dell’angolo di legame. Ciascuna vibrazione determina una specifica banda nello spettro che cade in corrispondenza di una determinata lunghezza d’onda, ed è proprio l’analisi della forma e della posizione di queste bande che permette di identificare i composti organici.

Nel presente lavoro di tesi sono stati effettuati gli spettri di assorbimento infrarosso sui campioni di copolimero prima e dopo purificazione, per valutare la riuscita dei processi di sintesi e purificazione del materiale; inoltre sono state analizzate anche le

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membrane ottenute per “inversione di fase” per verificare la presenza delle bande caratteristiche dei componenti costitutivi.

2.4.2 Calorimetria a scansione differenziale (DSC)

Figura 2.4.2.1: Calorimetro differenziale a scansione

La calorimetria a scansione differenziale ha lo scopo di misurare il flusso di calore esotermico o endotermico che attraversa un campione sottoposto ad una variazione di temperatura, sia essa un processo di riscaldamento o di raffreddamento.

Lo strumento presenta un vano in cui viene alloggiato il campione, accuratamente pesato ed inserito all’interno di un crogiuolo metallico, ed un vano in cui è situato un riferimento, ovvero un identico crogiuolo metallico vuoto. Sia il campione che il riferimento si trovano a contatto con un sensore che determina la temperatura. Il materiale che costituisce il crogiuolo (in genere l’alluminio) ha un’elevatissima conducibilità termica, in modo che al variare della temperatura il trasferimento di calore sia più rapido possibile, e ci sia una virtuale uguaglianza tra la temperatura del crogiuolo e quella della fornace.

Lo strumento è collegato ad un computer che controlla che il flusso di calore rimanga costante durante tutta la durata dell’esperimento e che i due recipienti separati, ognuno con la sua resistenza, si scaldino con lo stesso flusso di calore; la presenza del polimero all’interno del “crogiuolo campione” ne rende diversa la condizione rispetto a quella del “crogiuolo di riferimento” in quanto esso conterrà del materiale in più rispetto all’altro. Questo significa che sarà necessario fornire maggiore calore al crogiuolo contenente il materiale per far sì che la temperatura sia uguale nei due

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recipienti; la resistenza situata sotto il campione dovrà quindi fornire più calore rispetto a quella situata sotto il riferimento.

La quantità di calore in più che deve emanare la resistenza è il parametro che viene misurato in un esperimento DSC.

Quello che si ricava dall’esperimento è un termogramma che mette in relazione i valori di temperatura con il flusso di calore corrispondente:

Figura 2.4.2.2: Curva calorimetrica di un polimero semicristallino

Quando la quantità di calore fornita al polimero è tale da provocare il passaggio di stato della fusione, la temperatura del polimero rimarrà costante fino a quando non sarà completamente sciolto; quindi, per far sciogliere la struttura polimerica e mantenere costante l’aumento di temperatura rispetto al riferimento, sarà necessario molto calore, che sarà fornito dalla resistenza riscaldante. Questo flusso di calore supplementare si riflette nel grafico in un picco elevato e la temperatura di fusione Tm è rappresentata dalla temperatura corrispondente nel punto di massimo. Tutti i processi endotermici, quali la fusione, determinano nel termogramma la comparsa di un picco verso l’alto; il calore latente di fusione si può calcolare misurando l’area sotto il picco.

Durante i processi esotermici invece, come nel caso della cristallizzazione, si registra un picco verso il basso nel termogramma DSC: disponendosi in forme cristalline i polimeri perdono calore e conseguentemente la resistenza posta sotto il recipiente contenente il polimero non deve emanare altro calore per far aumentare la temperatura del recipiente campione. Si ha quindi un calo del flusso di calore che si riflette nel grafico in una deflessione verso il basso. La temperatura alla quale corrisponde il punto più basso della deflessione è considerata normalmente come la

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temperatura di cristallizzazione Tc. Inoltre l’area della deflessione rappresenta l’energia latente della cristallizzazione del polimero. Se un polimero non è in grado di cristallizzare non si ottiene questo avvallamento nel grafico.

In corrispondenza della temperatura di transizione vetrosa Tg si nota uno scostamento a gradino della linea di base. Questo significa che si ha un maggiore flusso di calore ed anche un aumento del calore specifico del nostro polimero. I polimeri infatti hanno un calore specifico maggiore oltre la temperatura di transizione vetrosa di quanto ne abbiano al di sotto di essa e proprio grazie a questo cambiamento del calore specifico che si verifica con la transizione vetrosa, possiamo usare il DSC per calcolare la Tg. Si può notare che il cambiamento non avviene improvvisamente ma si verifica in un certo intervallo di temperatura. Per questo normalmente viene preso in considerazione il punto medio dell'inclinazione, come valore della Tg.

La calorimetria a scansione differenziale è stata utilizzata per studiare le proprietà termiche del copolimero PCL-POE-PCL prima e dopo purificazione e per caratterizzare le membrane preparate a partire dal polimero puro e miscelato con gelatina.

2.4.2

Cromatografia di permeazione su gel (GPC)

La cromatografia ad esclusione dimensionale, o cromatografia su gel consente di separare le molecole in base alla loro dimensione molecolare e alla loro forma utilizzando le proprietà di setaccio molecolare di un gruppo di composti organici polimerici che possiede una rete tridimensionale che gli conferisce le proprietà di gel. Attraverso la rete di pori possono diffondere le molecole sia di solvente che di soluto; quando esse raggiungono il reticolo vengono intrappolate e allontanate dal flusso della fase mobile.

Il tempo medio di residenza delle molecole di analita dipende dalla loro dimensione: le molecole che hanno dimensioni significativamente maggiori della dimensione media dei pori del gel ne resteranno escluse e non subiranno alcuna ritenzione, ossia viaggeranno attraverso la colonna alla velocità della fase mobile; le molecole che

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sono apprezzabilmente più piccole dei pori potranno penetrare attraverso la rete e restarne così intrappolate per la maggior parte del tempo. Queste molecole saranno le ultime ad essere eluite.

Risulta evidente che, in base ai tempi di ritenzione dei vari analiti, che compariranno in tempi diversi nell’eluato a causa della loro capacità di passare o meno attraverso le maglie del gel, sarà possibile risalire ai singoli pesi molecolari, previo utilizzo di opportune curve di calibrazione.

I gel che sono comunemente usati includono destrani con legami crociati (per esempio Sephadex), agarosio (Sepharose, Bio-Gel A, Sagavac), poliacrilammide (Bio-Gel P), poliacriloil morfina (Enzocryl Gel) e polistirene (Bio-Beads S).

Questa tecnica cromatografica è stata utilizzata per determinare il peso molecolare medio numerale e ponderale del copolimero sintetizzato, nonché il suo indice di polidispersione. MN =

= = n i n i Xi XiMi 1 1

dove Xi è il numero medio di molecole di peso molecolare Mi.

MW =

= = = = = n i n i n i n i XiMi XiMi Wi WiMi 1 1 2 1 1

dove Wi è il peso delle molecole di peso molecolare Mi.

I =

N W

M M

L’indice di polidispersione indica l’uniformità di distribuzione dei pesi molecolari in un determinato polimero; quando le catene hanno tutte la medesima lunghezza l’indice di polidispersione è uguale ad 1, ed il polimero, che ha un peso molecolare ben definito, si definisce monodisperso.

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Generalmente i polimeri commerciali hanno un indice di polidispersione compreso tra 1,5 e 2.

Per effettuare l’analisi è stata anzitutto realizzata una retta di taratura utilizzando degli standards di Polystyrene: sono state preparate cinque soluzioni dei diversi standards in cloroformio, solvente utilizzato per solubilizzare anche il campione di copolimero, ad una concentrazione dello 0,5% W/V.

Successivamente sono state effettuate cinque iniezioni da 50µl ciascuna delle soluzioni standard nello strumento, ad intervalli di tempo di 20 minuti, e dai dati ottenuti si è ricavata la retta di taratura (Figura 2.4.3.1).

Dunque si è proceduto con la preparazione e l’iniezione nello strumento delle soluzioni di copolimero; il computer ha elaborato i dati e sono stati ottenuti i parametri di nostro interesse.

Figura 2.4.3.1: PM e I degli standards di polistirene

STANDARD PESO MOLECOLARE (KDa) INDICE DI POLIDISPERSIONE 1 271.800 1,03 2 132.900 1,01 3 70.950 1,03 4 38.100 1,03 5 19.760 1,02

(21)

Figura 2.4.3.2: Retta di taratura ottenuta utilizzando gli standards di polistirene

2.4.3

Basi teoriche del comportamento meccanico

Un corpo solido, in assenza di sollecitazioni, si trova in una configurazione indeformata; tutte le sue parti si trovano in equilibrio meccanico. Ciò vuol dire che, se si considera un volume arbitrario del corpo, la risultante di tutte le forze che le altre parti del corpo esercitano sul volume considerato è nulla.

Quando il corpo viene sottoposto ad una forza esterna F, i suoi atomi, in risposta alle forze esterne, cambiano posizione; questo cambiamento prende il nome di deformazione. Il tipo e l’intensità della deformazione dipendono dalla forza applicata, dalle caratteristiche del materiale, dalla forma dell’oggetto e da altre condizioni fisiche.

I possibili tipi di sollecitazione meccanica semplice, e le conseguenti deformazioni, sono raggruppabili in due categorie di comportamento:

(22)

1. Il primo tipo di comportamento è prodotto dall’applicazione di una forza F che produce una modifica dimensionale ∆L del materiale senza modificarne la forma. In questo ambito è possibile distinguere tra forze di trazione e forze di compressione.

2. Il secondo tipo di comportamento è prodotto dall’applicazione di un momento M che produce delle modifiche nella forma del materiale. La modifica di forma è determinata dalla misura dell’angolo θ compreso tra l’orientamento iniziale e quello finale di un bordo del campione. E’possibile distinguere tra sollecitazioni di taglio, di flessione e di torsione.

In generale un materiale sottoposto ad una sollecitazione modesta si deforma in modo reversibile e quindi, se la sollecitazione viene rimossa, ritorna alle sue dimensioni iniziali. Questo comportamento è definito elastico e la deformazione associata è detta deformazione elastica.

Esiste in genere un valore della sollecitazione, detto limite elastico, oltre il quale il materiale si deforma in modo irreversibile dato che, alla rimozione della sollecitazione applicata, il materiale mantiene parte della deformazione. Il comportamento del materiale oltre il limite elastico è detto comportamento plastico e la deformazione residua è detta deformazione plastica.

(23)

2.4.4.1 Teoria elastica lineare

Un solido viene definito elastico se possiede la proprietà di riacquistare la sua forma iniziale non appena le forze responsabili della sua deformazione vengono rimosse; infatti i materiali elastici immagazzinano tutta l’energia utilizzata per deformarli e la restituiscono istantaneamente e completamente una volta cessata la sollecitazione. Per questi materiali, se si applica una deformazione che varia sinusoidalmente nel tempo, la risposta del materiale varierà anch’essa sinusoidalmente nel tempo; quindi per un materiale perfettamente elastico la risposta è in fase con la deformazione ed è rispettata la legge di Hooke, il quale propose una relazione di proporzionalità fra lo sforzo σ, applicato in direzione longitudinale, e la deformazione ε:

σ = E·ε

dove E è la costante di proporzionalità caratteristica del materiale, nota come modulo di elasticità longitudinale o di Young.

Se invece un solido elastico è sollecitato da uno sforzo di taglio τ, la relazione tra lo sforzo applicato τ e la deformazione γ risulta:

τ = G · γ dove G è il modulo elastico tangenziale o di taglio.

Se poi un materiale elastico viene sottoposto all’applicazione di una tensione isotropica, il rapporto tra sforzo σ e deformazione è dato dalla seguente espressione:

σ

= K · ∆

dove ∆ è la variazione di volume ∆V/V0 e K è il modulo di rigidità o di volume o di

bulk.

Le costanti E, G, e K consentono di caratterizzare il comportamento meccanico elastico dei materiali: i materiali rigidi, quelli cioè che si deformano difficilmente, sono caratterizzati da valori elevati del modulo di Young e degli altri moduli elastici, mentre i materiali che si deformano più facilmente hanno valori dei moduli più bassi.

(24)

2.4.4.2 Teoria della plasticità

Oggetto della teoria della plasticità è lo studio del comportamento dei corpi costituiti da materiali che vengono sollecitati oltre i limiti elastici.

Per questi corpi, nella risposta al carico applicato possiamo individuare una prima fase elastica, come descritto in precedenza, alla quale segue, con il crescere dell’intensità delle azioni sollecitanti, una seconda fase, detta plastica, caratterizzata dalla presenza di zone in cui il materiale, che ha raggiunto lo snervamento, diviene sede di deformazioni plastiche.

Le deformazioni plastiche hanno una caratteristica importante che le distingue da quelle elastiche, esse infatti sono irreversibili in quanto tutta l’energia utilizzata per deformare il materiale viene dissipata sotto forma di calore. Da questa caratteristica deriva che in un dato istante del processo di carico di un corpo elastoplastico lo stato di deformazione e quello di tensione dipendono non solo dalle condizioni di carico che si stanno verificando in quel momento, ma da tutta la precedente storia di sollecitazione. Questa caratteristica sottolinea la sostanziale differenza che sussiste tra il comportamento dei corpi che subiscono deformazioni elastoplastiche e quello dei corpi che subiscono esclusivamente deformazioni elastiche, per i quali lo stato di tensione dipende unicamente dalle configurazioni iniziale e finale del corpo.

2.4.4.3 Viscolelasticità

I polimeri hanno un comportamento intermedio tra quello dei solidi elastici e quello dei liquidi, per i quali è valida la legge di Newton:

σ = η dε/dt

dove η, viscosità del liquido, è una misura della resistenza che il materiale offre alla deformazione; in questo caso, sforzo e deformazione sono fuori fase di 90° e la deformazione è completamente irreversibile in quanto tutta l’energia utilizzata per deformare il materiale viene dissipata sotto forma di calore.

(25)

I polimeri sono materiali viscoelastici in quanto presentano una componente elastica, recuperabile, ed una dissipativa non recuperabile; in questo caso σ e ε sono sfasati di un angolo δ (0 < δ < 90).

La relazione tra sforzo e deformazione viene comunemente espressa come:

σ = E* ε = (E'+ iE'') ε

in cui E* è un modulo complesso che contiene una componente reale (E') ed una immaginaria (E'').

Figura 2.4.4.3.1: Componenti E’e E'‘del modulo complesso E*

E’rappresenta la componente elastica in fase con la deformazione e viene detto modulo elastico dinamico di immagazzinamento (storage modulus). E'', o modulo di perdita (loss modulus), rappresenta la componente dissipativa fuori fase di 90° rispetto alla deformazione. La tangente dell’angolo di sfasamento tanδ = E''/E’è nota come fattore di dissipazione (damping), ed è proporzionale al rapporto tra l’energia dissipata sotto forma di calore e quella immagazzinata durante un ciclo completo di deformazione.

Quando un polimero viene sottoposto ad analisi dinamico meccanica, in corrispondenza di ogni fenomeno di rilassamento (cioè di dissipazione di energia meccanica) E'‘e tanδ mostrano un massimo, mentre il modulo elastico di immagazzinamento E’subisce una variazione “a scalino” più o meno brusca. Nella figura sottostante è mostrato lo spettro dinamico meccanico (in funzione della temperatura, a frequenza costante) di un polimero allo stato amorfo e allo stato

(26)

semicristallino. A bassa temperatura il polimero è in uno stato vetroso rigido e il modulo elastico ha valori elevati (>109 Pa); all’aumentare della temperatura E’decresce leggermente a causa dell’espansione termica del materiale e subisce decrementi discreti in corrispondenza dei rilassamenti secondari (γ e β), evidenziati da picchi di modesta entità del fattore di dissipazione (tanδ). In corrispondenza della transizione vetrosa (rilassamento α), il modulo elastico E’crolla bruscamente a valori dell’ordine di 106 Pa, caratteristici dello stato gommoso e tanδ passa attraverso un massimo molto pronunciato. La presenza di cristallinità modifica lo spettro dinamico meccanico: la transizione vetrosa interessa solo i segmenti di catena in conformazione disordinata, e quindi un calo della frazione amorfa si manifesta con una diminuzione dell’intensità del rilassamento α e della corrispondente caduta del modulo E'. Quest’ultimo mantiene valori molto elevati anche a T > Tα, a causa della rigidità impartita al polimero dalla fase cristallina e crolla solo in prossimità della temperatura di fusione (Tf).

Figura 2.4.4.3.2: Spettro viscoelastico di un polimero amorfo (linee tratteggiate) e semicristallino (linee continue)

A basse temperature e ad alte velocità di deformazione i polimeri mostrano un comportamento elastico, mentre ad alte temperature e basse velocità di deformazione si comportano in maniera viscosa fluendo come un liquido. I polimeri mostrano quindi ambedue i comportamenti e per questo motivo si definiscono materiali viscoelastici. In questi materiali la relazione che lega lo sforzo alla deformazione è dipendente dal tempo; ciò significa che la velocità con cui si deforma il materiale è

(27)

determinante per la sua caratterizzazione. In genere un materiale viscoelastico ha modulo di elasticità crescente con la velocità della deformazione (dε/dt).

2.4.4.4 Valutazione delle proprietà meccaniche

Al fine di valutare le proprietà intrinseche di un materiale è opportuno convertire la relazione tra la forza applicata e la deformazione risultante in una relazione che prescinda dalle dimensioni del provino su cui vengono effettuate la misure. Vengono definite così due nuove grandezze: sforzo nominale e deformazione unitaria.

Consideriamo un provino di lunghezza l0 e sezione A0 sottoposto ad una forza di

trazione lungo il suo asse che provoca un allungamento del campione:

• Si definisce sforzo nominale σ il rapporto tra la forza media F che agisce lungo l’asse del provino e la sua sezione iniziale A0:

0

A

F

=

σ

• Si definisce deformazione nominale ε il rapporto tra l’allungamento del provino l-l0 e la lunghezza iniziale l0:

0 0 0

l

l

l

l

l

=

=

ε

Nella maggior parte dei casi la deformazione nominale è determinata su una porzione limitata della lunghezza del provino detta tratto utile. L’unità di misura dello sforzo nominale è il Pascal, mentre la deformazione è adimensionale; per questo spesso la deformazione è definita come deformazione % o allungamento %:

Deformazione % = Allungamento % = ε× 100 %

Oltre allo sforzo nominale e alla deformazione viene definita un’altra grandezza importante che tiene conto del fatto che, durante la trazione, l’allungamento ∆l viene compensato da una contemporanea contrazione laterale:

(28)

• Coefficiente di contrazione laterale o modulo di Poisson: ale longitudin laterale

ε

ε

ν

=

Il segno negativo è dovuto al fatto che le due deformazioni sono di segno opposto.

Per quanto riguarda i materiali polimerici, a seconda delle condizioni (di sollecitazione, temperatura, ecc.), il loro comportamento può essere approssimato a una delle seguenti categorie:

1. Rigidità: ε = 0 , ν → -1 e modulo tangenziale G → ∞ per qualunque σ; 2. Incomprimibilità (rigidità di volume): ν → 0,5 e modulo di bulk K→ ∞ per

qualunque σ;

3. Elasticità: σ = σ(ε), cioè lo sforzo è funzione univoca della deformazione. In particolare si possono avere due casi: il caso lineare in cui σ = mε (legge di Hooke generalizzata); il caso non lineare in cui σ = σ(ε) qualunque; si può dimostrare che qualunque sia tale relazione, essa diventa lineare per piccole deformazioni (ε → 0);

4. Viscoelasticità: σ

( )

t

[

ε

( ) ( )

t ,ε&t

]

, cioè lo sforzo dipende sia dalla deformazione sia dalla modalità con cui varia tale deformazione nel tempo; anche per la viscoelasticità si possono avere due casi: lineare e non lineare.

5. Plasticità: in questo caso il materiale subisce una deformazione

(29)

2.4.5 Analizzatore dinamico-meccanico (DMA)

Figura 2.4.5.1: DMA 8000 PerkinElmer

L’analizzatore dinamico meccanico rappresenta una tecnica in cui ad un campione viene applicata una piccola deformazione in modo ciclico per valutare i cambiamenti nel comportamento reologico del materiale in condizioni dinamiche e in funzione di parametri quali la temperatura, il tempo, la frequenza, lo sforzo o loro combinazioni. Il DMA lavora applicando uno sforzo sinusoidale che viene trasmesso, attraverso l’albero motore (drive shaft), al campione (di cui conosciamo la geometria), il quale si deformerà in una certa misura; il campione viene montato all’interno di una camera (fornace) la cui massa è relativamente piccola, in modo da assicurare una risposta veloce alle variazioni di temperatura richieste (da -150°C a 400°C). I parametri che vengono misurati sono la rigidità e lo smorzamento del campione, riportati come modulo e tan delta. Il modulo viene espresso tramite la componente in fase, storage modulus, e la componente fuori fase, loss modulus, mentre tan delta, che rappresenta il rapporto tra i due e in particolare la tangente dell’angolo di fase, fornisce una misura di come il materiale sia in grado di disperdere energia.

Le varie tipologie di esperimenti che possono essere effettuati con un DMA sono in grado di dare molte informazioni sul materiale in esame, e la scelta del metodo di analisi viene fatta in base al tipo di campione e alla sua geometria:

(30)

Temperature scan mode: viene studiato il comportamento reologico del materiale in funzione della temperatura, tenendo fissi la frequenza e lo stress e registrando i cambiamenti dello strain e di tan delta.

Frequency scan mode: si fa variare la frequenza di oscillazione applicata al campione (fino ad un massimo di 100 frequenze) al fine di studiare la dipendenza dei processi di rilassamento dalla frequenza (e quindi calcolare l’energia di attivazione per uno specifico processo di rilassamento molecolare) e di fornire dati relativi alla performance del materiale in particolari applicazioni.

Stress scan mode: è un esperimento molto utile per valutare la dipendenza del materiale dallo sforzo applicato, che in genere si manifesta con un decremento del modulo all’aumentare della sollecitazione. Vengono fatti variare linearmente nel tempo stress statico (carico costante) e stress dinamico (carico oscillante), mentre temperatura e frequenza sono mantenute ad un valore fissato.

Creep experiment: questo esperimento differisce dai precedenti in quanto viene utilizzata una forza statica, mentre non è richiesta l’applicazione di una forza dinamica; è una prova utile per valutare il comportamento di un materiale sottoposto ad un carico costante, nella quale si misura l’andamento temporale della deformazione indotta dal rilassamento.

Stress/Strain experiment: viene condotto a temperatura costante e consiste nell’applicare una rampa di stress crescente in pochi minuti. Anche in questo caso non è richiesta l’applicazione di una forza dinamica e le informazioni che si possono ottenere sono il modulo elastico, lo yield point e il breaking point.

In base alla geometria del campione possono essere utilizzati vari sistemi di misura semplicemente montando sulla parte terminale dell'asta centrale dello strumento un diverso equipaggiamento:

Single Cantilever mode: è utile per caratterizzare la maggior parte dei campioni polimerici nella forma di barrette, al di sopra e al di sotto della Tg.

(31)

Dual Cantilever mode: è utile per caratterizzare campioni scarsamante rigidi, quali i film sottili.

Three Point Bending mode: é utile per determinare accuratamente il modulo di campioni rigidi nella forma di barrette, quali materiali compositi o termoplastici non soggetti a temperature al di sopra della loro Tg.

Shear mode: è utile per esaminare materiali caratterizzati da una scarsa rigidità, come gli elastomeri, gli adesivi sensibili alla pressione, i bitumi ed i catrami e per studiare materiali quali le resine epossidiche.

Tension mode: è utile per analizzare i film sottili e le fibre.

Compression mode: è meno utilizzato ma può trovare applicazione per caratterizzare le schiume polimeriche, i geli ed i materiali naturali.

Figura 2.4.5.2: Tipi di transizioni visibili con il DMA 8000

Uno degli esperimenti più consueti consiste nell’analizzare il comportamento del polimero in funzione della temperatura (temperature scan mode), in modo da visualizzare anche le transizioni che non potrebbero essere indagate con una semplice analisi DSC e che rappresentano i rilassamenti secondari che avvengono a livello molecolare (Figura 2.3.4.2): tra queste possiamo ricordare tutte quelle transizioni intermedie che avvengono quando il campione viene sottoposto ad un graduale aumento della temperatura, quali la Tγ, che si riferisce a moti locali dei

legami e delle catene laterali (stretching e bending) e la Tβ, che si riferisce ai

(32)

2.5 Preparazione di membrane porose

2.5.1

Inversione di fase

In alcuni ambiti del settore biomedico l’ottenimento di dispositivi che presentano una certa porosità è un aspetto molto importante; hanno infatti un ruolo essenziale molti dispositivi (quali membrane per emodialisi ed emofiltrazione, sistemi di immobilizzazione enzimatica e proteica, sistemi a rilascio controllato di principi attivi, scaffolds, fibre cave, polimeri a impronta molecolare) la cui metodologia preparativa prevede l’ottenimento di matrici porose.

Attraverso l’inversione di fase una soluzione polimerica omogenea viene trasformata in un sistema bifase in cui la fase ricca in polimero solidificata forma la matrice della membrana, mentre la fase povera di polimero dà luogo ai pori. Il fenomeno può essere realizzato inducendo una certa instabilità termodinamica per mezzo di un cambiamento di composizione o di temperatura.

E’possibile distinguere tra diversi processi che danno luogo all’inversione di fase:

1. Precipitazione per immersione in un controsolvente: consiste nell’immersione (dipping) della soluzione polimerica, sottoforma di membrana piatta o cava, in un “bagno di coagulo” contenente un controsolvente del polimero o una soluzione di esso; il polimero precipita per effetto dell’ingresso del non solvente e della contemporanea uscita del solvente.

2. Precipitazione in fase di vapore: il non solvente si trova in fase di vapore e da essa penetra nella soluzione polimerica; se il solvente è molto volatile l’ambiente viene saturato con il solvente stesso per evitare la sua evaporazione dalla soluzione, cosa che porterebbe alla formazione di una struttura densa.

3. Precipitazione per evaporazione controllata: il polimero viene disciolto in una miscela contenente un solvente ed un non solvente, essendo quest’ultimo meno volatile del solvente; una volta evaporato il solvente, per effetto del cambiamento di composizione della soluzione, il polimero precipita.

(33)

4. Precipitazione per via termica: il polimero viene disciolto ad alta temperatura in una miscela di solvente e non solvente ed in seguito, per effetto di un raffreddamento controllato la soluzione diventa instabile dando luogo alla precipitazione del polimero.

Le membrane che si ottengono con la tecnica dell’inversione di fase sono prevalentemente membrane asimmetriche, cioè costituite da una struttura porosa spessa 100-200 µm, avente la funzione di supporto meccanico e da un sottile strato denso di spessore pari a 0,1-0,2 µm ( il cosiddetto “skin layer”) responsabile delle proprietà selettive della membrana.

Come già accennato, tra le metodiche più comuni per la preparazione di membrane per inversione di fase vi sono:

• Termogelificazione di una miscela di due o più componenti;

• Evaporazione di un solvente volatile da una miscela di due o più componenti; • Aggiunta di un non solvente ad una soluzione polimerica omogenea.

TERMOGELIFICAZIONE

Il principio su cui si basa tale metodo è rappresentato in Figura 2.5.1.1

Figura 2.5.1.1: Diagramma di solubilità di una miscela binaria

La miscibilità tra i due componenti è dipendente dalla temperatura: per valori elevati di quest’ultima la miscela risulta omogenea, mentre per valori inferiori la soluzione presenta un gap di miscibilità che copre un ampio range di composizioni. Come indicato in Figura 2.5.1.1, partendo da una miscela a temperatura T1 rappresentata

(34)

dal punto A, per effetto di un raffreddamento fino alla temperatura T2 si ottiene uno

smiscelamento in due fasi, l‘una liquida e l’altra solida le cui composizioni sono rappresentate dai punti B’e B''.

EVAPORAZIONE DI UN SOLVENTE VOLATILE DA UNA MISCELA DI DUE O PIU’COMPONENTI

Questo metodo è stato uno dei primi ad essere applicati nella preparazione di membrane microporose; esso impiega una miscela ternaria di polimero-solvente-non solvente (Figura 2.5.1.2)

Figura 2.5.1.2: Formazione di una membrana per evaporazione del solvente

Dal diagramma ternario isotermo si vede come i tre componenti risultino miscibili entro un certo range di composizioni e presentino una lacuna di miscibilità in cui il sistema si separa in due fasi distinte. Per effetto dell‘evaporazione del solvente la composizione della soluzione si sposta dal punto A al punto B in cui il sistema si separa in una fase ricca in polimero (B'), che forma la struttura rigida della membrana, e in una fase liquida (B'') che riempie i pori della membrana.

(35)

AGGIUNTA DI UN NON SOLVENTE AD UNA SOLUZIONE POLIMERICA OMOGENEA

Tale tecnica è impiegata nella realizzazione di membrane esclusivamente polimeriche, sia simmetriche che asimmetriche ed è la tecnica prescelta nel presente lavoro di tesi per la realizzazione delle membrane a base di PCL-POE-PCL.

In figura 2.5.1.3 è riportato il diagramma ternario isotermo con lo schema di formazione della membrana.

Figura 2.5.1.3: Formazione di una membrana per aggiunta di controsolvente ad una soluzione polimerica omogenea

Partendo dalla soluzione polimero-solvente rappresentata dal punto A, l’aggiunta del non solvente e la contemporanea rimozione del solvente fa si che la composizione della miscela si sposti lungo la linea A-B. A partire dal punto C il sistema si separa in due fasi distinte: una ricca in polimero, rappresentata dai punti sulla parte superiore della curva che delimita il gap di miscibilità, ed una povera in polimero rappresentata dai punti appartenenti alla porzione inferiore della suddetta curva. Ad una determinata composizione (punto D), dipendente dal tipo di miscela considerata, la concentrazione della fase ricca in polimero è tale da poter considerare solida tale fase; ulteriori scambi di solvente-non solvente determineranno la struttura finale della membrana (punto B): B’e B'‘rappresentano rispettivamente la fase ricca in polimero solida e la fase liquida virtualmente priva di polimero.

I diagrammi riportati descrivono stati di equilibrio, essi sono in grado di fornire informazioni riguardo alla temperatura e alla composizione per le quali il sistema si

(36)

separa in due fasi ed il rapporto tra queste due fasi nella miscela eterogenea, fornendo perciò un dato di porosità globale.

In ogni caso però la termodinamica di equilibrio non può predire la dimensione dei pori, in quanto non è capace di spiegare le variazioni strutturali che avvengono nello spessore della membrana che comportano la simmetria o la asimmetria di quest‘ultima. Tali parametri sono infatti determinati da effetti cinetici, dipendenti da alcune proprietà del sistema quali la diffusività dei componenti nella miscela, la viscosità della soluzione e i gradienti di potenziale chimico che costituiscono la forza motrice del fenomeno diffusivo.

2.5.2

Fattori che determinano la struttura finale della membrana

• Concentrazione della soluzione polimerica: più elevata è la concentrazione della soluzione polimerica, minore sarà la porosità della membrana risultante.

• Scelta del solvente: all’aumentare dell’affinità tra il polimero ed il solvente si ha un incremento del tempo necessario per la rimozione del solvente con diminuzione della velocità di precipitazione; di conseguenza, a parità di polimero, la struttura della membrana risulterà tanto più porosa quanto migliore è il solvente.

• Scelta del non solvente: la scelta del non solvente ha un notevole effetto sulla velocità di precipitazione: maggiore è la “forza” del bagno di coagulo, intesa come incompatibilità tra il polimero e il non solvente, più rapido sarà il processo di precipitazione; tuttavia la scelta di un bagno troppo “forte” può portare alla formazione di fratture nella struttura della membrana, che ne determinano la rottura. Un controllo sulla velocità del processo di precipitazione, e quindi sulla stabilità del manufatto finale, può essere fatto miscelando nel bagno di coagulo il non solvente con il solvente: all’aumentare della concentrazione di quest’ultimo diminuirà la velocità di precipitazione e la struttura finale della membrana tenderà ad essere più stabile e spugnosa.

(37)

2.6 Caratterizzazione delle membrane

Le membrane ottenute tramite la tecnica dell’inversione di fase sono state caratterizzate con le analisi che seguono.

2.6.1

Microscopia elettronica a scansione (SEM)

La microscopia elettronica a scansione (Scanning Electron Microscopy - SEM) fa parte del gruppo delle tecniche non distruttive o paradistruttive. La fonte di analisi del SEM consiste in un fascio di elettroni generato da un cannone elettronico (catodo) situato sulla sommità della colonna: il fascio è attratto verso l'anodo, condensato da lenti collimatrici e focalizzato sul campione attraverso lenti obiettivo. Il fascio elettronico colpisce con grande intensità (“spot”) il campione in un punto ben preciso della sua superficie, producendo elettroni secondari e retrodiffusi. Infatti gli elettroni primari (0.5 - 30 kV) che urtano il composto eccitano le molecole che si trovano sulla sua superficie, permettendo loro di raggiungere livelli energetici elevati; l’energia assorbita può essere riemessa in molte forme, tra le quali di importanza fondamentale sono gli elettroni secondari ad energia più bassa. Questi elettroni sono raccolti da un detector per elettroni secondari ed uno per elettroni retro diffusi e convertiti in segnali elettrici amplificati, i quali vengono a loro volta convertiti in pixels ed elaborati da un sistema computer.

Nella microscopia elettronica a scansione si utilizzano elettroni per formare un’immagine: l'immagine è formata dagli elettroni secondari estratti dal campione in seguito all'interazione con il fascio degli elettroni primari. Gli elettroni secondari che si allontanano da un particolare punto della superficie del preparato vengono catturati da un rivelatore, composto da:

 Uno schermo a fluorescenza che emette luce visibile quando viene bombardato dagli elettroni secondari che si allontanano dalla superficie del campione.

 Un fotomoltiplicatore, avente il compito di amplificare la luce emessa e proiettarla verso la cellula fotoelettrica.

(38)

 Una cellula fotoelettrica che, assorbita la luce del fotomoltiplicatore, emette una corrente la cui intensità è direttamente proporzionale alla quantità di luce da cui viene colpita.

Nel SEM la risoluzione dipende soprattutto dalle dimensioni del fascio che effettua la scansione del preparato. Tanto più piccolo è il fascio, tanto più il numero di elettroni secondari emessi sarà determinato da dettagli minori sulla superficie del preparato e questi potranno essere riconosciuti come punti distinti, caratterizzati da un diverso grado di luminosità sullo schermo, che nel loro insieme potranno rendere un’immagine della struttura.

Figura 2.6.1.1: Microscopio elettronico a scansione (SEM)

Per l'osservazione della morfologia superficiale è sufficiente fissare, in maniera del tutto reversibile, il campione ad un apposito supporto metallico. Per lo studio della struttura interna (cross section) il campione può essere montato di taglio e lucidato usando le normali procedure di una preparazione metallografica. Materiali non conduttori vengono metallizzati, cioè ricoperti con un sottile strato di oro o carbone, utilizzando uno sputter/vaporizzatore.

(39)

2.6.2

Spettroscopia infrarossa (Chemical Imaging)

La FT-IR Imaging è una tecnica analitica di Chemical Imaging all'infrarosso (medio o vicino) che fornisce un’informazione chimica sul campione in esame abbinata ad una immagine "visiva": si tratta di "immagini chimiche" ricostruite attraverso lo spettro IR. Il risultato di un'analisi Chemical Imaging è pertanto una immagine a falsi colori (che può essere elaborata, grazie ai software, anche in tre dimensioni), in cui ad ogni colore corrisponde una particolare composizione chimica del materiale in esame: ogni immagine è costituita da migliaia di pixel e ogni pixel riporta l'informazione derivante da un singolo spettro IR. L'esecuzione di un’analisi è molto semplice: si posiziona dapprima il campione nell'apposito alloggiamento e si acquisisce l'immagine nel visibile al microscopio ottico; un sistema di illuminazione del campione con LED restituisce immagini visibili di alta qualità, che comunque non sono in grado di fornire le informazioni chimiche desiderate. L'immagine viene visualizzata sullo schermo: è possibile a questo punto evidenziare una zona di interesse (che può essere una superficie di campione anche estesa) e far partire l'analisi.

La mappa FT-IR in Chemical Imaging della porzione di campione esaminata viene mostrata in tempo reale, mediamente in un paio di minuti. Anche la scala numerica in micrometri e i valori in assorbanza vengono mostrati in automatico. Inizialmente la scala di colore della mappa chimica ottenuta è associata all'assorbanza integrata di tutto lo spettro, cioè alle assorbanze sono associati i colori dell'immagine in funzione del tipo e della concentrazione dei composti chimici da rilevare nel campione, ma anche in funzione della morfologia e spessore del campione stesso. A partire dalla mappa chimica è possibile acquisire la “mappa di correlazione” associando lo spettro infrarosso di ogni singolo punto con lo spettro medio che lo strumento genera in automatico dalla mappa chimica inizialmente ottenuta. E’possibile in questo modo capire la distribuzione e l’omogeneità dei campioni ottenuti utilizzando per esempio diversi componenti come nel caso particolare di un film costituito da più materiali.

(40)

Figura 2.6.2.1: Sezione dello strumento spotligh

Le membrane sono state anche analizzate al DSC ed al DMA per valutarne rispettivamente le proprietà termiche e meccaniche.

Figura

Figura 2.3.1: Reattore utilizzato per la sintesi di PCL-POE-PCL
Figura 2.4.2.1: Calorimetro differenziale a scansione
Figura 2.4.2.2: Curva calorimetrica di un polimero semicristallino
Figura 2.4.3.1: PM e I degli standards di polistirene
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Riferimenti

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